" Lungo i sentieri della follia"

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Storia della Psichiatria

La follia nella civiltà greca e romana

 

Le civiltà antiche (egizia, assiro-babilonese, greca…) concepivano la malattia mentale come manifestazione di specifiche divinità. Partendo da questa concezione magico-religiosa, la cura non poteva che essere collegata strettamente alla dimensione del sacro. Infatti il sacerdote ricopriva anche il ruolo di medico.

Con lo sviluppo della cultura greca si assiste però anche al passaggio da una primitiva interpretazione magica della malattia ad una concezione naturalistica, che si afferma con la medicina ippocratica.

Nell’antica Grecia, caratteristica dell’opinione popolare era ritenere la malattia mentale un'emanazione del volere di divinità malvagie e persecutorie, come Manìa o Lyssa, Pan o Dioniso, Ecate o le Furie. I sintomi caratteristici della follia erano il girovagare senza scopo e l’inclinazione alla violenza; certi comportamenti irrazionali fuori dalla norma venivano interpretati come rottura del modo di pensare ordinario e apertura verso esperienze di tipo mistico e metafisico. Ne derivava una sorta di rispettosa venerazione per cui il “folle” appariva circondato da un alone di sacralità e le sue parole e i suoi atti venivano sentiti come espressione di verità profonde e misteriose.

Questo concetto popolare non lasciava nessuna possibilità di terapia del malato mentale. I casi leggeri erano lasciati andare per conto loro come oggetto di disprezzo, di ridicolo o di prevaricazione. I violenti erano relegati in casa, spesso incatenati, aspettando che gli dei, che li avevano resi folli, li curassero.

Sul piano giuridico, ogni comportamento contro la legge veniva giustificato, perché la malattia mentale era considerata come punizione ricevuta dagli dei.

 

Il rapporto divinità- follia è ben testimoniato dalla produzione letteraria omerica. Al tempo di Omero si pensava alla psiche come ad un respiro di vita, ad una forza quasi palpabile che fa vivere l’uomo. Inoltre essa persisteva dopo la morte come spirito del defunto, ma non si può assolutamente collegare al nostro concetto di personalità: le passioni di cui gli eroi si fanno portatori, per esempio l’ira di Achille, sembrano indotte temporaneamente dall’esterno, si manifestano e svaniscono con la stessa facilità. Appare “dato” dalla divinità il coraggio di Achille che combatterà soltanto quando gli dei gli infonderanno l’ardore necessario; “date” dagli dei la fedeltà di Penelope che non vuole risposarsi e l’audacia di Telemaco, quando per la prima volta parla coraggiosamente contro i Proci per opera della dea Atena.

La follia vera e propria è rintracciabile in molti episodi dell’Odissea, ma soprattutto dell’Iliade (e del "ciclo" di poemi o tragedie ad esse collegati). Possiamo ricordare Ulisse, che simula la pazzia per evitare di partecipare alla spedizione contro Troia, ma viene smascherato dal rivale Palamede; Aiace, che sgozza un intero gregge di pecore convinto che si tratti di guerrieri nemici e, una volta tornato in sè, si uccide per la vergogna; Polifemo, che viene ritenuto folle dai suoi compagni allorché invoca aiuto contro “Nessuno” che lo vuole ammazzare.

Nell’Odissea tuttavia, si affaccia una prima implicazione di ordine morale che aprirà poi la strada alle situazioni descritte dalla tragedia: l’eroe commette “hybris”, supera i limiti che gli sono consentiti e con questo richiama su di se la punizione divina.

 

La tragedia classica attinge a piene mani dal patrimonio mitico in cui la follia figura come elemento ricorrente. In un meccanismo in cui l’uomo è preda di forze contrastanti che lo schiacciano in una condizione di inferiorità senza uscita, come una marionetta in balìa degli dei dell’Olimpo, la follia rappresenta spesso l’unica soluzione possibile.

Ricordiamo a titolo d’esempio la figura del già citato Aiace e quella di Oreste, la follia sanguinaria delle Baccanti, la pazzia di Ercole e quella, intesa come accecamento e incapacità di scorgere l'evidenza, dell'orgoglioso e sventurato Edipo.

Del resto lo stesso Dioniso, il dio della tragedia, è strettamente collegato al delirio, all’uscita di senno, all’alterazione mentale connessa all’abuso del vino.

 

E’ noto che la cultura greca ha dato un grande contributo in campo filosofico: perciò i maggiori pensatori si sono espressi anche sul tema della follia.

Socrate affermava che la follia è il contrario della saggezza, anche se non si può definire follia l’ignoranza in generale, ma (per la maggioranza degli uomini) “ l’ingannarsi su ciò che per lo più è ben noto”. Per esempio viene chiamato “ folle” chi pensa di essere tanto alto da dover piegare il capo per entrare o uscire dalle porte della città, o tanto forte da riuscire a sollevare le case, o da impegnarsi in imprese unanimemente considerate impossibili. Per Socrate, erano fenomeni prossimi alla pazzia il” non conoscere se stessi e avere delle opinioni su ciò che non si conosce”.

Il suo discepolo Platone dipinse l’anatomia dell’anima; infatti collocò l’elemento razionale nel cervello, l’elemento irascibile (thymòs) nella regione cardiaca, l’elemento desiderante nei visceri. Questa triplice divisione in ragione, passione, temperamento è stata paragonata a quella teorizzata da Freud in Es, Ego, Super–Ego.

La follia è oggetto della speculazione platonica sia nel Timeo sia nel Fedro. Nel primo afferma che la disarmonia tra il corpo e la mente provoca delle distorsioni mentali, fondate sulla manìa o sulla grande ignoranza.

Nel Fedro analizza e descrive 4 tipi di pazzia: profetica, telestica o rituale, poetica e erotica. La pazzia profetica rappresenta una "malattia" momentanea, tipica delle poche persone capaci di giungere alla forma più alta di possessione o "entusiasmo"; questa era caratteristica degli sciamani che entravano in trance, come ad esempio la Pizia dell’oracolo di Apollo a Delfi o la Cassandra immortalata nell'Agamennone di Eschilo.

La pazzia telestica o rituale rivestiva tipicamente un valore di liberazione dai bisogni istintivi. Questa catarsi poteva avvenire solo attraverso riti religiosi caratterizzati da danze orgiastiche accompagnate da musica incalzante.

La follia poetica, dovuta alla possessione da parte delle Muse, era descritta come uno stato di ispirazione particolare che le divinità concedevano all’artista per facilitargli il processo creativo.

La follia erotica era infine collegata all’amore umano, che nella cultura greca includeva rapporti sia omosessuali che eterosessuali.

Platone esprime la sua opinione anche in campo giuridico: infatti i malati mentali con comportamento psicopatico dovevano essere rinchiusi in una casa di correzione per 5 anni e se non miglioravano venivano uccisi. Inoltre prevedeva pene severe per i parenti che non si occupavano dei pazzi. Per questi ultimi del resto esistevano regole ferree in materia di matrimonio, di eredità e di altri temi di importanza legale.

Platone ha una valutazione forse arcaica, ma sicuramente positiva della follia. Egli ritiene che essa una sorta di invasamento o possessione di carattere sacro, e che per questo, come dice nel Fedro, possa essere apparentata alla divinazione, alla poesia, all’eros e, attraverso l’eros, alla filosofia stessa. In qualche modo, nell’orizzonte platonico, la follia è cosa che eccede il piano umano, ma lo eccede con una potenzialità rivolta nella direzione del divino.

Di tutto questo non c’è assolutamente più nulla in Aristotele, dal quale la pazzia è vista come eccedente il piano umano, ma soltanto, e senza alcuna eccezione, per scadere nella condizione della bestialità. A parte quest’atteggiamento specifico verso la manìa, le novità di Aristotele rispetto a Platone sono sostanzialmente due: la prima è una rigida partizione antropologica che permette di escludere dall’ambito umano queste forme di devianza e quindi di arrivare ad una patologizzazione integrale della follia; la seconda è l’unificazione, non più soltanto analogica, ma sinergica, fra medicina e giustizia nella loro funzione punitiva e repressiva.

Casella di testo:  Un concetto innovativo di follia venne presentato dal medico greco Ippocrate (450-377 a.C), che si può considerare il "padre" anche della medicina moderna. Con lui, alla visione religiosa della psichiatria si sostituisce una concezione che attribuisce le cause delle malattie a fenomeni naturali. Ippocrate tentò di fornire una spiegazione ricorrendo all’arte medica, in accesa polemica con quelli “che ammantandosi nel divino” definivano sacra “questa affezione" per mascherare la loro incapacità di curarla. Con lui e i suoi seguaci, la follia diventa una malattia del cervello, di cui essi per primi tentarono una classificazione che comprendeva l’epilessia, la mania (stato di eccitazione anormale), la malinconia (stato di depressione anormale), l'isteria e la paranoia: questa prima classificazione delle malattie mentali, nei successivi venticinque secoli, venne appena modificata.

Il concetto medico di follia, come è elaborato negli scritti ippocratici, si basava sulla interazione di quattro umori del corpo – sangue, atrabile, bile e flegma – che erano prodotti dalla combinazione di quattro elementi della natura (caldo, freddo, umido e secco).

Le persone venivano raggruppate in uno dei quattro corrispondenti temperamenti – sanguigno, collerico, melanconico e flemmatico – e la classificazione si pensava riflettesse il motivo principale della loro inclinazione. Il funzionamento della personalità si svolgeva ad un livello ottimale quando si raggiungeva la crasi, cioè l'equilibrio nell’interazione fra forze interne ed esterne. La lotta tra queste forze, detta discrasia, indicava la presenza di un umore corporeo eccessivo, che doveva essere tolto con la purificazione.

In conclusione, e con i dovuti limiti, Ippocrate può essere considerato il padre della moderna medicina e psichiatria, anche perché propone al terapeuta un'accurata osservazione dei sintomi, che tenga conto della biografia del paziente e del suo ambiente di vita, e attribuisce notevole importanza alla qualità del rapporto medico- paziente.

 

L'importanza che Ippocrate riveste rispetto alla storia della follia può essere giustamente apprezzata da queste due brevi citazioni, estratte dall'opera dedicata alla smitizzazione del "morbo sacro":

 

-         Non credo che la” malattia sacra” sia più divina o sacra di ogni altra malattia, ma al contrario che abbia delle caratteristiche specifiche e delle cause definite.

 

-         Gli uomini dovrebbero sapere che nient’altro che da là [dal cervello] vengono gioie, delizie e divertimento; e per questo specialmente acquistiamo la vista e le conoscenze e vediamo ed udiamo. E a causa dello stesso organo diveniamo folli e deliranti e ci assalgono le paure e il terrore talvolta di notte e talvolta di giorno…Tutte queste cose le sopportiamo dal cervello quando non è sano.

 

La visione ippocratica della medicina e della psichiatria ha caratterizzato il periodo classico della storia greca e ha influenzato significativamente la medicina romana, tramite il lavoro di alcuni medici greci che si erano trasferiti nella capitale dell’Impero.

 

A Roma le credenze superstiziose popolari continuarono a influenzare il trattamento dei malati mentali, che erano dimenticati, banditi, perseguitati, privati della libertà di azione e giudicati incapaci di curare i loro affari privati e pubblici.

Nel I sec. d.C. Celso, l’autore classico degli otto volumi “De re medica”, si occupò a lungo di malattie mentali. Egli non era medico, ma la sua cultura enciclopedica gli permise di fare il punto sulle conoscenze mediche all’inizio dell’era cristiana.

Le classificazioni erano per lo più le stesse del tempo di Ippocrate, pur essendo la terminologia leggermente diversa. Celso utilizzava la parola “insania” per designare la mania e il furore. La frenesia era sempre accompagnata da febbre; la classificava tra i disturbi che colpiscono il corpo in modo completo e allo stesso modo era considerata la follia, in opposizione alle malattie che ne colpiscono solo una parte. All’insania e alla frenesia, Celso aggiungeva un terzo tipo di disturbo mentale: il delirio allucinante a volte allegro, altre volte triste, generale o parziale.

L’originalità delle idee di Celso sta nell’importanza che egli conferì alla valutazione del rapporto individuale medico-paziente. Celso sostenne che una relazione di questo tipo potesse avvenire attraverso l’uso di tecniche specifiche per sollevare pazienti depressi e per calmare i maniaci; inoltre egli consigliò l’uso appropriato del linguaggio della musica e possibilmente qualche attività di gruppo, come quella della lettura ad alta voce, anche con errori voluti per attirare l'attenzione del malato.

 

Lucio Anneo Seneca, filosofo stoico del I secolo d. C, fu in un primo periodo precettore e consigliere di Nerone, nell'illusione di poter realizzare con questo principe una forma di "dispotismo illuminato". Fallito miseramente questo tentativo, Seneca si ritirò a vita privata dedicandosi alla meditazione e alla produzione filosofico-letteraria. Celebre risulta, per la descrizione che ce ne ha lasciato Tacito, la dignità con cui seppe affrontare la morte impostagli dal tiranno, suo antico allievo.

Nonostante l'apertura a varie correnti filosofiche, che come per Cicerone ci permette di parlare nel suo caso di eclettismo, dalle opere di Seneca si evince che il pensiero che lo influenzò maggiormente fu lo stoicismo. Si giustifica con l'adesione a questa filosofia ellenistica, diffusasi a Roma a partire dal II sec. a. C. con Panezio di Rodi e Posidonio di Apamea, la concezione che Seneca ha della pazzia: infatti la dottrina stoica predica il controllo totale delle passioni e identifica il "sapiens" in colui che riesce a non farsi dominare dagli istinti più irrazionali. Nelle "Lettere a Lucilio[1]", Seneca sostiene che "…nessun nemico ha portato tanta offesa agli uomini quanto le loro passioni. Questa sfrenata e pazza sete di piacere sarebbe imperdonabile se gli stessi colpevoli non soffrissero le conseguenze delle loro azioni. E a buon diritto questa loro sfrenatezza li tormenta: infatti ogni passione che oltrepassa i limiti stabiliti dalla natura diventa fatalmente smisurata e incontrollabile. L'uomo moderato trova nella natura il suo limite, mentre le vuote fantasie che nascono dalle passioni sono sconfinate...".

Accanto a questo concetto allargato di pazzia affiora in parallelo l'accenno alla follia intesa non solo come malattia dell'anima, ma anche del corpo: alla pazzia "che è curata dai medici" si riferisce per esempio laddove[2] afferma che la follia come patologia "deriva da una malattia", "è effetto di debole salute", è determinata "dall'umor nero".

Sembra così configurarsi per Seneca un doppio livello di pazzia: quella "filosofica", che si presenta come antitesi della saggezza, e quella "medico-patologica", che allude alla vera e propria malattia mentale.

In quest'ottica risulta particolarmente comprensibile il parallelo fra ira e pazzia, ricorrente più volte nelle opere senechiane[3]. Scrive per esempio il filosofo: "Nessuna via è più veloce dell’ira per arrivare alla pazzia. Perciò molti hanno continuato sulla strada dell’ira, non riuscendo più a recuperare la ragione che avevano perso: la pazzia condusse verso la morte Aiace, spinto alla follia dall’ira. Gli iracondi invocano la morte per i propri figli, la povertà per sé stessi, la rovina per la loro casa, e negano di essere adirati proprio come i pazzi negano di essere fuori di senno"[4].

 

Forse però l'esempio più impressionante della follia in atto si può leggere nel teatro tragico di Seneca e in particolare nell'Herculens furens, dove il delirio del protagonista viene presentato in modo fortemente drammatico con tutti gli aspetti cruenti tipici del gusto di quell'epoca.

La pazzia viene evocata in forma tragica e potente già all'inizio dell'opera, quando Giunone evoca contro Ercole la schiera orrenda delle Furie capeggiate da Megera[5].

Alla fine della vicenda il cerchio si chiude: la pazzia ritorna all'improvviso sotto forma di allucinazioni, che inducono Ercole ad uccidere in modo orribile prima i figli e poi anche la moglie.

 

Nell'epoca di Traiano (98-117 d.C) visse Celio Aureliano, di Cartagine.

Lo ricordiamo per la sua polemica nei confronti della violenza contro gli "insani": egli raccomanda invece il ricorso alla musica e la cura con erbe e consiglia di affidare il folle al medico anziché al filosofo.

La medicina romana si avvalse infine dell’importante contributo di Claudio Galeno (129-201 d.C). Questo medico, grande difensore e divulgatore delle teorie di Ippocrate, operò una commistione, diversamente dal medico greco, tra speculazioni filosofiche e osservazioni cliniche. Riaffermò una serie di teorie ippocratiche a cui affiancò elucubrazioni filosofico–teologiche. Anche se l’autore non fu alieno da tendenze mistiche e sintetizzatore più che innovatore, gli scritti di Galeno sono di estrema importanza poiché, grazie al suo eclettismo, ci ha fornito una profonda sintesi della medicina greco–romana. Influenzato dalle idee filosofiche aristoteliche, Galeno considerò l’uomo come un organismo formato da parti semplici, ma articolate tra loro con uno scopo; esse non erano però riducibili.

Credette che la natura fosse il risultato “della mescolanza e della separazione delle cose" e ripropose la teoria degli elementi posti a fondamento della natura: per Galeno nei polmoni era posta l’aria, nelle ossa la terra, nel sangue l’acqua, nell’anima il fuoco. I quattro elementi rappresentavano quattro qualità: il secco, il freddo, l’umido, il caldo.

Come gli ippocratici, Galeno sostenne la teoria dei quattro umori e considerò la malinconia e i deliri violenti come una conseguenza di un loro squilibrio. Con i quattro elementi rappresentanti le quattro qualità elaborò una teoria sui temperamenti, secondo la quale i sanguigni possedevano in eguale misura le quattro proprietà, i flemmatici erano caratterizzati da un eccesso di acqua, i collerici di fuoco e la secchezza era propria dei malinconici.

Studiò accuratamente l'anatomia e la neurofisiologia, individuando nel sistema nervoso centrale e in particolare nel cervello la sede delle funzioni psichiche e dell'anima razionale: e a questo organo affidò lo stesso ruolo riconosciuto da Ippocrate, sostenendo perfino che alcune malattie mentali erano conseguenza di una lesione cerebrale.

La sua idea della follia fu in generale quella di un propugnatore della medicina, contrario alla superstizione e convinto sostenitore dell'origine naturale e biologica della pazzia ("quando il cervello diventa troppo caldo o troppo umido, troppo freddo o troppo secco, alterazioni causate dagli umori, l'uomo diventa alienato").

Anche se non fu alieno dal filosofeggiare ed ebbe tendenze mistiche trattando l’isteria ed i disturbi mentali, non solo fu un sostenitore dell’impostazione medica ippocratica, ma dette un suo personale e fondamentale contributo.

La concezione della pazzia come malattia e quindi come oggetto della medicina raggiunge con Galeno l’acme della sistematizzazione e della sintesi di una lunga tradizione; al contempo tuttavia è proprio con Galeno che comincia la decadenza del pensiero e della pratica medica. Successivamente, in seguito allo spostamento della capitale a Costantinopoli, la medicina bizantina si fonderà sulle cognizioni del passato e l’indirizzo medico nella ricerca della cause della follia si limiterà ad una riproposizione delle teorie precedenti.

 

I romani contribuirono in maniera significativa in psichiatria soprattutto nella definizione degli aspetti giuridici della malattia mentale.

Il classico testo legale della tarda romanità il Corpus Juris Civilis specificò che i vari disturbi - follia, ebbrezza, ed altri – che, se presenti al momento in cui l’atto criminale era commesso, potevano diminuire la responsabilità del reo per la sua azione. Per quanto ci è noto, tuttavia, l’esame psichico del colpevole era condotto dal giudice; i medici non venivano interpellati su questo punto e nella maggioranza dei casi coloro che erano considerati malati mentali, compresi coloro che oggi sarebbero classificati come psicopatici criminali, erano affidati a parenti o guardiani, nominati da autorità giuridiche.

Inoltre vennero promulgate leggi che regolamentavano la capacità del malato mentale di sposarsi, di divorziare dal coniuge, di disporre della proprietà, di scrivere un testamento e di testimoniare.

Durante il regno dell’imperatore Giustiniano molti ammalati mentali, per i quali nulla si era fatto attraverso adatti mezzi terapeutici, furono sistemati nelle istituzioni per i poveri e gli infermi, forse come conseguenza degli influssi del cristianesimo.



[1] Sen., Ep. ad Luc., 39.

[2] Sen., Ep. ad Luc., 94.

[3] Vedi DOC.1.

[4] Seneca, De ira, 5 (trad. Ilenia Fronza, a. sc. '97-'98).

[5] Vedi DOC.2.

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