La Critica...
Un «romanzo per adulti»
di Davide Paolone
La sera del 15 gennaio scorso si è svolta nell'aula
consiliare del comune di Selargius la presentazione al pubblico del
libro di Francesco Pilloni dal titolo A unus a unus appillant is
isteddus, ovvero Se una sera a maggio (ti scopri a contar le
stelle…). Non è un doppio titolo, ma la scelta da parte dell'autore
di farne due edizioni, una in sardo campidanese e l'altra in italiano,
il che introduce ulteriori elementi di discussione.
BISACCIA ERA FELICE
Romanzo per adulti, cita il sottotitolo dell'edizione in italiano;
Contus de candu su pani fiat pani e su mundu prus piticu, quello
dell'edizione in sardo campidanese. Ed in effetti, unendo i due sottotitoli,
questi sintetizzano efficacemente lo spirito dell'opera prodotta dall'autore.
La storia è una storia semplice ma non banale, anzi a volte sconcertante
per la profondità nascosta dallo stile sintetico dello scrivere dell'autore.
Basti pensare che il romanzo inizia con l'omicidio di un uomo, Bisaccia,
la cui unica colpa è quella, da povero quale è, di aver messo in cinta
la figlia di una delle famiglie ricche del paese in cui vive, e che
ciò nonostante si sente felice poco prima di morire.
Subito ci si chiede: quanto vale una vita? Quanto valeva in passato
e quanto oggi?
La storia è semplice, dicevo, e dietro la sua semplicità si cela la
cronaca di un piccolo grande mondo distante da noi di una quarantina
d'anni ma a noi così vicino per il solo fatto che i protagonisti sono
uomini e donne che vivono in una comunità non per scelta ma per caso,
quindi costretti a relazionarsi con essa indipendentemente dalla propria
volontà. E Pilloni penetra in ogni singolo personaggio rendendo chiari
quei meccanismi di funzionamento della comunità, in modo da rendere
leggibile i fenomeni sociologici che in maniera quasi innata sono stati
presenti nella realtà sarda e tuttora lo sono. Ad esempio, egli ci fa
notare come l'uso del soprannome o del cognome si rivelasse un marchio
della comunità sull'individuo, in quanto il primo era utilizzato per
indicare una persona che faceva parte del popolino ed il secondo per
indicare una persona ricca od, al più, il rappresentante dello Stato
nell'isola.
Ma il tema più visibile e che più risulta approfondito è quello del
tabù del sesso nel recente passato delle comunità sarde: psicologia
latente che è fatta rivivere nella mente del lettore attraverso le debolezze
e le virtù dei vari personaggi. Questo, quasi ad affermare che il sesso,
ovvero la diversità e le reciproche relazioni tra l'universo maschile
e quello femminile, assieme al loro continuo evolversi, costituisce
l'unico vero motore della vita umana, sia essa antica che moderna.
Rimane invece sospeso lungo la maggior parte del percorso narrativo
il dualismo ancestrale tra Scelta e Caso, tra il fatto voluto dall'Uomo
ed il fatto realizzato dal Caso. Ma è il Caso che ci vuole qui sulla
Terra, o se volete… è Dio.
Ed è proprio Dio il filo conduttore di tutta la storia nel libro, ma
il Dio atipico, fatto ad immagine e somiglianza della gente di quella
comunità e, per forza di cose, a volte grossolano e a volte fine, a
volte troppo buono e a volte più cinico e spietato di quanto si possa
immaginare.
Alla fine del romanzo questo dualismo sarà sciolto prendendo forma
nella realizzazione di un umano desiderio, manifestandosi con una vendetta
dal sapore vagamente divino che si ispira più agli atti mitologici degli
dei dell'Olimpo che non a quelli del Dio di ispirazione cristiana, in
cui il perdono è l'elemento fondamentale, e mettendo così in luce la
parte pagana che ancora fa parte del popolo sardo: il nostro scetticismo.
In fondo in fondo, la più grande differenza che esiste tra un sardo
e un italiano è la diversa interpretazione filosofica-religiosa che
darebbero ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni.
POSTILLA PROPEDEUTICA
Romanzo opera prima dell'autore, dopo una breve presentazione fatta
dal giornalista RAI Ottavio Olita, l'evento è stato autorevolmente sottolineato
dalla presenza e dagli interventi di Francesco Masala, Faustino Onnis,
Paolo Pillonca, Placido Cherchi, coordinati dal prof. Giovanni Lilliu,
che (non ce ne vogliano gli assenti) di sicuro rappresentano una buona
parte del gotha della cultura sarda.
Ognuno di questi è intervenuto esprimendosi con la propria lingua d'origine,
chi in sardo campidanese chi in sardo barbaricino chi in sardo logudorese,
contribuendo alla riuscita di una manifestazione che, nonostante possa
apparire assurdo, per un paio d'ore ha allontanato dai presenti la tentazione
di pensare d'essere capitati in un luogo dimenticato dal tempo di cui
bisogna avere diffidenza.
Infatti, quasi che questa sia stata accantonata dalla quotidianità
del nostro vivere giorno per giorno, i presenti si sono ritrovati immersi
in una strana atmosfera dovuta alla piacevole sensazione di provare
orgoglio per l'appartenere ad una stessa radice storica, radice storica
che, guarda caso, riaffiora in circostanze del genere indipendentemente
dalla propria volontà, come se per lungo tempo la si fosse offesa o
trascurata relegandola nel proprio intimo.
Ecco quindi la riflessione che, al di là dei contenuti del romanzo,
mi è venuta spontanea fare e che vorrei proporre ai lettori dei Quaderni
di Quartucciu. La realtà quotidiana che ognuno di noi affronta, se si
è un po' attenti, ci fa rendere conto che sempre più tende ad “italianizzarci”,
questo con la motivazione istituzionale di renderci più uniti: come
a dire “più” italiani.
Ma è possibile sentirsi “più” italiani se questo significa appiattire
noi stessi? O addirittura negare le nostre origini? Le nostre intrinseche
differenze?
Se penso a quella sera di gennaio, mi sento di poter affermare che
quei sardi in sala si sono sentiti più uniti quando ci si è espressi
con le proprie lingue (seppur differenti l'una dall'altra) che quando
ci si è espressi con un'unica lingua, che per giunta è quella che ci
è stata imposta (ovvero l'italiano).
E allora: non potremmo sentirci “più” italiani se ognuno di noi conoscesse
la propria lingua e anche quella degli altri? Non potremmo sentirci
“più” italiani se ci sentissimo “più” sardi?
La verità, purtroppo, è che il più delle volte le nuove generazioni
sarde sono costrette ad esprimersi in italiano anziché in limba perché
altrimenti non riuscirebbero a capirsi nemmeno tra loro, visto che oramai
si sta perdendo tutto quel patrimonio linguistico che una volta era
sufficiente tramandare solo per via orale al fine di preservarlo nel
tempo.
Per questo oggi è necessario scrivere dei libri in limba se si vuole
salvaguardare questo patrimonio, che non è fatto di sole parole ma anche
di sentimenti, gioie, sofferenze, modi di vivere e di affrontare il
mondo circostante che sarebbe altrimenti esprimibile se non con la propria
lingua d'origine.
Come giustamente ha detto Francesco Masala col suo intervento a proposito
del romanzo: “La lingua italiana è una lingua non contadina ma borghese,
al contrario di quella sarda che però è senza dubbio più adatta per
raccontare il retroterra culturale dei sardi".
E si può affermare, nel caso di Francesco Pilloni, che la lingua dei
vinti è risultata più bella della lingua dei vincitori”.
Davide Paolone