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I PIPINO

I PIPINO


Il fondatore della casata dei Pipino fu Giovanni Pipino, che nella seconda metà del Duecento esercitò la professione di pubblico notaio nella città di Barletta, il cui porto era importantissimo nei commerci con l'Oriente, e che da quella professione giunse, poi, mediante i suoi talenti, a meritare la fiducia di ben tre Re nelle mansioni di governo di una parte del loro regno.
Secondo il Villani, cronista del Trecento, tal Giovanni Pipino era di oscuri natali, descrivendolo come "figlio d'uno piccolo e vil notaiuolo"; secondo altre fonti discendente dalla nobile famiglia d'origine francese, Pipino o Pepino, giunta in Italia al seguito dei re angioini dopo la conquista del Regno di Napoli.
Il principe Carlo d'Angiò, incoronato da Papa Clemente IV Re di Sicilia, nel quadro del riordino dell'amministrazione gli affidò la cura degli affari pecuniari nelle tre estese province di Bari, di Otranto e della Capitanata.
Nel 1283 venne chiamato a Napoli, a Palazzo Reale dal Vicario Roberto d'Artois: il regno, in seguito alla rivolta dei Vespri Siciliani dell'anno precedente, era in serio pericolo e occorreva far fronte da una parte all'invasione degli aragonesi e dall'altra trovare le risorse finanziarie per liberare dalla prigionia il re Carlo II d'Angiò.
Compiti che Giovanni Pipino assolse egregiamente e per i quali venne ricompensato di vari feudi tra cui la contea di Minervino.
Il suo prestigio aumentò enormemente dopo la liberazione di Carlo II, venendo nominato nel 1289 cavaliere e nel 1291 esercitando l'uffizio di Maestro Razionale della Gran Corte, l'odierna Zecca.
Dal matrimonio con Sibilla, figlia di un deceduto nobile capitano provenzale, ottenne oltre a nuove proprietà e ricchezze anche 4 figli: il primogenito Niccolò e le tre femmine Angiola, andata sposa a Niccolò della Marra gran signore di Barletta, Margherita, andata sposa al Conte di Terlizzi Gasso Dioniso, e infine Maria unitasi al Conte di Ascoli Adinolfo d'Aquino.
Il primogenito Niccolò sposò la nobile Giovannella d'Altamura, ereditiera del titolo della Contea d'Altamura e di Vico, il 28 novembre 1296.
Oltre a questa fortunata serie di matrimoni che unirono la sua famiglia a quella di diverse casate nobiliari Giovanni Pipino approfittò dell'occasione della riconquista della città di Lucera nel 1300, colonia abitata in prevalenza da Saraceni deportati dalla Sicilia all'epoca di Federico II di Svevia, per appropriarsi delle enormi ricchezze provvenienti dal saccheggio e dalla vendita degli schiavi saraceni.
In seguito a questa impresa, i Pipino ottenerono di inserire nello scudo dello stemma, sormontato da una cintura di cavaliere e contenente una banda trasversale azzurra su cui spiccano tre conchiglie rosse, per concessione del Re, anche i tre gigli di Francia.
Durante questa parabola ascendente l'unico momento di contrarietà si ebbe quando il feudo di Minervino fu assegnato a Raimondo Berengario, fratello del Re Carlo II, momento subito superato con la morte di Raimondo nel 1307 e con la successione al regno del Re Roberto.
La parabola terrena di Giovanni Pipino si concluse con la sua morte il 30 agosto del 1316 e fu sepolto nel monastero di San Pietro a Maiella ad Aversa.
Toccando la guida della casata al primogenito Niccolò, non si ebbero eventi di particolare rilievo, e il suddetto come altri nobili del regno fu impegnato nelle campagne intraprese da Roberto d'Angiò, sostenitore del partito guelfo in Italia, contro gli Aragonesi e l'Imperatore Ludovico il Bavaro.
Dal matrimonio con Giovannella nacquero quattro figli maschi: Giovanni, Pietro, Luigi, Matteo e due figlie femmine: Agnese e Vannella.
Alla morte di Niccolò nel 1332 la consorte Giovannella suddivise tra i figli i beni di famiglia.
Al primogenito Giovanni Pipino, autoproclamatosi Palatino d'Altamura, fu assegnata la Contea di Minervino, allora abitata da circa tremila persone.
Suo fratello Pietro divenne Governatore di Lucera e Conte di Vico.
Luigi acquisì i feudi di Potenza e di Troia, mentre Matteo, morto in tenera età, ereditò Rapone e Casalgrande.
Agnese sposò il Conte Nicola d'Eboli di Trivento e Vannella il Conte ungherese di Asperch, capitano di milizia.
I Pipino furono subito impegnati nella difesa dei propri territori e Giovanni Pipino detto il Palatino uccise Reginoro del Balzo che, erede di Raimondo Berengario, rivendicava il castello di Minervino.
Da qui ebbe origine l'odio verso i Pipino da parte della famiglia Del Balzo e dei suoi alleati imparentati i Sanseverino e i Della Marra di Barletta.
Durante i contrasti tra i detti Della Marra e i De Gattis per il dominio di Barletta, i Pipino si schierarono a favore dei De Gattis.
Le ostilità e le devastazioni che ne conseguirono costrinsero il Re Roberto a intervenire per imporre una tregua ma non ottenendo nessun risultato concreto impose ai Pipino di presentarsi a corte per rispondere delle accuse loro rivolte.
I Pipino non acconsentirono e si rifugiarono nel Castello di Minervino fortificandolo contro la prevista reazione regia, reazione che non si fece attendere e guidata da Raimondo del Balzo Maresciallo del Regno fece intervenire un numeroso esercito per assediare la rocca murgiana.
Nel dicembre 1341, vedendo che l'assedio stava facendo esaurire le scorte e non fidandosi di un'eventuale resa all'esercito regio composto dai loro più acerrimi nemici, i Pipino chiesero ed ottennero una tregua per recarsi a Napoli per discolparsi.
Giunti davanti alla corte del Re Roberto furono riconosciuti colpevoli e imprigionati a vita in Castel Capuano, i loro beni confiscati e venduti ai loro nemici e ai Del Balzo fu consegnata Minervino.
Nonostante le intercessioni della madre Giovannella, e le ambasciate della famiglia pontificia dei Colonna affidate al Petrarca i Pipino rimasero imprigionati fino alla morte del Re Roberto e furono rilasciati in seguito alla grazia accordatagli nel 1344 dal principe Andrea D'Ungheria sposo dell'erede al trono di Napoli Giovanna I.
Con l'assassinio del Re Andrea da parte dei Principi di Taranto col tacito accordo della regina Giovanna I, il Regno di Napoli fu devastato da una cruenta guerra civile tra i sostenitori filo-ungheresi, che richiedevano l'intervento di Luigi Re D'Ungheria fratello dell'assassinato Andrea, e i sostenitori di Giovanna I unitasi in nuove nozze con Ludovico di Taranto.
I Pipino si barcamenarono tra le due fazioni schierandosi con chi al momento gli prometteva loro più feudi e ricchezze, manovrando una temibile forza militare di mercenari tanto spietati quanto inaffidabili, pronti al tradimento per una paga più alta.
Con tale forza, composta da cavalieri teutonici e ungheresi e fanti lombardi, misero a ferro e a fuoco per quasi tre lustri la provincia detta di Terra di Bari giungendo nel momento di massima espansione a controllare oltre ai feudi dell'entroterra di Minervino e Altamura, anche i comuni costieri di Molfetta, Giovinazzo e Bari.
Dopo essere ritornato dall'Ungheria dove aveva richiesto e ottenuto l'intervento del Re Luigi il Grande, il Palatino anziché collaborare con le forze ungheresi alla riconquista del regno, intervenne in soccorso dei Principi Colonna di Roma.
Tali nobili infatti erano stati estromessi dalla guida del governo pontificio dal tribuno Cola di Rienzo che, in assenza del papa, aveva richiesto aiuto all'imperatore germanico per imporre Roma come capitale di un nuovo impero romano.
Nel 1347 i mercenari di Pipino, alleati alle milizie dei nobili Colonna e Orsini, irrompono in Roma e dopo aspri scontri restaurano il dominio pontificio.
Forte del titolo di "Patrizio e liberatore di Roma e dei principi Romani ed illustre protettore della Santa Chiesa" Giovanni Pipino l'anno seguente ritorna a Napoli.
La capitale era ritornata sotto il dominio di Giovanna I che, approfittando del ritorno in Ungheria di Luigi il Grande, stava riorganizzando la riconquista del proprio territorio e a tale scopo assoldò il Palatino per contrastare in Terra di Bari le poche città rimaste fedeli agli ungheresi.
Dopo due anni di stallo, durante il quale le città venivano prese e riperse con conseguenti devastazioni e saccheggi dall'una e dall'altra parte, nel 1350 il ritorno di Luigi il Grande costrinse il Palatino a Bisceglie alla resa.
Con un repentino voltafaccia Giovanni Pipino si mise a disposizione del re ungherese e avendo avuto rinforzi in milizie e macchine d'assalto riconquistò il Castello di Minervino strappandolo a Raimondo del Balzo.
Anche questo secondo intervento ungherese non fu risolutivo per le sorti della guerra, come non lo fu il terzo che vide coalizzati nel 1355 il Palatino e il comandante ungherese Ludovico di Durazzo.
I reali di Napoli dopo aver provato con una trattativa a corrompere Giovanni Pipino, assegnarono a Roberto Principe di Taranto il titolo di Vicario di Puglia con l'ordine di riportare all'ordine i ribelli pugliesi.
Nel 1357 il Palatino, in seguito a tradimento, fu consegnato all'interno del Castello di Matera alle forze regie di Roberto che lo costrinsero per aver salva la vita a consegnare la città di Altamura.
Ma tale proposta era solo un inganno: dopo la resa della roccaforte altamurana Giovanni Pipino fu impiccato ai merli del castello, il suo cadavere squartato in quattro parti che furono appese alle porte d'ingresso della città.
Dopo aver saputo della triste fine del fratello, Luigi Pipino si arroccò nel castello di Minervino preparandosi a un lungo assedio.
Ma anche questa volta fu decisivo il tradimento: un milite lombardo con astuti pretesti riuscì a uccidere Luigi, il cui corpo fu buttato al di sotto delle mura, e ad aprire le porte della fortezza ai nemici.
L'ultimo Pipino superstite, Pietro conte di Vico, riuscì a fuggire ad Avignone dove morì quattro anni dopo mettendo fine alla saga della famiglia durata settant'anni.