La morte dei fascisti

 

 

Prendendo a prestito il titolo dell’ultimo libro di Giano Accame, ci proponiamo di celebrare, in queste pagine, i grandi camerati, sopravvissuti all’ultima battaglia e all’antifascismo, che, cedendo al destino fatale dell’uomo, ad uno ad uno ci lasciano. Ricordiamoli.

 

 

Sommario

1)     Giano Accame di Primo Siena

2)     Mirko Tremaglia (nel primo anniversario della morte)

3)     Walter Jonna, capitano della X^ Flottiglia Mas

 

 

 

 GIANO ACCAME

un cavaliere occitanico tra i figli del sole

 

La mia amicizia con Giano Accame è durata oltre cinquantanni. Lo conobbi infatti nell'autunno del 1951 a Milano, dove egli studiava scienze politiche in quell'Università statale, all'interno della quale guidava con pochi altri ardimentosi il gruppo Carroccio, combattiva espressione della militanza universitaria missina in quell'ateneo. Eravamo quasi coetanei (nato il 30 luglio del 1928 a Stoccarda in Germania, egli era minore di me di 8 mesi, essendo io nato invece un 20 novembre del 1927) e m'incontravo frequentemente con lui durante le mie puntate nel capoluogo lombardo da Verona dove la mia famiglia, proveniente da Modena, aveva fissato la sua residenza nel 1944; e lì l'avevo raggiunta nel dicembre del 1945, appena rientrato dal campo di concentramento titino dove s'era conclusa la traiettoria del Battaglione di bersaglieri, nei ranghi del quale avevo combattuto a difesa della frontiera orientale d'Italia durante la Rsi. 

Pur vivendo a Verona, negli anni cinquanta frequentavo sovente i circoli giovanili del Msi milanese per incontrarmi con Carlo Amedeo Gamba che assieme al torinese Carlo Casalena mi accompagnavano nella direzione del periodico Cantiere, rivista del settore nazionale Studi e Cultura del Raggruppamento Giovanile missino di cui a quel tempo ero responsabile. Posso dire (non senza una punta d'orgolio) che la brillante carriera di Giano scrittore e giornalista incominciò sulle pagine di Cantiere durante i nostri incontri milanesi tra il 1951 ed il 1953 com'egli – ogni volta che se ne presentava l'occasione amava ricordare. Così volle testimoniare il 7 febbraio del 1990, quando - in uno dei miei periodici rientri in Italia dal Sudamerica dove operavo culturalmente dal 1978 -visitandolo nella nuova sede del quotidiano Il Secolo d'Italia di cui allora era direttore, mi regalava una copia di quella magnifica e singolare raccolta di saggi pubblicata sotto il titolo Il fascismo immenso e rosso, vergandovi questa dedica autografa: A Primo Siena, sulla cui rivista ho scritto il mio primo articolo, questo libro che ne è la continuazione, con affetto.

  Quegli scritti — che non furono più ripresi successivamente dal suo autore - dimostravano già allora il suo interesse nello scandagliare gli aspetti più vari del pensiero, sottoponendoli al vaglio di capacità critiche ed interpretative di straordinaria potenzialità per ricaverne la miglior difesa degli alti valori dello spirito pericolosamente insidiati dalle ideologie della decadenza.

 

Un cavaliere occitanico tra i figli del sole

 

Il  primo articolo di Giano Accame fu pubblicato nel quaderno n.6 di Cantiere (dicembre 1951); trattava del pensiero del filosofo inglese Thomas Hobbes, nel trecentesimo anniversario della prima edizione del suo Leviatano. In esso il giovane Giano intravvedava acutamente una anticipazione delle dottrine della sovranità popolare; principio ritenuto inconcepibile una volta staccato concettualmente dalla sua provenienza divina: <Lo Stato dell'Hobbes è un mostro - egli osservava - un Leviatano, non perché è assoluto, ma perché è senz'anima. L'assolutismo per diritto divino trovava infatti i suoi limiti nella volontà di Dio, che è moralità giustizia ed amore; laddove il potere come l’immagina l'Hobbes per delega popolare non ha alcun limite etico, ma è capricciosamente diretto dall'egoismo, dalle più meschine passioni, si sviluppa in un clima d'incubo, tra il terrore, la menzogna e il sopruso, sconfinando nel caos>. E concludeva: <Pescato l'Hobbes con le mani nel sacco di un bagaglio ideologico che è costituzionalmente estraneo, occorreva smascherarne le involuzioni aberranti per eliminare ogni   motivo di equivoco su dei principi d'ordine, indissolubilmente connessi ai più alti valori dello spirito che vanno disperatamente riaffermati in questa nostra società decadente ed intimamente minata da un continuo contrabbando di ideologie spurie e corrotte>.

 Durante l'annata del 1952 collaborò alla rivista con cinque articoli: nel primo  di essi analizzava la crisi della società rileggendone gli aspetti ne L'homme revolté di Albert Camus (n.l/Febbraio); denunciava quindi nel secondo la sovversione giacobina contro le "corporazioni di mestiere"soppresse dall'assemblea francese nel 1791, rilevando una analogia di comportamento tra la democrazia illuminista francese ed il liberalismo anglosassone che mediante il Combination Act del parlamento inglese del 1799 proibiva qualche anno dopo gli accordi tra impresari e lavoratori (n.3/Aprile); nel terzo cogliendo lo spunto della grazia che lo aveva liberato dalla pena dell'ergastolo, sbalzava in due pagine un profilo della figura di Charles Maurras, capo carismatico del nazionalismo monarchico francese e del suo pensiero (n.4/Maggio); sul quaderno n. 5 (Luglio 1952) appariva un quarto articolo di quell’annata, che considero tra i migliori dei suoi scritti giovanili.

Si tratta di un pezzo giornalistico stilisticamente elegante pubblicato nella sezione “Arte e cultura d’oggi”. Intessuto di graffiante ironia sostenuta da precise cognizioni storiche ed acuta introspezione dottrinale, s’intitolava: L'allegra guerra dei trovatori.  In contrasto con il disagio provocato da certa lirica contemporanea che – annotava Giano Accame - "accarezza senza amore la propria noia e ricama gli ozi del popolo sovrano col filo di senzazioni carpite tra l'odor di merda nella pineta di Viareggio", si trascrivevano quattro strofe sanguigne  (cantavano le forti passioni amorose, il bel canto e la guerra bella)  dovute a Percivalle Doria, uomo d'arme genovese, autore di poesie in provenzale e nell' incipiente italiano delle origini, più volte podestà di Asti e di Parma, Arles ed Avignone, ghibellino fautore di Re Manfredi.

Giano aveva dedicato con intelligenza provocatrice quello scritto al Ministro dell'interno di allora, autore di provvedimenti che in nome dell'antifascismo codificavano il reato d'opinione: "All'On. Scelba, con intenzioni chiaramente delatorie a danno della poesia occitanica, più volte recidiva nell' esaltazione della violenza ".

Nell’ultima sua collaborazione a Cantiere dell’anno 1952, sotto il titolo “Autorità e rappresentanza” e con uno stile che risentiva dei suoi freschi studi di diritto, sia pubblico che privato, Egli denunciava le contraddizioni della democrazia moderna dovute a figure giuridiche sorte nel diritto privato ma quindi deposte sul letto di Procuste del moderno diritto pubblico per <effetto di un adattamento malaccorto e raffazzonato operato in tempi piuttosto recenti dai giuristi dell’illuminismo; i quali suggestionati dal dogma individualistico, credettero di dover ridurre tutto il diritto pubblico al diritto privato> modellando sugli schemi propri di quest’ultimo <i rimasugli di un diritto pubblico liberamente castrato>. Dopo una serie di acute osservazioni sostenute da solida dottrina giuridica (nella quale affiorava l’insegnamento privato che egli recepiva dalla periodica consuetudine con quel grande giurista fascista che fu Carlo Costamagna), Giano distingueva nettamente tra l’autorità dei capi  e la funzione dei rappresentanti popolari  finendo con l’avvertire: <E’ un pregiudizio tipico della nostra epoca  quello che vuole a tutti i costi saldare l’idea del capo a quella del rappresentante. Pregiudizio che dobbiamo assolutamente allontanare dal nostro cammino per restaurare nel suo vero, primitivo splendore, l’immagine dell’autorità allo stato puro. (...) Che i rappresentanti ritornino alla loro funzione di rappresentare, cioè esporre la volontà altrui, fare commissioni ed amministrare secondo le disposizioni ricevute. Che i capi ritornino alla loro funzione di capi, cioè a disporre di una volontà propria, a dare ordini, a rifiutare qualsiasi intimazione che venga dal basso, pur accogliendo i desideri degli umili per esaudirli secondo giustizia>.

Con l’andar degli anni, Giano moderò il dottrinarismo radicale di queste sue posizioni iniziali  che coincisero con la verde stagione dei “Figli del Sole”, la corrente giovanile che egli rappresentò con Enzo Erra, Pino Rauti, Franco Petronio, Fabio De Felice ed alla quale aderivano:  Silvio Vitale e Gino Agnese a Napoli, Nando Ventra a Firenze, Pippo Tricoli a Palermo, Carlo Amedeo Gamba,  i fratelli Augusta e Lorenzo Ribotta a Milano, Roberto Melchionda e Marcello Mainardi a Brescia, Cesare Pozzo a Padova, Luciano Lucchetti e Fabio lonciari a Trieste, Pietro Etro a Udine, Roberto Garufi, Piero Vassallo, Sergio Pessot, Stefano Mangiante a Genova, Piero Buscaroli a Bologna, Gastone Romani  e Giulio Raiola a Venezia, Cesare Alfieri a Messina, Fausto Belfiori, Clemente Graziani, Nino Capotondi,  Paolo Andriani, Mario Gionfrida, Giorgio Cacciaguerra, Alberto Ribacchi a Roma, Bartolomeo Zanenga a Belluno, Vito Cusimano a Catania, il sottoscritto con Dino Meloni a Verona.

 Giano Accame accompagnò la corrente dei “Figli del Sole” nel congresso missino di Viareggio (1954) dove presentò con essi una propria mozione alla quale aveva dato un sostanziale contributo il suo maestro Carlo Costamagna, il quale assiene a Pino Romualdi e al sardo Giovanni M.Angioy apriva l’elenco dei firmatari-presentatori del documento congressuale. In un passo di esso  si sente, sia pure di lontano, l’eco della tesi espressa dal giovane Accame su autorità e rappresentanza; e precisamente laddove, proponendo una riedificazione dello Stato dal profondo e dall’alto, si afferma: “In uno Stato così concepito, la rappresentanza sarà rappresentanza di virtù, di competenze, di interessi e sarà rappresentanza non di popolo, cioè di una astrazione concettuale, ma delle associazioni politiche, morali, culturali e professionali nelle quali il popolo acquista concretezza di esistenza ed evidenza di lineamenti. Questa rappresentanza non si arrogherà il diritto di definire l’interesse generale che non può risultare né dalla somma degli interessi particolari, né dal compromesso fra essi, ma darà allo Stato gli elementi di valutazione politici ed economici e provvederà alle funzioni regolamentari ad esso Sato devolute”.  

 Noi “figli del sole” allora ci consideravamo (anche per il contributo dialettico di Giano Accame) dei rivoluzionari e degli eretici rispetto a molti aspetti del  fascismo storico per aver esso impedito l’avvento integrale del fascismo puro. Il nostro radicalismo spirituale, che  s’avventava spesso contro il moderatismo pragmatico della classe dirigente adulta del Msi, nasceva dalla  nostra ostilità per l’involuzione burocratica del fascismo regime (conformismo, carrierismo politico, ipocrisia).

Più tardi poi, avrei compreso che il nostro rivoluzionarismo – incluso quello di Giano – era di tipo tradizionale perché includeva, allora inconsapevolmente, persino il termine reazione nel suo significato chimico-scientifico di modificazione (come nel processo di “reazione a catena” nella fisica atomica) e che infine  s’apparentava  al significato astronomico della parola rivoluzione (il movimento di un corpo celeste che ruota intorno al proprio asse lungo la traiettoria ellittica  fissa di un’orbita), tratto dal latino revolvere, nel senso classico, romano: revoluta quarens saecula (cioè “risalendo il corso delle generazioni”), ben distinto quindi  dai  significati inautentici attribuiti a tali termini dall’uso falsificante delle ideologie moderne.

 

Un viaggio ellittico intorno al fascismo

 

 Poco prima del  quarto congresso del Msi (Milano, dicembre 1956), Giano avviava il suo distacco dal Msi motivandolo sulla rivista Tabula Rasa da lui stesso promossa con Fabio De Felice, Cesare Pozzo, Mario Pucci, avendo come collaboratori Carlo Costamagna, Franco Petronio, Roberto Melchionda, Lorenzo Ribotta.  Egli accusava la politica di graduale inserimento politico del Msi, perseguita da Michelini all’insegna del ”non rinnegare e non restaurare,  di “troppo modesta estrazione ed ambizione” (e, a distanza di tempo, ritengo che lo facesse esagerando) rilevando - con un piglio di intelligente provocazione -  che mentre, paradossalmente, “tutti i partiti hanno cercato di trarre qualche insegnamento dalla lezione di Mussolini” solo il Msi sembrava non aver nulla imparato dal fascismo. E nell’ultimo quaderno di quella brillante rivista (la cui audace avventura si concludeva con il N-3-4 del novembre 1956), associandosi ad una nota redazionale collegiale dichiarava polemicamente che  – che se i riferimenti al fascismo dovevano servire solo allo spaccio piú o meno di ciondoli e medagline e per pretestuose rivendicazioni congressuali con lo scopo d’inscenare caroselli pubblicitari come si trattasse di una marca di pillole “è meglio ritirarsi di un passo, prendere la mira attentamente, e sputarci sopra” perché quella non era più un’idea ma solo uno sporco affare e basta. Chiedendosi, in quell’occasione quale poteva essere lo spazio dell’Italia  “nel quadro del rinnovamento di tutte le strutture economiche portate dalla rivoluzione industriale quando gli effetti del progresso nucleare si facessero sentire fino a porre con urgenza il problema di un rapido adeguamento politico”, rispondeva: <Il fascismo del futuro ci strappa con crudezza al pericolo dell’immobilismo. Dinnanzi alle prospettive dei prossimi decenni le nostre idee possono giocare il loro ruolo, ancora una volta, precedendo di anni, com’è già accaduto, il delinearsi di forze politiche e strati sociali sulla loro scia>.  

Emerge qui la sua interpretazione del fascismo come innovazione, avanguardia, modernità; una interpretazione – a mio avviso – di sapore poundiano che non escludeva però dal fascismo le sue radici tradizionali. Riconoscerà infatti qualche anno dopo che Mussolini, pur avendolo fondato ed essendone il capo naturale,  non aveva tratto il fascismo completamente dal nulla e mai ne esaurì tutte le potenzialità perché <il fascismo, seppure senza averne ancora il nome, gli preesisteva come esigenza suscettibile di inverarsi anche in forme diverse>. Tesi questa che si apparentava a quella di Emilio Bodrero quando dalla sua cattedra universitaria affermava che il fascismo affiorò in potenza nel destino del popolo italiano fin da quando il pius Enea, fuggiasco da Troia distrutta, sbarcava sulla coste del Lazio germinando le premesse della nascita di Roma.

Col tempo, a partire dal periodo in cui prese  ad occuparsi di problemi economico-finanziari, accrebbe in lui quella sensibilità per le problematiche del mondo contemporaneo che lo indurrà ad approfondire gli aspetti sociali del fascismo, sicchè venne  spesso considerato un “fascista di sinistra”; qualifica anch’essa a mio avviso discutibile come risulta evidente da questo passo, tratto dal commento al libro del francese Paul Sérant sul “romaticismo fascista”, dove si legge: <Il fascismo, per gli sbagli che ha commesso, per le possibilità che ha bruciato, per tutto ciò che ha forse irremediabilmente compromesso, potrà essere considerato una pecora nera fra le correnti tradizionaliste, fra quelle piccole minoranze di esseri ridestati  alle quali si riferisce Paul Sérant: ma è una pecora nera di quel gregge>.

Riconoscendo il fascismo quale parte del tradizionalismo, sia pure nel ruolo di pecora nera di esso, Giano ricollocava implicitamente il fascismo nella destra metafisica e metapolitica, nonostante che in diverse occasioni avesse affermato non potersi definire il fenomeno fascista né di destra né di sinistra, assumendo esso  taluni tratti da entrambe  queste posizioni; talché –  aggiungeva –  in quell’ entrambe  risultava implicita sul piano politico la negazione di una sua collocazione obbligata soltanto a destra.

Del resto, ricordando la sua appartenenza alla corrente giovanile dei “Figli del Sole” che all’interno della gioventù missina negli anni Cinquanta, da posizioni di estrema destra aveva polemizzato con l’ala sinistra dei socializzatori, egli  aveva confessato:  <Io poi  all’interno di una fedeltà mantenuta per ostinazione, mi sono mosso sino a diventare un teorico della destra sociale. Che peró non è una destra sinistreggiante: si rifà a posizioni critiche del liberalcapitalismo, aristocratiche e religiose, che precedono Il Manifesto di Marx ed Engels e hanno tra i padri fondatori dei conservatori come Beniamino Disraeli e Otto von Bismarck> (Vedasi, M. Iacona, Il Maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius Evola. Ed. Controcorrente, Napoli 2008,  pag 323-3249).

   Nel suo lungo viaggio ellittico attorno al fascismo, Egli  aveva dimostrato sempre una predisposizione personale alle inclinazioni trasversali intese a rompere gli schemi conformistici di destra e sinistra ricavati dal carattere sovversivo della cultura illuminista (specialmente nei riguardi degli eccessi del razionalismo e della filosofia materialista), per tentare nuove sintesi politiche, pur rendendosi conto delle difficoltà implicite in simili imprese e che, nell'ambiente umano e politico in cui si muoveva, non s'era disposti sempre a condividere.

    Non tutti erano in grado di comprendere certa sua condotta ispirata dal desiderio di superare gli steccati nati con la guerra civile del 1943-45 e la contrapposizione ideologica che ne seguì in lunghi anni bui macchiati da sangue innocente. Ma il rispetto per la storia di avversari onesti e in buona fede - con i quali condividere il sogno nobile di proiettare l'Italia  verso un destino migliore (e qui penso – ad esempio - al sodalizio con Randolfo Pacciardi per il progetto di una "Nuova Repubblica") - non lo indusse mai a rinunciare alcunché del suo passato e del relativo bagaglio politico, nel quale seppe indagare con intelligente spirito critico per separarne gli aspetti caduchi del loglio dal grano buono per farne semina nel futuro. Anche quando rifuggiva da gesti enfatici e vuoti (la luce pallida delle "promesse non mantenute" le canzoni roboanti e fuori moda, le "camicie nere d'una volta") , egli tuttavia continuava a dichiarare: "resto fascista nel cuore", come aveva scritto nel lontano 1967, in un libro collettaneo dedicato a Robert Brasillach.

 

   L’ultimo colloquio a distanza

Ho parlato con Giano Accame una ventina di giorni prima che ce lo rapisse il male oscuro che lo stava minando (sarebbe infatti deceduto nel sonno il 15 aprile del 2009 nella sua residenza romana sul Lungotevere).. Gli telefonavo da Santiago del Cile, dove risiedo da tempo. <Come stai?> gli chiesi. Mi rispose: <Sto a letto, per alcuni doloretti alle ossa che mi molestano. Ma tireremo diritto>.

   La mia telefonata nasceva da un motivo puntuale: chiedergli se egli aveva qualche elemento da darmi circa un "Movimento per la rinascita italiana" progettato nel 1944 da Julius Evola assieme ad alcuni amici fra i quali il politologo e giurista fascista Carlo Costamagna, poco prima della sua avventurosa ritirata verso il territorio della Repubblica Sociale, da Roma ormai minacciata dall'occupazione angloamericana. Negli anni giovanili, Giano era stato assai vicino appunto a Carlo Costamagna,  ma non aveva notizie inedite da darmi al riguardo. Mi chiese, naturalmente, la ragione della mia richiesta ed io gli spiegai che sto accudendo ad un saggio sulla Rsi, dove desidero documentare che in quell'esperienza dell'ultimo fascismo mussoliniano - definito spesso come l'espressione di un fascismo di sinistra tinto di socialismo tricolore -avevano partecipato in posizioni di notevole impegno uomini di destra (diplomatici, militari, politici), spinti a quella scelta da principi che continuavano a costituire una antitesi permanente ai postulati della cultura illuminista e della rivoluzione francese.

   Rilevai, quindi, in quella conversazione telefonica, che i valori sociali che avrebbero collocato la Rsi a sinistra, erano elementi suscitati da situazioni ed esigenze socioeconomiche temporanee, collocate nel tempo; elementi comunque tutti subordinati a principi permanenti - non certo appartenenti alla cultura di sinistra che conosciamo - quali: il senso dello Stato, lo spirito legionario di combattmento, l'onore militare ed il rispetto alla parola data, la fede nel destino storico della patria; principi questi di una destra classica e metafisica.

   Giano - sempre attento alle novità, specie se come nel mio caso affiorava in esse alcunché di provocazione - osservò che tutto il fascismo storico, dall'inizio alla fine, resta un unicum che va al di là della destra e della sinistra perché essenzialmente estraneo alle classificazioni convenzionali nate dalla collocazione parlamentare dei girondini e dei giacobini durante la rivoluzione francese. Al che replicai che le qualificazioni di destra e sinistra all'interno del fascismo sono classificazioni di un fenomeno che appartiene specificaamente alla "destra dei princìpi", cioè metapolitica e metafisica; una destra certamente estranea alle destre parlamentari come le conosciamo oggi, dove la tentazione del potere obbedisce più ad interessi materiali immediati che a principi spirituali. Nel prospettargli tutto questo, tenevo presente quel suo antico scritto giovanile sulla  “sovversione giacobina contro le corporazioni" ricordata anteriormente.

   In esso Egli aveva rilevato che <tutti i veri sistemi autoritari, dalle antiche dinastie solari, dalle monarchie di diritto divino al fascismo avevano potuto non solo tranquillamente tollerare, ma persino incoraggiare e difendere la libertà corporativa senza minimamente temerne per la propria stabilità>, mentre la democrazia illuminista aveva dovuto vietare tale libertà. Comprendere tutto questo - egli concludeva - significava veder chiaro nel problema centrale della nostra società: <costituito da una lotta senza quartiere tra l'ordine e la sovversione, tra lo Spirito e la materia, tra due mondi distinti, in ognuno dei quali parole, azioni, istituzioni, uomini ed eventi assumono significati letteralmente opposti. Chi si sarà reso conto di ciò avrà capito anche che i problemi del lavoro hanno un carattere meramente episodico e particolare e che per essi le soluzioni locali o parziali non hanno alcun senso, sino a che la battaglia non sia combattuta su un piano più alto, là da dove tutto si diparte".

  In un'ottica simile - commentai - cerco di esaminare, nel mio saggio, la rivoluzionaria inclinazione sociale della Rsi.

  <Tesi interessante, questa tua> concluse Giano invitandomi ad inviargli il testo non appena completato il capitolo ad essa dedicato.

  Desidero sottolieanre che, quando gli telefonai, Egli - con la discrezione che lo distingueva - sorvolò sulla gravità della malattia riducendola alla molestia di alcuni doloretti alle ossa; e in conclusione del nostro colloquio telefonico mi invitò a tenerlo al corrente del mio lavoro come se avesse ancora dinnanzi a se una normale prospettiva di vita.

   Giano era fatto così

   Nei numerossimi articoli dedicati alla sua singolare traiettoria umana e politica, non sono mancati colo che hanno cercato di farne un ispiratore delle giravolte che hanno segnato la disinvolta traiettoria di chi, partito baldanzosamente  da un ipotetico fascismo del duemila (anni Ottanta), per approdare al “politicamente corretto” si convertì speditamente all’ obsoleto antifascismo del Secolo Ventuno, come se — lo  rilevava in quell’occasione, coraggiosamente ed opportunamente Giuseppe Antonio Spadaro - "storicizzare un'idea" equivalga a dover capovolgerla nel suo contrario.

   Commentando la svolta di Fiuggi che aveva chiuso la stagione ultrecinquantennale del Msi per aprire il ciclo di Alleanza Nazionale, Giano, sempre aperto alle novità, aveva opportunamente precisato che quella svolta <con la creazione di An alleggeriva il peso del passato, con un riconoscimento anche al valore e alle ragioni dell’antifascismo che rientrava pienamente in una logica nazionale. Perchè nella storia di un popolo, di una nazione, devono essere compresi anche “gli altri”. La storia concepita in chiave nazionale non può escludere altri compatrioti ed è quindi necessariamente una sintesi di opposti  ideali e interessi>. Però subito dopo aveva ricordato agli immemori come a certi saltimbanchi dell’ultima ora che <nel ricambio delle generazioni, la generosa esigenza di comprendere i nonni degli altri, non dovrebbe spingersi sino a rinnegare i propri>.

   Su  Il Giornale,  Stenio Solinas all’domanai della morte di Giano Accame  ne traccciava  un profilo  ("l'esule in patria che ha esaltato l'Italia dalla parte dei vinti") con questo incipit:

  <Fra i ragazzi che ancora fecero a tempo a partecipare alla seconda guerra mondiale dalla parte sbagliata, Giano Accame fu uno dei primi a dare intellettualmente il suo addio al fascismo e però  durante tutta la sua vita gli rimase l'amara consapevolezza che un Paese che non ha l'orgoglio del proprio passato, rispetto del proprio presente e fede nel proprio avvenire, è un Paese miserabile>.

   Certo, egli aveva dato – come molti di noi - un addio al cesarismo fascista di Mussolini, conclusosi con la tragica fine del suo interprete, conservando però – assieme a noi – la consapevolezza che quella suggestiva avventura del Novecento italiano aveva indicato prospettive  politiche e culturali la cui potenzialità andava oltre la sua stessa  convulsa stagione e che quindi valeva la pena di raccoglierla per proiettarla verso il futuro.

Perciò fin dagli anni cinquanta  Egli aveva reclamato: <Abbiamo bisogno di una poesia che prepari i combattenti e gli eroi. Non possiamo cullarci nell'illusione di  un   avvenire tranquillo. Perciò il pacifismo è un crimine; tutto quello che ci rammollisce e che ci distrae è un crimine. Anche l'arte deve assumere i suoi compiti e rivolgersi agli uomini dell'Ordine. Deve aiutarli a fare del mondo il banco di prova delle loro virtù e del loro coraggio> (da "L'allegra guerra dei trovatori" in Cantiere, giugno-luglio 1952).

   Consapevole, come aveva scritto spesso, che non vi sia futuro promettente senza solide radici nel proprio passato, memore d’essersi arruolato volontario a 17 anni nella fanteria di marina della Repubblica Sociale Italiana (giusto un 25 d’aprile del 1945), giunto alla conclusione del suo itinerario esistenziale ha voluto adempiere ad un significativo gesto rituale - egli che in vita ne aveva spesso rifuggito - rivestendo nuovamente la camicia nera del combattente, ammantato nel tricolore caricato dell'aquila romana con il fascio repubblicano.

   In morte ha ricordato per l'ultima volta, a tutti,  soprattutto agli immemori che hanno tentato d’annetterselo, ai voltagabbana speranzosi di una sua tolleranza finale, ai rozzi manipolatori del suo pensiero: <Non illudetevi. Sono rimasto sempre fascista nel cuore!>.

 

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MIRKO TREMAGLIA

 

I° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI

MIRKO TREMAGLIA

Nato a Bergamo il 17 novembre 1926, compì gli studi al liceo classico Sarpi di Bergamo (compagno di banco era Filippo Maria Pandolfi).

 A 17 anni aderì alla Repubblica Sociale Italiana e, dopo un regolare corso AA.UU. conseguì la nomina a Sottotenente.  Desideroso di combattere, rischiò una denuncia per diserzione per aver lasciato il suo reparto per recarsi al fronte. Riuscì infine ad essere inviato sul fronte della Garfagnana come ufficiale del 1° Rgt della divisione bersaglieri “ITALIA”. Partecipò qui ai combattimenti della primavera del 1945 finchè cadde prigioniero e fu rinchiuso a Coltano.

Recuperata la libertà nell’autunno del 1945 si iscrisse all'Università Cattolica di Milano, ma fu cacciato quando si scoprì il suo trascorso di volontario nella R.S.I. Conseguì, comunque,  la laurea e iniziò la professione forense.

 Aderì, come molti altri reduci della R.S.I. al Movimento Sociale Italiano e fu un esponente storico e dirigente del MSI. Fu per lungo tempo stretto collaboratore del segretario Giorgio Almirante. Nel 1968 istituì i Comitati Tricolori per gli Italiani nel Mondo. Eletto alla Camera per la prima volta nel 1972, nel 1993 la Camera approvò un Ddl Tremaglia per il voto per corrispondenza degli italiani all'estero e la creazione di Circoscrizioni Estere, ma il progetto di legge si arenò al Senato. Nel 1988, però. fece finalmente approvare la sua Legge Tremaglia sull'anagrafe e censimento degli italiani all'estero (L. 470 del 27 ottobre 1988). Nel 1991 venne eletto componente dell'ufficio di presidenza del neonato Consiglio Generale degli Italiani all'Estero. Egli fu Segretario Generale del CTIM,  Presidente della Commissione Esteri della Camera dei deputati,  Ministro degli Italiani nel mondo.L'ultima sua elezione avvenne il 22 aprile 2008. In precedenza era stato deputato nelle legislature: VI, VII, VIII, IX, X, XI, XII, XIII, XIV, XV.
Il 2000 fu l'anno più triste per Tremaglia: il figlio Marzio, dirigente giovanile del FUAN, consigliere comunale MSI a Bergamo (1980-1995) e poi brillante assessore alla Cultura della Regione Lombardia (1995-2000), morì a soli 42 anni . Nel 2009 ricevette la medaglia d'oro dal Comune di Bergamo.
Al  nome di Mirko Tremaglia è legata la Legge Tremaglia  che consente il voto degli italiani all'estero. Per questa legge ha speso gran parte della sua attività politica. Una battaglia partita da lontano fino ad ottenere la modifica della Costituzione negli articoli 48 (istituzione della circoscrizione Estero), 56 e 57 (numero dei deputati e senatori eletti dai cittadini italiani all'estero). Questa opportunità si concretizzò a partire dalle elezioni politiche del 2006, quando entrò in vigore l'istituzione della circoscrizione Estero.

Mirko Tremaglia rimase sempre fedele al suo passato in R.S.I. Ritornato più volte in Garfagnana dove aveva combattuto, non mancò mai di rendere omaggio ai caduti della R.S.I. in Garfagnana, anche recandosi presso la chiesina-sacrario di Palleroso, sulle cui pareti sono incisi i nomi di tutti i caduti. Anche quando era ministro.                                                                                                                                                                                                                                                             

 

 
                                                                                                                     

                                                                                                                            

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Morte d’un soldato al tempo delle jene

E’ morto Walter Jonna, Capitano della X^ Flottiglia Mas

Di Marcello Veneziani

Ma vi sembra possibile che nell’agosto bastardo del 2013 un signore muoia dicendo: “Ho amato la mia Patria più della mia anima ?”.  No, non è possibile ma è successo. Si chiamava Walter Jonna, Capitano della X^ Flottiglia Mas, tre croci al merito di guerra, arruolato volontario a 17 anni, da ragazzo scampò a due fucilazioni già in esecuzione. Una in Russia, dove era partito da alpino (combattè pure in Grecia) e dove fu messo al muro dai russi, ma non reggendosi in piedi, cadde sui corpi dei suoi commilitoni e fu scambiato per morto. Ricoverato al centro mutilati e invalidi, raggiunse con le stampelle La Spezia e si arruolò nel settembre ’43 nella Decima Mas del Comandante Borghese. Condannato a morte dai partigiani fu confessato da un prete-partigiano, don Angelo Recalcati, che poi diventò suo amico. Ma il plotone d’esecuzione composto da finanzieri si rifiutò in extremis di aprire il fuoco; poi lui riuscì a evadere.                                                                                                                               Mi mandò il suo libro che raccontava la sua storia, “Inseguendo un sogno”. Era presidente onorario dei combattenti della X^ Mas. Lasciate stare che era un fascista e veniva dalla scuola di mistica fascista di Giani e Pallotta. Quel che colpisce è che nei nostri giorni, popolati da sciacalli, miserie e guerre civili evocate a sproposito, deserto dei valori e irrisione d’ogni santa cosa, un soldato che già due volte aveva dato la sua vita all’Italia, sia morto professando amore per una Patria morta più di lui. Lui era disposto a darle l’anima. L’ha riavuta integra e celeste, con onore.

(da Il Giornale del 6 agosto 2013)

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