Le tecniche del counselling

(sul medesimo argomento, di R.Penna e R.Sabbadini, in "Tecniche Conversazionali", n. 38, www.tecnicheconversazionali.it

5 Maggio 2006

presentazione di Raffaella Penna e Rodolfo Sabbadini all'Accademia delle Tecniche Conversazionali.

 

Premessa

 

Il nostro obiettivo è quello di illustrarvi un’esperienza, che stiamo sviluppando in ambito professionale e formativo, concernente l’impiego di tecniche di intervento nella conversazione di counselling. La caratteristica distintiva delle tecniche impiegate è che esse prescindono dal soggetto, dall’interlocutore del counsellor, essendo orientate esclusivamente dal testo che il cliente produce durante il colloquio. In particolare sono finalizzate a convertire testo del nostro interlocutore da una condizione di Opacità ad una condizione di Trasparenza, consentendo così di pervenire ad un accordo sul significato delle parole espresse.

A noi sembra, infatti, che la relazione di counselling, e la professione di counsellor, abbiano una loro autonomia nella misura in cui riescono a dotarsi di un corpus di tecniche di intervento autonome, non mutuate da altre aree professionali, come quella psicologica, psicoterapeutica, psichiatrica, filosofica, ecc. Naturalmente, ciò non esclude che psicologi, psichiatri, psicoterapeuti e filosofi che acquisiscano una specifica competenza nel campo del counselling possano conferire uno specifico orientamento alla relazione dando luogo a un counselling psicologico, filosofico, ecc.

 

Il counselling: cenni storici

Le origini del counselling vengono – di norma ricondotte agli Stati Uniti, per opera sostanzialmente, di Carl Rogers e di Rollo May, entrambi professori di psicologia. E si ricorda che all’interno dell’American Psycological Association (APA), già agli inizi del secolo scorso il counselling tendeva ad indicare le attività psicologiche connesse all’orientamento e allo sviluppo personale.

In Europa approda intorno agli anni ’70, attraverso la Gran Bretagna che ha rappresentato – e rappresenta – il principale riferimento europeo in questo campo.

Nel 1976 in Inghilterra nasce la British Association for Counselling (BAC) che si preoccupa di dare una definizione di counselling che lo differenzi da altre modalità amicali di aiuto. Si intende per counselling una situazione in cui “un operatore, che occupa regolarmente o temporaneamente il ruolo di counsellor, offre o acconsente ad offrire esplicitamente tempo, attenzione e rispetto a una o più persone che si trovano temporaneamente nel ruolo di clienti” (da Di Fabio, 2003). Secondo tale Associazione (che, nel 2000, diventa “British Association for Counselling and Psychotherapy) Il counselling professionale individua un’area di intervento che si orienta verso la congruenza delle capacità decisionali dell’individuo comprese le possibilità di scelta reali e da lui ravvisate, la sua modalità di percepire e formulare il problema e di trovare soluzioni.

In Italia la definizione di counsellor comincia ad essere correntemente utilizzata a partire dagli anni ’90, quando cominciano a nascere le prime associazioni di counselling. Nel 1999 il CNEL – Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, inserisce il counselling tra le professioni non regolamentate, dandone la seguente definizione suggerita da una di dette associazioni, la SICO:

 

“Il Counselor è la figura professionale che, avendo seguito un corso di studi almeno triennale, ed in possesso pertanto di un diploma rilasciato da specifiche scuole di formazione di differenti orientamenti teorici, è in grado di favorire la soluzione di disagi esistenziali di origine psichica che non comportino tuttavia una ristrutturazione profonda della  personalità.
L’intervento di Counseling può essere definito come la possibilità di offrire un orientamento o un sostegno a singoli individui o a gruppi, favorendo lo sviluppo e l’utilizzazioni delle potenzialità del cliente.

 

Più esaurienti ci sembrano le definizioni dell’Associazione CNCP “Coordinamento Nazionale Counsellor Professionisti”:

Il counselling è un processo relazionale tra counsellor e cliente, o clienti (individui, famiglie, gruppi o istituzioni). L’obiettivo del counselling è fornire ai clienti opportunità e sostegno per sviluppare le loro risorse e promuovere il loro benessere come individui e come membri della società affrontando specifiche difficoltà o momenti di crisi.

Il counsellor è la figura professionale che aiuta a cercare soluzioni a specifici problemi di natura non psicopatologica e, in tale ambito, a prendere decisioni, a gestire crisi, a migliorare relazioni, a sviluppare risorse, a promuovere e sviluppare la consapevolezza personale su specifici temi. La prestazione professionale è regolata da un esplicito e reciproco accordo contrattuale e termina con la conclusione del contratto.

 

Altre definizioni del profilo professionale del counsellor sono meno utili al nostro lavoro in quanto confondono più o meno esplicitamente le aree di intervento del counsellor, dello psicologo e dello psicoterapeuta.

A questo proposito, oramai, quasi tutti coloro che si sono dedicati all’approfondimento di questa materia, sono concordi nel ritenere che – quella di counsellor – è una professione che deve distinguersi nettamente da quelle – confinanti – dello psicologo e dello psicoterapeuta.

La SICO, un po’ paradossalmente, si preoccupa, per esempio, innanzitutto di esplicitare cosa il counsellor “non fa”: non fa terapia, non opera cure di nessun genere, non fa psicoterapia, né consulenza, non insegna psicologia e genericamente non usa mai il prefisso psico se non acquisito per competenza. E’ di tutta evidenza che questa esasperante preoccupazione di dettagliare le “non” competenze del counsellor deriva dal timore di restare intrappolati nelle maglie della normativa vigente in Italia, sia sul piano della legislazione nazionale (reato di esercizio abusivo di una professione), sia sul piano delle norme ordinistiche (divieto del codice deontologico degli psicologi riguardo all’insegnamento di tecniche e strumenti conoscitivi psicologici a non psicologi).

Se ci fossero dubbi sull’oggetto di preoccupazione, la SICO precisa puntualmente  che “Il counselling psicologico prevedendo tra l’altro la diagnosi psicologica, l’orientamento, la prevenzione, il sostegno, la riabilitazione, è un’attività di esclusiva competenza del ruolo professionale dello psicologo (che avrà seguito a sua volta una formazione per counsellor). E ancora il counselling medico, prevedendo tra l’altro diagnosi fisica, prescrizione di farmaci, esami specialistici, ricoveri ecc. è di pertinenza esclusiva del ruolo professionale del medico (anche in questo caso che avrà seguito una formazione da counsellor)”.

Escluse dunque alcune specializzazioni del counselling che restano riservate a professioni protette (psicologi, medici, avvocati, assistenti sociali), tutti gli altri ambiti applicativi sono, oggi, alla portata di operatori di diverse matrici formative che abbiano seguito un adeguato percorso formativo.

Per completezza, val la pena ricordare che esistono ancora posizioni estreme come quella secondo cui “dal momento che il counselling implica una formazione post lauream  proprio per le difficoltà del compito che il counsellor si trova ad affrontare, necessitando di competenze relative, le lauree che per loro intrinseca specificità sono chiamate in causa non possono che essere la laurea in psicologia e la laurea in medicina per il back ground di riflessioni teorico-applicative sui concetti di salute e di malattia che contemplano (A. Di Fabio, 2003).

Recentemente un’associazione di psicologi avrebbe “segnalato” agli ordini professionali competenti alcune scuole di counselling che effettuano corsi di counselling consentendo anche a non psicologi di iscriversi. Ad essa ha risposto un’altra associazione di psicologi che etichetta tale iniziativa come “marcatamente corporativa e protezionista”. L’Ordine degli psicologi della Lombardia, ancora, si dice pronto a segnalare alla Procura “nuovi abusi della professione ad esempio per il counselling psicologico”, quando viene praticato da non laureati in psicologia e da non iscritti all’Ordine. Molta confusione e contraddizione, insomma.

Sembrano avere le idee più chiare, e senz’altro maggiore apertura nei confronti del counselling, gli psichiatri; forse perché sono stati proprio psichiatri i pionieri del counselling in Italia, in particolare M. Fulcheri ed E. Torre. E’ di E. Torre, inoltre, un’importante iniziativa, promossa da alcuni anni (anche nell’anno accademico corrente) presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale, a Novara. Si tratta di un “Corso di perfezionamento in counselling”, riservato a laureati in qualsiasi disciplina, comprese le lauree triennali e ai possessori di diploma universitario di qualsiasi disciplina. Lo scopo del corso è quello di “fornire nozioni teoriche, strumenti culturali e stimoli esperenziali che consentano loro di entrare in relazione più consapevolmente nelle situazioni che li vedono impegnati nell’attività do counsellor, e di offrire ai partecipanti l’opportunità di addestrarsi a cogliere il disagio psicologico e relazionale” . Il counselling viene definito come

“….una forma di relazione d’aiuto ….(che) permette di attivare le risorse cognitive ed emotivo-affettive attraverso le quali l’individuo valuta in un primo momento le problematiche da affrontare per poi avvicinarsi ed attingere ad una possibile soluzione….”

 

Vediamo, dunque, di richiamare i punti finora messi a fuoco e dai quali prenderemo le mosse per la successiva trattazione.

Il counselling:

-          è un processo relazionale tra counsellor e cliente, o clienti (individui, famiglie, gruppi o istituzioni). L’obiettivo del counselling è fornire ai clienti opportunità e sostegno per sviluppare le loro risorse e promuovere il loro benessere come individui e come membri della società affrontando specifiche difficoltà o momenti di crisi.

-          può rappresentare una forma di “specializzazione” ulteriore per alcune professioni “protette” (psicologica, medica, legale, sociale)

-          può operare nelle medesime aree di intervento di professioni protette, ma secondo metodi, utilizzando tecniche, e perseguendo obiettivi diversi.

-          potendo disporre di metodi e tecniche sue proprie, sarà possibile individuare un punto di snodo dove, alla competenza del counsellor, si potrà agganciare la competenza di altre professioni, dando al lavoro con il cliente una specifica ulteriore connotazione.

Il nostro intento è quello di focalizzarci su quel corpus di tecniche, che possano essere comuni a tutti gli interventi di counselling, e non essere ricondotte, soprattutto, alle aree professionali oggi normate.

 

Che cos’è il counselling

E’ un intervento finalizzato ad accompagnare il cliente in una presa di decisione; a guidarlo nell’analisi di una situazione psicosociale della quale desidera capire i termini; a fornirgli informazione/formazione quali strumenti operativi di intervento. Il tutto attraverso la valorizzazione delle informazioni e delle risorse, più in generale, delle quali è portatore.

L’intervento si sviluppa, di norma, attraverso tre fasi, la prima delle quali, quella dell’identificazione con la prospettiva del cliente, prevede l’adozione di tecniche che possono legittimamente essere impiegate da operatori di diversa matrice professionale.

La prima fase, infatti, ha come obiettivo primario la definizione di un contratto di lavoro condiviso da counsellor e cliente. Per la definizione del contratto è, peraltro, necessario che il counsellor acquisisca la prospettiva che il cliente ha di quel problema. Per riuscire ad acquisire tale prospettiva, è necessario che il counsellor si “spogli” del proprio abito mentale cognitivo ed emotivo per indossare – provvisoriamente – quello del cliente.

La seconda fase, invece, implica una operazione di smontaggio dei moduli che compongono la struttura del problema portato ed un rimontaggio degli stessi moduli secondo schemi diversi che danno luogo ad una struttura alternativa che, ora, non ha più l’identità di un problema, oppure che ha l’identità di un problema risolvibile direttamente dal cliente, oppure da lui con il contributo del counsellor.

La terza fase è quella che prevede un intervento più diretto e operativo del counsellor, intervento senz’altro finalizzato a coadiuvare il cliente nella soluzione del problema, così come è stato riformulato dal lavoro della seconda fase. E’ questa la fase in cui, se la “problematica” portata non si è risolta, e se la natura del caso lo richiede, il counsellor potrà ricorrere alla propria specifica professionalità (ulteriore rispetto a quella di counsellor).

Da quanto sopra rilevato possiamo senz’altro convenire che l’intervento di counselling ha una matrice fortemente contrattuale. L’accordo iniziale sul quale si avvia il lavoro, può venire via via ricontrattualizzato in funzione dei nuovi elementi che emergono nel corso della seduta, ma anche a seconda delle nuove prospettive che il cliente matura rispetto al problema portato.

Per quanto riguarda la durata del rapporto di counselling, possiamo dire che essa è significativamente condizionata dalla predetta natura contrattuale. La presa di decisione rispetto ad una scelta possibile, la comprensione di un contesto psicosociale, una formazione mirata alla gestione di una situazione specifica, difficilmente possono comportare più di 4/6 incontri. Naturalmente, una volta conseguito l’obiettivo da contratto, nulla impedisce che il rapporto si rinnovi con riferimento ad obiettivi nuovi.

Tuttavia, in molti casi il rapporto si esaurisce nell’unico incontro.

La natura contrattuale e la durata della relazione non sono altro che conseguenze del metodo usato nella relazione di counselling, che consiste nell’attualizzazione, nello sviluppo e nella finalizzazione delle risorse emotive e/o cognitive del cliente. Compito del counsellor è, quindi, essenzialmente quello di favorire la produzione da parte del cliente di elementi utili alla soluzione del problema e di condividerne l’elaborazione in vista del raggiungimento di un obiettivo contrattato. Compito non facile del counsellor sarà quello di non condizionare in alcun modo tale produzione, essendo di importanza fondamentale l’ordine di priorità che il cliente medesimo adotterà per la considerazione di tali elementi prodotti.

E’ evidente come – in una singola seduta, per esempio – sia importante preoccuparsi di favorire l’attualizzazione delle informazioni più rilevanti dal suo punto di vista, piuttosto che porsi nell’ottica degli investigatori secondo il  quadro di riferimento teorico del counsellor.

La matrice strettamente contrattuale della relazione in tutte le sue fasi implica la necessità di  basarsi sul dichiarato del cliente, anche se ci appare poco credibile. Nel momento in cui il problema si dimostrerà “falso” si procederà ad una nuova contrattualizzazione, e così via, fino ad arrivare al problema vero sul quale approfondire l’intervento.

 

Ruolo e competenze del counsellor

L’intervento di counselling può essere effettuato da professionisti di diversa formazione. I professionisti che più sovente instaurano relazioni di counselling sono gli assistenti sociali, gli infermieri, i consulenti famigliari o di coppia, i consulenti aziendali, gli psicologi, gli psicoterapeuti, i consulenti spirituali, gli avvocati. Recentemente, come detto precedentemente, soprattutto per iniziativa di alcuni movimenti di opinione dell’area professionale psicologica, si è  – in particolare – dibattuto sulla distinzione tra le competenze dello psicologo e quelle del counsellor (non pare, diversamente, che altri professionisti, quali gli assistenti sociali o gli avvocati, per esempio, si siano posti il medesimo problema). Val la pena, quindi, di sgombrare subito il campo da ogni dubbio in merito. La differenza, piuttosto netta, riguarda essenzialmente le tecniche utilizzate dalle due categorie di professionisti. A questo proposito è molto più agevole definire quali sono gli spazi di intervento che la legge riserva agli psicologi.

-         Il Tribunale di Milano (il 28 Maggio 2003) ha tentato di tracciare una prima linea concreta per la definizione dell’ambito operativo degli psicologi (non psicoterapeuti). Dice, tra l’altro, la sentenza che si tratta di diagnosi psicologica “il riconoscimento dei segni, assunti come indizi per la valutazione di facoltà specifiche della persona o del quadro globale della personalità”.

In estrema sintesi possiamo dire che solo lo psicologo è autorizzato ad effettuare diagnosi psicologiche, ed interventi, progettati sulla base di una diagnosi, direttamente finalizzati ad apportare mutamenti al quadro generale della personalità del cliente, mentre solo lo psicoterapeuta può effettuare interventi direttamente finalizzati a “guarire” le componenti patologiche identificate dalla predetta diagnosi.

Il termine “direttamente” ha un ruolo strategico in quanto definisce l’intenzionalità dell’operatore di ottenere l’obiettivo del cambiamento in una certa direzione. Evidentemente, non potrebbe certo essere contestato l’esercizio abusivo della professione, per esempio, ad un maestro elementare che – con il suo insegnamento – favorisce il superamento di un handicap psicologico di un proprio allievo. Neppure si potrà denunciare la fanciulla che – con il proprio amore – farà dissolvere quasi per incanto tanti problemi psicologici del proprio compagno innamorato!

 

Teoria e tecniche del counselling       

La gestione di una relazione professionale, consapevolmente finalizzata ad un obiettivo di cambiamento, implica – anzi presuppone – che l’operatore legga lo sviluppo della relazione medesima attraverso paradigmi teorici di riferimento, e che collabori allo sviluppo della relazione attivando le tecniche che egli ritiene siano funzionali al progetto che ha in mente.

Il lavoro che abbiamo sviluppato in questi ultimi quattro/cinque anni è stato indirizzato, in parte a focalizzare modelli teorici di vari campi del sapere che fossero funzionali al nostro lavoro, ma soprattutto a individuare strumenti di intervento sul colloquio che rappresentassero un corpus tecnico completo per chi intendesse lavorare sulla relazione di aiuto senza voler ricorrere – sul piano dell’intervento – all’uso di strumenti pertinenti a  professionalità “protette” quali, specialmente, quella psicologica. E ciò proprio per la convinzione che la relazione di counselling sia una preziosa risorsa delle professioni di aiuto e che debba, pertanto, essere accessibile al maggior numero di tipologie professionali 

Per quanto riguarda i modelli teorici, il nostro approccio si rifà alla linguistica strutturale di Ferdinand de Saussure, alla logica, alla retorica e alla dialettica, con particolare riferimento al sillogismo aristotelico, alla psicologia, e particolarmente alla scuola analitico transazionale di Eric Berne, mentre, sul piano delle tecniche, si rifà soprattutto all’approccio sviluppato dall’Accademia delle tecniche conversazionali, di Giampaolo Lai,

Per quanto riguarda l’inquadramento teorico, in particolare, ci è sembrato utile il richiamo della nozione di linguistica e, in particolare, di lingua, formulate da Saussure, secondo il quale la lingua è la parte sociale del linguaggio, esterna all’individuo, che da solo non può né crearla, né modificarla: essa esiste solo in virtù di una sorta di contratto stretto tra i membri di una comunità.

Molto spesso la nozione di contratto ritorna nel nostro lavoro.

Richiamiamo, inoltre, la nozione di segno, secondo la quale esso è un’entità a due facce: il significante e il significato, dove il primo sta per un’immagine acustica o visiva (parola detta o scritta) e il secondo per un concetto. In altre parole diciamo che il segno è una relazione tra un suono e un senso. Ed è proprio la relazione di significazione tra significante e significato, che sta al centro del lavoro del counsellor, che si impegnerà in quel continuo lavoro che Lai definisce di negoziazione con il cliente.

Nella prospettiva della linguistica strutturale, teniamo in conto che il parlante, nel momento in cui si accinge ad una produzione linguistica si preoccupa di selezionare tra i paradigmi linguistici di cui dispone gli elementi necessari a comporre un sintagma di senso, inteso come combinazione di due o più elementi linguistici dotata di valore sintattico autonomo, compiuto.

A volte, specie nel colloquio di ascolto, l’operatore si propone esclusivamente di mantenere una relazione conversazionale sul piano del significante. Come dire che – quasi – non  è il concetto, il senso, ad essere oggetto primario di attenzione, ma piuttosto il suono, l’immagine acustica.

Può accadere che un sintagma, una frase sia assolutamente oscura sul piano delle relazioni paradigmatiche e quindi del senso.

Per esempio:

Salto da un problema all’altro senza riuscire a trovare il bandolo della matassa”

Come si può vedere a fronte di tale affermazione, io posso intraprendere due direzioni: quella di condividere con il mio interlocutore un senso, e cioè andare a stipulare con lui un accordo sul piano paradigmatico, in altre parole cercare di comprendere cosa intendesse dire con quella frase. Allora potrei intervenire dicendo, per esempio:

“Non credo di capire cosa intenda con queste parole”

Oppure posso decidere di intervenire semplicemente per mantenere aperta la conversazione con lui. Dicendo, ad esempio:

“cerca e non trova”

Mentre nel secondo caso, probabilmente, il cliente non modificherà significativamente la sua direzione conversazionale, nel primo caso è possibile che risponda con un intervento analogo al seguente

“Voglio dire che affronto i problemi dei costi di produzione, ma poi mi sembra che sia un problema di proventi…… Allora cerco di spingere sulle vendite…. e subito mi viene in mente che sia un problema di costo del personale, insomma non ne vengo fuori….”

Come conversazionalisti, oggi diciamo che il counsellor ha l’obiettivo priortario di riuscire a ricondurre un modo di parlare “opaco” del proprio interlocutore ad una modalità senz’altro “trasparente”

Ma cosa intendiamo per espressione “opaca” e “trasparente”?

Consideriamo opaca una proposizione quando non è facile a un parlante esperto nella lingua in questione accedere immediatamente al suo senso. In altri termini, quando mediamente appare oscura e, cioè, quando i termini utilizzati sono polisemici.

Per esempio, se io dico “E’ molto bravo a contar storie” si può essere incerti se l’uomo sia un bravo intrattenitore oppure un gran bugiardo.

Giampaolo Lai, nel corso degli scambi di mail preparatori di questa giornata, ci ha fornito un chiaro quadro di riferimento per la lettura della relazione tra Opacità e Trasparenza, e quindi per il percorso che il counsellor deve seguire al fine di ricondurre un sintagma Opaco alla Trasparenza, in particolare facendo riferimento al concetto di Universo del discorso.. Dice Lai “L’universo del discorso è una classe (mettiamo che sia W) che contiene tutti gli oggetti denotati da un sintagma o da una frase. Se la classe contiene un solo oggetto, allora tra l’oggetto e la frase la relazione è biunivoca, monosemia, e quindi la frase è Trasparente. Se la classe contiene più oggetti, il sintagma o la frase sono polisemici e quindi opachi. Se la classe non contiene alcun oggetto, il sintagma o la frase sono vuoti, cioè senza significato”

Il lavoro che il counsellor svolge per rendere trasparenti le frasi del cliente è direttamente funzionale a rendere possibile la negoziazione della validità, per entrambi gli interlocutori, delle premesse di sillogismi che permetteranno  di trattare in chiave logica la problematica che il cliente ci ha posto.

Lo schema del sillogismo può essere considerato un riferimento costante nella scelta e nell’impiego delle tecniche del counsellor. Esse, infatti, vengono finalizzate a definire, con il cliente, quali sono le premesse alle quali il suo problema, o sotto-problema, può essere ricondotto. Una volta definite tali premesse, il passo successivo sarà quello di accompagnare il cliente a trarre le conseguenze.

 

Per esempio, il seguente problema:

Paolo: “Sono molto incerto se abbandonare questa linea di prodotto o mantenerla. Questo mercato è molto prestigioso, ma il margine di utile è molto basso e – quindi – rischioso per l’azienda”

Può essere ricondotto al seguente sillogismo:

Nell’universo di Paolo:

            Premessa 1: SE “Tutte le linee di prodotto a basso margine vanno evitate”

            Premessa 2:   E “Questa linea di prodotto è a basso margine”

            Colclusione:       “Questa linea di prodotto va evitata”

Come si vede, l’universo di riferimento è quello di Paolo. Il metodo del counsellor implica che solo Paolo sia nelle condizioni di validare le premesse del sillogismo. Pertanto compito del counsellor sarà solo quello di accompagnarlo in questo processo di validazione, quasi contrattando la definizione delle premesse che porteranno ad una conclusione, accettata da entrambi, sul piano della logica. Nell’esempio sopra riportato, e per come è stato posto il problema, con ogni probabilità sarebbe stato necessario quantomeno un altro passaggio logico propedeutico al precedente.  

Premessa 1: SE “Ogni forma di rilevante rischio per l’azienda va evitato”

            Premessa 2: E “I prodotti a basso margine sono un rischio rilevante per l’azienda”

            Conclusione:    “Le linee di prodotto a basso margine vanno evitate”

Come abbiamo detto, il metodo dell’intervento professionale di counselling implica che il counsellor attualizzi e valorizzi le competenze del cliente, affinché egli le utilizzi proficuamente per la gestione e/o soluzione del problema. Pertanto il counsellor si preoccuperà di essere il meno invasivo possibile dell’ambiente intrapsichico del suo interlocutore. Tanto che farà leva esclusivamente sulle sue competenze professionali e personali. Solo nel caso in cui le risorse del cliente non saranno idonee a gestire la situazione problematica, il counsellor, nella terza fase della relazione, attiverà le tecniche specifiche del proprio approccio professionale, oppure invierà il cliente al professionista specificamente competente. Questo significa, soprattutto, che non esiste un counselling psicologico, o filosofico, o giuridico, o psicoterapico, o religioso, o sociosanitario, o aziendale, o sportivo, ecc., ma esiste una sola forma di counselling, gestita da professionisti di formazione diversa che, volta per volta, se il cliente non riesce a gestire il proprio problema, affiancheranno, alla relazione di counselling, una relazione diversa, coerente con la propria professionalità, oppure lo invieranno ad altro professionista specializzato.

La conversazione, pertanto, è il “luogo privilegiato” di applicazione delle tecniche del counselling, che prendono le mosse dal testo e al testo ritornano, con l’unico, concreto, obiettivo di promuoverne la trasparenza.

Il nostro processo di intervento è molto ben rappresentato dall’espressione di “interpretazione verbale continua”, richiamata da Giampaolo Lai nel suo articolo (Lai, 2006) sul “Concetto di ‘attività interpretativa continua’ di Pier Francesco Galli”. Per interpretazione verbale continua, intendiamo il percorso che il counsellor, attraverso l’applicazione delle proprie tecniche, promuove costantemente tra significante e significato. Chiarisce Lai: “…non è più tanto in causa il referente, il fatto di cui si parla, quanto il significante, ciò che si dice, e la sua relazione di significazione con il significato….. Mentre, prima, nel versante della comunicazione, l’ascoltatore prendeva atto di un fatto, ora l’ascoltatore, nel versante della teoria della significazione, entra in una negoziazione con il mittente a proposito del suo significante”. E ancora sottolineando un principio che, se ricondotto al lavoro del counsellor, è irrinunciabile “…se anche restituisce significanti alle produzioni dei pazienti, i quali [significanti] possono fino ad un certo punto essere indipendenti dal significato veicolato – lo scopo conclusivo dell’attività interpretativa continua è la identificazione di significati, il raggiungimento di un referente, l’ancoraggio al fatto, all’oggetto extra-testuale”.

 

Accordi verbali su determinazioni

Il counselor lavora su risorse, competenze ed informazioni del cliente. Pertanto, ogni determinazione funzionale allo stato di avanzamento del lavoro svolto insieme, dev’essere condivisa dal counselor e dal cliente. Infatti, le determinazioni di significato condiviso, più importanti, sono poste in relazione tra loro, dalla Conclusione di un sillogismo del quale vanno a costituire le Premesse. Il colloquio del counsellor con il cliente, pertanto, è un prodotto verbale al quale le parti, quando le cose vanno bene, assegnano un significato condiviso.

Proprio la possibilità di definire un accordo sul significato delle frasi consentirà la trasformazione di un testo da Opaco a Trasparente. E, nella nostra esperienza, per la maggioranza dei casi, il rendere Trasparente il testo Opaco del cliente è sufficiente a risolvere le impasses per le quali i clienti (per assunto di partenza non portatori di psicopatologie) si rivolgono al counselor.

 

La scelta delle tecniche è orientata dal testo anziché dal soggetto.

Nel lavoro del counsellor, il cliente non viene considerato come ‘universo emotivo e cognitivo’ nel quale intervenire, quanto piuttosto come riferimento per la definizione di un ambito di lavoro comune e di uno o più obiettivi da raggiungere, nonchè per la conferma/disconferma dei progressi del lavoro via via svolto ‘nell’universo del discorso’ . E’ come se il counselor e il cliente si trasferissero continuamente, insieme, dal mondo w1, il mondo contrattuale, al mondo w2, il mondo del discorso impegnandosi – in w1 –  a negoziare significati dei significanti prodotti in w2.