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Il nocciolo vero, quello sul quale il riformismo gioca la sua
partita nei confronti della stessa sinistra antagonista, è trovare dunque risposte che
siano coerenti con le esigenze e le prospettive di sviluppo dei nuovi tempi, ma che
insieme siano e riescano ad essere percepite dai medesimi interessi sociali come risposte
alle loro domande e non come risposte ad altri, che come tali concorrono solo alle loro
difficoltà e non leniscono la loro insicurezza.
E' perciò una
partita che si gioca su due piani: quello della progettazione ed efficiente attuazione
delle corrette azioni di riforma e quello della comunicazione, che non può non essere
anche mobilitazione, intorno alle loro finalità e ai loro effetti. E qui, su entrambi i
piani, c'è molta strada da recuperare, molti complessi di cui liberarsi, molte vaghezze
da superare.
Va recuperata la
lungimiranza, liberandosi dal complesso di colpevolezza indotto dalla brutta fine delle
vecchie pianificazioni, che ha di contraccolpo gettato i socialisti verso il pragmatismo
senza prospettive, verso una quotidianità che si fa apprezzare perché è virtuosa ma è
chiusa nell'oggi ed è quindi incapace di attivare partecipazione, impegno, fiducia nel
futuro. Ciò che si sbagliò nel passato fu l'essere "faustiani" nei mezzi e
quindi illudersi di avere in mano le leve per plasmarlo il futuro. Ma non ha nulla a che
vedere con quell'errore prospettarlo un futuro, chiamare ciascuno alle proprie
responsabilità per realizzarlo, costruire le gittate che sono nella normale
disponibilità di un governo democratico per avvicinarlo. Oggi in Europa c'è bisogno di
ridare slancio alla crescita, e quindi di dimostrare insieme tanto il coraggio delle
liberalizzazioni, quanto il coraggio degli investimenti pubblici nelle reti e nelle
infrastrutture che mancano per espandere nel medio termine il radicamento delle attività
produttive (ha ragione Delors! Quali che siano le differenze fra le economie di oggi e
quelle di ieri, oggi come ieri non ci può essere crescita se non ci sono investimenti; e
il ruolo pubblico è cruciale nel fare e nel promuovere gli investimenti). Così come c'è
bisogno (e quante volte è stato detto) di un gigantesco impegno educativo che trasferisca
il numero più ampio di giovani e di adulti nel mondo delle tecnologie, nell'alfabeto del
domani e li renda idonei a lavori che sono oggi riservati alle élites, non perché siano
strutturalmente limitati, ma perché è limitata la nostra capacità di scoprirli e di
praticarli. Lo so che non sto dicendo nulla di nuovo. Ma so anche che, gestite ad una ad
una, queste sono politiche di routine che rischiamo di arenarsi, o di deviare nei fini e
nell'intensità, ad ogni passo. Collegate invece in un disegno del futuro e sospinte da un
tale disegno, sono strategia riformista, che apre prospettive, alimenta aspettative
virtuose e concorre per ciò stesso alla realizzazione di ciò che ha impostato.
Lo stesso vale
per le riforme del welfare che non si ha il coraggio di fare, anche perché con troppa
unilateralità le si è sino ad oggi impostate in base alle sole esigenze dei bilanci. Che
sono esigenze ineludibili, certo, esigenze non solo dell'oggi, ma anche e non meno del
futuro. E tuttavia indifferenti ai tanti mutamenti che stanno intervenendo nel mondo del
lavoro, alla caduta del lavoro stabile, alla conseguente fluttuazione dei redditi di un
numero crescente di persone, alla conseguente necessità di ricostituire anche intorno a
loro reti di sicurezza sociale che oggi non tengono conto dei loro problemi. Chi, se non i
riformisti, può essere chiamato a dare un orizzonte, a restituire fiducia, a rimuovere
insicurezze anche a questo riguardo?
Nella cornice e
sulla premessa di una ritrovata lungimiranza, sono nuovi gli strumenti e sono nuovi - come
si vede - gli orizzonti del riformismo del futuro. Orizzonti che gli impongono azioni
comuni europee rivolte a risolvere i problemi europei e rivolte altresì a costruire la
rete, che già sta nascendo, delle collaborazioni e delle istituzioni con cui regolare il
mercato globale. E i problemi europei non sono altri, sono quelli di cui ho appena
parlato. E' un problema europeo la crescita, che l'interdipendenza dovuta alla moneta
unica impedisce a ciascuno di affrontare da solo in un sistema nel quale ormai nessuno
degli Stati membri può più camminare a un passo significativamente diverso da quello
degli altri. E' un problema europeo il welfare, anche se tardiamo a capirlo: non solo per
il giusto timore del social dumping (costo sociale), ma anche perché non avremo mai la
mobilità da tutti predicata, se non avremo, non tanto una relativa equivalenza delle
diverse coperture, quanto e in primo luogo la portabilità della pensione. La
contrattazione collettiva potrà soltanto sparire se non saprà arrivare alla dimensione,
che è quella europea, del mercato integrato nel quale la concorrenza e la moneta unica
faranno convergere i prezzi di beni e servizi e quindi, necessariamente, anche i costi per
produrli. L'istruzione, che pure rientra e continuerà a rientrare nelle competenze
nazionali, è nella sua sostanza un problema europeo: per ragioni, ancora una volta, di
mobilità, e perché non avremo crescita tecnologica europea se non ci preoccuperemo di
formare il personale europeo ad un comune linguaggio tecnologico.
Ed infine è
appena il caso di dire che non si incide sui grandi fatti del mondo, sui conflitti che
esplodono in tante sue parti con conseguenze per tutti, come pure sui flussi che
attraversano le autostrade del mercato globale con conseguenze per tutti, se non con la
forza e l'autorevolezza di un'unica voce europea. Il che vale per tutti, si badi, non solo
per le seconde file della fotografia di gruppo europea. Anche i paesi che furono grandi
potenze, infatti, intervenendo in proprio e alla spicciolata, riescono solo a indebolire
il peso europeo e a neutralizzare le voci rispettive a beneficio di altre. Sebbene ancora
dispiaccia ai palati di sinistra, è perciò compito dei riformisti promuovere e
irrobustire la Politica Comune di Sicurezza, unica alternativa all'irrilevanza di ciascuno
e di tutti gli europei nelle relazioni esterne e strumento essenziale, per ciò stesso,
per far valere i fini e gli obiettivi delle strategie riformiste nelle relazioni stesse.
Quanto al mercato
globale e alla sua regolazione, ho sempre trovato stupefacente di avere avuto tante
occasioni per occuparmene e tante persone con le quali lavorarci, in relazione al Fondo
Monetario e alla Banca Mondiale, all'Organizzazione Mondiale del Commercio e agli accordi
fra Stati a tutela della concorrenza, non incontrando mai traccia, in questo lavoro, di
interesse o di attenzione da parte della cultura politica riformista.
C'è in genere un
aprioristico giudizio negativo da parte della vecchia sinistra contro tutte questi
istituzioni e regole attribuite "al capitale" e per ciò stesso condannate. E
forse nasce di qui una sorta di ritrosia dei riformisti ad occuparsene. E' un altro
errore, è un altro complesso da vincere, è un altro orizzonte sul quale allargare lo
sguardo. Vi sono dilemmi, in tutti questi ambiti, che raramente sono soltanto tecnici. La
tollerabilità sociale dei programmi di risanamento fatti valere dalle istituzioni
sovranazionali è un problema che va affrontato, che va certo affrontato con scelte
tecniche corrette, ma proprio per questo è un bivio ineludibile per la promozione di uno
sviluppo che non sia fonte di divaricazioni ed esclusioni sociali nelle parti deboli del
mondo; ed è per ciò stesso una palestra ineludibile per la cultura riformista. La
diffusione e l'efficacia di regole prudenziali contro i movimenti troppo facili di
capitale a breve è cruciale per assicurare una sana allocazione delle risorse alle
economie reali e quindi un uso virtuoso del moltiplicatore di ricchezza insito nei mercati
finanziari. Sono regole, certo, la cui elaborazione e gestione compete strettamente alle
istituzioni bancarie e finanziarie e a quelle che vigilano su di esse. Ma il loro esserci
o non esserci genera un altro bivio di altissimo valore politico, che dovrebbe essere
presidiato dalla cultura riformista. E ancora: le regole della concorrenza non sono eguali
per tutti nel mondo e non tutti intendono le medesime regole nello stesso modo. E' in
corso un intenso lavoro, per moltiplicare gli accordi bilaterali fra paesi e regioni del
mondo e addirittura per convenire su regole comuni sotto l'egida dell' Organizzazione
Mondiale del Commercio. Ci sono delicatissime scelte tecniche in gioco, ma al fondo ci
sono opzioni diverse che possono garantire o una limitata concorrenza oligopolistica senza
reciproche discriminazioni nazionali fra i giganti del mondo, oppure mercati realmente
aperti nei quali sia anche garantito il diritto di accesso dei produttori minori e dei
nuovi entranti. Ecco un altro bivio davanti al quale bisogna saper scegliere fra un
rinnovato fenomeno di imperialismo delle grandi economie e un processo di equilibrata
integrazione del mercato globale. Ma occorre davvero un cambio di cultura, occorre uscire
dal vuoto lasciato dalla fine dello statalismo ed entrare nella cultura della regolazione
efficiente dei mercati.
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