Immigrazione:
la colpa di chiamarsi Alì
di Ada Rho

In Italia soffia una brutta aria di intolleranza verso lo straniero che non è allarmistico chiamare razzismo, che si manifesta a volte in modo strisciante, qualche volta violente se non nella forma sicuramente del messaggio. I mass-media che quotidianamente enfatizzano qualsiasi misfatto, anche di modesta entità, commesso da extracomunitari, tralasciando le grandi difficoltà ed umiliazioni che la stragrande maggioranza di essi subiscono, il malessere che agita gli animi dei cittadini puntualmente strumentalizzato e alimentato dalle Destre che per una manciata di voti e forse, drammaticamente, per vocazione, non esitano a sobillare la ricerca di un capro espiatorio che consente di non "indagare" dentro i propri confini nell'illusione che il "male" sia all'esterno, sono il terreno fertile su cui domina la paura e quindi il pregiudizio verso che è altro da sé. Quando la coscienza non riesce ad elaborare la parte oscura ed inesplorata di sé, quando la luce della ragione è offuscata dalle pulsioni e degli istinti di dominio dell'uomo sull'uomo, quando ad animare le intenzioni è l'egoismo e la difesa della nostra "roba" anziché la condivisione e, quando ancora le idee forti sulle quali dovrebbe fondarsi il senso civile di una nazione si traducono da parte di chi dovrebbe essere la classe dirigente oltre che intelligente, in balbettio incerto, un sussurrare sottotono, un fraseggio indistinti di buone intenzioni ma di incerte soluzioni, il pregiudizio torna a dominare l'individuo e a spargersi a macchia d'olio nel contesto sociale e culturale in cui viviamo. Da sempre a tutte le latitudini, l'umanità è attraversata dall'inquietudine e dalla diffidenza verso chi è altro da noi, dove per "noi" si intende un gruppo, una categoria, un microcosmo che si dota di norme e codici per consentire una convivenza accettabile per cui l'uomo venuto da lontano con altre norme e altri codici, è vissuto come una minaccio, un sovvertitore, l'elemento destabilizzante di quell'ordine che fa, o dovrebbe, chiudere il cerchio oltre i cui confini regna l'incontrollato e l'incontrollabile. Nella parte del mondo in cui viviamo, l'opulento Occidente che ha costruito il suo impero a spese del resto del mondo, si scopre la paura dell'uomo nero come ne ha il bambino nei suoi incubi notturni, poiché, nonostante il progresso e la ricchezza, non si è ancora formata quella profonda coscienza di essere tutti parte di una sola immensa specie che si chiama umanità, non si è ancora superata la visione egocentrica del mondo, per cui chi è altro da noi è uno sconosciuto e quindi pericoloso, negativo, intollerabile. Si nega diritto di cittadinanza e perfino di esistenza a chi non ci appartiene, a cui sentiamo di non appartenere, che si differisce per colore della pelle, fede religiosa o quant'altro. L'Occidente progredito e super-protetto in realtà avverte la sua fragilità tanto da ritenere un pericolo uomini bisognosi, sofferenti, lesi nei loro primari diritti. Il mondo ricco e potente teme il confronto, ha paura di non reggere l'impatto con una parte di mondo diversa da sé, percependosi come un gigante d'argilla; la stessa Chiesa, potenza tra i potenti, teme fortemente l'espansione dell'Islam perché il processo di secolarizzazione e l'indebolimento del messaggio cristiano che ha rinunciato a diffondere per impartire lezioni di morale tout-court, potrebbero, in futuro, appannare l'immenso potere conquistato nei secoli, più con l'uso della forza che con il Vangelo. La politica, dal canto suo, non si impegna più di tanto, si barcamena per tenere insieme le parti piuttosto che prendere posizione netta e forte in difesa del diritto e della pari dignità dei popoli. Si ricorre così al patetico espediente di ridurre casi umani tragici e dolenti a problemi di ordine pubblico e sociale. Non si parla di uomini, donne, bambini nella loro specificità di individui, ma lisi cataloga sbrigativamente e in spregio alla ragione come "emergenza - "allarme sociale", mine vaganti insomma di quell'ordine e di quella sicurezza che ci s illude di essersi garantiti senza vere la coscienza delle profonde smagliature del tessuto sociale in cui viviamo. Inquieta e indigna che si quantifichi il massiccio esodo di popolazioni duramente provate e in balia della criminalità che specula pressoché impunemente sulle loro tragedie, in flussi migratori da disciplinare e dirottare qua e là ove vi fosse necessità di braccia da lavoro quasi si trattasse di una legittimazione postuma della tratta degli schiavi . Fa specie ascoltare illustri esponenti della politica e della cosiddetta "società civile " e perfino illuminati prelati maneggiare le parole che esprimono alti concetti come "uguaglianza", "diritti", "pari dignità", con pietismo fingardo e un cinismo che ci riporta alle piantagioni di cotone. Ancora una volta in modo puerile ed offensivo si tenta di esorcizzare il pregiudizio verso l'immigrato circoscrivendolo dentro il recinto del permesso di soggiorno a tempo limitato, nel primo, secondo, terzo centro di accoglienza, per "liberarlo" , qualora tornasse utile come mano d'opera a basso costo, per degradarlo a mezzo di produzione senza garantirgli pari diritti né potere interlocutorio. Si noti, a proposito, lo scandalo che suscita in una certa parte politica la proposta, più sussurrata che avanzata con il giusto tono, di concedere il diritto al voto, a una casa o ai sussidi che i Comuni mettono a disposizione per i meno abbienti. Non sono dunque le fiaccolate della Destra ad indignare maggiormente, misere parodie di ben altri cortei che hanno sfilato e sfilano in altri Paesi dell'Europa, quanto il liquame nauseabondo ed appiccicaticcio che inquina le coscienza, le imbastardisce, le lascia in balìa della preistoria della ragione, corrodendone gli strumenti di conoscenza, deprimendo qualsiasi effettiva crescita dell'uomo che, per quanto benestante ed acculturato, è del tutto impreparato a raccogliere e vincere la vera sfida a cui è chiamata l'umanità intera: il senso di fratellanza fra ti popoli diversi, ma pari.
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