" Lungo i sentieri della follia"

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Letteratura

Luigi Pirandello

(1867 - 1936)[1]

   «La libertà non è solo un sogno: esiste, ...dall’altra parte di quei recinti che ci costruiamo da soli. [...] Queste gabbie finiscono, poi, per spezzarci: ci spezzano il cuore, ...la mente; ci rendono pazzi!!!»

(dal film Instinct, di Jon Turteltaub)

 

 In Italia, è con Luigi Pirandello che il mondo letterario si avvicina al clima delle avanguardie e, in particolare, dell’espressionismo. Nelle sue opere la follia acquista un ruolo preminente, ancor più di quanto accada con altri grandi artisti sperimentali suoi contemporanei. La riflessione dello scrittore su questo tema è sollecitata anche dall’esperienza biografica: a partire dal 1903, infatti, la moglie Antonietta manifesta i primi squilibri che la faranno internare, nel 1919, in una casa di cura. Tuttavia, l’interesse di Pirandello per la follia trascende ampiamente questa esperienza: si lega infatti ai suoi temi centrali (la verità, il relativismo, l’identità) e al genere in cui il suo sperimentalismo dà i risultati più intensi: il teatro.

 

La vita e le opere

 

L’«involontario soggiorno sulla terra» di Luigi Pirandello comincia in un notte d’estate del 1867, allorché cadde «come una lucciola sotto un grande pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altopiano d’argille azzurre sul mare africano». Era il 28 giugno: donna Caterina Ricci-Gramitto s’era rifugiata nella villa di campagna - detta del “Caos” - per scampare al colera che infestava Girgenti (Agrigento): «Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso a un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti». L’unione tra i suoi genitori era stata consacrata, quattro anni prima, sotto le insegne del patriottismo risorgimentale: fieramente e romanticamente antiborbonici i Ricci-Gramitto (il nonno era un influente avvocato di Girgenti morto in esilio in seguito ai moti del Quarantotto), garibaldino e dal temperamento più pragmatico Stefano Pirandello, speculatore del mercato dello zolfo. Cessato il pericolo della peste, l’infanzia di Luigi trascorre serena ed agiata tra Girgenti e Porto Empedocle, dove il padre conduceva i suoi affari. Oltre che con la madre, aveva legato particolarmente con Lina, la sorella maggiore di due anni; con il padre - Francesco Ajala nell’Esclusa - dalla figura imponente e dal temperamento collerico, tenne invece sempre rispettosamente le distanze. Riceve in casa i primi rudimenti d’istruzione: il suo precettore è probabilmente ben ritratto nello svagato “ajo” Pinzone del Fu Mattia Pascal, ed è ricordato in una novella - La scelta - mentre accompagna Luigi al teatro dei pupi, autentica passione del fanciullo. In casa serviva anche Maria Stella, una donnina che con i suoi racconti insinua in Pirandello un perdurante interesse per il mondo degli spiriti, e accende anche l’effimera fiammella della fede, spenta per sempre non appena l’esigenza di purezza vissuta con assoluto rigore dal ragazzo si scontrò con i banali compromessi e contrattempi a cui spesso è costretta a piegarsi la fede per sopravvivere nel mondo secolare (l’episodio è narrato nella novella La Madonnina). Luigi frequenta a Girgenti, per decisione paterna, le prime due classi dell’Istituto Tecnico, ma presto, e con il consenso della madre, s’iscrive al ginnasio per coltivare quegli studi umanistici che sentiva più congeniali alla propria anima. Legge romanzi popolari, quelli cavallereschi di Scott, le tragedie di Pellico [2], e comincia a coltivare un precoce interesse teatrale: sia in qualità di autore - scrive la tragedia Barbaro e un fosco dramma romantico in martelliani [3] - sia di “capocomico” di un improvvisato teatro di famiglia, in cui fungevano da attori le sorelle e gli amici. Nel 1880 il padre si trova in difficoltà finanziarie, avendo anticipato forti somme a delle imprese minerarie andate in fallimento; la famiglia è costretta a trasferirsi a Palermo, dove Stefano doveva recarsi con una certa continuità a render conto dell’attività di un deposito di zolfo ricevuto in gestione dal fratello. A Palermo Luigi prosegue gli studi liceali e ha la possibilità di assistere ai primi spettacoli teatrali, messi in scena dalle numerose compagnie che sostano al Regio Teatro “Vincenzo Bellini”. Ma la sua grande vocazione pare essere quella poetica: il tardo romanticismo di Prati, la vena civile di Rapisardi, il classicismo di Carducci e soprattutto quello estetizzante dell’amatissimo Graf costituiscono i modelli per le prime prove nel genere. In quel periodo i rapporti con il padre si fanno particolarmente tesi, in seguito alla scoperta di una relazione extraconiugale che aveva portato alla nascita di un figlio illegittimo (vicenda narrata nella novella Ritorno). Con ciò, ritornata la famiglia a Girgenti nel 1886, Luigi s’impegna per un’intera estate ad aiutare il padre nella gestione delle zolfare: poté toccare con mano i problemi relativi alla produzione e allo smercio dello zolfo e soprattutto fu colpito dalla miserevole condizione dei giovanissimi “carusi” che s’internavano nei budelli delle miniere per estrarre il minerale. Di quel periodo fu anche il suo primo grande amore, per Lina, una cugina di quattro anni maggiore; ottenuta la sanzione “ufficiale” al fidanzamento, Luigi, con la complicità del padre, tenterà a più riprese di svincolarsi dall’impegno preso, che avrebbe messo a rischio la sua più profonda passione, per la letteratura. Prende tempo, e a 19 anni torna a Palermo per iscriversi, oltre che alla Facoltà di Lettere, a quella di Legge, allora animata dallo spirito libertario e umanitario di numerosi studenti che di lì a qualche anno avrebbero cercato di dare un indirizzo alla protesta popolare costituendo le organizzazioni dei Fasci. Scelta definitivamente Lettere, decide di proseguire gli studi, garantito da un assegno mensile paterno, alla Sapienza di Roma, dove si trasferisce nel novembre 1887. Inizialmente trova alloggio presso lo zio Rocco Ricci-Gramitto - l’eroe risorgimentale dei racconti materni, che però aveva perso la fede negli antichi ideali - e quindi in dicembre va a vivere per conto proprio in una pensione. Tra Palermo e Roma continua a coltivare l’interesse teatrale: secondo quanto riferisce ai familiari, studia a fondo Plauto, Terenzio e la commedia in volgare del Cinquecento, si reca spesso a teatro - al Bellini di Palermo e al Valle di Roma - e compone tutta una serie di commedie, poi bruciate, che avrebbe offerto, senza successo, a numerose compagnie di giro: Gli uccelli dell’alto, Le popolane, Patti che or son parole, La gente allegra (le ultime due pensate per la Duse). Nel 1889 però riesce a pubblicare a Palermo, per interessamento di un ex-compagno universitario, la sua prima raccolta di versi, Mal giocondo, che si meritò una certa attenzione da parte della critica. Alla Sapienza le cose non vanno bene: ha un forte contrasto con Onorato Occioni, Magnifico Rettore e docente di letteratura latina (già maestro di D’Annunzio); è costretto ad abbandonare l’università, ma aveva fatto in tempo a far apprezzare la qualità del suo ingegno a Ernesto Monaci, docente di filologia romanza, che lo convince a proseguire i suoi studi a Bonn, prestigiosa cittadella universitaria dove insegnava Wendelin Foerster, a cui Monaci lo raccomanda caldamente. Da Roma Pirandello si trasferisce a Bonn, dove si laurea nel 1891 in Filologia Romanza discutendo in tedesco una tesi sulla parlata di Girgenti. Si stabilisce quindi definitivamente a Roma. Luigi Capuana lo introduce negli ambienti letterari e giornalistici romani, sollecitandolo altresì a cimentarsi nella narrativa. Pirandello inizia a collaborare a giornali e riviste; pubblica libri di poesia e i suoi romanzi. Il 1903 è per lui un anno tragico: fallisce finanziariamente il padre e nella rovina è dissolta anche la dote della moglie, Antonietta Portulano, figlia di un socio in affari del padre. In questa occasione Antonietta patisce il primo trauma che la condurrà a poco a poco alla pazzia. È un nuovo Pirandello che emerge dalla disgrazia: con la moglie e tre figli da mantenere, si ingegna ad arrotondare il magro stipendio di insegnante di lingua italiana all’Istituto Superiore di Magistero con lezioni private e con le collaborazioni giornalistiche. Il relativo successo del Fu Mattia Pascal gli apre le porte di una casa editrice importante, quella dei fratelli Treves. Dal 1909 inizia a scrivere anche sul prestigioso «Corriere della Sera». Ma fama e ricchezza giungono soltanto con il teatro, cui torna a dedicarsi con continuità e con maggior fortuna a partire dal 1915-’16. Si ha anzi una vera dilatazione europea e mondiale di Pirandello. I Sei personaggi in cerca d’autore cadono clamorosamente alla prima romana del ‘21, ma si impongono a Parigi nella edizione dei Pitoëff [4] nel ’23. Come drammaturgo, Pirandello segue da vicino il lavoro degli attori; i suoi drammi fanno tesoro dei suggerimenti e delle invenzioni sceniche dei professionisti del teatro, come dimostrano esemplarmente i Sei personaggi, riformulati nel 1925 in una nuova edizione ampiamente riveduta e corretta, che tiene conto proprio di talune proposte dello spettacolo dei Pitoëff. Sin dal 1929 Accademico d’Italia, Pirandello riceve nel ’34 il Premio Nobel per la letteratura, a consacrazione definitiva della sua risonanza ormai mondiale. All’estero si hanno spesso le prime dei suoi nuovi lavori; e all’estero vive per lo più Pirandello a partire dal ’28. Così scrive nel ’31 da Parigi ai figli: «Spero di morire in piedi, per non andare a finire in un ospedale o di Francia o d’America. Ma non me ne curo. Penso per ora a lavorare, e lavorerò finché posso». E lavorerà veramente fino alla morte, avvenuta il 10 dicembre 1936 a Roma, mentre era tutto intento al terzo atto dell’incompiuto Giganti della montagna.

 

Sui confini tra follia e ragione 

Pirandello ha affrontato tutti i generi letterari, dalla poesia al saggio, dal romanzo al teatro, genere quest’ultimo che gli ha dato fama mondiale. Mentre però queste scelte sono legate a fasi più o meno ampie della sua attività, alla novella egli rimase invece fedele per tutta la vita, trovandola forse più adatta a rappresentare la propria visione di un mondo frantumato e caotico. Quando infatti, a partire dal 1922, egli decise di raccogliere e sistemare tutte le novelle che aveva composto e via via pubblicato, scelse come titolo complessivo quello di Novelle per un anno: una novella al giorno (avrebbero dovuto essere 365) senz’altra indicazione, senza particolari suddivisioni o percorsi tematici, senza conclusioni concilianti e pacifiche nei confronti dell’esistenza; e nulla più che un pretesto sono i titoli delle singole raccolte, derivanti semplicemente dalla prima novella della serie (tranne l’ultima, Una giornata, pubblicata postuma). La disposizione casuale delle novelle, la varietà e la contradditorietà dei casi umani rappresentati vogliono essere testimonianza dell’infinita varietà del mondo, della sua sostanziale incomprensibilità e inafferrabilità.

L’ambiente in cui si svolge gran parte delle Novelle è da un lato quello siciliano, in particolare agrigentino (di cui lo scrittore aveva esperienza diretta), dall’altro il mondo della piccola borghesia romana. Nelle novelle siciliane il comportamento dei protagonisti, appartenenti a tutte le classi sociali, è caratterizzato dalla follia e dalla violenza di un mondo arcaico; nelle novelle romane un’umanità perdente, costituita da impiegati, professori e poveri diavoli insoddisfatti della propria esistenza monotona e ripetitiva, si impegna vanamente nel tentativo di dare un segnale di sé in una società dominata da regole e comportamenti rigidi, di cui sono tutori i personaggi dell’alta borghesia. Ne derivano situazioni allucinate e stravolte, in cui i temi più ricorrenti sono quelli del caso che determina gli avvenimenti, dell’impossibilità di modificare una situazione originaria, della crisi di identità e dissociazione della personalità (temi forti che avevano tratto nutrimento da quel lungo e quotidiano confronto con la follia della persona che più gli era stata vicina e più gli era stata cara), dell’infelicità coniugale, dell’alienazione (sentimento di estraneità alla vita), della solitudine, del contrasto tra apparenza e realtà, della pazzia, della morte sempre in agguato.

In particolare, in tutto questo coacervo di banalità e stereotipi culturali che va sotto la sigla di “pirandellismo”, trova posto anche l’inchiesta sui confini tra follia e ragione; ma forse è da dubitare che Pirandello sia veramente riuscito «a sentire, [...] nella creazione, la psicologia degli alienati», come pure ebbe ad assicurare - sul “Giornale d’Italia” dell’8 maggio 1924 - ricordando la triste esperienza dei deliri psichici della moglie: certo la follia, l’ossessione monomaniaca di Antonietta, rappresentò per lui la conferma di una possibilità che sentiva inscritta nel proprio destino, ma ciò non si è tradotto in un perturbante discorso sulla follia di per sé, ma in uno schema d’ispirazione che teneva discosta la follia stessa. Pirandello, avendone il terrore, presenta la follia come possibilità latente, non attuale, come pretesto insomma per giustificare le frequenti tirate sull’assoluto relativismo dei giudizi e per insinuare il dubbio sulla consistenza della realtà oggettiva. Il discorso sulla pazzia è condotto, si direbbe, con quella “elasticità analogica” - cioè, scarso rigore dal punto di vista strettamente patologico - che rappresenta il tratto caratterizzante del pazzo-savio pirandelliano. Si pensi a Enrico IV: non c’è traccia, sulla pagina, della sua follia “neurologica”, perché il personaggio entra in scena quando ha già da tempo assunto la follia come atteggiamento filosofico, ed esce di scena quando è costretto a giustificarla come alibi di fronte al prorompere degli impulsi vitali.

Chi sono i folli pirandelliani? Sono santi, moralisti, filosofi, che si votano a una ricerca d’autenticità lucida e senza compromessi, fuori da ruoli e convenzioni, martiri di una ricerca, spesso frustrata, d’assoluto e di verità, che pure hanno intravisto in certi momenti privilegiati di “silenzio interiore”; il folle pirandelliano si distingue proprio per la sua capacità di procurarsi “metodicamente” tali stati di estasi che aprono squarci su possibilità di esistenza che non si sospettavano: «E io passo per pazzo perché voglio vivere là, in quello che per voi è stato un momento, uno sbarbaglio, un fresco breve stupore di sogno vivo, luminoso; là, fuori d’ogni traccia solita, d’ogni consuetudine, libero di tutte le vecchie apparenze, con il respiro sempre nuovo e largo tra cose sempre nuove e vive» (Novelle per un anno, vol. III, p. 241).

Il dramma del personaggio pirandelliano è quello di non riuscire a diventare veramente pazzo, abbandonandosi alle energie latenti e represse dell’istinto, dell’inconscio, del corpo: non appena se ne prospetta l’eventualità, ecco che a schermo viene eretto un formalismo razionalistico (quello di Angelo Baldovino, il quarantunenne consigliere delegato di una società anonima, che sa di non poter ridurre a ragione «la bestia che ci porta»: Maschere nude, vol. I, p. 571).

Che cos’è dunque, in ultima analisi, la follia? Per Pirandello essa non ha un solo significato. In primo luogo, ricollegandosi al romanticismo, può apparire come dimensione autentica di fronte all’inautenticità delle convenzioni. Il folle capovolge i valori consueti: egli fa apparire malato ciò che viene dichiarato sano, e viceversa. Accade proprio così in Il treno ha fischiato, novella del 1914 (cfr. T 1[5]): l’impiegato Belluca, sottoposto alle angherie dei compagni d’ufficio, considerato da tutti «un vecchio somaro» e poco più che un «casellario ambulante», cerca e trova nella pazzia un’evasione e un rifugio, smascherando la meschinità e la grettezza di coloro che lo circondano. La follia diventa così una contestazione contro la società e il mondo dei “normali”. A differenza di quanto accadeva nell’età romantica, essa non si accontenta di affermare i suoi valori, ma si oppone polemicamente ai falsi valori, anche se non può vincerli e rinuncia, chiudendosi in se stessa, a cambiare il mondo. Già in questa prima accezione, la follia rivela di avere, in Pirandello, un significato anzitutto metaforico.

Questo aspetto è ribadito dal secondo significato che essa acquista: quello di mettere in dubbio, sino a dissolverla, la nozione di verità. È questo il tema di Così è (se vi pare), parabola in tre atti del 1919. In una piccola città, giungono il signor Ponza, sua moglie e sua suocera, la signora Frola. A quest’ultima, tuttavia, non è permesso di avere rapporti diretti con la figlia. Ma perché? Perché, sostiene il signor Ponza, la signora Frola è pazza: non ha accettato la morte della figlia, prima moglie di Ponza, e ora si ostina a credere che la seconda moglie sia appunto sua figlia (cfr. T 2). Oppure perché, sostiene la signora Frola, il signor Ponza, in seguito a una crisi di follia, non ha più riconosciuto la moglie, figlia di lei, e per riprenderla con sé l’ha sposata una seconda volta, credendo che si trattasse di un’altra donna. Qual è la verità? La giovane donna, chiamata a chiarire la situazione, dichiara: «Io sono, sì, la figlia della signora Frola e la seconda moglie del signor Ponza... e per me nessuna! nessuna! Per me, io sono colei che mi si crede». Alla fine del dramma (crf. T 3), riesce del tutto impossibile stabilire chi sia folle, se la signora Frola o il signor Ponza: quel che è certo è che la follia ha sconvolto la percezione della realtà dei curiosi e degli spettatori. Alla fine è la verità stessa, di cui la signora Ponza è «un simbolo» (e in cui Pirandello si identifica), a essere inconoscibile. La pazzia rivela così un terribile potere distruttivo. In Il treno ha fischiato c’era comunque una consolazione, anche se del tutto privata; ora, invece, non c’è più spazio di fuga. La follia diventa l’unica verità: cioè, che non esiste alcuna verità.

Questo paradosso ha in sé un grande potenziale tragico: lo sviluppa l’Enrico IV, il dramma del 1922. Caduto da cavallo durante una festa in maschera in cui vestiva i panni di Enrico IV di Germania, il protagonista è impazzito credendosi davvero l’imperatore. Ritornato in sé, mantiene la finzione. Ora, dopo anni, giungono a trovarlo nel suo castello Matilde, che egli aveva amato senza essere corrisposto; Tito Belcredi, suo rivale e attuale amante di Matilde; Frida, che somiglia straordinariamente alla madre Matilde da giovane. Enrico non sopporta di essere stato escluso dalla vita reale, rimpiange la giovinezza perduta e sa che la sua caduta da cavallo fu causata da Belcredi. È ancora innamorato: non della Matilde attuale, ormai invecchiata, bensì di Frida, che è per lui come la Matilde di un tempo. Si avventa sulla giovane, rivelando di aver simulato; Belcredi tenta di fermarlo, ed egli lo ferisce a morte. D’ora in poi, non gli resterà che ritornare a essere per sempre l’imperatore Enrico IV (cfr T 4).

La follia di Enrico IV è anche una follia recitata. Essa pone perciò un problema: esiste un legame fra teatro e pazzia? A teatro la pazzia acquista un significato particolare? Perché?

Anzitutto, nelle opere drammaturgiche non esiste un autore che, come in narrativa, coordini e commenti dall’alto l’azione stabilendo una verità univoca. Gli atti e i discorsi del folle sono dunque oggetto di giudizio al pari di tutti gli altri. Perciò in Così è (se vi pare) non si può stabilire chi sia pazzo, se la signora Frola o il signor Ponza; e nell’Enrico IV sino a che punto il protagonista sia malato o guarito. In questo modo, la nozione di verità viene decostruita; e in secondo luogo la follia non viene neutralizzata da subito come un discorso che, in quanto pronunciato da un folle, non val la pena di prendere in considerazione.

Un ulteriore legame consiste nel fatto che pazzo e attore possono essere accostati. Il pazzo è, in un certo senso, uno che recita, poichè si rappresenta come qualcuno che non è. Chi si crede Napoleone, o il papa, o qualsiasi altro personaggio illustre, ne assume gli atteggiamenti, trasformando la propria vita in una recita e rinunciando alla propria identità per assumerne un’altra.

È appunto quanto accade nell’Enrico IV. In questo dramma la follia non mette più solo in questione la verità, come accadeva nel Così è (se vi pare), ma l’identità personale. Questa si disgrega e viene sostituita da una maschera: l’uomo reale scompare (nell’elenco dei personaggi, al posto del suo nome compaiono dei puntini di sospensione) e resta solo il travestimento assunto nella festa di carnevale. Il folle è dunque uno che, per esistere, ha preso un’identità diversa dalla propria, ma non meno convenzionale di tutte le altre. A differenza del Così è (se vi pare), dove la pazzia è parte di un meccanismo filosofico astratto, nell’Enrico IV essa si riempie però di contenuti emotivi e psicologici. La follia è una fuga dallo scorrere del tempo e, dunque, dalla vita: una forma disperata di difesa contro il flusso dell’esistenza e la morte. Dapprima è l’impazzimento che allontana Enrico dagli altri; poi è Enrico stesso a scegliere di fissarsi nella mascherata dell’imperatore eternamente ventiseienne, imbellettandosi e nascondendo maldestramente i capelli ormai grigi:

«Me n’accorsi in un giorno solo, tutt’a un tratto; riaprendo gli occhi, e fu uno spavento, perché capii subito che non solo i capelli, ma doveva esser diventato grigio tutto così, e tutto crollato, tutto finito: e che sarei arrivato con una fame da lupo a un banchetto già bell’e sparecchiato». [atto III]

La fuga è dunque inutile, senza vie d’uscita. Grazie a questa consapevolezza, il personaggio pirandelliano acquista una nuova pienezza umana e una statura tragica più piena; mentre la follia diventa un’esperienza radicale della vita, giacché ne scuote il senso dell’identità e del tempo.

Bisogna dar conto, infine, di un altro tipo di pazzia, quella “simulata” in maniera coatta, quella di Beatrice Fiorìca (Il berretto a sonagli): ella non cerca il manicomio, le è imposto, e la sua reclusione denuncia l’ipocrisia, il falso moralismo, il fondo crudele della società borghese molto più delle tante fughe verso ospizi di mendicità o ricoveri naturali dei tanti finti folli pirandelliani alla ricerca dell’autenticità. Ecco allora che lo spazio psichiatrico denuncia la sua funzione essenzialmente sociale-coercitiva, di protezione per quelli che ne stanno fuori piuttosto che terapeutica. E proprio con Uno, nessuno e centomila si può parlare di finti folli: è la storia di Vitangelo Moscarda, un giovane usuraio, che un bel giorno non si riconosce più nel suo corpo, a causa del naso non del tutto regolare; da allora Vitangelo comincia a ribellarsi all’opinione che gli altri hanno di lui, all’identità che gli hanno attribuito. Per raggiungere questo obiettivo, deve dissolvere la propria immagine pubblica di figlio scioperato di un banchiere usuraio: lui che non si era mai occupato della banca vi penetra dentro fra lo sgomento degli impiegati e dei soci e, nonostante l’opposizione dell’amministratore, che, dopo la morte del padre, ne gestiva gli affari, s’impossessa degli incartamenti di una casa da cui vuole sfrattare un certo Marco di Dio e la consorte. Questo episodio, Il furto (Uno, nessuno e centomila, libro quarto, cap. VI), assume il valore simbolico di un’uccisione del padre. Ma l’aggressione alla figura paterna viene continuata anche successivamente attraverso la liquidazione dell’eredità. Moscarda esige infatti di occuparsi direttamente della banca e dei beni paterni che gli spettano. In modo sorprendente, stupendo la moglie, Quantorzo - l’amministratore - e tutti i concittadini, finisce per regalare un appartamento a Marco di Dio. Poi propone di liquidare la banca, in modo da togliersi di dosso l’immagine del figlio dell’usuraio, arricchito grazie alle malefatte del padre. I soci della banca e la moglie lo giudicano pazzo e lo vogliono interdire. Con l’aiuto di Anna Rosa, amica della moglie, Vitangelo si accorda con il vescovo per devolvere i propri beni in opere di carità. Quando però Vitangelo cerca di baciare Anna Rosa, questa, sconvolta dal suo modo di ragionare, gli spara con una pistola ferendolo gravemente. Al processo, Moscarda la scagiona attribuendo al caso l’accaduto. Moscarda si reca in tribunale con la stessa divisa dei mendicanti che vivono nell’ospizio che egli nel frattempo ha fatto costruire con i soldi dell’eredità, devoluta tutta in opere di bene. Dopo aver corso il rischio di diventare «uno» - di acquisire cioé una identità sociale o maschera convenzionale, che ne farebbe in realtà il riflesso dei «centomila», di una massa anonima - è diventato finalmente «nessuno» quanto a identità individuale: infatti ormai ha raggiunto la «guarigione» perché vive come un sasso, una pianta o un animale, tutto immerso nel fluire insensato della vita, senza nome, senza identità, senza pensieri e persino senza inconscio; insomma si fa protagonista attivo e cosciente della propria liberazione, che agli occhi degli altri sembra manifestare la sua infermità mentale: ma non è così. In realtà Vitangelo ha capito; ha capito che l’uomo non è libero, ma prigioniero di una società che egli stesso ha creato e che per riconquistare la propria libertà perduta deve rinunciare a una cosa solamente: al proprio dominio. L’uomo non è padrone del mondo, non è un re, né un dio. Può rinunciare a questo? Troppo prezioso tutto questo controllo. Troppo allettante essere un dio!



[1] A cura di Rafal Powroznik.

[2] Pèllico Silvio: scrittore e patriota italiano (Saluzzo 1789 - Torino 1854). Dal settembre 1818 redasse Il Conciliatore. Il Pellico, che aveva aderito alla carboneria, fu arrestato nel 1820 e fu condannato a morte nel 1822, ma la pena gli fu poi commutata in quindici anni di carcere duro. Rinchiuso nella fortezza dello Spielberg, vi restò oltre otto anni. La produzione letteraria del Pellico comprende varie tragedie (Francesca da Rimini, 1814) e Le mie prigioni (1832), la sua opera più significativa che narra degli anni di carcere.

[3] Martelliano: termine con il quale si indica il doppio settenario, dal poeta Pier Jacopo Martello che, a imitazione della poesia francese, se ne valse nelle sue tragedie.

[4] Pitoëff Georges (1884-1939): nome d’arte di Georgij PITOEV, attore e regista russo naturalizzato francese nel 1929 che influenzò profondamente la tecnica drammaturgica di Pirandello. Studiò recitazione al Teatro d’arte di Mosca e diresse poi a Pietroburgo una propria compagnia, allestendo opere classiche e contemporanee. Nel 1914 tornò a Parigi, dov’era già stato dopo i moti russi del 1905, e dove incontrò Ljudmila (Ludmilla) Smanov che divenne sua moglie nel 1915. In quello stesso anno si trasferì a Ginevra, dove con grande scarsezza di mezzi allestì opere di Cechov, Gogol’, Ibsen, Shakespeare, Lenormand, applicando le proprie concezioni dello spettacolo teatrale inteso come poetica e suggestiva trasfigurazione della realtà.

[5] Con queste sigle sono indicati i testi pirandelliani riportati nella sezione DOCUMENTI

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