Non avevano torto
i nostri vecchi ad essere internazionalisti, non avevano torto a vedere nella crescita
economica il primo volano dell'occupazione, non avevano torto a vedere nel diffondersi
dell'esclusione sociale non soltanto la negazione di diritti elementari, ma anche
l'innesco di processi di instabilità capaci di minare le fondamenta di qualunque assetto
democratico. Queste sono le lezioni che non dobbiamo dimenticare e caso mai, dopo la non
breve stagione dei pentimenti e degli smarrimenti, dobbiamo ribadirle e ritrovarne il
senso prima di tutto in noi stessi e poi nei percorsi di azione riformatrice che si aprono
nel mondo che abbiamo davanti. Sono in primo luogo qui l'immutata validità e quindi
l'attualità del riformismo. Ma, per essere se stesso, il riformismo ha bisogno tanto di
fedeltà ai fini, quanto di capacità di adeguare i mezzi al mutare dei contesti economici
e sociali. Nel mondo di oggi, di sicuro non si lascia traccia se si ha solo un orizzonte
quotidiano. Ma difendere, in nome dei fini, lo strumentario concepito agli albori
dell'industrializzazione e applicato, a volte anche con successo, nei primi decenni di
essa, significa condannarsi a una tragica, sterile e in più casi controproducente
politica conservatrice.
E c'è un'altra e
fondamentale lezione del passato che il riformismo di oggi deve saper ricordare.
Nonostante la vastità degli orizzonti in cui è chiamato a muoversi, nonostante la
sovranazionalità dei fili che è chiamato a distendere sul mondo per esercitare il suo
ruolo nel mondo, guai se il riformismo si ritira entro le sole sedi istituzionali, siano
pure esse stesse sovranazionali, e rinuncia a solidificare, ad estendere, a verificare le
sue radici nella coscienza collettiva. Si è scritto che i partiti di massa sono essi
stessi un frutto della prima industrializzazione e che i connotati strutturali delle
società del nostro tempo, e i mezzi di comunicazione che le attraversano, li hanno resi
inesorabilmente obsoleti. E' una innegabile verità, che non cancella tuttavia il bisogno
di radicamento della politica riformista, il bisogno per essa non soltanto di saper
raccogliere domande, ma anche di formare e conformare coscienze, di aggregare, attorno a
idealità e obiettivi comuni, identità particolari che soprattutto i processi di
emarginazione tendono invece a rendere disperatamente esclusive e integraliste. E' anzi
questa la sfida maggiore in una fase storica nella quale, specie in Italia, sono lontani
dai partiti non solo coloro che si chiudono nelle proprie identità particolari, anche i
tanti che si dedicano all'impegno civile e sociale. E il riformismo la perde la sua sfida,
se non riesce a colmare questo solco crescente. Ma non ci si illuda di colmarlo con la
sola, e, se sola, falsa vicinanza consentita dai mezzi di comunicazione di massa. Si
coinvolge, infatti, non se si parla a tutti, ma se si parla a ciascuno e questo non lo si
fa con i mezzi di comunicazione di massa. Altre sono le forme per ristabilire la presa
diretta che è necessaria, per rispondere alla domanda di democrazia difficile che preme
su di noi e che chiede efficienza, ma chiede anche rapporto diretto, che non rifiuta la
guida ma vuole capire e condividere l'approdo e il percorso, altrimenti ciascuno si chiude
in se stesso o nella propria parcellizzata identità di gruppo. Rispetto alla nuova
canalizzazione democratica che è necessaria siamo ancora all'età della pietra; o della
flora, se volete, giacché l'Ulivo italiano è un tentativo nella direzione giusta, che
tuttavia è riuscito soltanto a dare una pur utilissima identità comune al di là di
quella partitica e con essa a mobilitare in fase elettorale. Ma chiaramente c'è bisogno
di qualcosa di più e di più quotidianamente vitale nel tessuto collettivo; qualcosa che
a mio avviso non potrà fare a meno, in condizioni pur nuove, di un patrimonio della
vecchia sinistra, del quale è sbagliato sbarazzarsi solo perché se ne fece uso in
funzione di un'ideologia che è fallita. Se è vero che i processi di convergenza generati
dalla globalizzazione non omologano il mondo, ma avvicinano l'una all'altra faglie che
possono così più facilmente scontrarsi; se è vero inoltre che in ciascuna delle nostre
società può ripetersi un analogo fenomeno, allora - diciamolo con chiarezza - sono
essenziali valori comuni, è essenziale una coscienza comune, che ha comunque bisogno di
azioni educative, di mobilitazioni, di occasioni e sedi nelle quali formarsi. Ciò che
faceva, per l'appunto, la vecchia sinistra. Una cosa deve essere chiara; la coesione
sociale non la generano soltanto i governi, la generano condizioni essenziali di
cittadinanza sulle quali deve essere però radicato quello che non esito a definire un
ordine morale e civile comune, di cui non lo Stato, ma la politica ha la non esclusiva
responsabilità di farsi carico.
Con una
avvertenza finale, che giocoforza riprende uno dei punti di partenza. E' vero che della
coesione sociale di cui il riformismo deve sapersi investire, con la sua presenza nella
società e con la sua azione istituzionale, di sicuro fa parte il consenso dei c.d. ceti
medi e degli stessi imprenditori, nel senso che anche le loro legittime aspettative devono
trovare nello stesso riformismo una risposta. Ed è vero inoltre che la risposta è invece
deludente e sbagliata, tutte le volte che riemergono nostalgie e simpatie per strumenti di
governo che penalizzano l'economia, dando solo appagamenti di facciata alle variegate
sinistre antagoniste che continuiamo ad avere in Europa. Ma astenersi da risposte del
genere, meritarsi i consensi che le sinistre antagoniste considerano "dall'altra
parte", non deve voler dire voltare le spalle alle sfide che esse propongono e tanto
meno all'elettorato che esse pretendono di rappresentare. Al contrario deve comportare una
contro-sfida sul loro stesso terreno e in nome degli stessi interessi, di cui si deve anzi
pretendere una migliore capacità di rappresentanza e ai quali si deve restare legati. Le
radici, insomma, le si può estendere, ma non le si deve cambiare. Una sinistra riformista
che arriva a sintonizzarsi soltanto sui ceti medi ed oltre non è più se stessa. Da qui
sono partito e qui torno: la legittimazione politica e morale, e la funzione storica che
ne è derivata, sono infatti entrambe legate alla rappresentanza degli esclusi, o di chi
rischia l'esclusione, e alla contestuale capacità di affermare o rafforzare i rispettivi
diritti di cittadinanza, co-innestandoli in un sistema democratico per ciò stesso più
forte e in un sistema produttivo che ne paga il prezzo, senza esserne tuttavia travolto e
traendone anzi dei vantaggi esso stesso. Non dimentichiamoci che nel corso del secolo i
riformisti sono stati ripetutamente accusati da sinistra di essere dei razionalizzatori e
non dei sovvertitori dell'esistente. Era, questa accusa, la controprova di un esercizio
efficace del loro ruolo, che proprio questo comportava e comporta: allargare e per ciò
stesso modificare, ma non sovvertire né la democrazia liberale né l'economia di mercato.
Una premessa tuttavia era e rimane comunque ineludibile per respingere fondatamente
l'accusa: dimostrarsi migliori, e più efficaci, come rappresentanti degli esclusi e dei
deboli. Questo è l'ancoraggio e questa è inoltre l'unica ragione su cui si può far leva
per far accettare dagli esclusi e dai deboli anche le loro responsabilità.
Né si tratta di
ancoraggio che condanni a un ruolo minoritario. Condanna a quel ruolo l'antagonismo
conservatore, non il riformismo: primo, perché le soluzioni del riformismo, portando
integrazione e coesione sociale e - in paesi come l'Italia - modernizzazione, lo fanno
preferire anche a ceti che non se ne sentono direttamente rappresentati; secondo, perché
non sono infrequenti i cicli della storia nei quali l'intensità del cambiamento e
dell'innovazione mette a repentaglio stratificazioni sociali consolidate e rende malfermi
ruoli, livelli e aspettative di reddito in precedenza sicuri. Quello che viviamo sembra
essere, per quanto riguarda le società industrializzate, uno di qui cicli, a causa di
tecnologie che, dopo aver cancellato molte mansioni operaie nell'industria, stanno ora
espandendo nell'economia il ruolo dei servizi, cancellando in essi mansioni intermedie e
generando nuove ed ampie divaricazioni sociali. Non c'è necessariamente alcunché di
definitivo in questa rinnovata minaccia di esclusione, che riguarda non i nuovi entranti
nelle nostre società, ma i ceti medi che ne sono da tempo parte integrante. C'è
piuttosto la possibilità di una vocazione addirittura maggioritaria del riformismo, di
cui l'ondata socialista che ha investito l'Europa in questi ultimi anni è del resto una
eloquente testimonianza. Sono tutte aspettative che non vanno tradite, ma che, se ha un
senso quanto ho detto, esigono, proprio per non essere tradite, risposte diverse da quelle
che di istinto i soggetti sociali che ne sono titolari sono portati a chiedere. E' in
questa asimmetria, che sta a noi colmare, l'espressione più eloquente dell'immane compito
che ci attende. Ma è un compito che dobbiamo metterci in grado di affrontare; ne abbiamo
la maturità, dobbiamo rafforzare e radicare la cultura per farlo. Davanti ad esso,
soltanto per cocciuta fedeltà, non ai valori, ma ai dogmi del passato e - mi sia
consentito - per effetto delle vecchie e delle nuove divisioni fra di noi, possiamo
fallire. Ci assumeremmo una gravissima responsabilità, perché è dai riformisti, più
che da ogni altro, che questo girare di secolo aspetta le risposte di cui ha bisogno.
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