Il
riformismo e il suo futuro
di Giuliano
Amato
( Quello che
segue è l'intervento pronunciato a Orvieto, il 31 ottobre 1998, in occasione del convegno
sulla Nuova Sinistra organizzato dalla Fondazione "Italianieuropei".)
Fu Luigi Einaudi,
non un socialista, a scrivere che le nostre società avevano parimenti bisogno di due
anime. Non solo quella liberale che dava loro la necessaria dinamica propulsiva, ma anche
quella socialista, che leniva gli effetti squilibranti della prima e garantiva così
l'indispensabile coesione sociale, prevenendo esplosioni conflittuali altrimenti
distruttive.
Eppure nell'89
sembrò che l'anima liberale potesse ormai, ed anzi dovesse, bastare a se stessa. E che il
morente XX secolo avrebbe seppellito insieme comunismo e socialismo, travolti dalla
diffusione a macchia d'olio - questo allora ci si attendeva - dell'economia di mercato e
della democrazia liberale.
Era, quella, una
stagione di entusiasmi comprensibilmente unilaterali. E che fossero unilaterali è fuor di
dubbio, giacché essi erano in primo luogo per la valutazione che implicavano del passato:
non è forse vero che l'economia di mercato e la democrazia liberale di cui si prevedeva e
si auspicava l'espansione globale portavano ormai nei loro tratti costitutivi le tracce di
entrambe le anime ricordate da Einaudi? Non è forse vero che quelle anime si erano già
venute saldando nei limiti imposti al potere privato sui mercati, nel riconoscimento a
tutti dei diritti di cittadinanza nella società civile e politica, nella garanzia,
assicurata sia pure in forme diverse, contro i rischi fondamentali della vita? E frutto di
questa fusione era la stabilità che avevano potuto conquistarsi i sistemi democratici, i
quali dall'apporto del riformismo avevano ottenuto una base sociale estesa e solida che
sorreggeva la naturale dinamicità dell'economia di mercato e ne assorbiva e compensava
gli effetti squilibranti.
Ma non meno
unilaterali erano gli entusiasmi rispetto al futuro che sarebbe cominciato. E che sarebbe
stato assai meno roseo, come oggi tutti abbiamo capito.
Il mondo che ci
circonda, nonostante le grandi e uniformi autostrade delle telecomunicazioni e del
commercio globale, non si presta affatto ad una pacifica universalizzazione dei nostri
modelli. E' vero, quelle autostrade lo uniscono, fanno circolare in esso con omologante
uniformità informazioni, servizi e prodotti. E creano anche una circolazione culturale
comune, fatta di films, di canzoni, di cibi standardizzati. Ma non attribuiamo a questi
effetti unificanti della globalizzazione più virtù di quante essi in realtà non
abbiano. Al di là di tali effetti, rimangono, ed anzi in più casi si accrescono, le
differenze di reddito, le differenze fra le culture nazionali ed etniche, le differenze
sociali, le differenze complessive delle diverse economie. E queste differenze sono il
potenziale di conflitti che possono avere effetti tanto più devastanti, proprio a causa
della globalizzazione che sempre più le accosta l'una all'altra. Come faglie sotterranee
che una forza possente sta reciprocamente avvicinando e che le porta perciò a scontrarsi.
Del resto, la crisi che il mondo sta oggi vivendo non è forse una crisi da
interdipendenza, da contagio inevitabilmente prodotto dalla contiguità di ciascuno
rispetto a tutti gli altri, che comunica debolezze e nevrosi finanziarie, cadute nella
domanda di beni e sevizi, volatilità negli stessi commerci internazionali?
La percezione dei
rischi che discendono da questa nuova situazione è fonte di insicurezza in tutta Europa e
in ciascuno dei nostri paesi: insicurezza davanti alle prospettive dell'economia e del
valore dei propri risparmi, insicurezza davanti ai flussi migratori in atto, insicurezza
davanti a ciò che questi flussi possono diventare in ragione della bomba demografica che
sta esplodendo sull'altra sponda del Mediterraneo, insicurezza infine davanti ai conflitti
armati che ci circondano e dai quali siamo in ogni caso coinvolti.
Come se non
bastassero queste fonti esterne, l'insicurezza è una matrice che sta diventando dominante
in Europa anche per altre ragioni, principalmente legate ai profondi mutamenti che stanno
intervenendo negli assetti dei nostri sistemi economici, oltre che nei nostri andamenti
demografici (rovesciati rispetto a buona parte del mondo circostante). Le generazioni che
si avvicinano alla vecchiaia non hanno più certezze in relazione ai loro futuri
trattamenti pensionistici, le generazioni giù giovani entrano, se c'entrano, in un mondo
del lavoro totalmente diverso da quello in cui hanno vissuto i loro genitori, un mondo di
lavori flessibili, intermittenti se non saltuari, nel quale vecchie certezze essenziali -
come il flusso costante di un reddito mensile con cui pagare mutui e comunque pianificare
spese - non ci sono più. Mentre in più potrebbe esserci da mantenere i vecchi.
Ebbene, si
possono affrontare tutte queste fonti di insicurezza e di potenziali conflitti, la
convivenza fianco a fianco di ricchezza e sottosviluppo, i flussi migratori e le
conseguenti prospettive multi - etniche, evoluzioni economiche e sociali in cui le
pre-esistenti istituzioni sociali sono comunque destinate a non funzionare, così da
accomunare nell'incertezza sul futuro giovani e anziani, si può affrontare tutto questo
buttando a mare l'anima liberalsocialista?
Il primo a
negarlo, se vivesse oggi, sarebbe Luigi Einaudi. E nel mio piccolo, ho detto e scritto
più volte che, in condizioni diverse da quelle di fine ottocento, si propone un tema per
più versi simile, che è, come lo fu allora, una sfida al riformismo: estendere i diritti
di cittadinanza a chi ne è sprovvisto, costruire reti di sicurezza contro i rischi
fondamentali della vita per i milioni di essere umani che in nessun caso potrebbero
fronteggiarli da soli, combattere le esorbitanze del potere privato, mantenere grazie a
tutto ciò la coesione sociale, senza mettere tuttavia a repentaglio le spinte dinamiche,
la propensione all'innovazione e al rischio, di cui la società ha eguale bisogno.
Lo so che questo
il riformismo non sempre lo ha saputo fare. Lo so che lo ha fatto solo nei suoi momenti
migliori. Lo so che per farlo ha usato strumenti conformati su caratteristiche strutturali
dell'economia che oggi stanno tramontando (basti pensare alla correlazione strettissima
tra la fase tayloristica dell'industria e i sistemi di finanziamento e di gestione ancora
in atto delle istituzioni sociali). So anche che il suo statalismo, che è stato insieme
orizzonte statale delle sue politiche e unilateralità nel promuovere pubblicizzazioni e
spesa pubblica, lo ha più volte portato non a modernizzare come avrebbe dovuto, ma a
danneggiare la macchina dello sviluppo (anche se è storicamente ingiusto dire che in
Europa sia stata sua, e solo sua, la responsabilità di queste patologie). E tuttavia il
mondo di oggi e di domani non può fare a meno di quella delicatissima e difficile sutura
fra i lembi della divaricazione sociale che storicamente è stata la funzione nobile del
riformismo e alla quale esso, pur fra mille errori, ha nell'insieme assolto nel XX secolo.
Resta pur vero, infatti, che la questione sociale del secolo stesso, e cioè la
trasformazione di milioni di contadini e di operai sottopagati in cittadini della società
industriale, è stata comunque risolta.
Alla fine del XX
secolo, c'è dunque un rinnovato bisogno di riformismo, che richiede tuttavia un profondo
rinnovamento non dei fini, ma degli strumenti in cui esso si è identificato nei decenni
trascorsi, tenendo conto di due lezioni fondamentali che gli stessi decenni hanno messo in
luce. La prima: è impossibile chiudersi nell'orizzonte degli Stati nazionali in un mondo
in cui le interrelazioni e le interdipendenze sono sempre più numerose e penetranti. La
seconda: non solo è impossibile e sbagliato pensare a cornici diverse dall'economia di
mercato, ma poiché questa non è un luogo destinato ad altri, ma è e deve essere il
luogo di tutti, le riforme che servono vanno impostate e gestite non contro, ma con e nel
mercato, in modo da renderlo, o da mantenerlo quando già lo sia, aperto e competitivo. Il
nemico infatti non è e non deve essere il mercato, nemici sono i potentati, le
corporazioni chiuse, i cartelli palesi e occulti che ne distorcono il funzionamento.
Insomma: le
tragiche evidenze fornite dal recente passato sui guasti che lo statalismo può produrre
sull'economia si sommano con la progressiva corrosione, da parte della stessa economia,
dei confini nazionali e insieme impongono orizzonti e strumenti diversi.
Se ha fatto il
suo tempo (ammesso che lo abbia avuto) lo statalismo, è per certi versi superato anche il
pacifismo, o meglio il rifiuto pregiudiziale dell'intervento armato in un mondo in cui la
minaccia militare può essere ricondotta al vecchio schema dell'imperialismo solo
imputandola sempre ai venditori di armi. Ma non è così e la sua matrice genetica ormai
non è più nella spartizione del mondo a fini di sfruttamento ( l'economia globale ha
cancellato tutto questo ), ma nelle irrequietezze e nei conflitti della povertà, nelle
classi dirigenti che essa esprime, nelle culture che continua ad alimentare. Il che
genera, non a fini di aggressione, ma a fini di tutela dei deboli, obblighi di intervento
umanitario, di peace making e di peace keeping, di azioni militari a volte su scala anche
più larga, per contenere gli interventi aggressivi di avventurieri al comando di Stati.
Davanti alle prospettive che apre il disordine mondiale con cui dovremo convivere, la
vecchia regola dell'astensione - io mi occupo solo dei miei problemi interni e quindi non
concorro né all'instabilità né ancor meno a disegni imperialisti - non vale più . E'
proprio chi si occupa solo dei suoi problemi interni - almeno quando è parte della parte
trainante del mondo - che, così facendo, da' una mano all'instabilità con tutte le
conseguenze che possono venirne.
Non c'è laissez
faire negli affari internazionali, non c'è laissez faire ma neppure statalismo negli
affari economici e sociali. Ma quali connotati, allora, ci aspettiamo dal riformismo, al
di là della inevitabile sagra dei "né" "né" che caratterizza le
fasi di transizione e le ricerche delle terze vie?
In primo luogo -
e non sembri strano - la forza di resistere alla tentazione di fornire risposte alle
domande che più pressantemente gli vengono rivolte dagli interessi sociali che esso (il
riformismo) storicamente rappresenta. Domande legittime, sia chiaro, più che
comprensibili davanti alle insicurezze e alle incertezze delle quali si parlava; domande
perciò di difesa delle reti di protezione esistenti, dei posti di lavoro esistenti, delle
aspettative esistenti sul futuro, degli stessi habitat nazionali in un' Europa che, specie
fuori d' Italia, lungi dall'apparire ancora come una promessa di qualcosa di più, è
sempre più percepita come il rischio di qualcosa di meno.
Risposte che
siano simmetriche a queste domande di conservazione, non solo sono di conservazione esse
stesse: sono schiettamente conservatrici e tali rimangono anche quando è l'estrema
sinistra ad amplificarle nell'arena politica. Perché non solo di conservazione, ma anche
conservatrici? Perché esse comportano la permanenza di rapporti ed istituti coerenti con
caratteristiche che l'economia non ha più e per ciò stesso destinati a dar luogo a spese
non finanziabili, a rigidità non compensabili, a veri e propri ostacoli a che lo sviluppo
prenda la direzione nella quale sarebbe in grado di dare i suoi frutti migliori.
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