SALVATORE LOI:
LEZIONI DI STORIA.
a cura di Davide Paolone
Quanto può servire conoscere
il passato per il presente?
Salvatore Loi è nato a Quartucciu 45 anni fa. Insegnante
di filosofia e scienza dell’educazione all’Istituto Magistrale “Eleonora
D’Arborea” di Cagliari, è stato docente di teologia presso la Pontificia
Facoltà Teologica della Sardegna ed autore di saggi di storia e di teologia.
In
aprile ha pubblicato per la AM&D Edizioni di Cagliari il libro Cultura
popolare in Sardegna tra ‘500 e ‘600.
Lo incontro a Cagliari in una giornata di sole con
il vento che spazza l’aria e non solo. Non lo conosco e mentre vado
all’appuntamento ripercorro nella mente quelle 400 pagine circa che
per cinque notti di fila mi hanno tenuto sveglio. Una lettura non immediata,
ma fluida. Evidentemente l’autore si è messo nei miei panni e ha cercato
di non complicarmi la vita scrivendo in maniera comprensibile (giusto
per i profani come me) e stimolando la curiosità con un intricarsi di
note a piè pagina che sono la vera “chicca” di questo libro.
E’ lui che mi riconosce per primo mentre mi aspetta
di fronte al portone della sua scuola. Ci diamo la mano, sorridiamo,
e dopo un attimo di titubanza – lui: “Passeggiamo?”, io: “Si… anzi,
no: ho bisogno di prendere appunti con la penna”, ma perché non mi decido
a comprare una di quelle diavolerie che registrano a viva voce? - mi
accompagna dentro la scuola. Lui è sereno, io no. Lui ha i capelli grigi,
io di capelli quasi non ne ho. E’ l’ora della ricreazione per i ragazzi
della scuola. Me n’ero dimenticato. Comunque… Piazziamo un banco nel
corridoio ed uno seduto affianco all’altro cominciamo l’intervista.
La sua opera ha un carattere eminentemente storiografico.
Quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a scrivere di quel periodo
della Sardegna? Semplice curiosità?
Innanzitutto premetto che questo lavoro è il frutto di
ricerche documentali svolte a partire dal lontano 1975.In quel periodo
vi era un fiorire di idee a proposito della cultura sarda, e le supposizioni
erano varie e tali da sentirsi necessario uno studio approfondito della
storia della Sardegna. Studio che potesse costituire una valida piattaforma
storica sulla quale tessere attendibili teorie socio-culturali.
Mi sono dedicato al periodo che va dal ‘500 al ‘600 in
quanto esso rappresenta un periodo di passaggio fondamentale per la
cultura nei paesi cattolici e protestanti, e la Sardegna, per il fatto
di essere dominata in quel periodo dagli spagnoli, rientrava a pieno
titolo fra questi.
Inoltre, è proprio in questo periodo, subito dopo il Concilio
di Trento e la “riforma” protestante di Lutero, che la cultura popolare,
cioè quella della stragrande maggioranza delle persone, cominciò ad
essere controllata ed indirizzata attraverso un meccanismo di centralizzazione
degli strumenti educativi da parte della principale istituzione dell’epoca,
la Chiesa. Centralizzazione attuata in forma autoritaria e repressiva
attraverso l’azione del Tribunale dell’Inquisizione, di cui fino a 50-70
anni fa si potevano avvertire i risultati.
L’obiettivo che mi sono prefissato è quello di leggere
la storia di quell’epoca dal punto di vista della Sardegna, cercando
di raccontare la storia che nei testi “ufficiali” di solito non viene
menzionata; ovvero la storia del popolo, della gente comune, che a mio
parere è la principale protagonista.
La Chiesa, la Famiglia e la Scuola sono, a suo parere,
le “principali istituzioni educative” della popolazione sarda tra il
‘500 ed il ‘600. Cosa può dire di aver riscontrato di diverso rispetto
alla storia del resto d’Italia?
Il mio studio mette in luce che la Sardegna, nonostante
all’epoca fosse ritenuta periferia geografica, non rimase estranea alle
vicissitudini culturali comuni al resto del mondo allora conosciuto.
Questo smonta la convinzione che il popolo sardo sia vissuto
in una sorta di isolamento e di impermeabilità rispetto al resto del
mondo. Così come vengono sfatati alcuni luoghi comuni, come ad esempio
quello che vuol far credere che il basso clero d’allora fosse costituito
da ignoranti (dovevano per lo meno saper leggere e scrivere per annotare
nei registri parrocchiali le nascite, i matrimoni e le morti) o che
prima della venuta dei gesuiti non vi fossero delle scuole. Anzi…
Ciò che colpisce è che la Sardegna risulta già all’epoca
integrata con la cultura mediterranea, da cui ovviamente si differenzia
solo per alcune varianti. Ad esempio vi troviamo una mentalità superstiziosa
comune al resto d’Italia ma con dei “riti” che per forza di cosa sono
diversi.
L’unica cosa per cui posso dire che si differenziasse
dal resto d’Italia, è la concezione della famiglia. Più egualitaria
nei confronti della donna alla quale era riconosciuto un ruolo importante
nella società, soprattutto se pensiamo all’esistenza di un tipo di contratto
matrimoniale definito dagli spagnoli “a sa sardesca” che prevedeva la
comunione dei beni.
Infatti la concezione del “padre-padrone” non faceva parte
della cultura sarda; il concetto di padre come capo assoluto della famiglia
nasce proprio in quel periodo di pari passo all’affermazione del Papa
come capo assoluto della Chiesa.
Comunque, anche tenendo conto di una maggiore presenza
di comunità musulmane e giudaiche rispetto ad altri luoghi d’Italia,
ribadisco che osservo più convergenze che differenze in un unico filone
storico-culturale.
Il fatto che i due terzi del libro siano dedicati alla
Chiesa non è certamente un caso. Come lei scrive: “la Chiesa pretendeva
di essere e in realtà lo era l’esclusiva educatrice degli individui
e delle comunità ed ogni attività educativa trovava in essa il proprio
centro di riferimento”. Al giorno d’oggi qual’è secondo lei il ruolo
assunto dalla Chiesa nella società sarda?
Nel passato la Chiesa innervava la società con comportamenti,
valori e scopi finali della vita. Ed aveva il potere (in senso pieno)
di imporsi. Basti pensare all’azione del Tribunale dell’Inquisizione,
che qui in Sardegna ha agito non meno che in altre parti d’Europa (seppur
non riuscendo a scardinare del tutto i codici culturali del luogo).
Per cui si può dire che il potere secolare che ancora aveva gli rendeva
efficace il potere di influire sulla società ricavandosi un ruolo di
riferimento vitale per gli uomini di qualunque estrazione sociale.
Oggi tante cose sono mutate. La Chiesa ha perso quel potere
“fisico” o sulla “materia” che prima aveva. E tenta di essere efficace
sulla società testimoniando il debole (cioè l’esempio di Gesù Cristo)
facendo leva sull’obbedienza e la fedeltà alla coscienza di ogni individuo,
ovvero alla sua prerogativa di essere libero.
Ma oggi deve combattere con il dio denaro, nei confronti
del quale spesso perde.
“Il complessivo sistema pedagogico, scoraggiando il
senso critico e la creatività, non favorì certamente l’elaborazione
di una cultura originale che in Sardegna è stata spesso desiderata e
sperata ma che forse non ha mai preso veramente corpo”. Sono sempre
sue parole. Che cosa ci sarebbe voluto per non dire “forse”? Quali culture
possono essere definite “originali”?
Per “cultura originale” io non intendo una cultura autonoma
esclusivamente composta da elementi distintivi autoctoni. E’ impensabile
che con tale aggettivazione possa essere definita una qualunque cultura.
E’ forse originale in tal senso la cultura anglosassone? Oppure quell’americo-latina?
O quella di un qualunque popolo oggi presente al mondo?
No. Ciò che io intendo per “cultura originale” è una cultura
frutto dell’elaborazione di un popolo capace anche di aprirsi alle influenze
esterne, ponendo come punto di partenza il rispetto dei valori delle
proprie tradizioni, arricchendole, per poi riuscire a manifestare forti
segnali di presenza e di diversità da altri popoli.
Se prendiamo in esame la lingua sarda, essa è un elemento
tangibile e distintivo dei sardi perché risulta essere il prodotto da
parte del popolo dell’elaborazione delle varie lingue che sono state
presenti su quest’isola.
La lingua sarda è una trama sulla quale sono presenti
vari apporti linguistici; la trama è costituita dalle regole grammaticali,
gli apporti dai vocaboli di estrazione non indigena. L’identità sarda
esiste ed è esistita anche in passato: questo è un dato innegabile.
E si manifesta in ogni tempo con un codice morale di comportamenti più
o meno condiviso da tutto il popolo.
Oggi l’identità dei sardi, così come nel ‘500, risulta
essere la somma di più culture presenti di volta in volta nel passato,
da un crogiolo di razze non ben definito (sangue del popolo dei nuraghi,
fenicio-punico, romano, arabo, spagnolo, e chissà quant’altro) e da
una molteplicità di tradizioni che si perpetuano nel tempo. Quindi,
contesto il concetto di identità come chiusura, come se essa debba avere
la prerogativa di essere casta e pura per potersi definire tale.
La dicitura “forse” l’ho utilizzata perché a me pare che
in quel periodo il processo di elaborazione non si sia compiuto pienamente
in tutti i settori che concorrono a formare la cultura popolare. In
Sardegna la cultura subalterna (quella del popolo) si è sempre posta
in aperto conflitto con quella dei dominatori. E se è vero che in alcuni
campi il processo di elaborazione si è manifestato, nella maggior parte
dei casi no.
L’arcivescovo di Cagliari Antonio Parragues de Castillejo,
in una lettera del 4 ottobre 1560 al generale dei gesuiti, dice di noi
sardi: “La gente è docile, timorosa e rispettosa delle cose di Dio se
avesse qualcuno che li guidasse. Ma d’altra parte sono incontinenti,
inquieti, maliziosi e nemici del lavoro”. Gli spagnoli, che allora ci
dominavano, ci ritenevano poco affidabili e fatti più per essere governati
che governare. Lei pensa che effettivamente fossimo così? E oggi quale
è la nostra indole?
Beh… se ci poniamo dalla parte di chi governa, era ovvio
che fossimo poco affidabili.Dicevano che eravamo pochi, sciocchi e divisi.
E a dire il vero non è che davamo motivi di farci considerare in maniera
diversa.
Il campanilismo esistente tra le principali città, la
divisione e le invidie tra i maggiorenti sardi d’allora, associato al
clima di deterioramento sociale ed economico, facevan si che, anche
quando ci fosse stata un’opportunità, si preferiva essere governati
che governare.
Ma nonostante questo gli stessi spagnoli ci riconoscevano
un grande attaccamento alla nostra terra associato ad uno spiccato senso
di libertà, il che ci rendeva uniti quando rivendicavamo la nostra autonomia.
A tal proposito vale l’esempio di un sardo che fu processato
dall’Inquisizione: gli chiesero di recitare il Padre Nostro e lui lo
fece in sardo; alla richiesta di recitarlo in castigliano si rifiutò
rispondendo: “Reciterò il Padre Nostro in castigliano quando lei lo
saprà fare in sardo”. Oggi direi proprio che abbiamo mantenuto questo
carattere.
Già… abbiamo mantenuto quel carattere.
E’ passata un’ora: adesso sono tranquillo. Fuori c’è sempre vento.
Quanto può servire conoscere il passato per il presente?
Davide Paolone