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Quaderni di Quartucciu
Anno II - Numero 6 - Luglio 1998
 

 

La Critica...

C'era una volta... 2
di Davide Paolone

Cultura – Complesso di cognizioni, tradizioni, procedimenti tecnici, tipi di comportamento e simili, trasmessi e usati sistematicamente, caratteristico di un dato gruppo sociale, o di un popolo, o di un gruppo di popoli, o dell’intera umanità ( dal: Vocabolario della lingua italiana, Nicola Zingarelli, X edizione).

Quando mi fu chiesto di collaborare alla redazione di Quaderni di Quartucciu, accettai con entusiasmo l’invito rivoltomi con la convinzione che il mio contributo potesse servire a risvegliare un certo interesse su quelle tematiche che, generalmente, passano in terzo se non addirittura in quarto ordine rispetto a quelle che siamo abituati a sorbirci quotidianamente.

Gli argomenti di cronaca, attualità, politica, istituzioni, riempiono le pagine dei giornali insieme al chiacchiericcio televisivo contribuendo a rendere invisibile quel minimo comune denominatore da cui hanno origine: la Cultura (si, proprio quella con la “c” maiuscola). Non di meno le tematiche ad essa attinenti vengono sempre relegate nelle ultime pagine di giornali, riviste e quant’altro, dando l’impressione che essa costituisca un argomento fatto per pochi eletti e di difficile comprensione.

E’ mia convinzione che questo accade perché i soggetti preposti alla informazione e alla comunicazione si assoggettano molto facilmente alle cosiddette “leggi di mercato”, risultando obbligati a “strillare” i fatti con uno stile scandalistico anche quando questo, talvolta, non è giustificato dai contenuti.

Ma per fortuna le persone non solo guardano la televisione o leggono i giornali; hanno cose ben più importanti da fare: lavorano, si occupano delle proprie famiglie, si spostano da una parte all’altra della loro città, ogni tanto vanno al mercato, guardano, osservano, comprano, talora cercano di distrarsi dai problemi cercando di divertirsi in compagnia e, strano ma vero, allo stesso tempo parlano, comunicano, esprimono sentimenti, amano, odiano, sorridono, piangono, fanno dei loro ricordi il senso della propria vita e di riflesso quella degli altri.

Da tutto ciò ne deriva che essi hanno un comportamento ben distinto, hanno dentro di sé cognizioni ereditate dall’educazione e dal vivere in una specifica comunità ed involontariamente si influenzano vicendevolmente.

E questa, cari lettori, è la Cultura: quella che ogni società, volente o nolente, per antonomasia ha in sé.

Ho letto, spero in compagnia di tanti altri lettori, l’intervento di Salvatore Vargiu sul numero precedente di questo giornale, e vi ho trovato un notevole contributo in tal senso.

Quando ho scelto di interessarmi di Cultura per questo giornale, l’ho fatto limitandomi a scrivere delle recensioni di libri scritti da autori sardi con la speranza che, insieme a qualche lettore benevolo nei miei confronti, potessi imparare a cogliere nei segni del vivere quotidiano (del passato o del presente) qualcosa capace di diventare memoria storica; ovvero, radici dalle quali attingere valori e principi ai quali potersi ispirare vista l’odierna crisi dell’etica morale.

Questo perché la mia generazione (classe ’67 e dintorni) non ha avuto la fortuna di ereditare dalla propria comunità quel “complesso di cognizioni, tradizioni, ecc. ecc.” che invece altri prima di me hanno ereditato. O meglio, mi ritrovo ad avere un certo bagaglio culturale prodotto dalle istituzioni e dai mezzi di informazione, questo si, ma totalmente privo di qualunque riferimento al luogo in cui vivo.

In primis la mia lingua, composta da mezze battute in sardo ed un mare di italiano. Per questo motivo interpreto l’intervento di Salvatore Vargiu come un campanello d’allarme per ciò che sta accadendo in tutte quelle comunità come Quartucciu, in cui si sta rischiando di perdere la propria memoria storica.

E questo è un fatto grave, perché una volta che la si è persa si è perso il motivo per il quale la gente dovrebbe socializzare ed evitare che il proprio luogo di insediamento diventi un semplice luogo dormitorio. Il concorso letterario cui si è fatto riferimento nel numero precedente (n.d.r.: articolo “Cera una volta…”), ha messo in luce che la stragrande maggioranza dei ragazzi non conosce la storia della propria comunità. Lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere anche se il concorso si fosse svolto in altre realtà urbane simili a Quartucciu.

Ciò significa che, in generale, si è inceppato un pezzo dell’ingranaggio preposto alla trasmissione dei valori culturali tra le generazioni precedenti e quelle nuove. Ma vuol dire anche che i genitori non riescono più a trasmettere ai figli la storia che si portano appresso. Perché?

Io credo che questo sia il risultato di una serie di fattori concomitanti.

Innanzitutto, decenni di bombardamento mass-mediale (pensiamo alla TV) che ha favorito la crescita di una monocultura (la cultura “ufficiale”) a discapito della diversità di culture, tendendo così a massificare una serie di comportamenti sociali in sostituzione di altri. In seconda battuta, le istituzioni hanno contribuito ad andare verso questa direzione. Basti pensare che nelle scuole, fino a poco tempo fa, gli alunni erano severamente proibiti (pena “bacchettate”) di esprimersi in limba e studiavano la storia d’Italia senza avere la possibilità di conoscere quella della Sardegna (proviamo a chiederci quanti di noi sanno chi era Eleonora d’Arborea).

Se a queste considerazioni aggiungiamo il fatto che la cultura sarda si è praticamente tramandata fino ai giorni nostri quasi esclusivamente solo per via orale, si può capire come oggi sia difficile trovare nei giovani ragazzi quella memoria storica che accomunava i ragazzi di ieri.

Esaminando il solo campo della Letteratura ci rendiamo conto che, a parte rare eccezioni, il passaggio dal mezzo orale (cioè dal parlare in sardo) al mezzo scritto (allo scrivere in sardo) lo stiamo vivendo con le alterne esperienze letterarie degli ultimi venti-trent’anni. Una miseria rispetto alla nostra storia plurimillenaria, poca roba se pensiamo che la Divina Commedia fu scritta in volgo fiorentino circa 700 anni fa e che Cielo d’Alcamo poco prima scriveva le sue poesie in siciliano.

Capisco perché Vargiu parla di Casa Angioni come di una cosmesi miliardaria. Egli, inconsapevolmente, ha voluto solo affermare un principio generale: è inutile costruire una casa se dentro non ci va ad abitare nessuno. Nel caso specifico: è inutile aver restaurato Casa Angioni al fine di farne una Casa per la Cultura di Quartucciu se dentro non vi è la presenza tangibile della Cultura di Quartucciu. Ovvero, è inutile fare discorsi sull’identità culturale di una comunità se questa stessa non è in grado di tramandare ai suoi discendenti la propria memoria storica; è inutile spendere del denaro per un certo tipo di Cultura se invece ci rendiamo conto che la Cultura dei nostri giovani ragazzi non è quella per cui abbiamo investito ma è un’altra; è inutile dare un certo significato storico a Casa Angioni se poi dentro non c'è nessun ragazzo che sappia parlare il Quartucciaio così come lo parlavano i nonni.

Credo che se qualcuno avesse insegnato loro a parlare il quartucciaio, dico forse, avrebbero saputo che i nonni avevano gli asinelli, che si alzavano alle cinque del mattino per andare con i loro carri a zappare la terra, che a settembre era una gran festa quando si vendemmiava, che c’erano degli anni di carestia in cui letteralmente si moriva di fame, che c’erano le alluvioni maledette che inondavano l’attuale via Nazionale, che c’era talmente tanta superstizione da respirarla nell’aria, che prendevate a pietre i cerexini per evitare che attingessero l’acqua alla fonte al confine, che anche allora c’erano i poveri e c’erano i ricchi e che ciò nonostante c’era tanta dignità nell’affrontare la vita.

La lingua è fondamentale per non perdere la propria memoria storica, perché essa è portatrice di valori.

Quindi, nelle parole di Salvatore Vargiu vi è nascosto un messaggio di più ampio respiro. Per riuscire a mantenere la propria memoria storica, i sardi non devono investire solo sulla nuda materia (vedi restauri) ma devono investire prima di tutto sul materiale umano, ovvero sulle nuove generazioni. Ad esempio con dei corsi di storia specifici nelle scuole, con finanziamenti di attività editoriali ad hoc, con manifestazioni culturali di un certo livello, con campagne di sensibilizzazione e così via, evitando di scadere nel folklore fine a se stesso.

Iniziative come quelle del concorso letterario svoltosi a Quartucciu, al di là dei risultati avutisi, vanno proprio verso questa direzione, ma sono utili a patto che si sia onesti con se stessi così come ha fatto Salvatore Vargiu nel giudicare l’esito del concorso. Se non altro, questo servirà a far prendere coscienza alle nuove generazioni che la storia dei loro progenitori non è poi una storia così tanto vergognosa, anche se dovessero scoprire che andavano in giro per il paese scalzi quand’erano bambini. Anzi…

Invito chiunque abbia avuto la pazienza di leggere a rispondere.

Davide Paolone

 


 

SALVATORE LOI:
LEZIONI DI STORIA.

a cura di Davide Paolone

Quanto può servire conoscere il passato per il presente?

Salvatore Loi è nato a Quartucciu 45 anni fa. Insegnante di filosofia e scienza dell’educazione all’Istituto Magistrale “Eleonora D’Arborea” di Cagliari, è stato docente di teologia presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna ed autore di saggi di storia e di teologia.

In aprile ha pubblicato per la AM&D Edizioni di Cagliari il libro Cultura popolare in Sardegna tra ‘500 e ‘600.

Lo incontro a Cagliari in una giornata di sole con il vento che spazza l’aria e non solo. Non lo conosco e mentre vado all’appuntamento ripercorro nella mente quelle 400 pagine circa che per cinque notti di fila mi hanno tenuto sveglio. Una lettura non immediata, ma fluida. Evidentemente l’autore si è messo nei miei panni e ha cercato di non complicarmi la vita scrivendo in maniera comprensibile (giusto per i profani come me) e stimolando la curiosità con un intricarsi di note a piè pagina che sono la vera “chicca” di questo libro.

E’ lui che mi riconosce per primo mentre mi aspetta di fronte al portone della sua scuola. Ci diamo la mano, sorridiamo, e dopo un attimo di titubanza – lui: “Passeggiamo?”, io: “Si… anzi, no: ho bisogno di prendere appunti con la penna”, ma perché non mi decido a comprare una di quelle diavolerie che registrano a viva voce? - mi accompagna dentro la scuola. Lui è sereno, io no. Lui ha i capelli grigi, io di capelli quasi non ne ho. E’ l’ora della ricreazione per i ragazzi della scuola. Me n’ero dimenticato. Comunque… Piazziamo un banco nel corridoio ed uno seduto affianco all’altro cominciamo l’intervista.

La sua opera ha un carattere eminentemente storiografico. Quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a scrivere di quel periodo della Sardegna? Semplice curiosità?

Innanzitutto premetto che questo lavoro è il frutto di ricerche documentali svolte a partire dal lontano 1975.In quel periodo vi era un fiorire di idee a proposito della cultura sarda, e le supposizioni erano varie e tali da sentirsi necessario uno studio approfondito della storia della Sardegna. Studio che potesse costituire una valida piattaforma storica sulla quale tessere attendibili teorie socio-culturali.

Mi sono dedicato al periodo che va dal ‘500 al ‘600 in quanto esso rappresenta un periodo di passaggio fondamentale per la cultura nei paesi cattolici e protestanti, e la Sardegna, per il fatto di essere dominata in quel periodo dagli spagnoli, rientrava a pieno titolo fra questi.

Inoltre, è proprio in questo periodo, subito dopo il Concilio di Trento e la “riforma” protestante di Lutero, che la cultura popolare, cioè quella della stragrande maggioranza delle persone, cominciò ad essere controllata ed indirizzata attraverso un meccanismo di centralizzazione degli strumenti educativi da parte della principale istituzione dell’epoca, la Chiesa. Centralizzazione attuata in forma autoritaria e repressiva attraverso l’azione del Tribunale dell’Inquisizione, di cui fino a 50-70 anni fa si potevano avvertire i risultati.

L’obiettivo che mi sono prefissato è quello di leggere la storia di quell’epoca dal punto di vista della Sardegna, cercando di raccontare la storia che nei testi “ufficiali” di solito non viene menzionata; ovvero la storia del popolo, della gente comune, che a mio parere è la principale protagonista.

La Chiesa, la Famiglia e la Scuola sono, a suo parere, le “principali istituzioni educative” della popolazione sarda tra il ‘500 ed il ‘600. Cosa può dire di aver riscontrato di diverso rispetto alla storia del resto d’Italia?

Il mio studio mette in luce che la Sardegna, nonostante all’epoca fosse ritenuta periferia geografica, non rimase estranea alle vicissitudini culturali comuni al resto del mondo allora conosciuto.

Questo smonta la convinzione che il popolo sardo sia vissuto in una sorta di isolamento e di impermeabilità rispetto al resto del mondo. Così come vengono sfatati alcuni luoghi comuni, come ad esempio quello che vuol far credere che il basso clero d’allora fosse costituito da ignoranti (dovevano per lo meno saper leggere e scrivere per annotare nei registri parrocchiali le nascite, i matrimoni e le morti) o che prima della venuta dei gesuiti non vi fossero delle scuole. Anzi…

Ciò che colpisce è che la Sardegna risulta già all’epoca integrata con la cultura mediterranea, da cui ovviamente si differenzia solo per alcune varianti. Ad esempio vi troviamo una mentalità superstiziosa comune al resto d’Italia ma con dei “riti” che per forza di cosa sono diversi.

L’unica cosa per cui posso dire che si differenziasse dal resto d’Italia, è la concezione della famiglia. Più egualitaria nei confronti della donna alla quale era riconosciuto un ruolo importante nella società, soprattutto se pensiamo all’esistenza di un tipo di contratto matrimoniale definito dagli spagnoli “a sa sardesca” che prevedeva la comunione dei beni.

Infatti la concezione del “padre-padrone” non faceva parte della cultura sarda; il concetto di padre come capo assoluto della famiglia nasce proprio in quel periodo di pari passo all’affermazione del Papa come capo assoluto della Chiesa.

Comunque, anche tenendo conto di una maggiore presenza di comunità musulmane e giudaiche rispetto ad altri luoghi d’Italia, ribadisco che osservo più convergenze che differenze in un unico filone storico-culturale.

Il fatto che i due terzi del libro siano dedicati alla Chiesa non è certamente un caso. Come lei scrive: “la Chiesa pretendeva di essere e in realtà lo era l’esclusiva educatrice degli individui e delle comunità ed ogni attività educativa trovava in essa il proprio centro di riferimento”. Al giorno d’oggi qual’è secondo lei il ruolo assunto dalla Chiesa nella società sarda?

Nel passato la Chiesa innervava la società con comportamenti, valori e scopi finali della vita. Ed aveva il potere (in senso pieno) di imporsi. Basti pensare all’azione del Tribunale dell’Inquisizione, che qui in Sardegna ha agito non meno che in altre parti d’Europa (seppur non riuscendo a scardinare del tutto i codici culturali del luogo). Per cui si può dire che il potere secolare che ancora aveva gli rendeva efficace il potere di influire sulla società ricavandosi un ruolo di riferimento vitale per gli uomini di qualunque estrazione sociale.

Oggi tante cose sono mutate. La Chiesa ha perso quel potere “fisico” o sulla “materia” che prima aveva. E tenta di essere efficace sulla società testimoniando il debole (cioè l’esempio di Gesù Cristo) facendo leva sull’obbedienza e la fedeltà alla coscienza di ogni individuo, ovvero alla sua prerogativa di essere libero.

Ma oggi deve combattere con il dio denaro, nei confronti del quale spesso perde.

“Il complessivo sistema pedagogico, scoraggiando il senso critico e la creatività, non favorì certamente l’elaborazione di una cultura originale che in Sardegna è stata spesso desiderata e sperata ma che forse non ha mai preso veramente corpo”. Sono sempre sue parole. Che cosa ci sarebbe voluto per non dire “forse”? Quali culture possono essere definite “originali”?

Per “cultura originale” io non intendo una cultura autonoma esclusivamente composta da elementi distintivi autoctoni. E’ impensabile che con tale aggettivazione possa essere definita una qualunque cultura. E’ forse originale in tal senso la cultura anglosassone? Oppure quell’americo-latina? O quella di un qualunque popolo oggi presente al mondo?

No. Ciò che io intendo per “cultura originale” è una cultura frutto dell’elaborazione di un popolo capace anche di aprirsi alle influenze esterne, ponendo come punto di partenza il rispetto dei valori delle proprie tradizioni, arricchendole, per poi riuscire a manifestare forti segnali di presenza e di diversità da altri popoli.

Se prendiamo in esame la lingua sarda, essa è un elemento tangibile e distintivo dei sardi perché risulta essere il prodotto da parte del popolo dell’elaborazione delle varie lingue che sono state presenti su quest’isola.

La lingua sarda è una trama sulla quale sono presenti vari apporti linguistici; la trama è costituita dalle regole grammaticali, gli apporti dai vocaboli di estrazione non indigena. L’identità sarda esiste ed è esistita anche in passato: questo è un dato innegabile. E si manifesta in ogni tempo con un codice morale di comportamenti più o meno condiviso da tutto il popolo.

Oggi l’identità dei sardi, così come nel ‘500, risulta essere la somma di più culture presenti di volta in volta nel passato, da un crogiolo di razze non ben definito (sangue del popolo dei nuraghi, fenicio-punico, romano, arabo, spagnolo, e chissà quant’altro) e da una molteplicità di tradizioni che si perpetuano nel tempo. Quindi, contesto il concetto di identità come chiusura, come se essa debba avere la prerogativa di essere casta e pura per potersi definire tale.

La dicitura “forse” l’ho utilizzata perché a me pare che in quel periodo il processo di elaborazione non si sia compiuto pienamente in tutti i settori che concorrono a formare la cultura popolare. In Sardegna la cultura subalterna (quella del popolo) si è sempre posta in aperto conflitto con quella dei dominatori. E se è vero che in alcuni campi il processo di elaborazione si è manifestato, nella maggior parte dei casi no.

L’arcivescovo di Cagliari Antonio Parragues de Castillejo, in una lettera del 4 ottobre 1560 al generale dei gesuiti, dice di noi sardi: “La gente è docile, timorosa e rispettosa delle cose di Dio se avesse qualcuno che li guidasse. Ma d’altra parte sono incontinenti, inquieti, maliziosi e nemici del lavoro”. Gli spagnoli, che allora ci dominavano, ci ritenevano poco affidabili e fatti più per essere governati che governare. Lei pensa che effettivamente fossimo così? E oggi quale è la nostra indole?

Beh… se ci poniamo dalla parte di chi governa, era ovvio che fossimo poco affidabili.Dicevano che eravamo pochi, sciocchi e divisi. E a dire il vero non è che davamo motivi di farci considerare in maniera diversa.

Il campanilismo esistente tra le principali città, la divisione e le invidie tra i maggiorenti sardi d’allora, associato al clima di deterioramento sociale ed economico, facevan si che, anche quando ci fosse stata un’opportunità, si preferiva essere governati che governare.

Ma nonostante questo gli stessi spagnoli ci riconoscevano un grande attaccamento alla nostra terra associato ad uno spiccato senso di libertà, il che ci rendeva uniti quando rivendicavamo la nostra autonomia.

A tal proposito vale l’esempio di un sardo che fu processato dall’Inquisizione: gli chiesero di recitare il Padre Nostro e lui lo fece in sardo; alla richiesta di recitarlo in castigliano si rifiutò rispondendo: “Reciterò il Padre Nostro in castigliano quando lei lo saprà fare in sardo”. Oggi direi proprio che abbiamo mantenuto questo carattere.

Già… abbiamo mantenuto quel carattere.
E’ passata un’ora: adesso sono tranquillo. Fuori c’è sempre vento.
Quanto può servire conoscere il passato per il presente?

Davide Paolone


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