Banner Pubblicitario
Quaderni di Quartucciu
Anno II - Numero 5 - Maggio 1998
 

 

La Critica...

Un «romanzo per adulti»
di Davide Paolone

La sera del 15 gennaio scorso si è svolta nell'aula consiliare del comune di Selargius la presentazione al pubblico del libro di Francesco Pilloni dal titolo A unus a unus appillant is isteddus, ovvero Se una sera a maggio (ti scopri a contar le stelle…). Non è un doppio titolo, ma la scelta da parte dell'autore di farne due edizioni, una in sardo campidanese e l'altra in italiano, il che introduce ulteriori elementi di discussione.


BISACCIA ERA FELICE

Romanzo per adulti, cita il sottotitolo dell'edizione in italiano; Contus de candu su pani fiat pani e su mundu prus piticu, quello dell'edizione in sardo campidanese. Ed in effetti, unendo i due sottotitoli, questi sintetizzano efficacemente lo spirito dell'opera prodotta dall'autore.

La storia è una storia semplice ma non banale, anzi a volte sconcertante per la profondità nascosta dallo stile sintetico dello scrivere dell'autore. Basti pensare che il romanzo inizia con l'omicidio di un uomo, Bisaccia, la cui unica colpa è quella, da povero quale è, di aver messo in cinta la figlia di una delle famiglie ricche del paese in cui vive, e che ciò nonostante si sente felice poco prima di morire.

Subito ci si chiede: quanto vale una vita? Quanto valeva in passato e quanto oggi?

La storia è semplice, dicevo, e dietro la sua semplicità si cela la cronaca di un piccolo grande mondo distante da noi di una quarantina d'anni ma a noi così vicino per il solo fatto che i protagonisti sono uomini e donne che vivono in una comunità non per scelta ma per caso, quindi costretti a relazionarsi con essa indipendentemente dalla propria volontà. E Pilloni penetra in ogni singolo personaggio rendendo chiari quei meccanismi di funzionamento della comunità, in modo da rendere leggibile i fenomeni sociologici che in maniera quasi innata sono stati presenti nella realtà sarda e tuttora lo sono. Ad esempio, egli ci fa notare come l'uso del soprannome o del cognome si rivelasse un marchio della comunità sull'individuo, in quanto il primo era utilizzato per indicare una persona che faceva parte del popolino ed il secondo per indicare una persona ricca od, al più, il rappresentante dello Stato nell'isola.

Ma il tema più visibile e che più risulta approfondito è quello del tabù del sesso nel recente passato delle comunità sarde: psicologia latente che è fatta rivivere nella mente del lettore attraverso le debolezze e le virtù dei vari personaggi. Questo, quasi ad affermare che il sesso, ovvero la diversità e le reciproche relazioni tra l'universo maschile e quello femminile, assieme al loro continuo evolversi, costituisce l'unico vero motore della vita umana, sia essa antica che moderna.

Rimane invece sospeso lungo la maggior parte del percorso narrativo il dualismo ancestrale tra Scelta e Caso, tra il fatto voluto dall'Uomo ed il fatto realizzato dal Caso. Ma è il Caso che ci vuole qui sulla Terra, o se volete… è Dio.

Ed è proprio Dio il filo conduttore di tutta la storia nel libro, ma il Dio atipico, fatto ad immagine e somiglianza della gente di quella comunità e, per forza di cose, a volte grossolano e a volte fine, a volte troppo buono e a volte più cinico e spietato di quanto si possa immaginare.

Alla fine del romanzo questo dualismo sarà sciolto prendendo forma nella realizzazione di un umano desiderio, manifestandosi con una vendetta dal sapore vagamente divino che si ispira più agli atti mitologici degli dei dell'Olimpo che non a quelli del Dio di ispirazione cristiana, in cui il perdono è l'elemento fondamentale, e mettendo così in luce la parte pagana che ancora fa parte del popolo sardo: il nostro scetticismo.

In fondo in fondo, la più grande differenza che esiste tra un sardo e un italiano è la diversa interpretazione filosofica-religiosa che darebbero ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni.


POSTILLA PROPEDEUTICA

Romanzo opera prima dell'autore, dopo una breve presentazione fatta dal giornalista RAI Ottavio Olita, l'evento è stato autorevolmente sottolineato dalla presenza e dagli interventi di Francesco Masala, Faustino Onnis, Paolo Pillonca, Placido Cherchi, coordinati dal prof. Giovanni Lilliu, che (non ce ne vogliano gli assenti) di sicuro rappresentano una buona parte del gotha della cultura sarda.

Ognuno di questi è intervenuto esprimendosi con la propria lingua d'origine, chi in sardo campidanese chi in sardo barbaricino chi in sardo logudorese, contribuendo alla riuscita di una manifestazione che, nonostante possa apparire assurdo, per un paio d'ore ha allontanato dai presenti la tentazione di pensare d'essere capitati in un luogo dimenticato dal tempo di cui bisogna avere diffidenza.

Infatti, quasi che questa sia stata accantonata dalla quotidianità del nostro vivere giorno per giorno, i presenti si sono ritrovati immersi in una strana atmosfera dovuta alla piacevole sensazione di provare orgoglio per l'appartenere ad una stessa radice storica, radice storica che, guarda caso, riaffiora in circostanze del genere indipendentemente dalla propria volontà, come se per lungo tempo la si fosse offesa o trascurata relegandola nel proprio intimo.

Ecco quindi la riflessione che, al di là dei contenuti del romanzo, mi è venuta spontanea fare e che vorrei proporre ai lettori dei Quaderni di Quartucciu. La realtà quotidiana che ognuno di noi affronta, se si è un po' attenti, ci fa rendere conto che sempre più tende ad “italianizzarci”, questo con la motivazione istituzionale di renderci più uniti: come a dire “più” italiani.

Ma è possibile sentirsi “più” italiani se questo significa appiattire noi stessi? O addirittura negare le nostre origini? Le nostre intrinseche differenze?

Se penso a quella sera di gennaio, mi sento di poter affermare che quei sardi in sala si sono sentiti più uniti quando ci si è espressi con le proprie lingue (seppur differenti l'una dall'altra) che quando ci si è espressi con un'unica lingua, che per giunta è quella che ci è stata imposta (ovvero l'italiano).

E allora: non potremmo sentirci “più” italiani se ognuno di noi conoscesse la propria lingua e anche quella degli altri? Non potremmo sentirci “più” italiani se ci sentissimo “più” sardi?

La verità, purtroppo, è che il più delle volte le nuove generazioni sarde sono costrette ad esprimersi in italiano anziché in limba perché altrimenti non riuscirebbero a capirsi nemmeno tra loro, visto che oramai si sta perdendo tutto quel patrimonio linguistico che una volta era sufficiente tramandare solo per via orale al fine di preservarlo nel tempo.

Per questo oggi è necessario scrivere dei libri in limba se si vuole salvaguardare questo patrimonio, che non è fatto di sole parole ma anche di sentimenti, gioie, sofferenze, modi di vivere e di affrontare il mondo circostante che sarebbe altrimenti esprimibile se non con la propria lingua d'origine.

Come giustamente ha detto Francesco Masala col suo intervento a proposito del romanzo: “La lingua italiana è una lingua non contadina ma borghese, al contrario di quella sarda che però è senza dubbio più adatta per raccontare il retroterra culturale dei sardi".

E si può affermare, nel caso di Francesco Pilloni, che la lingua dei vinti è risultata più bella della lingua dei vincitori”.

Davide Paolone

 


 

C'era una volta...
di Salvatore Vargiu

Un mese fa si è svolto a Quartucciu un concorso di composizione letteraria per i ragazzi delle scuole elementari. Abbiamo il piacere di ospitare su questa pagina l'intervento di Salvatore Vargiu alla manifestazione di premiazione svoltasi a Casa Angioni.

Già leggendo i primi tre o quattro elaborati ho notato subito l'insistenza su certi temi e certe ambientazioni che mi sembrano poco aderenti alla nostra realtà.

Sì il bando chiedeva: “Un legame fascinoso tra realtà e fantasia”, ma questa fantasia l'avrei voluta trovare più radicata, arrexinada, nella nostra storia più vera e, diciamo, anche in quella più sofferta.

Ho provato a fare una sommaria statistica. Su 103 elaborati: 26 sono ambientati nel nuragico e nella tomba dei giganti Sa Dom''e s'Orcu; 14 ambientati nella Casa Angioni, o parlano di questa casa e, quasi tutti questi, pretesto per apparizioni di fantasmi; 13 parlano dell'alluvione del 1889 ma pochi di questi di ambientazione credibile; parecchi pretesto per fiabe con cani, supercani, gattini e topolini; una decina, per lo più poesie, vanno sul paesistico; 3 o 4 racconti realistici, con poca fantasia e solo qualcuno ben ambientato.

In 20 racconti figurano orchi o giganti, in 10 figurano maghi e streghe, in 8 filtri magici e fatture, in 6 figurano Janas o fatine, in 5 racconti figurano fantasmi, in 4 tesori. Si parla più di re e principesse che di pastori o contadini (3 re, 2 principesse, 1 pastore). In 3 elaborati figurano cani, in altri 3 topi, in 2 gatti. Figurano: scoiattoli (in 1), un elefante, un serpente a sonagli, lupi, belve feroci, pelli di foca bianca, sacco di pelle di camoscio.

Oh: tutto può essere. Però, vediamo che a Quartucciu non risulta un asinello. Cun totu is molas, molinus e carretoneddus a burricu ki nci fianta. No, un burrikeddu, vi figura: ma solo come nome di un mago.

Un giogo di buoi al tempo dell'alluvione? No. Però, nell''89, 1889, la grandine ha rotto i cristalli delle auto. Sì, a manovella. Macchine, che comunque, a Quartucciu non c'erano neppure 50 anni dopo, nel 1939.

Insomma, voglio dire che mi sarebbe piaciuta una maggiore aderenza alla nostra realtà. Il che non significa voler vedere scritti veristi o realisti senza fantasia, ma fantasia ambientata e radicata sul nostro luogo e sulla nostra storia. Infatti i racconti migliori e più inventivi mi sembrano quelli più radicati, mentre quelli meno originali alla fine risultano quelli che la nostra storia e il nostro habitat lo prendono a pretesto per sbizzarrirsi in luoghi comuni e risaputi di fumetti, cartoni altre letture. Insomma, mondo televisivo de atru logu, de donnia logu e... de nisçunu logu.

Non la prendano a male i ragazzi scrittori, perché hanno fatto ciascuno del loro meglio e con risultati mediamente buoni. Il mio ragionamento è su Quartucciu e su noi cuartuçaius.

Credo che un buon racconto ben ancorato storicamente e geograficamente, per quanto fantastico, si regga da se, e possa assumere significati per l'oggi aperto al domani. E infatti tra i racconti, diciamo “fantasiosi”, ne troviamo 11 dove si giustifica l'irrealtà dei fatti con un sogno. Questo, credo possa significare che parecchi narratori in erba siano più legati al cosiddetto principio di realtà che al reale con capacità di trascenderlo.

Potrebbero chiedermi se questi scritti sembrano di ragazzi cuartuçaius. Sì, e direi che gli elaborati lo rispecchiano proprio bene.

Ed è questo il problema che io da cuartuçaiu sento molto: ca nosu cuartuçaius, sembra che siamo talmente poco radicati nella realtà e nella storia del nostro paese, che forse non amiamo per quello che è stato veramente. E questo lo trasmettiamo, forse anche inconsciamente, ai nostri ragazzi. Tant'è vero che anche in libri stampati su Quartucciu, figuranta pagu, su ludu e is piçokeddusu scurtzus.

Siamo molto orgogliosi di aver nobilitato questa Casa con una cosmesi miliardaria. Ci basta conservare la tomba dei giganti. Chiamare città il paese.Basta. - Grazie.

Salvatore Vargiu


  Pagina Precedente   Pagina Successiva