PREFAZIONE

I

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) è una terribile malattia degenerativa del sistema nervoso centrale. Ha un decorso ancora oggi inarrestabile e nel corso di qualche anno riduce progressivamente le capacità di movimento del paziente sino alla paralisi sia delle gambe che delle braccia. Anche i muscoli deputati all'articolazione del linguaggio, alla deglutizione ed alla respirazione vengono compromessi. Per contro le capacità intellettive dei pazienti non sono interessate dalla malattia, per cui i soggetti sono perfettamente in grado di rendersi conto del progredire della malattia anche nelle sue fasi più avanzate.Negli ultimi anni vi sono stati notevoli progressi nella conoscenza delle cause della SLA e dei meccanismi che possono portare alla degenerazione di quelle cellule nervose cui conseguono i vari sintomi presentati dai pazienti. Parallelamente si sono andate attuando diverse sperimentazioni terapeutiche, basate sulle conoscenze via via acquisite, tentando così di arrestare o quanto meno di rallentare l'evoluzione fatale della SLA. Alcuni risultati sono stati già conseguiti e si spera che in un futuro non lontano anche questa terribile malattia possa essere efficacemente combattuta. Quanto sopra esposto è una sintesi estremamente ridotta dei vari aspetti della SLA come visti dagli "addetti ai lavori". Vi è poi la tragica e drammatica realtà vissuta dai pazienti, in particolare da quelli dotati di maggiori capacità introspettive. In questi la rappresentazione delle future tappe di sviluppo della malattia crea una angoscia talora difficilmente domabile: l'avvocato Camillo Colapinto è stato invece in grado di sublimare la sua ansia interiore in uno sforzo creativo encomiabile, onde attirare l'attenzione dell'altra parte del mondo - del mondo dei sani cioè sulla drammaticità della SLA. Egli è stato capace di stimolare le Associazioni di pazienti, le Amministrazioni pubbliche delI`Universo-Sanità", le strutture sanitarie,non limitando la sua azione e i suoi interventi alla sua amatissima Puglia, ma incoraggiando e stimolando amici, colleghi e pazienti di numerose altre regioni italiane a seguire il suo esempio. E tutto ciò ad onta delle progressive limitazioni delle sue capacità di movimento, del progressivo affievolirsi della voce con gravi difficoltà nella articolazione delle parole. In tale contesto si pone il racconto-cronaca dell'avvocato Colapinto: esso rappresenta un documento di toccante drammaticità, ma chiaramente illustrativo della evoluzione inarrestabile della SLA, con la forzata limitazione dell'attività del paziente sul piano lavorativo, sociale in genere, famìliare, personale infine. Nella mia professione di medico e di neurologo ho da sempre rilevato e fatto rilevare come la SLA rappresenti una malattia tra le più drammatiche, amputando via via le proteiformi attività dell'essere umano, ma lasciando, oserei dire tragicamente, indenni le capacità intellettive. Il paziente è pertanto perfettamente in grado di rendersi conto della evoluzione dei suoi disturbi sino alle fasi estreme della malattia. La speranza e l'augurio che formulo in questa sede è che la testimonianza dell'avvocato Colapinto possa essere di aiuto, quanto meno psicologico, per i pazienti, orientando le loro decisioni verso una sopravvivenza che con le moderne tecnologie sanitarie (respirazione assistita domiciliare, ad esempio) può essere protratta per anni, una volta raggiunta la totale invalidità. Fondamentale risulta, nell'assìstere i pazienti lungo le varie tappe della progressione della SLA, l'opera delle associazioni, quale ad esempio l'AISLA. In particolare, in una malattia come la SLA l'opera del medico e delle strutture sanitarie risulterebbe insufficiente senza la collaborazione con le associazioni dei pazienti e senza il continuo apporto di consigli, suggerimenti, bilanci previsionali, forniture di supporti tecnologici e così via. Concludo queste brevi note esprimendo tutta la mia profonda gratitudine all'amico Camillo Colapinto, per aver saputo dare voce con il suo drammatico racconto alla sofferenza di tanti pazienti affetti da SLA. Vorrei chiudere con una nota di speranza: da neurologo, al corrente dei progressi vertiginosi cui assistiamo in questi anni nel settore delle neuroscienze, ritengo non lontano il giorno in cui questa terribile malattia potrà dirsi, se non vinta completamente, quanto meno arrestata nelle primissime fasi del suo manifestarsi.

Prof. Guglielmo SCARLATO

Milano

II

Uouvrage présenté par monsieur Colapinto est exemplaire et émouvant. Exemplaire d'abord de lucidité, de courage et d'énergie. L'auteur, qui a une parfaite conscience et connaissance de sa maladie, la décrit avec une précision véritablement médicale dans son début et dans son évolution progressive: sensation inopinée et troublante, un jour au restaurant, d'un talon droit qui ne peut plus battre la mesure; puis crampes musculaires; puis fasciculations; puls clonus du pied doni il prend conscience du fait de secousses du membre inférieur lors de l'appui sur une pédale. Tout ceci est raconté avec minutie dans une auto-observation parfait. Loin de se décourager, le palient s'informe, se renseigne dans son pays d'origine mais aussi à l'étranger où il entre rapidement en contaci avec les spécialistes les plus qualifiés de cette maladie malheureusemente incurable. Cependant des espoirs commencent à naitre et l'utilisation de produits nouveaux de plus en plus nombreux laissent penser que bientot les progrès de la médicine s'appliqueront à la terrible sclérose latérale amyotrophique. Cela est très probable. Si on se limite aux gyrandes affections du système nerveux, il est indiscutable que, depuis quelques années, des avancées quotidiennement plus importantes se font dans le domaine de la maladie de Parkinson ou de la maladie d'Alzheimer par exemple. Uémergence d'un nouveau médicament, méme faiblement actif, est un premier pas, souvent décisif qui dans des délais plus ou moins brefs aboutit à la mise au point d'un traitement efficace; monsieur Colapinto en a pleinement conscience et, à juste titre, souhaite expérimenter toutes les thérapeutiques susceptibles d'agir, du dextrométorphan au riluzole. Cette énergle est exemplaire. ljhomme ne doit jamais se désespérer. Pour tout étre humain une fin est Méluctable, à plus ou moins brefs délais, dans les circonstances les plus diverses et le plus souvent imprévisibles. Aussi ce qui compie c'est de savoir remplir son existence. Peu importent les délais. Monsieur Colapinto n'en reste pas là. Il anime, à Bari, une association contre la sclérose latérale amyotrophique. Ceci l'amène, entre autres activités, à organiser à Conversano un congrès international sur ce thème. Ainsi ses concitoyens, les malades, tous ceux qui l'environnent sont informés de cette maladie sévère, des difficultés de son diagnostic, des possibilités thérapeutiques et de l'avenir de la recherche. tmouvant est le second qualificatif qui s'attache à cet ouvrage. Le patient non seulement donne une description parfaite de sa maladie, mais explique avec nuances les états d'áme qui, nécessairement, l'accompagnent: amertume devant la froideur du diagnostic d'une affection fatale; inquiétude devant l'absence de thérapeutique active; révolte en constatant le peu de centres spécialisés (ce qui s'explique car méme récemment l'inefficacité de toute thérapeutique a souvent fait délaisser de tels patients devant lesquels le médicin se trouvait démuni de tout moyen); conviction qu'il faut tenter quelque chose, trouver des solutions, ne pas rester inactif. Ainsi, exemplaire et émouvant, l'ouvrage de monsieur Colapinto a une portée très générale. li illustre parfaitement la détresse d'un homme seul devant sa maladie, la volonté qu'il déploie afin de se raccrocher à des solutions concrètes, la clairvoyance de son état qu'il voit peu à peu s'aggraver, mais surtout la formidable vitalité qui le maintient et lui permet de poursuivre son oeuvre. Au total cet ouvrage doit aider des patients en situation difficile, intéresser les médicins auxquels il montre bien les hauts et les bas par lesquels passent les malades atteints d'affections sévères. Il doit également captiver tout lecteur, car il est le témoignage poignant d'un drame en train de se vivre en pleine conscience.

Professeur Georges SERRATRICE

Marseille

TRADUZIONE

L'opera presentata dal sig. Colapinto è esemplare e commovente. Esemplare innanzi tutto per lucidità, per coraggio, per energia. L'autore, che ha una perfetta coscienza e conoscenza della sua malattia, la descrive con una precisione veramente clinica nel suo manifestarsi e nella sua evoluzione progressiva: sensazione inopinata ed inquietante, un giorno al ristorante, del tallone destro che non può più battere il tempo; poi fascicolazioni; poi clono del piede, di cui prende coscienza a causa di scosse all'arto inferiore al momento di appoggiarlo sul pedale. Tutto ciò è raccontato con minuzia attraverso una perfetta autoosservazione. Lungi dallo scoraggiarsi, il paziente si informa, cerca elementi di conoscenza nel suo paese di origine, ma ben presto è all'estero che egli entra rapidamente in contatto con i più qualificati specialisti di questa malattia sfortunatamente incurabile. Tuttavia alcune speranze cominciano a nascere e l'utilizzo di prodotti nuovi sempre più numerosi lasciano pensare che ben presto i progressi della medicina si applicheranno alla terribile sclerosi laterale amiotrofica. Ciò è molto probabile. Se ci si limita alle grandi affezioni del sistema nervoso, è indiscutibile che da qualche anno, quotidianamente importanti progressi sono stati fatti con riferimento al morbo di Parkinson o al morbo di Alzheimer, per esempio. L'emergenza di un nuovo farmaco, anche debolmente attivo, è un primo passo spesso decisivo che nel più breve tempo possibile porterà alla messa a punto di un trattamento efficace; il sig. Colapinto ne ha piena coscienza e, a giusto titolo, desidera sperimentare tutte le terapie suscettibili di agire, dal dextromètorphan al riluzolo. Questa energia è esemplare. L'uomo non deve mai disperarsi. Per ogni essere umano una fine è ineluttabile, in un tempo più o meno breve, nelle circostanze più diverse e spesso più imprevedibili. Così ciò che conta è di saper riempire la propria esistenza. Poco importano i limiti di tempo. Il sig. Colapinto non si ferma. Egli dà vita, a Bari, ad una associazione contro la sclerori laterale amiotrofica. Ciò lo induce, fra le altre attività, ad organizzare a Conversano un congresso internazionale su questo tema. Così i suoi concittadini, gli ammalati e tutti coloro che gli sono vicino sono informati di questa grave malattia, delle difficoltà della sua diagnosi, delle possibilità terapeutiche e del futuro della ricerca. Commovente è la seconda caratteristica che si può attribuire all'opera. Il paziente non solo dà una descrizione perfetta della sua malattia, ma spiega con varie sfumature gli stati d'animo che necessariamente l'accompagnano: amarezza di fronte alla fredda diagnosi di un morbo fatale; inquietudine per l'assenza di terapie efficaci; ribellione nel constatare l'esistenza di pochi centri specialistici (ciò spiega perchè anche recentemente l'inefficacia di tutte le terapie ha spesso fatto trascurare tali pazienti, dinanzi ai quali il medico si trova sprovvisto di ogni mezzo): convinzione che gli fa tentare qualcosa, trovare delle soluzioni, non restare inattivo. Così, esemplare e commovente, l'opera dei signor Colapinto ha una portata molto generale. Egli illustra perfettamente la disperazione di un uomo solo davanti alla sua malattia, la volontà che egli dispiega al fine di aggrapparsi a soluzioni concrete, la chiaroveggenza del suo stato che vede a poco a poco aggravarsi, ma soprattutto la formidabile vitalità che lo mantiene e gli permette di proseguire la sua opera. In definitiva, quest'opera deve aiutare i pazienti in situazioni difficili, interessare i medici ai quali egli mostra bene gli alti e bassi che attraversano gli ammalati colpiti da gravi affezioni. Egli cattura ugualmente l'attenzione dei lettori, perchè è il testimone straziante del dramma che sta vivendo in piena coscienza.

Prof. Georges SERRATRICE

Marsiglia

Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi"

(Dante Alighieri, 'Ta Divina Commedia ",

Inferno, canto XXXIV)

PREMESSA

Ho deciso di scrivere questa cronaca della mia malattia, per dare una diretta testimonianza dell'evento più importante, nella sua drammaticità, che mi ha colto di sorpresa all'età di 47 anni. L'intenzione è quella di lasciare ai miei congiunti un ricordo del tempo di sopravvivenza che mi resta, e del modo di affrontare - spero con dignità e con coraggio - le tappe difficili della mia vita odierna e del prossimo futuro. L'esperienza da me vissuta, i comportamenti assunti e le conseguenze che ne sono derivate, sia sul piano personale sia di fronte alle simili vicende di altri ammalati, se qualcosa hanno potuto smuovere ed un progresso hanno permesso di acquisire, questo non è stato soltanto merito mio: in queste situazioni limite, senza scampo nè vie di uscita, per poter resistere è assolutamente necessario sentirsi circondati innanzi tutto dall'affetto della moglie e dei figli, come pure è importante avvertire la presenza degli amici. lo ho avuto questa fortuna, dunque è stato più facile. Questa semplice "Cronaca" vuole pure essere la testimonianza di come si può organizzare, consapevoli di avere ormai il futuro alle spalle, il vivere quotidiano, con l'ulteriore difficoltà di dover lottare non solo contro una malattia mortale, ma anche, per sovrapprezzo, contro un male poco diffuso ed in conseguenza negletto dal sistema sanitario nazionale. Ma vuole essere anche un atto di accusa verso i responsabili della salute pubblica, che non solo nulla fanno per i malati di sclerosi laterale amiotrofica (come pure per le altre malattie poco diffuse), ma negano mezzi e strutture a quei medici che vogliono impegnarsi nella ricerca ed assistenza di questi "malati di serie b"; ed un atto di denuncia per la indifferenza dei mezzi di informazione. Essendo queste le motivazioni e le situazioni che mi hanno spinto a scrivere questa "Cronaca" che manifesta esplicitamente, nel suo contenuto, le tappe della mia singolare esperienza di vita, probabilmente non vi sarebbero ragioni per aggiungere altro in questa premessa. Eppure, avvertivo di non poter proporre al lettore di soffermarsi su queste pagine senza preavvisarlo, cioè senza dichiarargli con estrema sincerità che qui io ho deliberatamente voluto scagliare un sasso nel quieto vivere del mondo delle persone sane, come afferma bene il prof. Guglielmo Scarlato nella sua prefazione. Sicchè, in questo scritto il lettore non troverà note di pacata rassegnazione ad un destino sfavorevole - e mai per la verità avrei saputo cedere alla rassegnazione, che non è nel mio carattere e a cui neppure la SLA può indurmi -, bensì esasperazione, senso di solitudine, impotenza, bisogno di aiuto, grido di rabbia e di sofferenza. E la dura speranza di vita, quella che ancora mi ostino a non mollare. Mi auguro, in ogni caso, che il lettore sia benevolo nei confronti di chi ha scritto le pagine che egli si accinge a leggere, perchè sotto i suoi occhi non è il lavoro di uno scrittore, ma l'esperienza di un uomo che ha scelto di narrare, senza i veli della "letteratura", i momenti drammatici a lui riservati da una sorte anomala. Voglio sperare che questa "Cronaca" faccia riflettere, e che perciò serva a qualcosa. Mi auguro che possa anche produrre un passo avanti nella immutabile drammaticità di chi ha una esistenza simile alla mia. Desidero qui esprimere la mia profonda gratitudine al prof. Guglielmo Scarlato e al prof. Georges Serraffice, che non hanno voluto mancare di farmí giungere un loro messaggio, posto a prefazione dello scritto, che bene fa cogliere ed apprezzare le loro ammirevoli qualità umane oltre che di grandi medici e studiosi della SLA. Ringrazio con grande affetto mia moglie Maria e la mia famiglia impegnata nel difficile e quotidiano compito della mia assistenza, i miei amici che con la loro presenza mi recano conforto. Un sincero grazie a Vito L:Abbate per il suo prezioso aiuto nel lavoro di revisione del testo al fini della pubblicazione. Un particolare ringraziamento esprimo all'A.I.S.L.A., Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica, che ha sostenuto l'onere economico di dare alle stampe questo scritto, nonché personalmente agli amici e colleghi dirigenti nazionali e regionali dell'Associazione, l'unica nel nostro Paese a farsi carico dei problemi degli ammalati di SLA. Proprio in questi ultimi tempi, l'A.I.S.L.A. sta producendo un lavoro ed uno sforzo eccezionali per essere presente sull'intero territorio nazionale, al fine di essere il più possibile vicina ai malati e ai familiari. Infine, sento la necessità di riconfermare il mio vivo ringraziamento all'amico Antonio Scisci, che ha stampato con cura e sostenuto insieme a questa altre iniziative dell'A.I.S.L.A. della Puglia. La sclerosi laterale amiotrofica è una delle più drammatiche malattie neurologiche, conosciuta e descritta fin dal secolo scorso dal medico francese Charcot. E' nota pure come "malattia del motoneurone" (MND) e, negli U.S.A., come Lou Gehrigs disease (malattia di Lou Gehrig), dal nome di un famoso campione di baseball colpito dal morbo negli anni quaranta. Essendo sconosciuta, tuttora, la eziologia, la malattia è incurabile ed inevitabilmente conduce alla morte. Ciò avviene, in media, tra i cinque ed i quarantanove mesi dall'esordío (fonte: "The New England Journal of Medicine", marzo 1994). Trattasí di una malattia ubiquitaria, che nella maggior parte dei casi si presenta in forma sporadica, solo nel 10% circa dei casi si trasmette in modo ereditario. Ogni anno colpisce due persone ogni centomila abitanti, senza particolari preferenze per l'uno o l'altro sesso. La malattia distrugge i motoneuroní, cioè le cellule nervose situate nel cervello e nel midollo spinale che comandano i muscoli, provocando il progressivo indebolimento di tutti i muscoli scheletrici volontari. Oltre ai muscoli degli arti inferiori e superiori, possono essere colpiti anche quelli della gola e della lingua, causando crescenti difficoltà ad articolare le parole (disartria) e a deglutire il cibo (disfagia). In questi casi il malato, per comunicare, deve ricorrere a vari espedienti o, addirittura, utilizzare appositi comunicator computerizzati; per potersi alimentare, si deve sottoporre ad intervento chirurgico allo stomaco, nel quale viene posizionata una sonda gastrica, la cosíddetta PEG. La malattia non colpisce gli sfinteri, la muscolatura liscia, il miocardio, gli organi di senso, la funzione sessuale, e restano intatte le facoltà dell'intelletto: il malato, insomma, è testimone della sua fine, con piena lucidità. La morte sopravviene generalmente per insufficienza respiratoria, a causa dell'indebolimento dei muscoli preposti a questa funzione. Si può tentare di sopravvivere ricorrendo ad una tracheotomía e facendosi "attaccare" ad un ventilatore, ma al prezzo di subirá una tremenda limitazione funzionale e di necessitare di assistenza continua.

Conversano, dicembre 1996

Camillo Colapinto

 

CAPITOLO PRIMO

Anno 1993: l'incipit.

La maladie de Charcot mi è stata diagnosticata nel mese di aprile dell'anno 1994; i segni, tuttavia, erano ben presenti dall'anno precedente.Una domenica di aprile del 1993 festeggiavo con i miei familiari in un ristorante di Castellana Grotte il ritorno a casa di mia moglie Maria, dimessa dopo quindici giorni di degenza dall'ospedale di Martina Franca, ove aveva curato una brutta broncopolmonite che mi aveva molto fatto preoccupare. Nel ristorante c'era anche della musica, istintivamente battevo il tempo con i talloni, quando, all'improvviso, mi accorsi con stupore che il tallone del piede destro non batteva all'unisono con il tempo della musica, era come se vi fosse una qualche esitazione; ebbi un attimo di panico, non trovando una spiegazione al fenomeno che, tuttavia, constatai non essere una mera sensazione. Però, sempre in quei pochi attimi, attribuii la sgradevole esperienza alla pavimentazione dissestata del ristorante ricavato in un antico frantoio. Nessuno dei commensali si accorse di nulla, dal mio canto immediatamente dimenticai l'episodio. Fu questo, per me ignaro ed inconsapevole, il biglietto da visita della malattia di cui non conoscevo neppure l'esistenza. Sempre nello stesso periodo, la tarda primavera del 1993, mi capitò di avvertire inspiegabilì crampi alla mano destra, in particolare all'indice e al pollice; quando reggevo le pagine del giornale. Nell'estate successiva comparve una fascicolazione poco sopra il ginocchio destro; occasionalmente ne parlai ad un ortopedico chiedendo di cosa si trattasse. Mi furisposto che non era nulla di significativo, potendosi trattare di una perdita di potassio per via del ciclismo che praticavo intensamente a livello amatoriale da sempre, percorrendo circa km. 8.000 all'anno. Proprio in bicicletta, nella tarda estate di quell'anno, si verificò la manifestazione più evidente del male, il clono alla gamba destra quando in discesa non pedalavo, ma era sufficiente riprendere a pedalare che il clono scompariva. Nel contempo, presi ad avvertire dei dolori all'inguine, nell'atto di inforcare o scendere dalla bicicletta. Poichè all'epoca usavo anche la bicicletta da montagna, attribuii questi dolori a qualche strappo forse dovuto allo sforzo esercitato per superare dei tratti molto accidentati. A novembre e dicembre, perdurando tutti i fenomeni innnanzi descritti, iniziai ad avvertire uno strano impaccio o impedimento a camminar e. Poichè tale sensazione non era continua e mi pareva di avvertirla maggiormente quando ero solo, cominciai a pensare di essere vittima di qualche attacco di panico o di qualche problema psicologico; in ogni caso non affrontai più di corsa le scale di casa e del Tribunale, come usavo abitualmente, per il timore di non farcela e, forse, per non verificare questo nuovo impedimento. Si chiuse in tal modo l'anno 1993, senza che mi rendessi conto di essere vittima di una terribile malattia. Questa affermazione potrebbe apparire strana, ma così non è, tenuto conto che avevo goduto sempre di ottima salute fino ad allora, e che al mio consueto e morigerato costume di vita si accompagnava da sempre una pratica intensa di vari sports; inoltre, non avevo notato alcun calo di rendimento in bicicletta e, infine, non percepivo neppure la possibilità che quei vari primi disturbi dovessero tutti collegarsi. Questa ricostruzione degli eventi è avvenuta solo successivamente.

Anno 1994: Annus horribilis!

A seguito di alcuni accertati disturbi pressori, verosimilmente dovuti a stress, dal mese di gennaio presi ad assumere farmaci che tuttora utilizzo. A fine febbraio, come ogni anno, ci recammo in montagna a Canazei, in Val di Fassa; quivi si manifestò in modo spettacolare la malattia, in quanto, ancorchè per un solo giorno, inconsapevolmente sottoposi il fisico già minato a sforzi che non poteva più reggere. Brevemente, sugli impianti di risalita si presentò il clono alla gamba destra; scendendo dal Pordoi non sentivo di tenere gli sci sotto i piedi e cadevo come un principiante quando facevo pressione sulla gamba destra per curvare.Tornai subito in albergo, veramente spaventato. Ricordo che misurai la pressione sanguigna ipotizzando che i disturbi potessero essere dovuti ad uno sbalzo pressorio per via dell'altitudine, ma i valori erano nella norma. Ne parlai a mia moglie e decisi di sottopormi ad esami medici non appena tornato a casa. Non sciai più nei giorni successivi e piuttosto preoccupato attesi il giorno del rientro. Appena giunto a casa, dopo aver parlato con mio fratello Carlo, dermatologo, e su suo consiglio mi feci visitare dal neurologo dott. Bruno Tartaglione. Il neurologo alla prima visita centrò la diagnosi, prima ancora che io effettuassi degli esami clinici: mi diagnosticò la sospetta malattia del motoneurone. Alle mie richieste di spiegazioni, rispose abilmente con reticenza, dichiarando che nulla poteva dire di certo e decisivo, prima di controllare gli esiti dei numerosi esami diagnostici che mi prescrisse. Rapidamente feci gli esami richiestimi, che risultarono tutti negativi, compresa la risonanza magnetica (io pensavo che sarebbbe risultata qualche massa tumorale). Dall'esame elettromiografico, invece, fu riscontrato un danno motoneuronale cronico, con particolare evidenza alla mano e alla gamba destra. Il quadro era completo ed io spacciato. Si era alla fine di marzo o ai primi di aprile, da solo mi documentai sulla SLA e seppi che la mia sorte era segnata a breve. Mi fu particolarmente utile un numero della prestigiosa rivista americana 'The New England Journal of Medicine" proprio di quell'anno, ove era pubblicato l'esito di un trial con un farmaco sperimentale denominato "riluzole" adoperato dai francesi. Oltre la descrizione della malattia, era estremamente interessante la esaustiva bibliografia riportata con i nomi dei ricercatori ed i titoli degli studi più recenti. L'11 maggio ero a Milano dal prof. Giancarlo Corni dell'ospedale San Raffaele. La speranza era che, a seguito di più approfonditi esami diagnostici, venisse fuori per me un verdetto meno terrorizzante. La visita fu molto breve ed il professore mi trattò con toni bruschi, come infastidito dalle mie domande: confermò la diagnosi e, troncando il colloquio crudamente e senza reticenze, mi disse che non mi prescriveva alcun farmaco in quanto la malattia era incurabile, che non vi era necessità di alcun ricovero essendo certa la diagnosi, e che non sussisteva alcuna necessità di essere da lui rivisitato; successivamente, in un tempo che non poteva ipotizzare, sarei deceduto per la paralisi dei muscoli preposti alla respirazione. Concluse dicendomi che potevo tornare a casa. Ricordo che a queste parole, secche come fucilate e comunque, per quanto impietose, sicuramente esaurienti, mi ritrovai bagnato di sudore freddo e come un automa, barcollando, guadagnai l'uscita dallo studio medico. La data dell'11 maggio resterà per me indimenticabile; mi è stato successivamente spiegato che l'approccio avuto con il prof. Corni è del tipo "inglese". Devo però dire che non ho serbato rancore nei suoi confronti per la preannunciata sentenza inappellabile di condanna a morte. Nel mese di giugno ero nuovamente a Milano al "Besta", dalla dottoressa Daniela Testa, una ricercatrice che con un gruppo dì colleghi aveva fatto degli studi sulla SLA, con la speranza che potesse fornirmi qualche farmaco, sia pure sperimentale. Anche costei mi trattò come infastidita, mì disse che non aveva nulla da propormi se non il cortisone, famaco che assunsi solo per una settimana. Provai a contattare, per la prima volta, il prof. Guglielmo Scarlato di Milano, in quanto avevo saputo che stava eseguendo una sperimentazione con un farmaco americano, però il trial era già da tempo iniziato per veritidue pazienti, dunque non potevo accedere alla sperimentazione. Mi misi allora in contatto con il dott. Ettore Beghi dell'Istituto "Mario Negri" di Milano: questi mi propose, come tentativo terapeutico, il betainterferone ricombinante, ma con molte incertezze sia sul dosaggio che sulle modalità di assunzione. Mi recai pure per scrupolo presso il Policlinico di Bari, ma in quella occasione non trovai le risposte che cercavo. Tutti questi tentativi di giungere a capo di qualcosa avvennero nel mese di giugno. A questo punto era necessario riflettere e scegliere quali iniziative assumere, fidando unicamente su me stesso e sull'aiuto di mio fratello Carlo. Mi appariva ormai chiaro che, forse per la incurabilítà del morbo, in Italia la SLA non interessava quasi nessuno, che non vi si svolgevano ricerche scierififiche, che non erano disponibili farmaci neppure di tipo sperimentale, che comunque anche se ne avessi trovato, giusto per tentare qualcosa, nessun medico sarebbe stato in grado di gestirmi. Non restava che informarsi e rivolgersi all'estero. Iniziai a fare frenetiche telefonate negli U.S.A., in Svezia, fino a quando il prof. Bruno Rossi di Pisa, di ritorno dal Giappone dove aveva partecipato ad un congresso sulla SLA ad Osaka, mi suggerì di recarmi a Marsiglia dal prof. Georges Serratrice, uno dei maggiori conoscitori delle MNI) a livello mondiale. Prima di parlare della esperienza francese, voglio fare una opportuna osservazione: per cercare un aiuto, uno spiraglio, mi sono messo in contatto con luminari e scienziati di mezzo mondo. Con la gran parte di costoro ho avuto contatti telefonici, eppure, a parte i problemi della lingua, è stato commovente constatare la assoluta disponibilità ad aiutarmi in qualunque modo: i medici americani ad esempio mi fornivano anche il proprio numero telefonico di casa e l'orario più opportuno per chiamare. Ricordo che il prof. Di Mauro, che da trent'anni lavora alla Columbia University di New York ed è stato discepolo del famoso prof. Lewis P. Rowland che ha legato il suo nome allo studio della SLA, pur di non interrompere i contatti, mi fornì persino il recapito telefonico del luogo ove avrebbe trascorso le vacanze estive. Grazie al prof. Di Mauro (che successivamente ho avuto la opportunità di conoscere di persona, incontrandolo a due congressi tenutisi a Bari) e sulla base di comunicazioni telefoniche avute con il suo istituto di New York, ho potuto fare esami diagnostici che da noi nessuno mi consigliava; mi veniva cosi persino indicato il luogo ove recarmi. Ricordo, ad esempio, che per sua indicazione mi portai a Verona presso l'ospedale di "Borgo Roma" due volte, perchè ivi esiste un sofisticato laboratorio in grado di eseguire l'esame dell'esaminidasi A e B, l'analisi del cromosoma 21 (accertamenti che feci a novembre 1994 e febbraio 1995). Simili disponibilità ho rinvenuto, per fortuna, successivamente anche da noi, nelle persone del prof. Bruno Rossi di Pisa, mai conosciuto personalmente, al quale devo gratitudine per il suo consiglio di recarmi a Marsiglia, del prof. Guglielmo Scarlato e del dott. Vincenzo Silani di Milano, del dott. Gabriele Mora di Veruno, del dott. Luigi Serlenga di Bari, del dott. Bruno Maggio di Conversano. Il 26 luglio ero a Marsiglia, presso il "Centre Hospitalo-Universitaire de La Timone". Qui il prof. Serratrice, confermata la diagnosi, mi prescrisse una cura a base di un farmaco denominato dextrometorplian, per tre mesi, più altri farmaci; il dextrometorphan mi fu consegnato direttamente dall'ospedale in maniera gratuita. Trassi molti benefici da quella prima andata a Marsiglia; vedevo esistente e funzionante un reparto SLA, dunque questi malati non erano propriamente dei marziani, come volevano farmi credere al Policlinico di Bari (qui un neurologo per convincermi della assoluta rarità del morbo, come egli asseriva, giunse al punto di affermare che lui in dieci anni aveva visto solo due casi e per giunta trattavasi di due sorelle, quasi che la circostanza potesse consolarmi, ovvero indurmi ad un rassegnato fatalismo; sta di fatto che l'affermazione sulla rarità della malattia non era corrispondente al vero, e per di più ebbi modo di accertare che proprio quel giorno, presso la prima clinica neurologica, erano ricoverati almeno quattro malati. Come dunque fidarsi?). Concorse a tranquillizzarmi la circostanza che, pur nella consapevolezza di non poter guarire, mi veniva finalmente assegnato un farmaco che, in qualche modo, poteva costituire un tentativo di bloccare la irreversibile progressione del morbo. Inoltre, mi fu prescritto di tornare dopo tre mesi. Può sembrare incredibile, ma io ero quasi "felice", avevo trovato un punto di riferimento, qualcuno (ed una struttura sanitaria di prim'ordine)che si sarebbe occupato di me. Ero finalmente riconosciuto come malato avente il diritto di essere curato. Nell'estate di quell'anno la mia infermità era nota solo alla mia famiglia e a pochissimi amici, peraltro appariva solo un leggero impedimento alla deambulazione, per la impossibilità di sollevare la punta del piede destro, null'altro. Naturalmente tutti mi chiedevano cosa avessi ed io neppure ricordo più ciò che lì per lì inventavo, minimizzando. Fu quella la prima estate in cui non andai a mare; continuavo tuttavia ad uscire in bicicletta, ma da solo e percorrendo distanze brevi. La mia vita cominciava significativamente a mutare ed io mi sentivo come quel personaggio di un famoso racconto di Kafka che, svegliandosi una mattina, si accorse che aveva preso incredibilmente a trarmitarsi in scarafaggio. Un ortopedico mi consigliò, per agevolare la deambula zione, di adoperare la molla di Codivilla; calzai l'attrezzo per alcuni mesi poi lo dìsmisi senza rimpianti, in quanto un altro medico lo sconsigliò1 perchè, a suo dire, risultava addirittura controproducente. Tale era la fog, con cui costui cercava di convincermi della fondatezza del suo assunto che giunse al punto di tacciare di asineria il collega che aveva consigliat( l'attrezzo. Queste dispute a distanza, tra medici, mi hanno sempre appas sionato: come non ricordare i simpatici dottori Purgoni di Molier? Nella seconda metà di agosto, eravamo a Salsomaggiore, avev( avuto vaghe notizie su un centro ospedaliero a Veruno, in provincia d Novara, e della esistenza di una associazione che si interessava dei mala di SLA. Decisi di andare e vedere di cosa si trattasse. La struttura osped liera, ovvero la 'Tondazione Maugeri", appariva molto valida; dell'ass ciazione che appresi chiamarsi A.I.S.L.A. non incontrai alcuno. Nel mese di settembre, una sera uscendo dallo studio, preci . pi . tal rov nosamente per le scale, procurandomi una vasta ferita lacero contusa all nuca, con perdita copiosa di sangue e contusione alla mano destra, co risultò delle radiografie eseguite presso il pronto soccorso, ove mi tr sportò il mio fraterno amico e collega di studio Angelo Loiacono. P qualche giorno portai un cerotto in testa, ma il danno maggiore rima alla mano destra già indebolita dalla SLA. Il 25 settembre compivo anni, decisi perciò di festeggiare alla grande il compleanno, con una tre tina di amici, i più intimi, per la qualcosa prenotai l'intera sala di un pi colo e ottimo ristorante di Trani. La giornata risultò per tutti molto grad vole. La SLA non dimentica, nè trascura le sue prede. Ad ottobre mi s( trasse la possibilità di continuare ad andare in bicicletta. Chi non pratica questo sport, anche solo a livello amatoriale, non riesce a comprendere la bellezza di questa disciplina sportiva. Per me il ciclismo era storia, cultura, libertà, educazione alla sofferenza, trovarsi con gli amici la domenica. In poco tempo questo spazio, per me irrinunciabile, questa parte importante della mia vita mi è stata per sempre rubata. Tuttavia dagli indimenticabili ricordi delle scalate del Blokhause, del Pordoi, del Sella, del Fedaia, del mitico passo dello Stelvio, scalato sia dal versante di Trafoi che da quello di Bormio, traggo la forza per andare avanti. Alla fine di ottobre ero nuovamente a Marsiglia, per la prevista seconda visita dal prof. Serratrice e per partecipare, con mio fratello Carlo, al congresso sulla SLA organizzato proprio in quei giorni dal prof. Serratrice e dal prof. Munsat di Boston. Risultò dalla visita un peggioramento delle mie condizioni di salute, in termini di caduta delle forze, e mi furono prescritte altre cure per successivi tre mesi, in attesa di avere il riluzole. Partecipai poi alle due giornate del congresso, insieme a Carlo e mia moglie, con tanto di targhetta sul risvolto della giacca, che mi faceva sembrare un navigato congressista. I partecipanti ai lavori erano circa un centinaio, in pratica i più illustri e famosi ricercatori e studiosi di SLA. Avendo letto i loro nomi sulle riviste americane, non mi pareva vero di stare con loro e poter porre delle domande, nel momenti di pausa dei lavori. Ebbi dunque la possibilità di parlare con i professori Rowland, Mitsumoto, Appel e con la moglie di quest'ultimo, una ricercatrice - se non ricordo male - di origine polacca che nel dibattito polemizzava con una sua collega svizzera, tale dott.ssa Kato. Posi delle domande a Munsat, a Rowland e ad altri congressisti. Tutti mostravano grande meraviglia quando li informavo di essere un malato di SLA, e facevano larghi sorrisi quando dicevo loro di sbrigarsi a vincere il Nobel per aver debellato la malattia. Il congresso aveva notevole valenza scientifica perchè il dott. Mitsumoto, giapponese di Cleveland, veniva ad illustrare una sua importante scoperta di appena qualche mese prima, di cui avevo già letto sulla rivista americana "Scienze". Iniettando BDNF nel wobbler mouse affetto da SLA, aveva bloccato la progressione della paralisi ad agosto di quell'anno. Dichiarava, pertanto, il dott. Mitsumoto che si accingeva, di lì a qualche mese, ad iniziare la sperimentazione sull'uomo. Fu grande per me l'emozione di ascoltare la relazione del medico giapponese e vedere il filmato nel quale si scorgeva la cavia non più trascinarsi. Forse, per la prima volta, si otteneva un qualche risultato sul quale riporre le speranze nel futuro prossimo. Altro ricercatore che mi impressionò per la sua preparazione e per la vivissima intelligenza fu il dott. Rothstein di Baltimora, che a lungo si intrattenne sui problemi legati all'eccesso di glutammato nella cellula motoneuronale. E gli italiani? Erano previste due relazioni, una dei prof. Scarlato che allora non avevo ancora conosciuto, ma che in quella occasione mandò in sua vece un suo collaboratore (mi pare si chiamasse dott. Barone); e la seconda del prof. Pinelli, ormai in pensione, il quale negli anni cinquanta con E Buchthal è stato l'inventore dell'elettromiografia, il primo neurologo italiano ad occuparsi di SLA e ad organizzare in Italia, appena nel 1985, il primo congresso internazionale.Terminava così il terribile anno durante il quale avevo appreso da quale causa sarebbe derivato il mio decesso, che non sarei potuto invecchiare con mia moglie, che non avrei visto i miei figli diventare adulti.

CAPITOLO SECONDO

Anno 1995: "Vox clamans in deserto".

L'anno è talmente ricco di accadimenti diversi, ma pure intrecciati, che è opportuno ricordarlo dividendolo per argomenti, con la seguente breve premessa. Pur accettando la mia infermità, intendevo oppormi ad essa con tutte le mie risorse, dunque dovevo impedire che il mio "io aminalato" prendesse il sopravvento sul mio "lo persona", che sempre doveva rimanere libero di osservare, valutare, assumere decisioni. Il compito è stato reso più facile dal mio carattere affinato da oltre venti anni di pratica forense. Un avvocato si muove sempre tra molte insidie, tutto il suo operare è in ogni occasione oggetto di esame e di possibili attacchi da parte dei collega-avversario, del magistrato giudicante e talvolta del proprio assistito. Decisi, dunque, di affidare, per così dire, il mio io ammalato al mio "io avvocato", per affrontare la causa più difficile che potessi perorare, quella della mia vita. Avevo molti elementi da valutare per decidere il da fare: sapevo tutto della malattia, sapevo che non esisteva una cura che desse sostanziali speranze, che la malattia era sconosciuta ai più (compresi molti medici), che non c'era una struttura sanitaria pubblica di riferimento, che in Italia non veniva svolta alcuna ricerca sulla malattia; ero anche a conoscenza che solo venti malcapitati su un milione di persone ne vengono colpiti in un anno, che in Italia, a livello nazionale, non esiste un registro dei malati di SLA, nè esistono statistiche, (solo il Piemonte si è dotato di registro in ambito regionale su una popolazione di circa cinque milioni di abitanti), che per lo più i neurologi mentono ai malati e cercano di sbarazzarsene, atterriti essi stessi dalla loro impotenza, oltre che impreparati psicologicamente ad affrontare un dialogo costruttivo con il malato. Mi si perdonerà la presunzione, ma, avendo raccolto decine di testimonianze di ammalati e di loro familiari, posso affermare che, nella maggioranza dei casi, la visita tipo di un malato di SLA si conclude in questo modo: una diagnosi volutamente reticente da scodellare alla vittima, poi separatamente il medico dirà ai familiari che la sorte del loro congiunto è segnata, anche a breve, che non si può far nulla, che sarebbe inutile girare e cercare altrove altre risposte, che il malato stia pure a casa perchè è meglio; prescriverà, per tranquillizzare il malato, qualche vitamina e forse un po' di cortisone. Tutto quì. Alla famiglia, del tutto impreparata e bisognosa essa stessa di assistenza psicologica, toccherà poi il compito di dire al malato quello che c'è da dire. Quasi mai si informano i familiari su ulteriori opportuni esami diagnostici, sulla necessità di prendere subito alcune decisioni che, proprio perchè drammatiche, vanno proposte innanzi tutto al malato perchè le possa accettare. Fare affidamento poi sull'aiuto del medico di famiglia è assolutamente impossibile, gìacchè costui è quasi sempre disinformato della malattia e, per dì più, la ignora senza alcun rimorso perchè " ... di questi casi è competente il neurologo così la sua coscìenza professionale è salva. Del resto egli, di solito, apprende per la prima volta, dal suo paziente, dell'esistenza della malattìa; ed in fondo al medico di famiglia, non ci si rivolge abitualmente per telefono per dettare le medicine che occorrono, limitandosi il suo impegno professìonale alla mera trascrizione sulla ricetta? Non è forse questo il compito più gravoso del suo ben remunerato lavoro? Certo la figura e la funzione del medico di famiglia, per come attualmente sono strutturate, costituiscono una autentica perla del sistema sanitario pubblico. Invece, proprio ai medìci di base dovrebbe essere affidato il compito dell'assistenza domiciliare del malato di SLA. Il medico di base, però, dovrebbe essere indubbiamente più medico e molto meno burocrate, egli dovrebbe essere molto più vicino al malato. In particolare, l'ammalato di SLA, quando si paralizza completamente, perde qualunque interesse per il neurologo (che non può far nulla e dunque se ne lava le mani), ma resta con tutti i grossi problemi che l'evoluzione della malattia purtroppo comporta. Sicchè egli rimane sequestrato ed isolato in casa, senza una guida medica che controlli e gestisca il decorso ingravescente della malattia. Questa omissione scandalosa dì assistenza, indegna di un paese civile, certamente anticipa fl decesso dell'ammalato. Ritengo che la persona impossibilitata a muoversi e ad uscire di casa abbia il diritto alla presenza periodica del medico, in relazione alle sue esigenze. Lammalato di SLA, infatti, ha necessità dì una assistenza domiciliare multiforme ed articolata in visite di controllo programmate e prestabilite nel tempo, ma anche integrata con l'A.S.L. per l'attività infermieristica e diagnostica, e ad elevata intensità di tutela sanitaria con visite giornaliere o anche plurigionaliere per gli ammalati in fase terminale. A tutto ciò dovrebbe aver diritto il malato, senza alcun esborso di danaro. Sarebbero però necessari accordi tra i sindacati dei medici di famiglia e le Regioni, accordi che al momento non esistono. Ma sono consapevole di aspirare a bizzarre utopie. Ho avuto piuttosto modo di verificare come a molte famiglie, specie le più umili e sprovvedute, nessuno ha mai detto che per il malato di SLA occorreva la visita del pneumologo, del gastroenterologo, del dietologo, del fisiatra, dello psicologo. Infatti, mi riferisco in particolare al nostro Mcridionc, qui per lo più i malati muoiono in casa, per sfinimento da denutrizione - quando non sono più in grado di alimentarsi - senza che a costoro fosse stata praticata la gastrostomia (PEG), ovvero per crisi respiratoria, senza aver fatto neppure una spirometria. Senza dire dell'approccio con gli uffici delle Aziende Sanitarie Locali (A.S.L.), dove la SLA non l'hanno mai sentita nominare e viene confusa con la sclerosi multipla, nel migliore dei casi. In più sedi e pubblicamente ho affermato che da noi la SLA può più correttamente definirsi come la "malattia che non c'è". A farla breve, il malato viene abbandonato al suo destino e la famiglia assiste terrorizzata ed impotente alla devastante progressione del male, senza poter contare su alcun ausillo sanitario; non esiste, infatti, l'assistenza specialistica domiciliare, sicchè i familiari, tra l'altro, devono arrangiarsi ed imparare a manutenere le macchine che tengono in vita il loro congiunto. Non occorre aggiungere altro per affermare, con assoluta certezza, che i malati di SLA devono, in Italia, vedere ancora riconosciuto, nei loro confronti, il diritto alla salute, solo a parole a tutti i cittadini assicurato dalla Carta Costituzionale. Che fare di fronte a questo deserto di indifferenza e di insensibilità? Non c'è molto da scegliere; chi può scappa dall'Italia, i più si abbandonano, cadendo in un grave stato di depressione, alcuni pensano al suicidio e tra questi taluni lo praticano. Altri ancora decidono di battersi contro la malattia, la stagnante indifferenza e la ostile burocrazia sanitaria. Ma ha senso questa battaglia persa fin dalla partenza? Mi sono ricordato di un film visto in gioventù, del grande regista svedese Ingmar Bergman, se non ricordo male dal titolo 1l settimo sigillo". Un cavaliere medievale gioca una importante partita a scacchi con un avversario invincibile, la Morte. Ricordo la fierezza e la dignità del guerriero, la sua vittoria poteva essere anche il solo tentativo di resistere e di far durare il più a lungo possibile la partita, per non rendere ancora più facile il già facile compìto dell'invincibile avversario. Ebbene, ho deciso di interpretare ìI ruolo del cavaliere medievale; del resto la situazione del malato di SLA, ancora oggi, non è dissimile da quella dell'appestato del XII secolo, quando la peste era una malattia incurabile ed ì certisici non sapevano spiegarne la causa. Lunica dìfferenza, ma a tutto svantaggio dei malati di SLA, per i motivi che vedremo in seguito, è che la SLA non è una malattia infettiva. Fatta dunque la premessa, per dare ordine alle idee e alla loro esposizione, ho deciso di raccontare la cronaca di questo anno svolgendola per temi.

I politici.

Agli inizi dell'anno, con l'animo gonfio dì sdegno per il disinteresse delle strutture sanitarie pubbliche verso i malati di SLA, indirizzai due lettere di denuncia, una al ministro della sanità Guzzanti, l'altra al ministro degli esteri sig.ra Susanna Agnelli, che conoscevo come persona sensibile ed anche direttamente impegnata in tematiche simili. Come è noto, la signora Agnelli è presidente del "Telethon". Tra l'altro, denunciavo l'assenza di un centro sanitaro pubblico, in tutto il territorio nazionale, che funzionasse come riferimento e coordinamento per le circa cinquemila disgraziate vittime della SLA in Italia. Il ministro Guzzanti non ha mai risposto; peraltro, successivamente, come in seguito si dirà, a maggio gli indirizzai una lettera aperta, pubblicata sul quotidìano "La Gazzetta del Mezzogiorno", con cui denunciavo la situazione di abbandono in cuì versavano i malati di SLA, dichiaravo di voler dismettere la cittadinanza italiana, perchè lo Stato non mi riconosceva il diritto alla salute, pur pretendendo da me il pagamento della esosa ed ingiusta "tassa sulla salute". Concludevo chiedendo che le gravose tasse che pagavo allo Stato italiano fossero corrisposte allo Stato francese, che mi assicurava assistenza e cure gratuite e che finanziava la ricerca. Mai avuto una risposta. Nel mese di luglio sorse il problema di come ottenere, anche in Italia, il farmaco denominato Riluzole che veniva distribuito in Francia, in centri specialistici, gratuitamente. Trattavasi, in assoluto, del primo farmaco studiato unicamente per la SLA. Da noi, per motivi vari, che qui non è il caso di illustrare, ma che erano tutti contro gli interessi dei trascurati malati di SLA, ciò non era possibile; in altre parole, anche in Italia i magazzini della Rhone Poulenc Rorer, la casa farmaceutica produttrice del farmaco, erano colmi del medicinale, ma questo era ancora in attesa di registrazione e perciò non se ne poteva avere la disponibilità. E' questa una storia tutta italiana, che dimostra ancora una volta come procedono le cose nel nostro paese, in particolare nel settore della sanità. A conferma di quanto asserisco, valga ricordare i seguenti episodi: in quel periodo Guzzanti subiva gli sberleffi del prete che dirige l'ospedale "San Raffaele" di Milano il quale, d'intesa con un medico israeliano, al modico prezzo di dodici milioni di lire, assicurava di liberare i tossici dalla droga. Il povero Guzzanti si affannava, intervistato nei telegiornali, ad assicurare che il metodo israeliano era illegale perchè mai autorizzato, e dunque minacciava la chiusura dell'ospedale, suscitando l'ilarità di chi sa come vanno queste cose. Naturalmente capitolava, solo qualche giorno dopo, dando tout court - sotto le ben note e comprensibili pressioni l'autorizzazione. In quello stesso periodo si dibatteva anche il problema di un c.d. farmaco anti cancro denominato UK 101, del quale nessuna rivista scientifica degna di questo nome si era mai occupato, e che mai era stato adoperato in qualche trial neppure in fase uno. Ebbene, sotto la pressione dei mass media e dei potentati economici che c'erano dietro, il ministro autorizzò la distribuzione in centri specialistici. Viceversa, nessuna possibilità era data ai malati di SLA di ottenere il riluzole, farmaco che aveva superato tutte le fasi di sperimentazione e stava per essere venduto in farmacia (come è avvenuto negli U.S.A. dal primo gennaio del 1996), peraltro unico farmaco appositamente preparato per questi malati. La burocratica risposta era che non esisteva uno strumento legislativo che autorizzasse la distribuzione di un farmaco non ancora registrato. Ma il ministro avrebbe potuto, sol che avesse voluto, emanare un decreto con cui autorizzare la distribuzione del farmaco, in centri specializzati, a spese della casa farmaceutica produttrice, quanto meno come farmaco "compassionevole". Dunque è la solita storia dello Stato fortissimo con i deboli e vergognosamente debole con i forti. Chiesi aiuto quindi contro questa odiosa ingiustizia ai parlamentari pugliesi membri delle commissioni sanità del Parlamento. L'unica che mi rispose fu l'ori. Maria Celeste Nardini del Partito della Rifondazione Comunista che, fattivamente, con altri colleghi di partito, presentò una interrogazione parlamentare sulla questione. Sono molto riconoscente per questo all'on. Nardini, come pure alla professoressa Silvia Godelli consigliere regionale della Puglia e all'avv. Giuseppe Dì Donna pure consigliere regionale pugliese e successivamente assessore, che hanno aiutato me e l'associazione che ho costituito. Alla interrogazione il ministro rispose che avrebbe concesso l'autorizzazione alla casa farmaceutica di dare il farmaco al malato di SLA, solo a seguito di domanda al Ministero, inoltrata dal neurologo e sotto esclusiva responsabilità di quest'ultimo. Solo apparentemente questa decisione dei ministro veniva incontro alle aspettative del malato, decisione che ho sempre avversata e mai condivisa, perchè essa era in contrasto, a ben vedere, con gli interessi dei malati, per le seguenti ragioni: 1) esponeva il malato all'arbitrio del medico che poteva rifiutarsi di fare la richiesta, adducendo la ragione che non intendeva assumere alcuna responsabilità 2) esponeva il malato al ricatto del medico non onesto, che per formulare la richìesta poteva chiedere del denaro; 3) l'espediente non serviva, aì fini della valutazione della efficacia della cura, nè al medico nè al paziente, in quanto il medico non aveva la possibilità dei confronto con altri pazienti (operazione che è possibile eseguire solo in centri specialistici ove affluiscono molti malati), nè il medico aveva alcun particolare interesse a prescrivere il medicinale; infatti, il farmaco non era stato sperimentato in Italia, sicchè - questa è la mia impressione - non era circolato denaro. Penso che questo sia stato il vero motivo per cui, nei primi tempì, i malati non trovavano facilmente un neurologo disposto a fare la richiesta del farmaco, con la apparente giustificazione che il farmaco non era di alcuna utilità; però, è bene dìre che quei pochi neurologi che in Italia si occupano continuativamente dei malati di SLA, non solo non hanno frapposto ostacoli, ma si sono anche adoperati per procurare il medicinale a quanti pìù pazienti era loro possibile; 4) infine, nel caso di rifiuto del medico, il pazìente non poteva ricorrere alla Magistratura, per ottenere con un provvedimento gìudiziario il farmaco di che trattasi. La situazione è stata solo parzialmente snellita nel 1996, quando Guzzanti ha comunicato che la domanda del neurologo poteva essere indìrizzata direttamente alla casa farmaceutica e per conoscenza al Ministero. Nel mese di settembre chiesi ed ottenni un incontro con l'assessore alla sanìtà della Regione Puglia, dott. Saccomanno. Ricevetti in quella occasione molte parole di elogio ed ampie assicurazioni di disponibilità, ma nulla di concreto.

Una incredibile telefonata!

Come ho innanzi accennato, ai primi dell'anno avevo indirizzato una lettera di denuncia sia al Ministero della Sanità che a quello degli Esteri. In quanto poco conto il primo Ministero abbia tenuto la mia lettera si è già detto, sta di fatto che un giorno di febbraio mi giunse una telefonata da Roma: mi chiamava il dott. Eugenio Campo funzionario del Ministero degli Esteri, il quale mi riferiva di aver avuto disposizione del ministro on Susanna Agnelli di mettersi in contatto con me, affinchè potessi servirmi dei mezzi di informazione a disposizione del Ministero, per quanto mi interessava fare o sapere sulla malattia. Precisava che il ministro aveva dato incarico alla Ambasciata di Washington di promuovere una indagine conoscitiva, su tutto il territorio statunitense, al fine di appurare in quel Paese lo stato della ricerca sulla malattia, sugli eventuali farmaci utilizzati e sui centri specialistici esistenti. Aggiungeva, infine, che di lì a poco tutta questa ponderosa documentazione mi sarebbe stata spedita direttamente dagli Stati Uniti. Ricordo che, lì per lì, farfugliai un goffo ringraziamento, incredulo e sbigottito per quanto avevo ascoltato. Ma era tutto vero. Poco dopo mi pervenne un voluminoso plico postale contenente una relazione dettagliata, curata dall'ufficio dell'addetto scientifico presso l'Ambasciata italiana a Washington, che faceva il punto sullo stato dell'arte, per così dire, negli U.S.A. sulla SLA, inoltre si allegava un elenco di circa quaranta centri specialistici, alcuni anche canadesi, ove venivano curati i trentamila malati statunitensi. Si indicavano i trials in corso - IGFI (Myotrophin, CNTF (Ciliary Neutrophic Factor), GDNF (Glial cell - Derived Neutrophic Factor), BDNF (Brain - Derived Neutrophic Factor), - le cliniche ove si svolgevano, i direttori responsabili, i medici preposti, i recapiti telefonici e del fax, l'indirizzo Internet, ed ancora gli indirizzi delle maggiori associazioni ALS americane, con numeroso materiale divulgativo e varie riviste. A farla breve, venivo messo al corrente di tutto ciò che avveniva e si faceva negli U.S.A., il che equivaleva a dire nel mondo, circa la malattia. Non so ancora spiegarmi tale commovente attenzione di questo Ministero, che avrebbe potuto non rispondere affatto, ovvero indirizzarmi al Ministero della Sanità. Peraltro, avevo già conosciuto la generale indifferenza delle pubbliche strutture sanitarie, dei mass media ecc. Vuol dire che è proprio vero che nel deserto si trova, prima o poi, un'oasi, e che la signora Agnelli è un personaggio fuori dal comune. Da quel momento, sono sempre rimasto in contatto con il Ministero degli Esteri e con la dottoressa Maria Livia Tosato, addetto scientifico presso l'Ambasciata italiana a Washington, che periodicamente, con impareggiabile solerzia, mi fornisce tutte le notizie che raccoglie sulla SLA, attraverso rassegna stampa specialistica (Science, Nature, Riviste dell'Association ALS ecc.), informazioni assunte dalle case farmaceutiche, notizie di congressi, dibattiti e quanto altro; recentemente mi sono state spedite due video cassette di un congresso tenutosi a Filadelfia, organizzato dall'associazìone ALS di quella città (febbraio 1996). Ho pure avuto la possibilità di contattare e conoscere il dr. Michele Quaroni console italiano a Detroit ed il dr. Parente viceconsole a Cleveland, i quali hanno sempre fatto di tutto per fornirmi le informazioni che richiedevo, provvedendo perfino all'acquisto di libri sulla malattia che, probabilmente, non giungeranno mai da noi. E per finire aggiungerò che il Ministero degli Esteri ha concesso il patrocinio al Congresso internazionale, tenutosi a Converano in ottobre, di cui di seguito dirò.

L Associazione della Puglia.

A febbraio ero a Veruno, ove si teneva l'assemblea annuale dell'A.I.S.L.A. Ero in compagnia di Carlo De Luca e di mio figlio Antonio che si era fermato a Milano, e provenivamo da Verona, dove nel l'ospedale di Borgo Roma mi ero sottoposto ad esami diagnostici sugge ritimi da medici della Columbia Universìty di New York. Venni eletto consigliere nazionale e nella occasione comunicai di voler costituire una sezione dell'A.I.S.L.A. in Puglia. Ebbi pure modo di conoscere la brava e simpatica sig.ra Rossana Perini di Milano, con cui feci subito amicizia; lei aveva avuto, qualche anno prima, il fratello Ald a quarantacinque anni ucciso dalla SLA; conosceva molto bene il dram ma della malattia, anche per come veniva vissuto dal familiari, ed i ricordo del fratello intendeva costituire una associazione a Milano. MI parve subito ben dispoto al dialogo il dott. Gabriele Mora, finalmente u neurologo, dotato pure di ottime umane qualità. Tra febbraio e marzo costituii la sezione pugliese dell'A.I.S.L.A. E stata una iniziativa travolgente, da marzo a dicembre ho procurato 80 nuovi iscritti della sezione Puglia, che si sono aggiunti ai circa 600 vecc iscritti dell'associazione nazionale, tesserati in oltre dieci anni. Con I' speríenza che ho successivamente maturato, ritengo di poter affermare che nelle associazioni dei malati non devono essere presenti medici con funzioni direttive, i medici devono essere presenti solo nei comitati scientifici. Diversamente, ma questo è un discorso generale, c'è il rischio che l'associazione dei malati divenga l'associazione dei medici che si interessano della malattia, e talvolta gli interessi delle due categorie non sono necessariamente convergenti. Nella primavera del 1995 ottenni dalle due reti televisive locali, Antenna Sud e Telenorba, due trasmissioni televisive sulla SLA nelle rubriche di medicina "Spazio Salute" e "Doctor". Il grande pubblico iniziava a prendere conoscenza della malattia, e da quel momento iniziarono ad arrivare telefonate e richieste di informazione da tutta la penisola. A metà marzo ero a Milano per l'elezione delle cariche sociali in seno al consiglio d'amministrazione dell'A.I.S.L.A. Per l'occasione avevo prenotato una visita medica dal dr. Vincenzo Silani, collaboratore del prof. Scarlato, entrambi ora mi onorano della loro amicizia. Mi rividi pure, nella stessa occasione, con Rossana Perini assicurandole il mio aiuto per la costituzione in Milano di una associazione che si occupasse dell'assistenza dei malati di SLA. A giugno tenevo una conferenza a Gioia del Colle in collaborazione con la sezione provinciale della Croce Rossa Italiana; a luglio replicavo a Taranto. Il 27 settembre organizzai con l'aiuto del dr. Umberto Amodeo una giornata di studio per medici ed operatori sanitari presso l'ospedale "San Carlo" di Potenza. Il 7 ottobre si tenne a Conversano un Congresso internazionale sulla SLA da me ideato, voluto e preparato nel mese precedente, senza avere in cassa una lira e, naturalmente, senza avere la minima esperienza. Sono stato aiutato da Angelo Loiacono, Carlo De Luca, Bruno Maggio, unico medico, e dalle mie segretarie Maria Giovanna Volpe e Miriana Vairano. I fondi sono pervenuti dai malati, da amici, da conoscenti, dall'Amministrazione provinciale di Bari e dal Comune di Conversano che, grazie alla sensibilità del sindaco dr. Vito Bonasora, ha contribuito anche ad accogliere convenientemente gli ospiti relatori. Il Congresso ha avuto un notevole ed imprevisto successo, si è svolto anche sotto il patrocinio del Ministero degli Esteri. Tra i relatori erano presenti il prof. G. Scarlato, il prof. G. Serratrice di Marsiglia, il dr. Beghi dell'Istituto M. Negri di Milano, il dr. V. Silani, il dr. J. Philip Azulay di Marsiglia, il dr. G. Mora e la dr. L. Mazzini di Veruno. Erano presenti diversi politici, come il presidente dell'Assemblea regionale della Puglia, consiglieri regionali, parlamentari e la prof. A. Ceci della Commissione Unica per il Farmaco, ma soprattutto molti operatori sanitari e molti malati venuti anche da altre regioni. Si rese pertanto necessario attrezzare, accanto alla sala congressi dell'ospedale di Conversano, un'altra sala con sistema televisivo a circuito chiuso, per consentire di seguire i lavori a quanti non avevano avuto la possibilità di trovare posto nella sala congressi. E' stato questo il primo congresso sulla SLA tenutosi nell'Italia meridionale e per giunta voluto ed in larga parte finanziato dalle vittime della malattia. Momento toccante della manifestazione fu la lettura fatta da Angelo Loiacono, all'apertura dei lavori, del nobile messaggio che il ministro degli Esteri ori. Susanna Agnelli inviò per l'occasione e che voglio riportare integralmente:

"Di fronte alla realtà del dolore qualunque considerazione rischia di risultare inadeguata. Ne siamo consapevoli. Solo il riconoscere che la sofferenza può sollecitare le risorse più nobili dell'uomo può, sul piano collettivo, dare un senso alla realtà del dolore, aiutandoci a ricordare che i risvolti drammatici della condizione umana sono sempre presenti e che ad essi si può rispondere soltanto con la coscienza che dallo sforzo e dall'impegno comune dipende la possibilità di vincerli. La comunità scientifica e tutti gli uomini responsabili sono quindi chiamati a ricercare e operare affinchè le attese e le speranze di tutti coloro che soffrono non siano vane. E' con questa consapevolezza che noi tutti, uomini di governo e uomini di scienza, dobbiamo guardare a questo Congresso organizzato dalla Sezione Puglia della Associazione Italiana per la lotta alla Sclerosi Laterale Amiotrofica, un male terribile per il quale la medicina ancora non conosce rimedi.Da questo Congresso e dagli altri che seguiranno, dovrebbe cominciare a rimuoversi il muro di indifferenza e di disinteresse che spesso anche le strutture pubbliche oppongono alle vittime del male e intensificarsi lo sforzo degli studiosi perchè vengano creati nuovi motivi di speranza e di avanzamento nella lotta alla malattia. Nella prospettiva di un progresso che trovi risposte al problema, è importante che l'Italia si unisca agli sforzi degli altri Paesi offrendo il suo contributo di ricerca e di studio che già appare rilevante (penso in particolare al lavoro svolto dal Centro di Neurologia del Gemelli e dell'Istituto di Neurologia dell'Università di Milano). Proprio perchè la sclerosi laterale amiotrofica ha attributi tanto spietati, il successo di questa lotta può derivare soltanto dalla collaborazione internazionale. La nostra solidarietà va all'avv. Camillo Colapinto, Presidente della Sezione Puglia dell'AISL.A. che ha voluto questo Congresso, e a tutti coloro che con lui lottano per creare attraverso il dolore un'occasione di vittoria sul destino. Vorremmo che la nostra società, troppo spesso dimentica, sapesse concretamente rispondere al loro appello, per una maggiore coscienza del problema a livello di strutture pubbliche e con la partecipazione di tutti al dramma dei sofferenti e delle loro famiglie. "

Messaggio del Ministro degli Esteri

SusannaAgnelli

L'unica nota poco felice, a mio parere, si verificò durante i dibattiti seguiti alle due sessioni dei lavori: i pur numerosi medici presenti rimasero silenti, nessuno fece alcun intervento; aldilà di ogni considerazione, non credo che tale comportamento abbia rassicurato i pazienti pugliesi. A dicembre contribuivo alla costituzione della sezione della Basilicata, di cui è responsabile il caro dr. Umberto Amodeo, compagno di sventura; mi incontravo poi, per la costituzione della sezione della Lombardia, con la dottoressa Anna Di Landro di Bergamo, che si è molto adoperata anche per organizzare un congresso internazionale, e per la istituzione di una borsa di studio in memoria di sua madre, la signora Taverniti, uccisa dalla SLA in soli nove mesi. Nel contempo la A.S.L. BA/5, con deliberazione n.1655 del 20 dicembre 1995, provvedeva alla istituzione di un gruppo di studio delle malattie del motoneurone diretto dal neurologo dr. Bruno Maggio presso il presidio ospedaliero "F. Jaia" di Conversano, con l'obiettivo di rendere operativo un centro ospedaliero, da valere quale punto di riferimento per i malati, anche delle altre regioni meridionali.

La malattia, le cure.

Si può ben dire che il 1995 sia stato un anno di eccezionale dinamismo, ma ciò non vuol dire che la malattia non si occupasse più di me. Peggioravo nella deambulazione e continuavo a perdere forza, specie nella mano e nel braccio destro, avvertivo fascicolazioni dappertutto, rimanevano indenni i nervi cranici. Ho potuto partecipare alle udienze in Tribunale fino al mese di maggio, recandomi sempre in compagnia di qualcuno, ma ancora, tutto sommato, autosufficiente. Chi è vittima della SLA è come fosse costretto a percorrere una ripida scala che lo precipiterà prima o poi nel baratro. Ogni tanto si incontra un pianerottolo che dà la fallace illusione dell'arresto nella inevitabile discesa, ma questa, invece, poco dopo riprende più ripida di prima. Posso dire con certezza che, da quando sono rimasto vittima della malattia, non vi è stato un solo giorno, ma neppure un solo momento in cui mi sia sentito meglio, la progressione è solo in peggio. Ricordo di aver letto una lettera di un malato di SLA, di alcuni anni fa, nella quale si affermava che, in questa malattia, si sta meglio solo ricordando il mese precedente. Nel mese di marzo decìsi dì acquistare una nuova automobile, in omaggio ad un proverbio inglese secondo il quale, dovendo proprio morire, è meglio essere in una Jaguar piuttosto che in una Miniminor. Ho dunque venduto la BMW 324 e ne ho acquistata un'altra più grossa, la 525 SWTD che ho potuto guidare con crescente difficoltà fino a dicembre, soprattutto nei ricorrenti viaggi a Marsiglia. A luglio ho definitivamente perso la possibilità di scrivere, sono pas'vere con la mano sinistra, con grafia lenta, infantile, ma tutto sato a scri sommato leggibile. Fino alla fine dell'anno la forza è andata via via calando: camminavo sempre peggio, ho cominciato a perdere la forza anche nella mano e nel braccio sinistro, non ero più in grado di vestirmi da solo, e, come già detto, concludevo la mia carriera di autista. Per quanto riguarda la cura, ero sempre in possesso dei farmaci francesi che mi venivano persino spediti gratuitamente da Marsiglia, in attesa di ottenere il riluzole. Senonchè, nei primi giorni dì gennaio, tramite posta Internet, che ricevo puntualmente grazie all'amico ing. Gaetano Pinto, ebbi conoscenza dell'uso del farmaco denominato Neurontin, in alcuni centri specialistici degli U.S.A. Si trattava di un nuovo farmaco, adatto per la cura della epilessia, che veniva sperimentato sul malati di SLA. Il farmaco era già venduto nelle farmacie americane, dunque era possibile acquistarlo in Svizzera, sicchè presi contatto con una farmacia di Lugano che aveva appena ricevuto il farmaco daglì U.S.A. Trovato il modo di disporre del medicinale, il problema era di sapere quale dose assumere, quali esami di controllo fare, quali effetti collaterali si potevano avere. Nessun medico ne era al corrente in loco Mi venne incontro il prof. Di Mauro di New York che, dopo aver contattato il prof. Robert Miller di Los Angeles, responsabile di un trial con gabapentin-neurontin su malati di SLA, mi fornì tutte le indicazioni necessarie. Dunque venivo assistito e seguìto, via telefono, dagli Stati Uniti! La dose prescrittami costava circa un milione di lire al mese, mandai mio figlio Antonio a Lugano ad acquistare il farmaco, successivamente mi feci spedire il medicinale per posta. Dopo qualche mese ritenni ingiusto che il costo del farmaco gravasse sempre ed esclusivamente su di me, così come succedeva per i vari viaggi e soggiorni a Marsiglia, a Verona, a Milano, come se fossero gite di piacere. Tanto accadeva perchè, secondo il nostro sistema sanitario, coloro che hanno a che fare con una malattia incurabile non solo non hanno diritto a nulla, ma soprattutto non devono neppure tentare di curarsi, perchè il farmaco specifico non esiste; se, ciò nondimeno, il malato che si ostina a non defungere, insiste a cercare qualche rimedio, faccia pure ma tiri fuori i quattrini; se si tratta di persona ignorante ed impossidente, che attenda fiduciosamente l'exitus, come in questi casi dicono, con ricercata eleganza, i medici. Per fare un esempio, se avessi voluto seguire il suggerimento datomi nel giugno del 1994, di tentare di curarmi con l'interferone che era venduto in farmacia, avrei dovuto interamente sopportare il costo della cura che, a seconda delle dosi da assumere, oscillava tra sessanta ed ottanta milioni di lire all'anno. Dunque, non solo il sistema sanitario pubblico, ovvero lo Stato, in questi casi non ti dà nulla, disconoscendo di fatto lo status di malato, ma, per sovrapprezzo, prctende il pagamento dei tributi, in particolare l'odiosa gabella sulla salute. Mi documentai, districandomi nel groviglio dei numerosi decreti legge scaduti e reiterari (con modifiche e non) da anni, decreti ministeriali, circolari della CUF e quant'altro, testimonianze inoppugnabili della barbarie giuridica in cui, da tempo, è caduto il nostro Paese, Del quale il principio della "certezza del diritto" - reso famoso nel mondo civile dal diritto romano - è stato soppiantato dal brocardo "Summum jus, summa iniuria Gíunsi alla conclusione che mi spettava ottenere il farmaco, come "compassionevole", dalla A.S.L. da cui dipendevo. Il mio caso era contemplato: malattia grave, assenza di cure, rarità, supporto di documentazione scientifica attestante che il farmaco compassionevole in qualche modo costituiva un tentativo di cura, ma soprattutto poteva quanto meno assicurare un beneficio psicologico al paziente. Poichè conosco lo spessore dell'efficienza e competenza dei nostri uffici pubblici, istruii la pratica alla perfezione, come una causa dinanzi al Tribunale Regionale Amministrativo. Alla domanda di rito allegai la relazione del medico curante, la relazione del neurologo della stessa A.S.L. e sopprattutto copia di quella ponderosa documentazione sulle proprietà dei farmaco denominato Neurontin in relazione alla SLA, che proveniva dai vari centri negli U.S.A. ove i trials erano in corso, e che a me era giunta anche attraverso l'Ambasciata italìana a Washington. D'altra parte, posso dire senza voler apparire presuntuoso che, in quel momento, ero certamente l'unico a possedere tali informazioni. Notificai l'istanza con la documentazione allegata, e mi preparai al prevedibile scontro. Qualche giorno dopo, mi pervenne una lettera raccomandata della A.S.L. BA/5: vi comparivano due brevi righe, telegrafiche, con cui si comunicava che l'istanza era respinta perchè non compiutamente istruita, punto e basta. Contro questa scemenza, pronto e preparato come ero, scatenai un putiferio che durò dal venerdì alla domenica mattina, quando la situazione volse a mio completo favore. Denunciai la vicenda agli organi di stampa, sul quotidiano "La Gazzetta del Mezzogiorno" fu pubblicata la mia lettera aperta al ministro Guzzanti con la quale, oltre a dichiarare di voler dismettere la cittadinanza italiana, denunciavo l'ignoranza e l'arroganza degli uffici della A.S.L. Anche il quotidiano "Puglia" pubblicò in prima pagina una mia intervista. Il colpo di grazia venne dai telegiornali di Telenorba e Teledue che in tutte le varie edizioni del venerdì e del sabato, con molta evidenza, riportavano la vicenda come esempio di malasanità. Quelli della A.S.L., travolti dal clamore e preoccupati, cercarono di correre ai ripari, ma maldestri come erano, potevano soltanto complicare la loro situazione. Infatti, il sabato fu diffuso un comunicato stampa con cui si affermava che, con rammarico, non si poteva accogliere la miaistanza perchè - nuova motivazione - la legge non consentiva l'acquisto di farmaci esteri. Altra scemenza! Replicai seccamente con una nota in cui dicevo tre semplici cose: il lunedì successivo mi sarei recato in Tribunale per presentare una denuncia penale alla Procura della Repubblica, per depositare un ricorso ex art. 700 c.p.c. al Pretore, al fine di ottenere un provvedimento giudiziario che obbligasse la A.S.L. a procurarmi il farmaco, ed infine per notificare ai responsabili un atto di citazione per i danni che il rifiuto ingiustamente oppostomi arrecava alle mie condizioni di salute. La domenica mattina, alle 7,30 mi telefonò Angelo Loiacono per dirmi che era stato contattato poco prima dal dott. Domenico Renna, direttore sanitario dell'ospedale di Conversano, il quale lo informava che l'ing. Domenico Modugno direttore generale della A.S.L. desiderava incontrarmi subito. Alle ore 8,30 in punto, negli uffici dell'ospedale dì Conversano conoscevo l'ing. Modugno, presenti Angelo Loiacono ed il dott. Renna. A conclusione dell'incontro venivano accolte tutte le mie richieste e si compilava un comunicato stampa, in cui si affermava non solo che tutto era stato chiarito e risolto per il meglio, ma che da quel momento la A.S.L. di Conversano si sarebbe interessata dei malati di SLA. Devo dire, tuttavia, che l'ing. Modugno riconobbe onestamente la sua non conoscenza delle terribili tematiche che queste malattie pongono, ma affermò che nel futuro si sarebbe impegnato per venire incontro alle molteplici esigenze di questi malati così trascurati. Nè si può dire che il direttore non sia stato di parola. Egli fece approvare, infatti, una deliberazione con cui si decideva l'acquisto del farmaco dalla Svizzera, secondo le istruzioni e sotto la responsabiltà del neurologo della A.S.L. dott. Maggio. Non ho pesato molto, però, sulle casse pubbliche, perchè interrompevo di assumere il neurontin a luglio. Quella deliberazione della A.S.L. BA/5 è servita per altri malati appartenenti ad altre AA.SS.LL. al fine di ottenere il medicinale.

CAPITOLO TERZO

Una telefonata inaspettata.

Una mattina di luglio ricevo una telefonata da Marsiglia: è madame Blanche, la segretaria del prof. Serratrice la quale mi comunica che il riluzole era per me disponibile, mi sarebbe stato somministrato almeno per un anno, ed in ogni caso fino a quando il farmaco non si fosse trovato in farmacia; era perciò necessaria una visita preventiva, da fare quanto prima. Dopo qualche giorno ero a Marsiglia, visitato dal professore. Avrei avuto il sospirato medicinale, seguendo questa procedura: per un mese dovevo smettere di assumere qualunque farmaco, sarei quindi dovuto ritornare a fine agosto, per un ricovero di un giorno in day hospital allo scopo di essere sottoposto ad esami vari, superati i quali avrei ricevuto il farmaco nella quantità bastevole per un intero trimestre. Alla fine di tale periodo mi dovevo ripresentare, per un altro ricovero di un giorno in day hospital, per rifare gli esami e ricevere il farmaco per i successivi tre mesi, e così di seguito. Il farmaco mi sarebbe stato dato gratuitamente e per il day hospital era sufficiente presentarsi con il c.d. modello 112 rilasciato dalla A.S.L. di appartenenza, per aver diritto allo stesso trattamento come in una struttura sanitaria pubblica italiana. Sono dunque stato a Marsiglia a luglio, ad agosto, a novembre. Anche questa telefonata, che mi dava l'opportunità di avere il farmaco, aveva per me dell'incredibile e per vari motivi. Avevo appreso (fonte Internet) che nel mese di giugno, per i trentamila malati di SLA statunitensi, erano state messe a disposizione, prima che il farmaco ricevesse l'autorizzazione per la vendita in farmacia, solo duemila dosi che erano state drammaticamente sorteggiate; non vedevo quale impegno avesse la struttura sanitaria francese di chiamare me, (in Francia, paese "europeo" non solo per collocazione geografica, i malati di SLA sono circa seimila, sono tutti registrati, hanno diritto con i loro familiari anche all'assistenza dello psicologo, esistono due importanti centri di riferimento, nei quali si svolge la ricerca, diretti a Parigi dal prof. Meininger e a Marsiglia dal prof. Serratrice che è anche il presidente dei Comitato Nazionale di Francia per la SLA. In Francia, tuttora, si muore di SLA, ma i malati sono assistiti e non abbandonati al loro destino, come per lo più avviene vergognosamente da noi); non speravo, dunque, che si ricordassero di me, sperduto malato italiano. C'è anche da dire che io l'anno precedente ero stato visitato privatamente dal prof. Serratrice, nè lui traeva un particolare varitaggio dalla mia chiamata. Sta di fatto, come ho potuto apprendere dopo, che fin dal luglio dell'anno precedente, in occasione della prima visita da Serratrice (visita privata nella struttura ospedaliera pubblica, compenso di franchi 600 pari, al cambio di quel momento, a poco più di lire 150.000 circa) ero comunque stato registrato come malato presso quell'ospedale, che mi forni i medicinali gratuitamente. Succede, dunque, che, mentre sono registrato in Francia come malato di SLA ormai da due anni, in Italia questo "privilegio" non mi spetta. Non solo, ma i tentativi sino ad ora fatti per istituire un registro, anche solo a livello regionale, fatta eccezione per il Piemonte che potrebbe costituire un buon modello da seguire ed imitare, sono miseramente falliti, o meglio non hanno mai preso principio, annegati nella indolenza e nella pigrizia, e nel pieno disinteresse di chi potrebbe e dovrebbe istituirli. E' più comodo sostenere che la malattia è rara, e che quindi sarebbe fatica sprecata impegnarsi nel lavoro di ricerca e registrazione. Così a costoro riesce più facile tenere in ombra la malattia, col conseguente risultato di avere, detto crudamente, meno fastidi e di lavorare di meno. Infatti, essi hanno ragione: il malato di SLA è decisamente un paziente fastidioso e, siccome è condannato a morire, tanto vale raccomandare ai familiari di tenerlo a casa. Lungo questa strada si perviene facilmente - tutti lo capiscono - alla totale rimozione di tutte le terribili problematiche poste dalla malattia. E' dunque semplice fare il paragone tra i due sistemi sanitari pubblici, quello francese ed il nostro. Noi facciamo parte, nella fattispecie, del terzo o quarto mondo. Si aggiunga che proprio a luglio del 1995 avevo ingaggiato una battaglia, come innanzi ho riferito, con il ministro Guzzanti, perchè non era possibile avere il riluzole in Italia. Nell'estate del 1995, in attesa che la faccenda del riluzole si sbloccasse, facendomi carico di dare tutte le informazioni necessarie, ho reso possibile a molti altri malati di SLA di recarsi, a Marsiglia, a curarsi con il farmaco che non riuscivano ad ottenere in Italia.

Francia - Italia.

Al momento in cui scrivo, giugno 1996, da alcuni mesi è possibile ottenere il riluzole in Italia, attraverso la richiesta ad personam del neurologo, in attesa della vendita in farmacia, come già avviene da gennaio negli U.S.A., in Svizzera e a Città del Vaticano, sebbene allo stratosferico prezzo di lire 1.800.000 per la dose di un mese. lo tuttavia, sottoponendomi ai disagi del viaggio ed ai pesanti costi conseguenti, preferisco continuare ad andare a Marsiglia, augurandomi di conservare le forze occorrenti per affrontare il viaggio. Sono stato dunque ancora a Marsiglia ogni tre mesi, come previsto, anche nell'anno 1996, a febbraio, a maggio e prossimamente a luglio. Spiego le ragioni. A Marsiglia sono accolto da una mega struttura ospedaliera pubblica di prim'ordìne, il "Centre Hospitalo-Universitaire de La Timone". L'ospedale è dotato di un parcheggio auto sotterraneo di quattro piani, per duemila posti auto. Nel sottosuolo è posta anche una stazione della metropolitana. All'ingresso si ha l'impressione di entrare in un aeroporto internazionale: oltre gli uffici per il pubblico tutti dotati di poltroncine, sicchè l'utente dialoga con gli impiegati comodamente seduto, vi sono negozi vari, uffici bancari ecc.; infine, vi è un grande parco retrostante. Alle ore 7,30 la mega struttura è perfettamente funzionante e gli uffici sono aperti al pubblico. Il reparto di neurologia occupa il nono piano, un'ala del reparto è riservato ai malati affetti da SLA, vi sono persino le carrozzelle con dietro scritto "reparto SLA", roba da non credere. Il day hospital inizia alle ore 8,00: al paziente viene riservata una camera dotata di un solo letto, con bagno, è possibile avere linea telefonica e televisore. Ma nella camera riservata si sta pochissimo, perchè inizia vorticosamente e senza soluzione di continuità il programma della giornata che è il seguente: prelievo del sangue, controllo della pressione, controllo del peso corporeo. Spirometria ed eventuale emogasanalisi, prove della forza con computer, esame radiologico del torace, visita neurologica del dott. J. P. Azulai, intervista con risposte scritte alla dott. Rej alla quale vanno consegnati i risultati degli esami del sangue, che si eseguono a casa nel corso del trimestre; esame e controllo della voce con registrazioni varie (lettura di frasi, vocalizzazioni ecc.), esame della lingua, del cavo orale, della laringe nell'avveniristico laboratorio della dottoressa Robert, colloquio con la dietologa. Alle ore 15,00 sono pronti i risultati dell'esame del sangue prelevato al mattino, successivamente viene consegnato il medicinale da assumere nel nuovo trimestre ed è comunicata la data del prossimo ricovero in day hospital. Alle ore 16 è tutto finito. Sottolineo che per sottoporsi a tutte queste indagini, non si esce mai dal reparto, al massimo si scende di qualche piano in ascensore, accompagnati dall'infermiere. Personalmente non ho mai fatto code, anzi si ha la sensazione che il personale ti stia proprio aspettando. In uno stesso giorno circa dieci malati di SLA stanno ricevendo lo stesso trattamento, ma la rotazione è talmente ben organizzata che è quasi impossibile scambiare due parole con altri compagni di sventura. Tra questi, oltre gli italiani, è facile incontrare spagnoli, il cui sistema sanitario nazionale verosimilmente non sarà dissimile dal nostro. Aggiungo che in una stanza del reparto SLA ha sede l'Associazione di Marsiglia per la lotta alle malattie del motoneurone, perciò ogni mattina due signore volontarie passano per le stanze ove sono ricoverati i malati, offrendo il loro aiuto. Infine, la cartella clinica, con gli esiti degli esami e la situazione clinica del paziente, viene spedita al medico del Paese di origine dell'ammalato. Quello che appare stupefacente ad un malato italiano è constatare che quanto ho descritto e tutto ciò che lo rende possibile costituisce l'assoluta normalità del quotidiano lavoro in ospedale; ciò che a me pare il dover essere - e chissà se tra cento anni lo vedremo da noi in Italia -, lì è semplice routine. Tutti gli esami a cui mi sottopongo potrebbero certamente essere fatti anche da noi, eppure qui non è possibile avere lo stesso trattamento, perchè? 1 motivi sono tanti, il discorso sulla sanità da noi è lungo e complesso; direi che i cittadini italiani sono stati massacrati dal "regirne della prima repubblica", non ancora cessato, che nell'imperante logica della spartizione del potere e della lottizzazione prevedeva che quasi ogni rione di città, ovvero ogni paese, dovesse avere il suo bravo ospedale. In questo modo, abbiamo avuto strutture sanitarie numerose e... inefficienti, e ci hanno anche regalato tanti bravi primari, tutti rigorosamente con tessera di merito democristiana, socialista, socialdemocratica, repubblicana e via elencando. Il discorso della tessera di partito, naturalmente, valeva per tutti, dai membri del Consiglio di amministrazione dell'ospedale, all'ultimo sguattero delle cucine; era notorio come tutti i concorsi fossero truccati, tutto fosse stato già deciso, rectius "spartito". Il tutto poi sublimato da ministri della sanità e direttori generali, associati per delinquere. Figurarsi, dunque, se a questi banditi interessava la salute degli Italiani. Voglio chiudere questa digressione portando due esempi. A Bari hanno lasciato quasi che crollasse il Policlinico, mentre di un'altra grande struttura sanitaria pubblica, il "San Paolo", si attende da venti anni che entri in funzione; nel frattempo Bari è la città con il più alto numero di cliniche private, tutte rigorosamente convenzionate, dove molti baroni e medici del Policlinico amavano visitare i pazienti, e lo facevano anche in tempi assai brevi. Gli stessi medici facevano ben capire agli ammalati che, per una visita o per un esame presso la struttura pubblica avrebbero dovuto attendere mesi. Intanto, molte importanti inchieste giudiziaríe sono in corso per i responsabili del settore sanitario. L'altro esempio clamoroso di quale era il sistema per assegnare le cattedre all'Università, anche se in altro campo, è il seguente: alcuni anni fa il prof. Rubbia partecipò al concorso per la cattedra di fisica all'Università di Lecce. Fu sonoramente bocciato. L'anno dopo al prof. Rubbia fu assegnato il premio Nobel per la Fisica. Chi può assicurare che quel sistema non sia ancora operante? Credo, dunque, che siano chiari i motivi per cui, salute e denaro permettendo, ho deciso di continuare ad andare a Marsiglia. Se mi dovesse, diversamente, toccare di recarmi presso un nostro Policlinico, mi sentirei perduto e preferirei piuttosto restare a casa ed arrangiarmi da solo. La giustificazione è semplice: sono assolutamente certo che, per sottopormi a tutti gli accertamenti che a Marsiglia faccio in una mattinata, dovrei essere ricoverato per almeno sette/otto giorni; per poter essere ricoverato, dovrei verosimilmente attendere mesi; non volendo accettare ciò, dovrei andare, come postulante, dal barone o dal politico di competenza, al quale dovrei ritornare ad implorare la grazia del ricovero periodicamente. Se ci sapessi fare, potrei ottenere ciò che chiedo, ma con il duplice risultato di dovermi disobbligare (e più volte, in occasione delle festività, ricorrenze ecc.) nei confronti del mio "benefattore", e di avere intanto fregato il povero cristo al quale, di volta in volta, avrò sottratto il posto letto. Ipotizzando di aver risolto favorevolmente il problema del ricovero periodico ogni tre mesi, quale sarebbe il trattamento riservatomi? Sarei gettato in una corsia di sei/otto posti letto dai muri sbocconcellati e scalcinati, dai giganteschi finestroni con vetri rotti e, nella migliore delle ipotesi, riparati con rotoli di nastri adesivi, i cessi (mi sembra più appropriato chiamarli così, piuttosto che servizi igienici) comuni per tutti in fondo al corridoio. Ma potrebbe andarmi pure peggio: non avere, ad esempio, nei primi giorni un posto in corsia, bensì, come capita di vedere spesso, una barella in corridoio. Considerando che non sono in grado da solo di fare alcun movimento, dovrei avere continuamente presso di me, per ventiquattro ore, parenti e infermieri privati a pagamento. La notte poi è opportuno stare sempre con gli occhi aperti, i furti non sono infrequenti. Per quanto riguarda gli esami diagnostici, è certo che non tutti si possono eseguire nel reparto di neurologia, sicchè dovrei essere consegnato a barellieri-monatti e trasportato fuori, nelle altre fatiscenti palazzine che possono essere distanti anche molte centinaia di metri; quivi scaricato, sarebbe opportuno dare una congrua mancia ai monatti, per evitare il rischio che poi si dimentichino di venirmi a riprendere. A questo punto è solo questione di fortuna: ipotizzando di dover fare l'esame radiologico del torace, quel giorno nel reparto di radiologia di un grande policlinico quanti ammalati affluenti dai vari reparti ci sarebbero stati? Con quanti avrei concorso, dieci, venti, quaranta? Sarei riuscito a sbrigarmi in mattinata o avrei aspettato fino al pomeriggio? Dunque, un disagio ed uno stress notevoli, reiterati nel tempo. Questo sistema, diciamo "all'italiana", nella sua inefficienza non solo è contrario agli interessi dell'ammalato, ma, quel che è peggio, costa molto di più alle casse dello Stato, in quanto il costo di un day hospital è ben poca cosa rispetto al costo di alcuni giorni di ricovero. Ma da noi il day hospital non è previsto, perchè? Alla fine sono giunto alla conclusione amara che, come la denegata assistenza specialistica domiciliare, queste opportunità non vengono concesse in quanto, in un sistema come il nostro nel quale si sperpera il pubblico denaro, prevedere il day hospital o l'assistenza domiciliare significa spendere meno soldi. Ben poco importano le esigenze dell'ammalato. E' certamente un fatto che nessuno dei malati di SLA da me indirizzati nell'estate-autunno del 1995 a Marsiglia, rinuncia a tornarvi: chi non vi è tornato non lo ha fatto per sua scelta, ma solo per ragioni economiche o per le difficoltà del viaggio.

CAPITOLO QUARTO

Anno 1996. La malattia.

Adesso ne sono interamente preda. Sono "pieno" di SLA. Il killer che agisce dentro di me, continua invincibile ed inarrestabile l'opera di distruzione. Sono stato riconosciuto totalmente invalido con diritto all'assegno di accompagnamento, che da tempo attendo di ricevere. Ho perso qualsiasi autonomia ed autosufficienza, sono comparse fascicolazioni al volto, sul mento e sul labbro inferiore, crampi anche al collo e alla gola; assumo liquidi con la cannuccia di plastica, riesco appena a trascinarmi in casa aggrappato al braccio di mia moglie, sempre più lentamente e con difficoltà crescente. 1 piedi, fino a sera si gonfiano. Trovo molta difficoltà ad apporre la firma anche con la mano sinistra, con la quale ormai non riesco neppure ad alzare un bicchiere. Sono ancora capace di scrivere usando la tastiera del computer, utilizzando un solo dito della mano sinistra, il medio, ma devo presto interrompere perchè, per lo sforzo, la mano prende a tremare. Mia moglie mi porge il cibo che, per fortuna, al momento ingerisco senza difficoltà; la voce è già da tempo divenuta molto roca, adesso ho la sensazione di cominciare ad avere difficoltà ad articolare correttamente le parole e, comunque, parlare mi affatica. Non sono in grado di sbarbarmi, di lavarmi i denti, di soffiarmi il naso; uno starnuto improvviso, mentre sono in piedi, mi farebbe cadere. La temuta carrozzella è stata già ordinata ed arriva a giorni. Al momento, non ci sarebbero problemi riconducibili alla respirazione. La malattia ha trasformato il mio corpo, che ora trovo irriconoscibile ed estraneo. La metamorfosi nello scarafaggio di kafkiana memoria è quasi completa: le gambe muscolose da ciclista, come le braccia e le mani sono spaventosamente ischeletrite, così pure le spalle, particolarmente quella destra. In compenso, la SLA mi ha regalato una orribile pancia e mi ha ingrassato il collo. Tra muscoli persi e grasso accumulato, in tre anni sono passato da 67 kilogrammi agli attuali 70. Dunque, tutto evolve per il peggio, come si legge nei testi di neurologia. Si aggiungano un antipatico riso spastico ed una irritante facile commovibilità. Le giornate sono tutte uguali, ma affatto monotone. Al mattino, alle nove mi raggiunge Antonella, la mia brava e simpatica fisioterapista costretta a sopportarmi fin dal mese di novembre del 1994; dopo le ore dieci sono davanti al computer, tiro fino alle tredici, sbrigando pratiche professionali e lavorando per l'associazione. Alle 17,30, Maria, mia moglie, mi accompagna allo studio ove mi trattengo sino alle 22,00 circa. Il sabato o la domenica mi faccio portare in auto, per un breve giro in campagna o al mare. Ho cessato di frequentare ristoranti, oltre che per le difficoltà di deambulazione, anche perchè devo essere imboccato e devo bere servendomi di una cannuccia: francamente non mi sento di offrirmi così alla visione degli avventori, lo spettacolo è penoso; so di sbagliare, che bisogna non pensare e non autolimitarsi, ma per me tale è lo sforzo e lo stress di darmi un tono ed un qualche contegno, che preferisco restare a casa, o andare a trovare degli amici. Continuo, dunque, ad impegnarmi sia nel lavoro professionale, sia per l'associazione. Al futuro non penso, perchè non credo di averne. Programmare un bimestre è come programmare un anno. Non vivo nè momenti di depressione, nè di euforia, non sono disperato e, nel contempo, non nutro soverchie fiducie. Cerco di restare in equilibrio facendo in modo che il mio io ammalato, sempre più ingombrante, non prenda il sopravvento sull'io avvocato. Non sono credente, ma nemmeno ateo, sono agnostico e tollerante. Non credo naturalmente ai miracoli, che non esistono, rimprovero affettuosamente il malato che chiede per sè il miracolo: non sarebbe questo un atto poco cristiano di egoismo e di discriminazione verso gli altri? Se proprio egli è determinato a chiedere il miracolo, non è più opportuno chiedere che il buon Dio, sempre così distratto e disinteressato degli umani travagli, illumini la mente dei dott. Mitsumoto o di qualche altro ricercatore? Per quanto riguarda le cure, come tutti prendo il riluzole, che ora da noi si chiama riluzolo, ma non mi faccio illusioni: se la cura sortirà un qualche effetto, significherà che sarò vissuto circa dodici mesi in più. Per il prossimo autunno forse si disporrà della myotrophin, che sembrerebbe rallentare la progressione della paralisi, per i B.D.N.F. nella migliore delle ipotesi se ne parlerà l'anno venturo. Orbene, su questi farmaci sono alquanto perplesso, sebbene, naturalmente, mi adopererò al massimo per averne la disponibilità, e peraltro, tenuto conto che solo due anni fa non c'era assolutamente alcun farmaco da assumere, passi avanti sono stati compiuti. E'certo una fortuna che ci sono i ricercatori americani, giapponesi e francesi, ma il vero problema è che nessuno è a tutt'oggi riuscito ad individuare la causa del morbo. Ciò significa che spesso tali ricerche sono autentici spari nel buio. Personalmente, per quel che vale la mia opinione, mi sono fatta l'idea che un qualche enzima mutando (le proprie caratteristiche?), programmi la morte della cellula motoneuronale (apoptosi); in questo caso, solo intervenendo su tale enzima, per restituirlo al suo stato originario, sarà possibile sconfiggere la SLA. Ma resta insormontabile la circostanza che in questa malattia non giocano i grandi numeri, e ciò comporta la indifferenza delle strutture sanitarie pubbliche e la non convenienza da parte delle case farmaceutiche ad investire nella ricerca. Ogni tanto penso che se questo schifo di morbo fosse stato contagioso, essendo esso noto da circa centocinquanta anni, probabilmente avremmo già avuto la soluzione alle nostre spalle.

I malati.

In questi anni ho conosciuto decine di malati ed i loro familiari, di ogni parte d'Italia. Ho conosciuto cosa è il dolore, la disperazione, l'abbandono, la solitudine di chi soffre, il terrore ed il desiderio della morte come liberazione dalla sofferenza indicibile e non più sostenibile. Ho cercato di dare sostegno e coraggio a quanti ho potuto, intrattenendo contatti epistolari, telefonici e personali con molta di questa dolente e negletta umanità; di malati ne conosco personalmente un centinaio, persone che hanno insistito per venirmi a trovare, anche da molto lontano, come se io, ammalato quanto loro, potessi dare una cura, una speranza. Era gente che ormai viveva segregata in casa senza contatti con alcuno, a cui non sembrava vero di trovare altri con gli stessi problemi, gente per cui era importante trovare qualcuno con cui poter parlare e che, soprattutto, li stesse a sentire. Di questi malati annoto l'età, da quanto dura la malattia, in quali condizioni si trovano, chi li segue, che cure fanno. So chi di loro conosce la fine che li aspetta, chi sa di avere una grave malattia ma con la quale si può convivere senza altri danni, chi non sa nulla e chiede come mai non sia ancora guarito. Con ciascuno di questi malati mi devo comportare di conseguenza. Molti malati non sono in grado di parlare, sicchè per telefono parlo con i loro congiuntì, ma loro, i malati, inventano mille commoventi modi per farmi giungere un saluto. Ad esempio, la signora Canestrini di San Piero al Bagno, guardando il figlio Simone mentre mi telefona, sbatte le palpebre un certo numero di volte intendendo, in tal modo, rivolgermi un saluto; l'ammalato di Campobasso agita un piccolo campanello legato al ginocchio, in segno di saluto al termine della telefonata che ho in corso con sua moglie.Conosco situazioni indicibilmente drammatiche, come quella di una famiglia di Napoli, i cui maschi, per ereditarietà, muoiono ìn pochi mesi tra i trenta e i trentacinque anni, sicchè quelli non ammalati vivono nel terrore di essere colpiti dal morbo, e preferiscono non sposarsi; ovvero il caso di un ammalato di Torino che, abbandonato dalla moglie, solo e incapace di muoversì, aveva tentato assurdamente un suicidio impossibile, lasciandosi cadere dalla sponda del letto sul pavimento.Tengo pure il conto dei morti e non faccio mancare la letter doglianze alle famiglie, anche se la notizia della morte di un compagno di sventura mi procura una irrefrenabile commozione che mi fa stare male tutta la giornata. E' singolare poi constatare come i familiari delle vittime decedute di SLA restino in contatto con l'associazione. Ciò che più mi dà conferma dell'utilità del mio impegno, a parte il lavoro per la costituzione di nuove sezioni dell'associazione, come quelle della Lombardia, della Basilicata, da ultimo del Lazio, è l'adoperarmi per mettere tra di loro in contatto i malati e le famiglie; ognuna di queste, infatti, viveva isolata nelle quattro mura di casa il dramma della SLA. Ho fatto in modo che si conoscessero famiglie con congiunti ammalati di Bari, di Taranto, dì Potenza, di Salerno, di Firenze, di Roma, che ora si frequentano, si scambiano informazioni, si danno mutuo soccorso, sono insomma fuori dal ghetto dell'isolamento. A queste persone cerco di spiegare che devono mutare il rapporto con il medìco, che non può più essere quello della sudditanza psìcologica e culturale, che sinora ha reso il medico padrone dei malato, ad esclusivo vantaggio del medico pigro, indifferente, non aggiornato, culturalmente disonesto. Con la tecnologia di cui oggi facilmente si può disporre, il paziente vigile e attento può saperne anche più del medico, in tal modo può incalzarlo, tallonarlo, diciamo pure costringerlo a svegliarsi, sia pure soltanto per spingerlo alla lettura di qualche rivista scientifica, ovvero, più fruttuosamente, per cambiarlo. Insomma il rapporto deve essere paritario e dialettico. Potrei fare i nomi di neurologi, qualcuno anche "barone" di importanti cliniche universitarie, che appena l'anno scorso impallidivano alle mie torrenziali domande sull'IGF 1, BDNF, CNTF, GDNF, cromosoma 21, superossido dismutasi, e quant'altro, di cui non sapevano assolutamente nulla; e quando bofonchiando cercavano, a giustificazione della loro grassa ignoranza, di affermare che si trattava di mere ipotesi astratte prive di qualsivoglia pratico riscontro, e dunque di effettivo varitaggio per il malato, avevo buon gioco agitando sotto il loro naso l'elenco dei trentotto centri statunitensi, ove i trials con i vari farmaci erano in corso, in che fase la sperimentazione si trovava, se erano stati pubblicati i dati ovvero quando si prevedeva che fossero pubblicati, se si utilizzava placebo, con il nominativo del medico responsabile, numeri telefonici e del fax, indirizzo Internet ecc. Ricordo le espressioni di disagio e di stupore di chi non si rende conto del cambiamento dei tempi, incollati ed incartapecoriti come sono sulle loro polverose ed inutili cattedre, sicuri che nessuno li caccerà mai. E'universalmente noto come il malato è assistito meglio nel centri dove si fanno la sperimentazione e la ricerca, ciò che da noi non avviene, e per conseguenza dal nostro Paese dovrebbero scappare tanto i malati quanto quei medici desiderosi di impegnarsi, ma osteggiati dalla burocrazia della pubblica sanità. E' un fatto che le nostre Università sono da tempo divenute giganteschi e caotici "esamifici" dove studenti più o meno parcheggiati, dietro corrispettivo di tasse sempre crescenti, ricevono il voto d'esame ed, infine, il famoso pezzo di carta che oggi - come sappiamo e per quel che vale - non si nega a nessuno, sicchè a fine corso si ritrovano tutti laureati ed ignoranti. Non è infatti vero che in Italia abbiamo lo straordinario numero di ben trecentocinquantamila medici? Un numero talmente spropositato da superare la somma di tutti i medici inglesi e francesi, ma nel frattempo migliaia di giovani continuano ad iscriversi alla facoltà di medicina, nonostante l'assoluta certezza che non potranno trovare lavoro. Non è follia collettiva? Mi ricorda una famosa frase di Nietzsche: "La follia è molto rara negli individui, ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola". (Di là dal bene e dal male).

SLA e mezzi di informazione.

1 malati di SLA non interessano i mass media, non sono, per così dire, telegenici. Se raramente se ne dà notizia, in qualche succinto trafilei to da ultima pagina di cronaca, è solo per riportare, frettolosamente, 1 macabra notizia di un suicidio. Faccio alcuni esempi. Nell'aprile del 1995, sul settimanal 'L'Espresso" venne pubblicato un ampio articolo di Cristina Mariotti si malati di aids, dal titolo accattivante: 'Trova a dire sono sieropositivo". 15 riportavano alcune storie fosche, di quelle che subito attirano la morbos attenzione del lettore, di droga, di prostituzione, di omosessualità, e emarginazione, ecc. Insomma, un bel congegnato articolo ad effetto, diciamo pure alla moda. Spedii per fax alla Mariotti una mia lettera nell quale sottolineavo la terribile realtà, forse anche più grave, sotto il profilo della mancanza di assistenza dei malati di SLA, sicchè affermavo che potendo scegliere, avrei preferito essere malato di aids, e concludevi auspicando di poter leggere, almeno per una volta, un ampio reportage dal titolo, ad esempio:"Prova a dire sono malato di SLA". La Marioti non ha mai risposto, però nel n. 4 de 'L'Espresso" del 20 gennaio 1996,, stato pubblicato un altro suo articolo sull'aids, con l'onore della coperti na del settimanale, dal titolo: "Contagiate in casa".Deduco, quindi, che i malati incurabili non sono tutti uguali e no' suscitano uguale interesse. Certo il malato di SLA non ha da raccontare un passato di prostituzione, di droga, di diversità, la sua storia è molto pii banale e dunque meno appetibile per i giornalisti; è la storia meno inte ressante di una persona sfortunata che non ha neppure concorso a regalar si la malattia. Verosimilmente il giornalista non saprebbe cosa scrivere Naturalmente, non sono inconsapevole del notevole impatto sociale de problemi posti dall'aids e dei pericoli del contagio, ma come non trovano indegni ed intollerabili l'indifferenza ed il generale disinteresse per h altre malattie terribili, anche se meno conosciute? Altro esempio: sul "Corriere della Sera" del 12 dicembre 1995, in un telegrafico articolo di cronaca da ultima pagina, si riportava la notizia de suicidio di una signora statunitense, malata terminale di SLA. Ma, a bei vedere, il motivo effettivo della breve notizia era che la donna, pe togliersi la vita, aveva scelto un albergo di una città equidistante dall località ove risiedevano i suoi parenti, affinchè per costoro fosse più sem plice raggiungerla. Se non ci fosse stata questa singolarità - per così dire topografica, la notizia non sarebbe mai stata riportata. Da ultimo, nello scorso mese di febbraio ho indirizzato una lettera ad Eugenio Scalfari, ancora direttore del quotidiano "La Repubblica": chiedevo che su quel giornale apparisse un servizio sulle terribili problematiche poste dalla SLA, malattia tuttora enigmatica, e sulla solitudine in cui il malato e la sua famiglia sono confinati; confidavo che la mia lettera fosse almeno pubblicata. Non è successo nulla, neppure una scheletrica risposta. Evidentemente l'esimio direttore e fondatore di quel giornale, da tempo impegnato a filosofeggiare sul concetto di morale e sul problema della esistenza o meno del buon Dio, misurandosi con cardinali, teologi e pensatori, di certo non poteva perdere tempo ad interessarsi dei problemi - verosimilmente valutati più banali e meno interessanti - dei suoi comuni lettori.E veniamo, adesso, alla televisione. Dal mese di gennaio del 1995 cerco di ottenere dalla redazione della seguita rubrica televisiva "Checkup" di Rai Uno, trasmissione ultraventennale, una puntata dedicata alla SLA, malattia a cui non è mai stato dedicato nessun servizio, nonostante che in vent'anni alcune migliaia di persone siano decedute per SLA. Svolgendo la televisione di Stato un servizio pubblico, ritenevo legittima la richiesta, e l'accoglimento quasi un atto dovuto. La burocratica risposta della redazione consistette nella comunicazione che la mia richiesta era stata trasmessa al comitato scientifico della trasmissione, che avrebbe deciso. Un anno dopo, a gennaio scorso, supponendo che i "dotti medici e sapienti'' componenti il comitato scientifico fossero ancora in riunione per decidere, ho reiterato la richiesta; non solo, ma questa volta ho fatto spedire un centinaio di lettere da altrettanti malati, che sollecitavano la trasmissione di una puntata sulla SLA. Anche a costoro è pervenuta la rituale risposta. Mi auguro che gli eminenti signori componenti il comitato scientifico non siano colti da emicrania a grappolo, cronica, perchè è già un anno e mezzo che stanno esaminando la mia impertinente richiesta, nè è dato sapere come andrà a finire. Nel frattempo, a "Check-up" vengono reiterate le solite trasmissioni sul diabete, i danni del fumo, l'infarto del miocardio; se si va incontro alla bella stagione si parlerà naturalmente di cellulite, se è tempo di andare a sciare l'argomento sarà, ineluttabilmente, l'intervento ai legamenti del ginocchio. D'accordo, il diabete, l'infarto e via elencando sono malattie che interessano molti telespettatori, ma non è accettabile che dopo vent'anni di trasmissioni ed un anno e mezzo dalla richiesta, non è possibile vedere una puntata dedicata alla SLA. Allora ho ragione io, che da tre anni dico che a questa malattia deve cambiarsi il nome, nel nostro Paese deve avere il nome scientifico de la malattia che non c'è .Mi sono convinto che di questo morbo non si deve parlare, la SLA non è telegenica, la malattia ed il malato sono impresentabili in TV, spaventerebbero i telespettatori perchè non ci sono messaggi rassicuranti patinati da trasmettere, l'audience crollerebbe. Che i malati di SLA, duri que, si godano pure gli altri programmi "scientifici" della Rai, come quel lo della "divulgatrice scientifica" signora Lambertucci che, circondata d garruli luminari che hanno superato il concorso di telegenia, generosa mente mette in bella vista le natiche ed i seni al silicone delle immancabili li modelle, ... e chissà se a furia di guardarle i malati di SLA incominceranno ranno finalmente, anche loro, a diventare "più sani e più belli". Per la verità, una sola volta la Rai si è interessata di SLA, nel mese giugno del 1995. Si deve l'onore della cronaca al sig. Minoli il quale, a un certo punto, ha voluto dedicare una puntata del suo programma "Mixer" al problema dell'eutanasia, argomento, in verità, di assoluta rilevanza e straordinaria complessità e che riguarda tutti, dunque meritevole di attenzione. Naturalmente, nella melassa che tutto trita in Tv, al sig Minoli, come a tutti i conduttori televisivi, quello che veramente interessanti sava era l'audience. E' noto come da questi potentissimi nuovi mandarini di tutte le chiese politiche, i compensi miliardari sono spuntati in funzione ne dell'indice di ascolto e dunque, con un bel battage pubblicitario, nell' annunciazione della puntata, si sottolineava che sarebbe stato trasmesso in prima visione tv in Italia, un "eccezionale documento", un filmato olandese col quale si documentava la morte in diretta, procurata da medico "curante" su richiesta del paziente, malato di SLA. Si nota come, se i mass media devono parlare di malati suicidi, questi sono quasi sempre malati di SLA e stranieri, così i destinatari della informazione no si spaventano e non protestano. Mi sono battuto contro la trasmissione di quel filmato, significando ne l'assoluta ininfluenza ai fini di un dibattito sulla eutanasia. Era come cercavo ragionevolmente di sostenere - se per parlare di violenza ai minori ri, si dovesse trasmettere un filmato dal vero, nel quale un pedofilo vic lenta e strangola un bambino di tre anni. La sbandierata necessità dell trasmissI one di quel filmato, acquistato con i denari dei contribuenti (anche con le tasse pagate dai malati di SLA), nascondeva, a mio modo ( vedere, semplicemente un motivo abietto: suscitare il morboso interesse del telespettatore. Assistere alla morte di un essere umano, non è forse il più grande spettacolo dei mondo? L'audience certamente sarebbe salito. Inoltre, qual era la necessità di far conoscere il nome della malattia? Perchè annunciare ai quattro venti che il malato che aveva deciso di farsi uccidere da chi lo avrebbe dovuto curare, era vittima della SLA? Nessun sentimento di umana pietà per i malati di SLA che avrebbero visto la trasmissíone? Questi i motivi della opposizione, non si era certamente contrari al dibattito sulla eutanasia.Si riuscì ad ottenere solo uno sconto di ... due minuti del filmato, quelli finali, in cui il medico infilava l'ago della iniezione fatale nella vena del suo "paziente", scena immediatamente preceduta dall'altra, regolarmente mandata in onda, dell'assurdo e macabro rito del brindisi con champagne, tanto per festeggiare e magari dare un tocco di mondanità allo spettacolo. Certamente la scena era prevista dal copione del film, magari è stata ripetuta durante le prove, a discrezione del regista, affinchè le espressioni dell'uccisore e dell'ucciso fossero le più acconce e più adeguate alle esigenze filmiche. Alcuni anni fa l'ayatollah iraniano Komeini, lanciando anatemi contro l'Occidente, tuonava che questo era il regno di satana aveva completamente torto?Le disgraziate vittime della SLA, anche quelle che non sapevano esattamente della crudele fine cui ìn poco tempo sono destinate - sì deve pure riconoscere il diritto a "non sapere - ed i loro atterriti familiari, dopo aver seguito la trasmissione televisiva, hanno così dedotto che, evidentemente, contro la malattia l'unico rimedio veramente efficace e risolutivo è una iniezione di curaro Sono stati così vanificati gli sforzi che l'associazione dei malati compie per diffondere fili d'aria di speranza e per dare qualche conforto. Molto spesso, in questi anni, mi è stata posta la domanda del perchè non mi sia presentato al famoso programma televisivo del "Maurizio Costanzo show che ormai nell'immaginario collettivo del disorientato pubblico teledipendente è considerato il supremo tribunale civico, presieduto dal "Grande Conduttore" ed apparente Difensore dei diritti calpestati dei cittadini. Del resto, per convincersi che quel conduttore sia uno dei personaggi più potenti e temuti del nostro Bel Paese, basta vedere la fila dei politici che fanno domanda per potersi presentare alla trasmissione; e come non potrebbe essere così, non viviamo forse nella società dello spettacolo? A ben vedere, non è certo la televisione che risolve i problemi della gente. Sono loro, i burattinai Rai e Fininvest che fanno di tutto, quasi sempre riuscendovi, per contrabbandare come vera la verità virtuale che ci propinano. Se costoro riuscissero pienamente in questo disegno, dal quale sarebbero gli unici a ricavarne vantaggi, diventeremmo tutti "albanesi". Tutti ricordiamo infatti le angoscianti immagini del tentativo di sbarco di sedicimila albanesi nel porto di Bari, nell'estate del 1991. Quei disperati erano assolutamente convinti che l'Italia fosse proprio come quella virtuale che conoscevano seguendo i programmi delle TV italiane. A ben riflettere, la partecipazione di gente disperata al programma televisivo di Costanzo giova solo al conduttore, il quale, sempre con l'attenzione rivolta all'audience, chissà come sarebbe soddisfatto di poter annunciare, tra gli ospiti della serata, la partecipazione di un malato di SLA che, ad esempio, dichiari di volersi suicidare, dandosi fuoco dinanzi all'ingresso del Ministero della Sanità, per protestare sull'assoluto disinteresse delle pubbliche strutture sanitarie per questa malattia e l'inesistenza di fondi destinati alla ricerca.La mia morale laica fa divieto di spettacolarizzare il mio come l'altrui dolore. E poi, con chi si partecipa a quello "show"? Con il solito telescrittore famoso che, una sera sì, l'altra no, si presenta con il suo bravo ultimo volume sotto il braccio e, senza provare vergogna, reclamizza penosamente il suo libro che altrimenti quasi nessuno comprerebbe; il solito professore universitario tuttologo, probabilmente egli stesso convinto della inutilità di stare dietro alla sua cattedra; poi seguono aspiranti attricette e vallette, stregoni e saltimbanchi vari, perchè, come è giusto, tutto serve a far spettacolo. Quella non mi pare proprio la sede giusta. Peraltro, io credo molto che l'uso corretto ed appropriato dello strumento televisivo possa giovare al tentativo di concorrere a cercare soluzioni per i problemi di chi soffre, ma occorrerebbero appositi spazi televisivi, che oggi non trovo.Concludo con una osservazione sulla "telebeneficenza". Tutte le settimane ne troviamo una, che si propone di raccogliere fondi, e quasi sem~ pre per la lotta all'aids. La cosiddetta malattia del secolo, certamente l'affare del secolo. Comincio a pensare che organizzare queste trasmissioni stia diventando un vero lavoro televisivo, tale da richiedere la istituzione di una apposita redazione, la redazione di "telebeneficenza". Naturalmente non mi riferisco assolutamente alla benemerita e seria iniziativa di 'Telethon", che va incoraggiata e maggiormente sostenuta, perchè la qualità e le capacità dei responsabili danno assoluta garanzia di serietà. Sto parlando di altro e mi spiego. E' noto come, ad esempio, non c'è v.i.p. televisivo che, nei quotidiani teatrini di tutte le televisioni, non compaia con il suo bravo distintivo rosso dell'aids, tanto alla moda e che fa tendenza. In questo modo costoro, sempre gli stessi compagni di merende miliardarie, si sentono democratici ed impegnati nel sociale. Sempre costoro hanno scoperto il filone della "telebeneficenza": la solidarietà sembrerebbe lo scopo della iniziativa, in realtà è solo un espediente per spacciare spettacoli scadenti che nessuno mai guarderebbe, a beneficio solamente delle stesse star, degli sponsor e dei dirigenti televisivi. Grazie alla generosità degli Italiani, le somme di denaro raccolto sono considerevoli e scatenano gli appetiti di molti, come in tali casi avviene.Ingrediente immancabile in quelle trasmissioni è la presenza di luminari telegenici e dunque conosciutissimi (ma per lo più solo in patria), che di fatto hanno da tempo trasferito i loro studi professionali in quelli televisivi, dove, poichè, come è giusto, tutto si trasforma in spettacolo, praticano in diretta il c.d. bacio alla francese alla telegenica fanciulla proposta come sieropositiva. Si aggiungono alcuni preti, anch'essi telegenici, sempre gli stessi: abbronzati ed eleganti, tra prospere e generose conduttrici e ballerine, instancabilmente sollecitano per le loro casecomunità, sempre in costruzione, sostanziosi finanziamenti. (Che pena fanno questi preti star, se si pensa che i loro colleghi, i preti veri, i missionari, senza i miliardi, pur di assistere i bisognosi si fanno sventrare in paesi come il Burundi o il Ruanda, senza la "diretta in tv in prima serata"). E gli evidenti interessi delle case farmaceutiche non vengono certo ignorati. Il telespettatore resta frastornato dallo spettacolo, dai colori, dalle paiettes luccicanti, dalla musica rumorosa, dagli applausi a comando della regia, dalle immancabili top model che sfilano comunque a pagamento, e non pensa. Questo è il problema: il telespettatore, il cittadino non viene spinto a riflettere, non pensa ad esempio che nel grande baraccone, gli unici che dovrebbero esserci, i malati di aids, non ci sono. Ma, vivaddio, se i malati di aids continuano a lamentarsi e a protestare anche violentemente per la mancanza di assistenza, per l'assenza di reparti ospedalieri specializzati e di posti letto, per l'assenza di medicinali se non a pagamento, per le parcelle sostanziose (dalle cinquecento alle settecentomila lire a visita) dei luminari televisivi, mentre sono spariti i molti miliardi stanziati e quelli raccolti con le pubbliche sottoscrizioni, come mai nessuno si chiede dove i soldi vanno a finire e perchè non esiste un controllo pubblico sul loro impiego? Il bello è che al circo delle star televisive, si sono recentemente aggiunti anche i nostri politici, quelli ai massimi livelli, i quali, invece, dovrebbero incominciare una buona volta a tutelare gli interessi della gente che soffre. Ma loro hanno pensato bene, nessuno escluso, di mettersi in mutande e di prendere parte alle cosiddette "partite della solidarietà", ovviamente trasmesse in diretta TV, con il codazzo di queruli ed entusiasti giornalisti servili e di ragazze pon pon, mentre nella tribuna vip la solita lobby delle star televisive, dei preti televisivi, dei luminari televisi, fa bella mostra di sè. In questa allarmante confusione vedo molto business e pochi vantaggi per i malati.Interrompo di scrivere questa cronaca, oggi 26 giugno 1996, giorno in cui mi è stata consegnata la carrozzella da tetraplegico. Speravo, senza troppa convinzione, che il temuto momento per me non dovesse arrivare, così non è stato. Riprenderò la stesura della cronaca tra qualche mese, salvo ... imprevisti. Voglio ringraziare, sin d'ora, oltre che i miei familiari, tutti gli amici che mi sono vicini, ed in particolare, Angelo Loiacono, Vito L'Abbate, Carlo De Luca, Antonella Bellino, Mario Scisci, Saverio Lorusso, Gaetano Pinto, Sergio Fanelli, Miriana Vairano, Maria Giovanna Volpe, nonchè Cesare Achille e la sua famiglia di Marsiglia, e tra i tanti colleghi amici, gli avvocati Michele Basso, Antonio Di Modugno, Pinuccio Romito, Ciccio Iudice e gli amici dello studìo di Michele Spinelli.Un particolare e sentito ringraziamento esprimo ai colleghi componenti il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati e Procuratori di Bari e al Presidente avv. Damascelli che più volte sono intervenuti, aiutandomi tangibilmente. Infine, ringrazio l'amico Enzo Magistà, direttore dei telegiornale di Telenorba, che mi ha sempre sostenuto nell'impegno dì far conoscere al grande pubblico i molti problemi dei malati di SLA.Ho iniziato questa cronaca trascrivendo il raggelante primo verso dei XXXIV canto dell'Inferno, nel quale Dante, atterrito, scorge venirgli incontro le insegne del re degl'Inferi, ora chiuderei con un messaggio di speranza, riportando l'ultimo verso dello stesso canto: "e quindi uscìmmo a riveder le stelle".

CAPITOLO QUINTO

La morte di un amico.

Sabato 13 luglio, mentre ero in viaggio con la mia famiglia, diretto a Sestola in provincia di Modena per accompagnare mio figlio Andrea presso un centro sportivo della Federazione Italiana Tennis, fummo raggiunti dalla crudele notizia della morte di Filippo Barbuscia. Filippo era il pediatra di Andrea, lo abbiamo conosciuto sette anni fa in circostanze drammatiche, in occasione del ricovero d'urgenza presso l'ospedale di Conversano di Andrea, che all'epoca aveva solo due anni. Andrea era in piena crisi emolitica e con terrore temevamo di perderlo perchè, in attesa dei risultati delle analisi, si paventava un attacco di leucemia fulminante. Fortunatamente risultò la carenza dell'enzima G6PD, circostanza questa che, se pure non certamente da sottovalutare, escludeva la presenza di malattie ben più gravi e con una trasfusione Andrea si riprese. Furono quelli, per me e per la mamma, i due peggiori giorni della nostra vita; nella occasione Filippo fu molto bravo, aiutato anche da una intuizione diagnostica di mio fratello Carlo. Così ci conoscemmo e divenimmo amici. Filippo Barbuscia era siciliano, laureato in medicina e specializzatosi in pediatria, aveva lavorato per una decina di anni all'ospedale di Desio; circa otto anni fa con la moglie Antonietta, originaria di Conversano, aveva deciso di trasferirsi, lavorando come aiuto di pediatria presso l'ospedale di Conversano. 1 coniugi Barbuscia erano molto religiosi, appartenevano alla Chiesa Avventista del Settimo Giorno; il fratello di Filippo, Ignazio Barbuscia, è pastore ed è l'eminenza più importante, in Italia, di quella religione.Circa tre anni fa, Filippo venne operato d'urgenza per un blocco intestinale; purtroppo in quell'occasione fu scoperta la presenza di un tumore di natura maligna. Filippo ne fu sconvolto, poco dopo si sottopose ad un secondo intervento. Dapprima riteneva di aver tempestivamente bloccato il male, successivamente pensava di poterlo controllare, e perciò periodicamente si recava ad Aviano, nel Friuli, presso un centro oncologico all'avanguardia per terapie ed assistenza. Egli, dunque, si era ammalato più o meno quando io ero stato colto dalla SLA. Abbiamo spesso parlato delle nostre personali situazioni di ammalati gravi, dei problemi che si ponevano alla famiglia, del tempo in cui non ci saremmo più stati, della nostra sfortuna. Per quanto confortato da una fede molto solida, non appariva ai miei occhi fiducioso e tranquillo; a volte mi sembrava sereno e gioviale, per quanto lo si può essere in situazioni di questo genere, talvolta appariva depresso e terrorizzato. Penso che a tali altalenanti situazioni psicologiche concorresse la sua qualità di medico. Egli, infatti, era sempre teso a sorvegliare il suo organismo, con i necessari esami del caso, che proprio perchè numerosi e ricorrenti, lo tenevano continuativamente in stato di ansia. Per confortarlo, spesso gli dicevo che tutto sommato io - per quanto potesse apparire paradossale - in un certo modo lo invidiavo, perchè egli aveva terapie e cure a disposizione che potevano assicurargli una lunga sopravvivenza, se non la completa guarigione. Dopo la notizia della sua morte, ho provato vergogna per questo mio sentimento.A maggio scorso, il male che fino a quel momento sembrava sotto controllo, gli è letteralmente esploso dentro, Filippo non aveva più scampo e, come malato terminale, veniva rispedito a casa da Aviano. Poco dopo si ricoverava presso l'ospedale di Conversano e gli stessi medici suoi colleghi di lavoro non avevano il coraggio di fargli visita. Mercoledì 10 luglio, mia moglie Maria recatasi in ospedale, visitò Filippo, tornò a casa sconvolta ed in lacrime. Venerdi 12 luglio, in procinto di partire per Sestola, avvertii un bisogno irrefrenabile di mettermi in contatto con Filippo, e non avendo altre possibilità decisi di scrivergli una lettera, che il giorno successivo la mia segretaria avrebbe dovuto personalmente consegnargli in ospedale. Non si è fatto in tempo. Filippo è spirato la mattina di sabato 13 luglio. Aveva 47 anni. Mi sono sentito più solo e vulnerabile.

Una importante riunione.

Come ho innanzi riferito, in data 20 dicembre 1995 la A.S.L. BA/5, con deliberazione n. 1655, ha istituito presso l'ospedale di Conversano un gruppo di studio sulle malattie motoneuronali, coordinato dal neurologo dr. Bruno Maggio. Per dare concretezza alla benemerita iniziativa, il direttore generale ing. Modugno ha deciso di interpellare il prof. Guglielmo Scarlato, al fine di esaminare la possibilità di stipulare una convenzione con la clinica di neurologia dell'Università di Milano, diretta dal suddetto professore. Avuta la disponibilità del prof. Scarlato, l'ing. Modugno ha indetto una riunione per il giorno 23 luglio 1996, in Putignano, presso la sede della A.S.L. alla quale hanno partecipato oltre il direttore generale, il prof. Scarlato, il suo aiuto dr. Silani, il dr. B. Maggio e, per l'A.I.S.L.A. io, Angelo Loiacono e il dr. L. Serlenga. Si è pervenuti alla decisione di redigere due protocolli d'intesa, per la terapia e l'assistenza degli ammalati, tra la A.S.L. Ba/5 e l'Università di Milano; tali protocolli, una volta sottoscritti dalle parti, saranno sottoposti ad approvazione regionale. La stampa locale ha dato ampio risalto all'evento. Il sogno - a ben vedere di sogno si tratta - è quello di costituire un centro di riferimento non solo a livello regionale, ma di tutto il Meridione. Per la concretizzazione di questo progetto sono indispensabili la volontà e la determinazione della A.S.L., l'impegno dei medici, l'intervento ad adiuvandum della Regione Puglia, i finanziamenti necessari. Le difficoltà non sono da poco, temo pure che a livello locale qualcuno remi contro. In genere, in situazioni simili le cose vanno nel seguente modo: fino a quando chi dovrebbe adoperarsi per fare qualcosa non muove un dito e non fa nulla, tutto procede, per così dire, regolarmente; però, non appena qualcuno mostra di voler seriamente impegnarsi, finalmente si muovono anche quelli che avrebbero dovuto adoperarsi, ma, si badi bene, quasi sempre per frapporre ostacoli e far fallire le iniziative altrui. Costoro, che chiamerei gli affossatori occulti, agiscono in tal modo perchè temono di perdere privilegi e potere; è pure difficile smascherarli in quanto, essendo furbi e del mestiere, con consumata abilità appaiono spesso come assolutamente favorevoli alla iniziativa, ma in realtà si muovono solo per farla fallire, avendo poi cura di attribuire ad altri le colpe.Resta da sperare e da lavorare, contro ogni ostacolo e nell'interesse dei malati, affinchè il sogno si avveri, augurandosi di averne la capacità, la forza e il tempo. Con le difficoltà che ci sono, il sogno e la fantasia sembrano essere le uniche armi concrete a disposizione di chi non si rassegna all'immobilismo. Diversamente riuscirebbero a convincerci che l'attuale non potere e non volere far nulla per i malati di SLA, corrisponda al modo di essere del "migliore dei mondi possibili", così come si era convinto lo sprovveduto Candido di Voltaire che andassero le cose del mondo.

Marsiglia e dintorni.

Il 30 luglio, dopo essere passato per Sestola a riprendere Andrea, e dopo la sosta di un giorno a Milano, ove ho incontrato la signora Rossana Períni, ero nuovamente a Marsiglia per il rituale e programmato day hospital.Sono così due anni che mi reco a Marsiglia, dalla prima volta nel luglio del 1994 e, dunque, per ben otto volte, una ogni tre mesi. La distanza Conversano-Marsiglia è di km. 3.700, tra andata e ritorno; ne consegue che, essendomi sempre mosso in auto, ho percorso ben 29.600 kilometri. Personalmente ho potuto condurre l'auto per le prime cinque volte, fino a novembre del 1995, dopo di che, progredendo la malattia, la guida è passata a mio figlio Antonio, mentre io mi atteggio a navigatore. A compiere la distanza di Km. 1.350 impieghiano dieci/undici ore (Fora in più dipende dal traffico e dalle condizioni climatiche), senza effettuare alcuna fermata oltre le due tecniche per il rifornimento di gasolio ed il caffè di rito. Mi muovo sempre con l'intera famiglia, ovvero con mia moglie Maria ed Antonio, entrambi per me indispensabili, ed il piccolo Andrea che, per fortuna, prende il viaggio come una ricorrente vacanza. Ritengo l'auto il mezzo più idoneo e, probabilmente, anche più veloce per raggiungere Marsiglia dalla Puglia; infatti il viaggio in treno è assolutamente da scartare per vari motivi pratici, e soprattutto per la solita ragione: uno come me, divenuto tetraplegico, mentre continua ad essere considerato "cittadino di serie A" per i doveri e gli obblighi, primo fra tutti il pagamento dei tributi, viene retrocesso a "suddito" quanto ai diritti. A farla breve per me è di fatto impossibile prendere un treno qualsiasi, a meno che non sia accompagnato da un paio di infermieri dotati di barella. Si aggiunga che si dovrebbero cambiare almeno due o tre treni per giungere alla meta, con i comprensibili problemi di trasferimento. Mi prendo una parentesi, su questo nostro Stato famelico e persecutore dei cittadini, voglio portare una significativa ed illuminante testimonianza. Posso dare per quanto mi riguarda una prova che questo Stato, al quale non sono fiero di appartenere, approfitta della mia malattia per derubarmi, anzi più esattamente per rapinarmi. Valgano le seguenti osservazioni. Accertata la mia invalidità, la Cassa Nazionale degli Avvocati e Procuratori (non, sia chiaro, il sistema previdenziale dello Stato!) mi fa pervenire una indennità mensile che, con un po' di vergogna, dichiaro essere di circa lire 735.000. Si tenga conto che da ben ventiquattro anni verso i dovuti contributi alla Cassa, e che tuttora, essendo ancora iscritto all'Albo degli Avvocati, continuo obbligatoriamente a versare quei contributi, i quali ammontano ad alcuni milioni l'anno, tra le quote obbligatorie fisse e quelle ulteriori dovute in rapporto al reddito da lavoro autonomo. Dunque, le 735.000 lire mensili non mi pervengono, per così dire, in segno di gratuita solidarietà ma, in larga parte, perchè tuttora finanziate da me stesso: si potrebbe dire che sono una sorta di restituzione. Non una sola lira mi perviene dallo Stato che, come più volte denunciato, non spende alcun soldo per i malati come me e, nel mio caso, non deve neppure corrispondere la pensione di invalidità; ciò nondimeno lo Stato italiano ha trovato il sistema per rapinarmi dei miei soldi, e mi spiego. Ricevo l'indennità di invalidità a cagione della mia infermità, e la somma che percepisco ha una finalità assolutamente assistenziale, che nessuno credo si sognerebbe di mettere in dubbio. Nessuno Stato civile e democratico penserebbe mai di tassare tale somma, ma non la pensa così il nostro Stato rapinatore. Il fisco, infatti, considera l'indennità di invalità, da me stesso finanziata, un guadagno, una remunerazione: è come se, grazie alla malattia, guadagnassi lire 735.000 al mese. Di conseguenza, non solo tali somme vanno dichiarate nel modello 740 e, quindi, vengono sottoposte a tassazione, ma soprattutto vanno sommate agli altri redditi; orbene, tenuto conto che l'imposta è progressiva per scaglioni, sarebbe interessante affidare ad un fiscalista il compito di calcolare il danno economico che ricevo percependo tale pensione. Sono in errore se a questo punto affermo che lo Stato italiano trae vantaggi economici dalla mia malattia, senza nulla dare in cambio? Ma torniamo a Marsiglia e alle varie possibilità di raggiungerla. Ho purtroppo dovuto scartare anche l'aereo in quanto, tra il tempo occorrente per giungere all'aeroporto di Bari-Palese, la sosta presso l'aereoporto di Fiumicino per il cambio dell'aereo ed il trasferimento dall'aereoporto di Marsiglia in città, occorrono sicuramente dieci ore, e forse anche più. Inoltre, avendo necessità di essere assistito da due persone, non potrei permettermi il notevole costo dei viaggio a cui si aggiungerebbero le difficoltà di salire e scendere dall'aereo, il trasporto della carrozzella ecc. La mattina del 30 luglio, alle ore otto in punto, ero dunque in ospedale. Trattandosi di periodo estivo e quindi di ferie, non vi erano nel reparto i rituali dieci malati di SLA: in day hospital eravamo solo in cinque, tre dei quali, me compreso, italiani, gli altri due francesi. 1 due malati italiani, uno di Milano, l'altro di Verona, erano più fortunati di me, in quanto ultrasessantenni, vittime della SLA da circa un anno o poco più, ancora autosufficienti. Entrambi, pur potendo ottenere il riluzole in Italia, preferivano venirsi a curare in Francia, per gli stessi miei motivi, ampiamente innanzi illustrati. Dai rituali esami espletati è risultata stazionaria la situazione clinica, che nella mia malattia significa lievemente peggiorata, in termini di forza muscolare; immutata, invece, sarebbe rimasta la capacità respiratoria. Poichè si concludeva il primo anno di cura con il riluzole, è stato aperto a mio nome un altro dossier dalla seguente entusiasmante intestazione: "Trattamento dopo il primo anno di sopravvivenza"! Il successivo ricovero è stato fissato per il 28 ottobre 1996. Marsiglia è una grande e bella città, che in auto ho attraversato in lungo e in largo. E' la seconda città francese per numero di abitanti ed importanza, ma, a mio giudizio, è senz'altro la più mediterranea delle città per il caleidoscopio di razze e di etnie che essa ospita. 1 francesi appaiono come una minoranza, in quanto la gran parte della popolazione è araba, ovvero algerina, tunisina, marocchina; numerosi anche i negri delle altre ex colonie, come pure indocinesi e vietnamiti; ma moltissimi sono gli abitanti di origine italiana, discendenti di emigranti e perseguitati politici di varie epoche a partire dalla rivoluzione partenopea del 1799, dai moti dei 1848, dalle persecuzioni fasciste. La rubrica telefonica della città è talmente infarcita di cognomi italiani, in particolare meridionali, che vi ho potuto rinvenire ben quattro abbonati recanti il mio cognome. Le frequenti visite a Marsiglia mi hanno dato la possibilità di conoscere e stringere amicizia con alcuni francesi abitanti in città: Cesare Achille e sua moglie Luisa Lorusso, Daniele Sottile, Armando Coppello. Marsiglia è pure la città che possiede numerose e mastodontiche strutture sanitarie ed ospedaliere in cui lavorano ben trentamila marsigliesi; numerosi sono gli italiani ospiti di questi centri. Dopo la giornata di ricovero avevamo deciso di trascorrere alcuni giorni di vacanza restando in Francia, sicchè, lasciata Marsiglia, raggiungemmo la splendida e colta cittadina di Aix eri Provence. Quivi prendemmo alloggio in un elegante residence immerso nel verde e ricco di impianti sportivi, alla estrema periferia della città, denominato - quando si dice la coincidenza - ''Les Infirmeries du Roy Renè''. In origine era un grande ospedale fatto erigere nel 1472 dal re Renato D'Angiò per les victimes des grandes épidémies, e nei due secoli successivi via via ampliato. Recentemente era stato trasformato, senza stravolgimenti dell'impianto originario, in un elegante residence. Ho potuto così stare all'aperto e percorrere viali ombreggiati, sospinto a bordo della fiammante carrozzella che veniva nella occasione inaugurata, come non mi capitava da tre anni. Non mi pareva vero di stare di nuovo al sole, di ascoltare il vento che attraversava le chiome degli alberi, persino l'incessante frinire delle cicale mi pareva gradevole. Aix en Provence, città impiantata su un castrum romano, è ricca di importanti monumenti, sede di Università fin dal 1409 e tuttora punto di riferimento e città studio per molti studenti stranieri anche provenienti da Paesi extraeuropeì. Il bel corso Mirabeau con i suoi giganteschi platani che danno ombra è ricco di bar e ristoranti all'aperto. Un pomeriggio ci siamo recati ad Avignone, la città dei Papi, o la Roma di Provenza, come si legge sulle indicazioni turistiche. Il centro storico medioevale ha forma ovale, è ben conservato ed interamente perimetrato da spesse mura scandite da imponenti bastioni. Ci siamo avviati verso il palazzo papale, in realtà turrita e sinistra fortezza medioevale, inerpicandoci per le strette e tortuose viuzze. Mentre saltellavo con la carrozzella messa a dura prova dal ciottolato dissestato della pavimentazione della sede stradale, pensavo a quell'11 maggio del 1994, quando a Milano il prof. Corni mì disse chiaro e tondo quale sarebbe stata la mia sorte; mai avrei potuto immaginare che dopo due anni e più, mi sarei trovato a fare il turista ad Avignone, ancorchè consegnato ad una carrozzella. Infine, un altro giorno siamo stati a Montpellier a trovare il nostro amico Armando Coppello, simpatico e singolare personaggio che vive alla grande, coltivando e vendendo ostriche.

 

CAPITOLO SESTO

25 settembre 1946 - 25 settembre 1996.

Compio 50 anni, o più esattamente 47 anni di vita e 3 anni di sopravvivenza. Ben strana è stata la mia vita, tutta condotta di corsa, tutta proiettata al futuro. Mi è mancato il vissuto del presente, impegnato come ero a costruirmi, da solo, il benedetto futuro, dapprima studiando e successivamente lavorando senza pausa. Ho fatto privatamente le scuole elementari nel secolare Convitto e Seminario Vescovile di Conversano, come semiconvittore, il che significava che entravo in Convitto la mattina alle ore otto ed uscivo la sera alle venti e trenta. Frequentare la scuola privata comportava dover sostenere, ogni anno, presso la scuola pubblica l'esame finale, per il riconoscimento e l'abilitazione alla classe dell'anno successivo. In terza elementare sostenni due separati esami, per passare in quarta, ed in quinta addirittura tre per iscrivermi alla prima media inferiore. Per la scuola non ho mai dato problemi ai miei genitori. Nel 1965 conseguivo il diploma di maturità classica, con la media dell'otto, nel glorioso Liceo Ginnasio "Domenico Morea" di Conversano. Gli esami di maturità sono sempre stati un vero ed autentico incubo, prima e dopo lo svolgimento; prima perchè, sin dalla quarta ginnasiale, era iniziato il lavaggio del cervello da parte degli inavvicinabili e severi insegnanti dell'epoca che, con encomiabile terrorismo didattico, non perdevano occasione di ammonire che se non si studiava e si rendeva nella maniera da loro imposta, mai si sarebbe potuto superare l'esame di maturità. Ricordo che una delle maggiorí vessazíoni che a noi studenti veniva propinata, era il raddoppio dei compiti da casa per il lunedì; era l'assurda punizione per la presenza della domenica. In ogni caso, gli esami di maturità erano durissimi: quattro prove scritte, tutte le materie orali e, per di più, con ampi riferimenti ai programmi del primo e del secondo liceo; perciò gli esami orali si sostenevano in due giorni. Per anni, successivamente, ho avuto gli incubi, sognavo di essere costretto a rifare gli esami, perchè il diploma di maturità era andato smarrito. Mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza presso l'Unìversità degli Studi di Bari. Dei tempi dell'Università conservo ricordi piacevoli, l'imperativo categorico era conseguire il diploma di laurea ed emanciparsi dalla famiglia, quanto prima possibile. Tutto andò velocemente, come avevo programmato, distribuendo gli esami nelle uniche tre sessioni possibili dell'anno accademico, di giugno, ottobre e febbraio. Il compito fu facilitato dall'allenamento allo studio maturato nei duri e formativi anni di liceo, metodo che ebbi l'accortezza di continuare a mantenere, come se dovessi essere interrogato giorno per giorno. La chiave di volta fu, dunque, la decisione di frequentare tutte le mattine le lezioni, circostanza questa che dava un duplice vantaggio: farsi conoscere dai professori con i quali si sarebbero sostenuti gli esami, e poter insidiare le belle e disponibili colleghe studentesse, specialmente quelle della contigua facoltà di Lettere, dove, per via del numero elevato, c'era solo l'ìmbarazzo della scelta. Inoltre si studiava tutti i pomeriggi, esclusa la domenica, dalle 15,30 alle 20,30; non sembri incredibile e pignola l'affermazione, quasi si trattasse di un orario ferroviario, ma era proprio così. Per tutti gli anni del Liceo e dell'Università ho studiato con l'amico Nicola Positano di Noicattaro, anch'egli, poi, divenuto avvocato, che ogni giorno raggiungeva in treno Conversano. Solo ai tempi del Liceo abbiamo dovuto impegnarci per tempi superiori, mai successivamente. L'orario per me risultava particolarmente comodo, perchè mi consentiva di giocare tutti i giorni a tennis, mentre la domenica inforcavo la bicicletta da corsa. Abbiamo, così, centrato tutti gli obiettivi, al punto che già nella sessione autunnale del primo anno avevamo sostenuto e superato tutti e cinque gli esami fondamentalì previsti, più uno dei due complementari. Ci accingemmo dunque a preparare due esami fondamentali del secondo anno da sostenere a febbraio, terza sessione del primo anno. Grandi furono la delusione ed il disappunto quando vedemmo respinte le domande, ignoravamo che la richiesta di anticipazione degli esami doveva essere fatta l'anno precedente al momento della iscrizione. Dunque perdemmo una sessione stupidamente, ma pur dì far qualcosa sostenemmo e superammo altri due esami complementari del primo anno, complessivamente uno in più deì dovuti. Mi laureai con lode, discutendo una tesi in diritto penale, il 15 dicembre del 1969. Fu quello, come si ricorderà, un anno molto turbolento per tutte le Università, ove scoppiarono numerosi episodi di violenza. Erano le conseguenze del famoso "Maggio parigino" del 1968 che da noi si tradusse nell'autunno caldo del 1969. L'Università di Bari restò chiusa addirittura alcuni mesi, nè era dato di sapere quando l'attività didattica sarebbe ripresa. Infatti, avrei dovuto sostenere gli esami di laurea a settembre, ma non fu possibile per via dei tumulti e degli scontri; per vera fortuna riuscii a laurearmi a dicembre, perchè successivamente l'Università venne di nuovo chiusa. Dell'Università ho un solo ricordo spiacevole: pur avendo una media di quasi 30 nei voti degli esami, non ho mai potuto godere di borse di studio o di presalari. Il motivo dipendeva dalla circostanza che i miei genitori erano insegnanti di lettere, sicchè il cumulo dei loro stipendi, non certo elevati di impiegati pubblici, superava il limite del reddito richiesto per poter godere dei benefici innanzi descritti. In verità la storia non era nuova, lo stesso era accaduto durante le scuole medie inferiori e superiori, in cui rimediavo solo attestati di merito, ma mai ho beccato un solo quattrino. Ma colsi la sostanziale ingiustizia di quella esclusione all'Università, in quanto i colleghi studenti figli di avvocati e persino di notai, tutti appartenenti a famiglie certamente più agiate della mia, ottenevano puntualmente il presalario ogni anno. Ricordo che con quei soldi i ragazzi acquistavano la moto o la "cinquecento", le ragazze il secondo o terzo pellicciotto di volpe. 1 loro genitori erano pure sollevati dall'obbligo di pagare le tasse universitarie. Capii subito, dunque, come andavano le cose nel nostro Paese, in questo Stato che ho sempre percepito come ottuso Mòloc burocratico. A farla breve, gli evasori fiscali ed i loro figli venivano beneficiati, i non evasori erano puniti. La regola è tuttora pacificamente imperante, basta ricordare i vergognosi e reiterati condoni fiscali. Solo che allora, con in testa i miti e gli slogans del sessantotto, mi illudevo che il sistema, come all'epoca si diceva, sarebbe stato abbattuto e cambiato. Solo tre settimane dopo la laurea venivo chiamato al servizio militare. Per questo problema, sempre spinto dal bisogno di sbrigarmi, di fare presto e rendermi autonomo, mi ero comportato nel modo seguente. Non potendo evitare di fare il servizio militare - che sentivo come un vero intralcio ai miei progetti -, e non potendo proporre a mio padre, uomo di altri tempi, di adoperarsi per farmi ottenere l'esenzione (cosa che, all'epoca, non era molto difficile procurarsi con mezzi non propriamente leciti), decisi dunque di tentare di prestare detto servizio nel modo che ritenevo più vantaggioso. Presentai domanda di partecipazione al concorso per allievi ufficiali di complemento nella Aeronautica Militare nel ruolo servizi, presso l'Accademia Militare di Pozzuoli. Ebbi 1 'accortezza di inoltrare la domanda mentre frequentavo il terzo anno di Università, in quanto l'esito dell'esame, che era per titoli, si sarebbe conosciuto dopo circa un anno. Se il tentativo fosse riuscito, sarei partito non appena laureato, senza ulteriori perdite di tempo; e proprio per questo motivo avevo scartato la possibilità di partecipare al concorso in Commissariato, sempre presso l'Aeronautica Militare, perchè bisognava essere già in possesso del diploma di laurea, per cui non solo si sarebbe potuto perdere altro tempo prezioso ma si correva il rischio, non riuscendo a superare il concorso, di essere chiamato nell'esercìto, come semplice fante, e magari spedito a Pordenone. In verità non nutrivo molte speranze di superare il concorso che sapevo essere molto ambito, infatti i posti erano pochi, solo una novantina; molti degli aspiranti erano figli di alti ufficiali dell'Aeronautica, e in genere chi partecipava al concorso intendeva per lo più raffermarsi. Nè era trascurabile il fatto che l'ufficiale dell'Aeronautica riceveva una remunerazione di gran lunga superiore a quella del pari grado dell'Esercito. Le pressioni che i candidati e le loro famiglie cercavano di esercitare dovevano essere enormi; mi era anche stato riferito che chi partecipava al concorso presentava perfino brevetti di pilota o di paracadutista, attestati che davano alti punteggi. Le mie uniche referenze erano costituite dalla media dei voti avutì all'esame di maturità ed agli esami universitari fino ad allora sostenuti. Sta di fatto che a metà gennaio del 1970 mi fu comunicato di aver superato il concorso e di dover raggiungere l'Accademia di Pozzuoli. Con riferimento ai tempi, dunque, tutto andò come avevo sperato e programmato. A maggio acquisivo il grado di sottotenente e dopo ulteriori quarantacinque giorni, per un corso di specializzazione a Macerata - durante i quali facevo a tempo a vincere, nel doppio, un torneo nazionale di tennis interforze tra ufficiali, battendo due guardiamarina (fui invece sconfitto nei quarti, per il singolo) e concorrevo con tre colleghi a salvare la vita ad una giovane partoriente colpita da emoraggia, con trasfusione diretta del sangue - venivo destinato a Bari, presso il Comando della Terza Regione Aerea. Mi congedavo a maggio del 1971. Durante tale periodo ebbi la possibilità di studiare per prepararmi all'esame di procuratore legale e guadagnai i primi quattrini della mia vita, lo stipendio era di circa lire 160.000 mensili. Per me costituiva un punto d'onore non chiedere più una sola lira ai miei, un minuto dopo aver conseguito la laurea, così è infatti avvenuto. Con i soldi dell'Aeronautica acquistai la mia prima auto, una scattante Autobianchi A 112 gialla, costata circa 900.000 lire. Sempre durante il servizio militare, mentre ero a Pozzuoli nell'inverno del 1970, per avere alcuni giorni di licenza, venni a Bari a sostenere le prove scritte per l'abilitazione all'insegnamento di materie giuridiche ed economiche negli istituti superiori. Alcuni mesi dopo, superati gli scritti, sostenni gli esami orali e conseguii l'abilitazione all'insegnamento. Nel 1971 mi giunse un invito dal Banco di Roma a partecipare ad una selezione tra cento neolaureati che si sarebbe svolta presso la storica sede della banca in via Del Corso in Roma, e che sarebbe durata una settimana, nella quale gli esaminandi sarebbero stati ospiti in alcune foresterie di proprietà del Banco ed avrebbero pure ricevuto un piccola somma di denaro. Si trattava di una innovativa sperimentazione volta a formare in tempi brevi, dopo uno stage abbastanza impegnativo di diciotto mesi, un primo gruppo di giovani funzionari da destinare per lo più alle filiali estere (all'epoca il Banco di Roma aveva sottoscritto un importante accordo di collaborazione con due potenti banche europee, il Credit Lyonnaise e la CommerzeBank di Francoforte). Dopo le prove, che in parte erano volte ad accertare le conoscenze tecniche degli esaminandi, a seconda del titolo di studio (laurea in Giurisprudenza, Scienze Politiche, Economia e Commercio), ma in gran parte si sarebbero svolte - come allora si diceva - "all'americana", cioè con prove attitudinali a tempo, interviste, colloquio singolo e per gruppi con lo psicologo ed altre diavolerie, sarebbero stati assunti i primi trenta classificati, ridotti poi a ventiquattro. Non avevo mai pensato di lavorare in banca, nè tale lavoro mi suscitava particolari entusiasmi, ma mi tentava la possibilità di passare una settimana a Roma e, in fondo, la prova, per la sua novità, mi incuriosiva; decisi quindi di partecipare alla selezione. Dei ventiquattro candidati che superarono le prove, risultai il quarto; si era nella tarda primavera, ero assunto dal primo luglio; nel sontuoso salone di rappresentanza del Banco si svolse una breve cerimonia ed i vincitori ricevettero le congratulazioni dei due amministratori delegati Ciulli e Ventriglia e del presidente principe Pacelli Dal mio canto non avevo certo deciso per la banca, tuttavia per provare, a luglio prendevo servizio presso la sede di Padova, ove iniziava il previsto stage di diciotto mesi. Nello stesso mese di luglio a Bari sostenevo le prove scritte degli esami per procuratore legale. Dopo solo qualche mese mi dimisi dalla banca: avevo scelto la facoltà di Giurisprudenza perchè volevo esercitare la libera professione dell'avvocato, in banca mi sentivo come ingabbiato ed avvertivo che non mi sarei mai sentito realizzato. Era una scommessa con me stesso, un salto nel vuoto, ma non me ne sono mai pentìto. Nel 1972, superati anche gli orali degli esami per procuratore legale, mi ìscrivevo all'Albo degli Avvocati e Procuratori presso la Corte di Appello di Bari. Iniziava un periodo cruciale della mia esistenza, dovevo imparare a fare l'avvocato, scelsi lo studio legale tra i più prestigiosi di Bari, quello dell'avv. Michele Spinelli, civilista di eccezionale intelletto e profonda preparazione. Nel suo studio si sono formate schiere di valenti professionisti, serberò sempre riconoscenza verso il caro don Michele, maestro esigente, ma pure generoso e paterno. Nello studio Spinelli ho lavorato sodo per sei intensi anni di seguito, dal 1972 al 1978; è stata una full immersion nel lavoro, ricordo che uscivo di casa alle 7,30 e rientravo tra le 22 e le 23, spesso anche di sabato, all'occorrenza anche la domenica. In quello studio non erano possibili ritmi diversi, ma la mia disponibilità era totale, la voglia di imparare tantissima, l'affiatamento con i bravi colleghi di studio completo. Tutti i pomeriggi tuttavia riuscivo a giocare a tennis, dalle 14 alle 16, al tennis club di Bari o sui campi dell'associazione "Angiuli"; nel 1975 vinsi il torneo degli Avvocati e Magistrati. Nel 1973, a ventisette anni, mi sposai, l'anno successivo diventavo papà, nasceva Antonio. Nel 1977 naufragava definitivamente l'infelice matrimonio. Nel 1979 moriva, dopo otto anni di sofferenze, mio padre, un uomo mite e buono, stimato professore di lettere. Nello stesso anno aprivo lo studio legale in Conversano. Nel 1985 sposavo Maria, due anni dopo nasceva Andrea. Il primo settembre del 1987 ero già pensionato a 41 anni, quale insegnante di Diritto ed Economia. Dunque la vita scorreva normale e tranquilla, una convivenza matrimoniale felice, due figli, uno studio professionale accorsato, una ricca biblioteca di libri di storia, la bicicletta da corsa, primo amore di gioventù, che aveva soppiantato il tennis negli ultimi anni, le vacanze di inverno e di estate, in breve una esistenza inconsapevolmente felice, costruita con anni di duro lavoro e con le mie uniche forze, mentre rimanevano ancora intatti gli entusiasmi per la mia gratificante professione, e progetti importanti per il futuro. Questo il "flash-back" della mia vita fino al 1993. Ora che tutto è cambiato e che tutto appare stravolto, per una legge del contrappasso che ritengo di non aver meritato, sono costretto alla immobilità, mi mancano la progettazione del futuro, l'obiettivo da raggiungere, l'ostacolo da superare, la causa da vincere, sono solo un ben misero ostaggio della malattia che, a ben vedere, mi consente solo di sognare. Mi sento come costretto a combattere in una guerra nucleare, senza armi e privo di difese. Ma non ho alcuna paura, non ho timore di nulla, sono pronto a tutto, mi angoscia solo il pensiero che la mia famiglia possa subire serie conseguenze economiche dalla mia infermità.

Professione addio.

Ho riflettuto a lungo sul perchè nei testi di medicina, quando si parla di SLA, si sottolineano particolarmente i caratteri di spietatezza della malattia, ovvero perchè nelle relazioni ai congressi traspare generalmente un sentimento di smarrimento e di sgomento dei neurologi, incapaci, tuttora, a venire a capo della malattia. Non è certo la SLA l'unica malattia incurabile; basta pensare agli sventurati uccisi da talune forme di cancro, tra atroci sofferenze. Eppure, quando tra gli addetti ai lavori, ovvero professionisti abituati a usare un linguaggio asettico e scientifico, si parla di SLA, per questa malattia gli aggettivi sono invariabilmente: drammatica, crudele, devastante, spietata, terribile, ecc., aggettivi che un tempo erano riservati alle cosiddette malattie bibliche, quali la peste nera, il vaiolo, il colera. Ho trovato una mia personale spiegazione al raccapriccio che il morbo universalmente suscita, spiegazione che mi riesce difficile rappresentare. Cercherò di rendere il mio pensiero nel modo più chiaro che mi è possibile. Credo che la peculiarità della SLA e che rende, forse, unica questa malattia, consiste nella capacità di uccidere la vittima due volte ed in due diversi modi, uno lento e l'altro immediato. La SLA riesce a procurare una netta diversificazione tra il corpo e la mente della vittima, tra la materialità dell'organismo vivente ed il suo intelletto, tra carne, muscoli e nervi e facoltà intellettive. In questa frantumazione o scissione della unità della persona, penso possa individuarsi la particolare drammaticità della malattia, che prima uccide il corpo e poi la iriente, con piena consapevolezza della vittima. La malattia inizia dapprima ad aggredire il corpo, distribuendo nel tempo dosi o quantità di morte: a ciascuna di queste corrisponde una disabilità che, sommata alle precedenti, diviene più grave man mano che sale la percentuale di morte che la malattia assegna al corpo. Prima un braccio, poi una gamba, poi l'altro braccio e l'altra gamba, successivamente la disartia, poi la disfagia, infine la paralisi respiratoria. Dunque, un programma di morte di singole parti di corpo che si sviluppa in un tempo più o meno lungo. In questo iter dolorosum, la mente, indenne dalla malattia, osserva ed assiste alla distruzione sistematica del corpo; così si verifica il fenomeno della estraneazione dell'uno dall'altra. La mente inizia ad avvertire la parte di corpo colpita, come morta ed altro da sè, come un involucro o fardello via via più ingombrante, inutile, pesante, talvolta forse anche ostile, che non può liberare dal morbo e dal quale non può liberarsi. Infine, la malattia, quando porterà l'attacco finale, ucciderà in un solo attimo anche la mente, ma dopo averle assicurato - questa è la crudeltà lo spettacolo della morte lenta del corpo. Tutto ciò per annunciare la nuova e ben più grave disabilità che la malattia mi riserva nell'ultimo scorcio dell'anno Non sono più in grado di svolgere adeguatamente il mio lavoro, constatazione che mi procura un grande turbamento e mi dà la misura delle gravi condizioni di salute in cui verso e della quantità di morte che mi assedia. Già non rispondevano più braccia e gambe, ora la novità della presente campagna autunnale per la sopravvivenza è la difficoltà a parlare, sia perchè mi manca il fiato, sia perchè articolo male le parole. Per la professione di avvocato è la fine. Prima che siano i miei clienti a cambiare studio legale, magari con scuse penose stante l'evidenza della mia infermità, ho preso a spedire lettere di rinuncia al mandato professionale, con la morte nel cuore, non per la circostanza in se, ma perchè ho il riscontro del distacco dalla vita. Si spalancano per la mia famiglia scenari non previsti ed ora temuti. Dovremo in quattro sopravvivere con la simbolica pensione di invalidità. Dopo aver consentito ai miei una vita agiata, con il mio lavoro, la SLA travolge anche la mia famiglia compromettendo il futuro dei miei figli. Ciò che più mi fa rabbia è considerare che io, esattamente come prima che mi ammalassi, sono in grado senza alcun problema di organizzare un atto di citazione, pensare una comparsa di risposta, formulare richieste istruttorie, articolare un atto di appello, portare innanzi questa cronaca, ma queste immutate capacità mentali sono vanificate dalla assenza del mio corpo. La dicotomia imposta dalla SLA è stata raggiunta e perfezionata. E' come se fossi ridotto ad un puro spirito che tutto vede, segue, comprende ma che non può incidere sulla realtà, con l'aggravante di dover trascinarsi dietro un corpo inutile.

Certus an incertus quando.

Non mi riesce di poter registrare una notizia positiva, una sola nota di ottimismo e di speranza: eppure il mio animo non è depresso, nè mi sento preda di un personale malessere psicologico, che tuttavia non posso negare di avvertire talvolta, sia pure in modo abbastanza transitorio, e che cerco di scacciare subito con forza, convinto che un atteggiamento non reattivo può solo nuocere. Gli è che sono ineluttabilmente destinatario di notizie a dir poco tragiche. Ad esempio, nel bimestre agosto-settembre sono venuto a conoscenza della morte di alcuni malati di SLA, con cui ero in contatto. Molti tra costoro si erano ammalati anche dopo di me. Per ciascuno di essi si potrebbe scrivere una cronaca della loro sofferenza. Voglio ricordare il sig. Vincenzo Valvano di Potenza, umile operaio, licenziato a causa della malattia che lo ha ucciso in due anni, esempio drammatico di come viene lasciato morire un malato di SLA bulbare: indifeso, privo di mezzi economici e culturali, in ogni caso vittima predestinata più del dovuto. Il sig. Giuseppe Montanini di Roma, anch'egli portato via in meno di due anni dalla malattia, sempre confortato da un'assistenza familiare esemplare e coraggiosa, ma con la "colpa" di aver contratto una leggera bronchite, che si è improvvisamente complicata nella settimana di ferragosto, periodo in cui anche una persona sanissima sa che solo gli scongiuri possono salvarlo nel caso di bisogno. Il sig. Giovanni Cristiano di Caserta, della scomparsa dei quale ho appreso occasionalmente, in quanto mi è stato restituito un plico postale precedentemente da me speditogli, con la brutale e burocratica dicitura: "Deceduto". Ma non è finita. Il 7 settembre apprendo dal giornale della improvvisa morte dell'avv. Michele Basso, mio amico e collega, ucciso da un infarto. La notizia è stata per me un colpo terribile. Per via di una amicizia ventennale e di diversi affari di giustizia gestiti in comune, eravamo in continuo contatto, anzi due giorni prima della morte gli avevo spedito una bozza parziale della presente "Cronaca", in quanto avrei avuto in gran conto un suo giudizio. Michele mi ha molto aiutato, sia sostituendomi alle udienze nei giudizi pendenti innanzi il Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia, sia tramite la consorte, signora Maria N. Gadaleta Basso, nota biologa e ricercatrice, che per i miei problemi di salute mi ha dato la possibilità, grazie alle sue qualificate conoscenze, di contattare i ricercatori della Columbia University di New York. Mai avrei potuto solo immaginare che, così mal messo come sono, sarei stato io a leggere il necrologio del povero Michele, non lui il mio. Come si esce dopo aver appreso tali terribili accadimenti, che li giungono tutti di un tratto sul capo, come autentici colpi di maglio? Direi che se ne viene fuori con la sindrome del naufrago o del sopravissuto. E' come se, costretti a catapultarsi fuori da una trincea, si corre su un terreno aspro e privo di ripari, a mani nude, contro irraggiungibili nidi di mitraglia nemica che falcidia i compagni, chiedendosi quando sarà il proprio turno. Nonostante le peggiorate condizioni fisiche, ho ripreso intensamente a viaggiare, per motivi connessi alla malattia e all'Associazìone. Il 14 e 15 settembre ero a S. Piero in Bagno, in provincia di Forlì, ove su mia iniziativa è stato ottimamente organizzato da Simone Canestrini, responsabile della sezione della Romagna dell'A.I.S.L.A, il primo incontro tra i responsabili delle sezioni regionali dell'Associazione. La sera del 14 settembre si è svolta pure una manifestazione in piazza: le signore, amiche della famiglia Canestrini, offrivano dolci da loro stesse confezionati, c'era della musica e si raccoglievano fondi per l'Associazione, l'atmosfera era quella di una festa serena tra persone che si conoscevano tutte. lo mi sono trovato ìn serio imbarazzo ed impreparato, perchè fatto segno di mille attenzioni dagli astanti che circondavano la mia carrozzella, tutti mi ponevano domande e si comportavano come se mi conoscessero da tempo. Il piccolo Andrea, il mio secondo figlio, ballava felice, in piazza, tra la gente, al ritmo della "macarena". Simone ha la mamma, la signora Rosanna Facciani, vittima della SLA. La vita della cara signora Rosanna è affidata alle macchine che le consentono di alimentarsi e di respirare, sicchè da anni giace immobile in un letto privata anche della possibilità di parlare. La signora Rosanna è una donna straordinaria, dotata di eccezionale carattere e di un coraggio fuori dal comune: pur nella sua drammatica condizione, ella è l'anima ed il motore della sezione romagnola della Associazione. E' divenuta un simbolo per l'intera comunità della sua cittadina che, affettuosamente, le si è stretta attorno; il medico di famiglia, dottor Sanzio Biondi, le fa visita quotidianamente. Riferisco la circostanza, che torna ad onore del medico, perchè l'evento, purtroppo, ha quasi i caratteri della straordinarietà. La famiglia Canestrini Facciani, a giusto titolo, può essere presa ad esempio del brutale disinteresse e dell'assoluto abbandono in cui le pubbliche strutture sanitarie lasciano le vittime della SLA e i loro congiunti. La signora Rosanna, come tutte le altre sfortunate vittime della SLA che versano nelle sue stesse condizioni, ha necessità della presenza vigile e continua, cioè giorno e notte, per ventiquattro ore al giorno, sempre, di altra persona, ma che sappia usare le macchine ed intervenire su di esse con precisione e tempestività, quando occorre, pena la vita del inalato. In questi casi è la famiglia che deve farsi carico di tutto, se ce la fa o fino a quando ce la fa, per tentare di mantere in vita il congiunto. La famiglia intera, isolata e sequestrata in casa, ne diviene custode e responsabile; che poi non sia attrezzata per farlo, che ci siano, ad esempio, figli in tenera età i quali per tutta la loro vita porteranno il segno dei danni psicologici di questa sconvolgente, drammatica esperienza, che il coniuge sia costretto, talvolta, a lasciare il posto di lavoro o che i figli più grandi debbano interrompere gli studi per prestare l'assistenza necessaria al proprio congiunto, tutto questo non interessa minimamente i custodi istituzionali della nostra salute. E' difficile resistere alla tentazione di lanciare contro costoro la maledizione che possano essere colpiti finalmente anche loro dalla malattia del motoneurone.

La signora Rosanna mi ha indirizzato la seguente lettera:

S. Píero in Bagno, 15 ottobre 1996

Al caro "compagno di vita" avv. Camillo Colapinto, ho letto con grande attenzione la sua "Cronaca" che parla di Lei, ma dà voce a me e anche a tuttì coloro che sono stati colpiti dalla SLA. Desidero moltissimo che questo lavoro trovi lettori attenti e numerosi, perchè le sue parole mi hanno confermato quello che da sempre so, ma non avrei potuto dire: dipende da noi dare un senso alla nostra vita, nella gioia e nel dolore. La SLA mi ha fatto capire che la speranza non riguarda il futuro, non confina con il sogno, non attende. E'in tutta la mia vita, nel costruirsi della mia identità che la speranza trova le sue radici. Se io, se Lei abbandonassimo la lotta, sarebbe come decidere che il nostro passato e solo lui contiene il senso ultimo della nostra vita, per cui non è più il caso di vivere, basta arrendersi alla morte. E così la speranza e la resa giocherebbero i loro dadi solo sul passato e sul senso che il passato viene assumendo per noi. Ma siccome siamo noi a dare un senso al passato, arrendersi vorrebbe dire perdere la libertà e offrire al passato la custodia di tutti i nostri valori. Ho trovato grande forza, grande impegno, grande conforto nelle sue parole ed ho pensato: quante persone fisicamente integre si lasciano vivere! Ma noi, invece, "pur assediati dalla morte", viviamo. Tutto quanto abbiamo fatto o siamo stati prima della SLA è ricchezza e forza per l'oggi. E non soltanto per noi. Ho passato il suo scritto ad una amica che insegna nella scuola media di S. Piero, sarà letto ai ragazzi. Sono certa che porterà frutto. Colgo l'occasione per salutare affettuosamente sua moglie Maria che ho avuto la felice opportunità di conoscere, i suoi figli Antonio e Andrea, e naturalmente Lei che è sempre presente nei miei pensieri.

Con affetto. Rosanna

 

Nel mese di settembre ho preso contatto con la signora Maria Pia Pavani di Cormons. Anche lei, donna di straordinario coraggio, è vittima della SLA e versa, da più anni, nelle stesse condizioni della signora Rosanna, vivendo questa sua drammatica esperienza con sovrumana serenità; una sua lettera pubblicata sul periodico "Famiglia Cristiana", ho riportato in appendice. La signora Pavani ha accolto con entusiasmo la mia proposta di costituire la sezione del Friuli della Associazione, alla quale ha pure aderito il prof. Giannino Busato di Gorizia, primario della rianimazione, che l'assiste continuativamente. Ho così provveduto a fornire loro le informazioni e la documentazione occorrenti. Il 26 ottobre ero a Milano per partecipare alla riunione del Consiglio Direttivo dell'Associazione, convocato per l'occasione. li 27 e 28 ottobre mi recavo a Marsiglia, per la nona volta, per il previsto trimestrale day hospital. E' stata riscontrata la consueta inarrestabile caduta di forze, mentre la funzionalità respiratoria sarebbe rimasta immutata. Per le riscontrate difficoltà ad articolare correttamente le parole, mi è stato consigliato di rivolgermi ad un logopedista. Provvederà Antonella, la mia fisioterapista, abilitata anche a tale tipo di assistenza. Il prossimo day hospital è stato fissato per il 27 gennaio 1997. Di nuovi medicinali quali la miotrophyna e ì B.D.N.F si attendono ancora esiti e risultati, sicchè l'eventuale loro utilizzo non sembra immediato. Non mi pare, purtroppo, che ci siano novità decisive. Dunque, per resistere, si deve continuare a fare affidamento unicamente sul solo medicinale ora esistente, e sulle proprie energie fisiche e psichiche. Non altro. E si continua così, di congresso in congresso. Proprio per saperne di più sabato 2 novembre ero a Roma. Era, infatti, in corso il secondo congresso della "The European Federation of Neurological Societes''. Quella giornata era dedicata alla SIA chairmen i professori G. Scarlato e T. Munsat, ed il tema trattato era il seguente: "Als, from Disease Mechanisms to the Therapeutic Approaches". Erano previste le relazioni del prof. G. Scarlato, del dott.V. Silani, del prof. G. Serratrice, del dott. J. P. Azulay del prof. T. Munsat, tutti da me personalmente conosciuti, e del prof. V. Meininger. Ho potuto seguire attentamente le relazioni e le domande poste ai relatori, con le conseguenti risposte, grazie alla cortesia degli organizzatori dei congresso che mi hanno dotato della apposita cuffia per la ricezione della traduzione in simultanea. Ho seguito fin dove un profano, per quanto interessato come me, può comprendere, la brillante relazione dell'amico Vincenzo Silani sulla eziopatogenesi della malattia, alla quale relazione, spesso, hanno fatto riferimento i successivi relatori. Mi è parsa interessante la relazione del prof. Munsat, che tra l'altro si poneva il problema di come valutare la qualità della vita di un malato di SLA. Sono seguite le consuete eccezioni degli americani al prof. Meininger, su come sono stati organizzati i trials con il riluzole, ma mi è sembrato che tutti convenissero sul riconoscimento di una accertata efficacia del farmaco che prolungherebbe la fase intermedia della malattia. Si è concluso che, ritenendosi poliformi i fattori determinanti la malattia un unico farmaco non può certo rappresentare la soluzione, ma come avviene per altre patologie quali il cancro e l'aids, sarebbe necessario somministrare più farmaci associati. Solo che, purtoppo, per ora questi altri medicinali non sono pronti, nè disponibili Alla fine dei lavori ho potuto salutare ed intrattenermi brevemente con i congressisti e, oltre che con i relatori, anche con i dottori Mora, Seri~ Maggio, Di Landro, Testa, Monsurrò Chiò, Serra, Caponnetto ed alcuni parenti di ammalati di Roma e del Lazio che hanno voluto conoscermi. Infine, l'1l dicembre avevo l'opportunità di incontrare e salutare il prof. Salvatore Di Mauro e il dr. Vincenzo Silani intervenuti a Bari ad un congresso sulle basi molecolari in patologie umane, tenutosi presso l'Università di Bari. Per creare attraverso il dolore un'occasione di vittoria sul destino". E' così trascorso un altro anno dì vita e di sofferenze, accresciute e crescenti rispetto agli anni passati nella malattia. Quale il bilancio? La malattia è entrata nella fase che definirei della maturità, è quella che i medici chiamano il terzo stadio, l'ultimo è il quinto, quello dell'exitus, ma sulla durata dei quattro stadi precedenti nessuno può assicurare nulla di certo. L'aggravarsi delle mie condizioni ha determinato l'inizio della messa in liquidazione della attività professionale, l'inaugurazione dell'uso della carrozzella, la rarefazione delle uscite di casa, la trasformazione della mia stessa abitazione che è rimasta un po' casa, ma è anche diventata in parte studio legale ed in parte casa di cura per malati cronici a lunga degenza Qualche amico ha cessato di frequentarmi, o ha diradato le visite, facendo sapere di non sentirsi il coraggio di venirmi a trovare, circostanza che mi arreca turbamento, perchè non mi pare che la malattia, pur consumandomi progressivamente, mi abbia fatto dono, ad esempio, di un aspetto mostruoso o ripugnante. Fortuna che non sono molti quelli che la pensano in tal modo - anzi si contano sulle dita di una sola mano - altrimenti i miei arresti domiciliari si tradurrebbero in carcere duro. La malattia stravolge la vita, aprendoti alla realtà del dolore, dapprima colpevolmente ignorata. Molti dei desideri, delle ambizioni, dei bisogni perdono interamente di significato, non hanno più valore, per quanto si cerchi di rimanere ad essi disperatamente aggrappati, quasì a significare l'estremo tentativo di sentirsi partecipi ancora del mondo delle persone sane del quale non fai più parte. Ma è un miserevole tentativo, perchè la progressione del male presto richiama alla cruda realtà che impone una ben differente chiave di lettura delle cose. Raggiungo il mio studio professìonale, ora, solo una o due volte la settimana; è infatti sempre più difficile salire e scendere dall'auto, nonchè percorrere una breve scalinata che dà l'accesso ad un ascensore nel quale, poi, non entra la carrozzella. Ma, a ben vedere, piuttosto che le barriere architettoniche, l'ostacolo veramente insormontabile è l'impossibilità di un eloquio facilmente comprensibile; credo non sia facile per nessuno rassegnarsi a questa terribile disabilità, per me ora molto più grave della stessa impossibilità di camminare, e che a me toglie definitivamente la possibilità di lavorare. Per questo motivo, ho quasi del tutto eliminato anche le conversazioni telefoniche. Infatti, quando devo parlare, sforzandomi di farmi capire, mi ritrovo completamente sudato e, a parte lo sfinimento, avverto un senso di frustrazione. In questa drammatica limitazione, vedo l'ironia sardonica e spietata del destino che, talvolta, si accanisce togliendo la vista al pittore, rendendo sordo il musicista, amputando le mani all'artigiano. In tal modo il malcapitato o si rassegna alla doppia disgrazia della malattia e della particolare conseguente disabilità, ovvero per cercare di opporsi a tale specificità, tentando di riprendere a dipingere pur essendo cieco, o a comporre musica pur privo dell'udito, deve inventarsi ed interpretare il ruolo dell'eroe del tutto involontario, in grado non solo di avere la forza d'animo di tenere testa alla malattia, ma anche di affrontare le difficoltà che impediscono la prosecuzione dell'attività lavorativa. La gran parte di lavoro, per quello che mi è ancora consentito di fare, la svolgo a casa utilizzando il computer diventato un ausilio prezioso ed insostituibile. Sono diventato un avvocato "virtuale". Poichè l'unico dito della mano sinistra che posso utilizzare per battere sulla tastiera si è incurvato in avanti, mi sono inventato un particolare sostegno, adoperando la piccola asticella di legno che regge i gelati e che pongo sotto il dito, assicurandola con un cerotto: così il dito resta dritto e posso percuotere i tasti con la punta dell'asticella. Mia moglie Maria è stremata, corre e si affanna tutto il giorno come una disperata. Riceviamo molte testimonianze di solidarietà che ci sono di grande conforto, ma è lei che deve fronteggiare da sola situazioni sempre più complesse ed irte di crescenti difficoltà, non facilmente gestibili ed affidabili ad altri. Nel frattempo si deve cercare di assicurare al piccolo Andrea, che ne ha bisogno e diritto, un clima in famiglia, il più possibile simile a quello di una famiglia normale. A casa, infatti, non si respira aria da tregenda. E' però certo che la quantità di vita che mi spetta ancora, e la sua qualità, dipendono unicamente dalle capacità di resistenza fisica e psichica di Maria. Se lei crollasse, se non dovesse più farcela, io non avrei più alcuna motivazione ragionevole per continuare a resistere alla ferocia del morbo, cesserei di oppormi e mi lascerei andare. Ora si affaccia il nuovo anno, il 1997. Quale crudeltà mi è riservata? Sarà l'ultimo anno di vita o sopravviverò, ed in quali condizioni? Ma in fondo, forse, queste domande sono prive di senso, dato che l'unica dimensione temporale che si può vivere è il presente, in quanto il futuro non ci appartiene, ed il passato è consegnato alla memoria. Ed il presente voglio vivere intensamente, "per creare attraverso il dolore un'occasione di vittoria sul destino".

Ancora sulla SLA e i mezzi di informazione

A riprova di quanto innanzi ho scritto circa l'atteggiarsi dei mezzi di informazione nei confronti di malattie come la SLA, cito la notizia che leggo sui giornali del 2 dicembre 1996. Ricorderà il lettore la mia convinzione che di questa malattia nessuno parla, perchè essa non suscita l'interesse dei mass media, tranne nel caso di suicidio di un malato, preferibilmente straniero, così nessuno dei destinatari dell'informazione protesta o si spaventa. Dunque, l'intera ultima pagina di attualità del quotidiano "La Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari è dedicata a servizi e reportages sulla giornata mondiale contro l'aids, celebrata il giorno precedente. Infatti, si leggono vari articoli con relativi titoli a due colonne, quali: 1l ministro Bindi: presto fondi per nuovi farmaci, in Italia accertati finora 36.726 casi.", "Musulmani, cade un tabù, ora anche gli arabi di fronte al virus", 1l vescovo ai sudafricani: praticate il sesso sicuro", con foto del vescovo Desinond Tutu. Al centro della pagina una grande foto a colori che ritrae un medico con mascherina a protezione del viso e guanti, che visita un ammalato verosimilmente di aids; seguono due cartine esplicative del lasso di incremento del virus Hiv in Italia e dei casi di aids nel mondo, infine un altro breve articolo dal titolo: "La Chiesa dice sì alla protesi contro l'ímpotenza". Come si vede, un reportage ampio e completo. Il titolo a caratteri cubitali dell'intera pagina (che presenta in alto a sinistra anche una piccola foto a colori ove si legge: "Stop aids"), è il seguente: "Usa, malato pronto al suicidio in TV''. Sopra il titolo si legge: "Affetto da un male inguaribile, Noel Early ha organizzato una festa durante la quale si praticherà un'iniezione letale"; sotto il titolo: 'T Tutu lancia un appello anti aids: usate il preservativo". Orbene, anche il più attento dei lettori non avrebbe avuto il minimo dubbio a ritenere che lo sfortunato signor Early fosse un malato terminale di aids, invece leggendo l'articolo sottostante, di modesta entità e senza dubbio sproporzionato rispetto al titolone a tutta pagina, si apprende che l'aspirante suicida è un uomo di 47 anni, per ironia della sorte, attivista già da tempo di un movimento per il suicidio assistito, ed è affetto dal morbo di Lou Gehrig. Poichè la notizia e il titolo altisonante centrano, dunque, come il cavolo a merenda con il contenuto dell'intera pagina, dedicata come si è detto al resoconto della giornata mondiale della lotta contro l'aids, viene da pensare ad un'astuzia del giornalista, all'unico scopo di catturare l'attenzione del lettore, distratto e forse rintronato dai numerosi mínuetti finto-filantropici dei miliardari nani e ballerine che, il giorno precedente, avevano affollato tutte le televisioni. La notizia è pure riportata, con ampio risalto, dal quotidiano 'Ta Repubblica", anzi diviene l'occasione per il famoso giornalista Vittorio Zucconi, inviato del giornale negli U.S.A., di scrivere un "pezzo" nella sua rubrica "Storie d'America". Direi che l'articolo è di un cinismo allucinante. Al prestigioso giornalista, della malattia e dei drammi che essa comporta, non gliene frega un bel nulla. Probabilmente gli hanno detto, per quello che gli può interessare, che lì chiamano la malattia dell'aspirante suicida "morbo di Lou Gehrig". Si capisce che Zucconi sente parlare per la prima volta di questo morbo "americano", sicchè si vede costretto sembra di malavoglia - a scrivere due righe per spiegare cosa è questa malattia yankee. La descrizione è sciatta ed erronea, anche nello stile: "Noel David Early ... è afflitto da due anni dalla malattia di Lou Gherig (sic!), come in America chiamano una forma di sclerosi multipla (sic!) ... La malattia di Lou Gherig (sic!) è l'esatto opposto del morbo di Alzheimer mentre questo distrugge progressivamente la mente in un corpo ancora funzionante, quella lascia intatta la coscienza, íntrappolandola in un corpo che progressivamente smette di funzionare." Zucconi dà prova di superficialità e di ignoranza. Non si cura di indicare la malattia con il nome scientifico, che ignora; tale ignoranza e disineresse gli fanno commmettere il grossolano errore di definire il morbo, proposto quasi come una malattia esotica da cow-boy, come una forma di sclerosi multipla. Peraltro, neppure correttamente è riportato, tranne che per una sola volta, il nome Lou Gehrig Non è certo, poi, una esimente che ciò che interessava effettivamente al giornalista era sottolineare la spettacolarità dell'annunciato suicidio e il discutibile esibizionismo del malato, pronto alla performance davanti alle telecamere. Non pensi, il lettore, ad un mio particolare ed esagerato accanimento contro il giornalista. Taluno, infatti, potrebbe pensare a mie stucchevoli sottigliezze nominalistiche, poichè, di fronte a problemi come il suicidio assistito o l'eutanasia, poco importa conoscere il nome delle malattie che pongono gli uomini dinanzi a certe scelte drammatiche. Non è così. Denuncio da sempre il colpevole silenzio che condanna alla dimenticanza gli ammalati di SLA, complice anche l'ignoranza, dalla quale non sono immuni neppure prestigiose firme del giornalismo nazionale. Come sperare, dunque, che la pubblica opinione possa mai prendere coscienza di questa terribile malattia? Ovvero, se mai ciò dovesse accadere, come disgiungere la malattia dal collegamento necessario all'idea dei suicidio, visto che solo questo gesto disperato pare l'unica via di accesso alla informazione della opinione pubblica? Non è assolutamente vero che tutti i malati di SLA si suicidano, basta leggere le lettere degli ammalati che riporto in appendice, dal tenore delle quali si evince la drammatica situazione di chi preferisce vivere, anche in condizioni quotidiane terribilmente difficili, mostrando un temperamento ed un coraggio ben maggiori di chi decide di darsi la morte. Ma questi atti di quotidiano eroismo non interessano neppure giornalisti come Zucconi.

CONCLUSIONE

Termino qui questo mio lavoro, non so dire ora se la "Cronaca" avrà un seguito. Vorrei augurarmi, in ogni caso e con buona dose di presunzione, che questa mia autentica fatica possa contribuire, in qualche modo, a dare voce al doloroso silenzio degli emarginati malati di SLA, "malati di serie b" e a farli uscire da quel cono d'ombra di indifferenza, di disinteresse e dunque di sostanziale cinismo, che da sempre li tiene oppressi e nascosti. Nel corso della presente "Cronaca", mi sono spesso doluto dell'esoso sistema fiscale, mentre permane cronica la mancanza di fondi da destinare alla ricerca per quei volenterosi medici italiani professionalmente in grado di svolgerla, e dell'intricato e farraginoso groviglio di provvedimenti legislativi temporanei ed urgenti reiterati per anni. Una delle stranezze del nostro fisco è il ripetuto ricorso alla esazione così detta "una tantum". Si ricorderà che tra i tanti, a dir poco, curiosi balzelli imposti, nel settembre del 1993 abbiamo dovuto pagare, appunto come "una tantum", la c.d. tassa sul medico di famiglia, in ragione di lire ottantacinquemila per persona del nucleo familiare. Si è saputo successivamente, per certo, che la gran parte dei cittadini ha evaso il pagamento del tributo, godendo, quel che è peggio, di assoluta impunità; sicchè il contribuente che stupidamente ha pagato adempiendo all'obbligo a cui era tenuto, si è sentito ancora una volta preso in giro, come un idiota che ignora di vivere nel paese dei furbi. Ora l"una tantum" di turno, che ci spetterà di pagare, è la c. d. tassa per l'Europa, sicchè qualche cittadino benpensante, tra quelli che non hanno evaso la gabella del medico di famiglia, vorrebbe che almeno per una sola volta ("una tantum", per l'appunto) il fisco rimedi ad una palese ingiustizia consumata nei confronti dei contribuenti onesti, consentendo loro di poter detrarre dalla tassa per l'Europa l'importo pagato per la tassa sul medico. Penso di essere facile profeta se affermo - anche se mi piacerrebbe essere smentito che questo cittadino sbaglia nuovamente, perchè dimentica che da noi vale il detto napoletano: "chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato ...... con quel che segue. Recentemente si è appreso dai mezzi d'informazione che la Corte Costituzionale, con sentenza al momento in cui scrivo non ancora resa pubblìca, ha dichiarato incostituzionale la reiterazione dei decreti legge di identico contenuto normativo, emanati dal Governo, per violazione dell'articolo 77 della Costituzione. Tale articolo prevede la possibilità che il potere esecutivo possa emettere sotto la propria responsabilità atti provvisori aventi forza di legge, solo in casi di straordinarìa necessità ed urgenza. Poichè l'articolo 77 della Costituzione è stato sistematicamente violato dai vari Governi che si sono succeduti almeno da tre lustri, con tale rìtardo giunge oggi questa importante decisione che, finalmente, ha posto fine ad un vero e proprio arbitrio. Ritengo, quindi, che i benefici si ripercuoteranno anche nel "pianeta sanità", assicurando ai cittadini la certezza dei loro diritti. Vorrei concludere, infine, esortando gli ammalati ed i loro famìliari a non perdersi d'animo, anche se non è sicuramente una impresa facile, e ad avere ancora più coraggìo. Certo la soluzione dei moltì interrogativi che la malattia pone, non è proprio dietro l'angolo, ma per fortuna, ancorchè solo da qualche anno, finalmente anche questa malattia viene ora intensamente studiata negli U.S.A., in Francia, in Giappone e si scopre che è diffusa più di quanto si sospettasse. E' dunque iniziata dai primi anni di questo decennio, per la prima volta, la corsa contro il tempo per la soluzione dell'enigma SLA. Forse i più determinati a resistere, a tenere duro, a strìngere i denti con rabbia - forse i più fortunati tra noi malati di SLA - ce la potranno fare a sopravvivere, a non morire di SLA Inoltre, vorrei esortare, in special modo i familiari delle vittime della SLA, a non rinchiudersi tra le pareti domestiche, per piangere sulle loro disgrazie: tale comportamento acquiescente e rassegnato ad un destino avverso non è dì alcun giovamento. Sarebbe piuttosto auspicabile l'adoperarsi attivamente, per far crescere l'Associazione che lotta contro la malattia, e che, in tal modo, più efficacemente può tutelare gli interessi degli ammalati. Proprio al momento di consegnare questo scritto alle stampe, vengo a conoscenza della seguente notizia: sulla Gazzetta Ufficiale del 5 novembre 1996 è stato pubblicato fl Decreto del Ministero della Sanità del 10 ottobre scorso dal titolo "Regime di rimborsabilità e prezzo di vendita della specìalità medicinale Rilutek - Riluzolo". Penso di non sbagliare se affermo che questa è la prima volta, nel nostro Paese, che in un documento a contenuto normativo si parla e si provvede in ordìne alla sclerosi laterale amiotrofica. Forse per i malati di SLA questo è un momento storico, perchè inizia finalmente a prendere forma e consistenza, anche per loro, quel diritto alla salute a tutti assicurato dalla Carta Costituzionale, e sinora ad essi negato. Forse d'ora in poi essi potranno sentirsi meno discriminati rispetto agli altri malati. Con detto decreto il medicinale Rilutek - Riluzolo trova ufficialmente ingresso in Italia e ai fini della rimborsabilità viene classificato in fascia H: 56 compresse da 50 mg. costeranno £ 914.000. Nelle informazioni terapeutiche sul farmaco, tra l'altro, si legge che il riluzolo è indicato per prolungare la vita o posticipare il ricorso alla ventilazione assistita dei pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica, la sopravvivenza è stata definita considerando pazienti non sottoposti ad intubazione per ventilazione meccanica e non tracheotomizzati; nessun effetto terapeutico si evidenzia sulla funzionalità motoria e polmonare, sulle fascicolazioni, sulla forza muscolare e sui sintomi motori. Il farmaco è stato studiato solo per la SLA sicchè non deve essere usato in altre malattie del motoneurone. Sono sempre stato affascinato dalla figura di Eleonora Fonseca Pimentel, coraggiosa poetessa e rivoluzionaria della prematura ed effimera Repubblica Partenopea del 1799, fatta assassinare da Ferdinando IV di Borbone a Napoli, in piazza Mercato, il 20 agosto 1799. Salendo sul patibolo, dopo aver chiesto un caffè, ai lazzari che lei avrebbe voluto affrancare dalla tirannide ma che, invece, le urlavano contro imprecazioni ed oscenità, prima di essere afforcata riuscì a gridare il verso di Virgilio:

"FORSAN ET HAEC OLIM MEMINISSE JUVABIT"

Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo.

APPENDICE

Affinchè il lettore possa rendersi più esattamente conto delle terribili difficoltà che quotidianamente, per cercare di sopravvivere, deve affrontare l'ammalato di SLA, per il quale anche il gesto più naturale, come bere un sorso d'acqua o respirare, diventa impossibile, trascrivo tre lettere inviate da altrettante vittime della malattia ad alcuni periodici.

"SONO MUTA E IMMOBILE MA RISPONDO A TUTTI"

Fui colpita dalla SLA nel 1991, a 47 anni, con 4 figli di cui la minore ne aveva appena 6. La malattia fu spiegata a mio marito, con la prospettiva di un paio d'anni al massimo di vita... Poi peregrinazioni in cliniche italiane e straniere, in cerca di speranza, e cure di ogni genere; ma peggioravo a vista d'occhio e il medico curante consigliava di lasciar perdere. Mi ritrovai in carrozzella, persi l'uso delle braccia e dovettero imboccarmi. Ecco poi i giorni passati distesa sul divano, i cibi frullati, mio marito furibondo, che non accettava di perdermi, infine la paralisi respiratoria e il coma. Allora, in un momento di lucidità, diedi il consenso a Busato, primario del reparto rianimazione dell'ospedale di Gorizia, per salvarmi la vita. Era il 13 maggio 1993. Ora vivo a casa, grazie ai miei familiari e alla infermiera volontaria Osanna. Vivo in simbiosi col respiratore automatico e l'alimentazione enterale. Sono diventata muta e totalmente paralizzata. Ma poichè la mente funzionava, decisi di vivere il più attivamente possibile. Con mia madre che trascriveva ciò che sillabavo sulla tabella alfabetica, composi brevi poesie e il racconto della mia vicenda, seguendo la piccola Carla nei compiti di casa, occupandomi del bilancio familiare, di scadenze, tasse, acquisti... Abbiamo dovuto affrontare screzi e pesanti disagi psicologici, perchè non tutti erano pronti alle rinunce che la mia presenza comporta. Poi Busato e la dott.ssa Dragonetti scopersero che per mezzo di un sensore, sfruttando il mio unico movimento, quello del mento, potevo azionare un computer dotato di un programma americano studiato per handicappati. Il computer mi fu procurato, per segnalazione del dott. Visintin dai Lions di Gradisca Cormons, con l'adesione di molti cittadini. Ed ecco che col computer, grazie anche a Rispoli di Telemontecarlo, ho invitato altri disabili a corrispondere con me. Ho letto il vostro inserto sulla sclerosi multipla. Tramite voi vorrei mettere a disposizione degli altri la mia esperienza, ma soprattutto trasmettere la voglia e la gioia di vivere che mi animano. Sarò lieta di scrivere a tutti coloro che vorranno parlare con me.

Maria Pia Pavani

Cormons (Go)

(da "Famiglia Cristiana", n. 33 del 14121 agosto 1996)

"ALL'A.I.S.L.A. DI VERUNO"

Sono malata da 11 anni e da 6 vivo con un ventilatore polmonare. La gestione della malattia è stata difficile, ma per fortuna finora siamo riusciti a contenerne gli effetti entro il limite di un sereno vivere. Per cui in casa, salvo rari periodi, si vive un'atmosfera tranquilla e i nostri visita~ tori la respirano. Ho la fortuna di parlare ancora, anche se con estrema fatica, questo ha permesso a mio marito di rispondere alle mie progressive esigenze notturne e diurne; cambio di posizione di corpo, testa, braccia, gambe; addattamenti dei vari ausili alle mie necessità. La mia terza sedia a rotelle fu quella che mi consentiva di passare da seduta in piedi, posizione nella quale restavo piacevolmente per delle ore e che mi permetteva anche di fare facilmente pipì. Un poggiapiedi, a posizione regolabile, in fondo al letto, mi liberava dal peso delle coperte e adesso, che sono stabilmente a letto, mi impedisce di scivolare quando lo schienale è molto inclinato. Un sedile girevole e scorrevole all'esterno mi permetteva di entrare e uscire facilmente dalla macchina, un tavolino appoggiato sui braccìoli, dì starci comoda: girammo in auto fino a due mesi prima dell'operazione tracheotomica per il collegamento al ventilatore. Fu il dopo operazione il periodo più difficile di questi 11 anni, sia per le oggettive difficoltà sia per la loro durata (alcuni mesi). La paura dell'incognito e la lotta contro la macchina mi provocavano continua agitazione, per cui volevo essere aspirata continuamente, non c'era distinzione fra giorno e notte. Divenni molto più tranquilla quando mio marito licenziò l'infermiera, seppure molto brava, e tornò come sempre a dormire con me. Una delle prime cose che fece in seguito fu di portare il respiratore nella stanza accanto, allo scopo allungò i tubi fino a 2,5 metri. Un foro nel muro consentì il passaggio dei tubi e di avere il controllo visivo e manuale dei parametri. Questo rese la stanza più umana e meno rumorosa. La necessità dì aspirazione era però sempre alta (6 -7 volte di notte e moltissimo di giorno). Tentò con un respiratore più professionale, la strada era quella, la cannula restava pulita, l'aria passava facilmente senza far sentìre ingombri o fischi o altri fastidi. Le aspirazioni si ridussero moltissimo. Poi di sera cominciò a mettermi un naso filtro meno umidificante. Iniziai così a dormire anche tutta la notte, anche adesso è così, e si possono alternare nottate tranquille a quelle con 1-3. Il mio cibo è lo stesso che mangia lui, ma deve essere frullato, mescolato con acqua tiepida e passato al colino (per limitare i rischi di deglutizione causati da pezzettini di cibo); lo consumo con la cannuccia. Dopo pranzo aumenta leggermente il volume d'aria in modo da facilitare la digestione. Il compressore del materassino antidecubito (causa rumore) è nella stanza accanto, è stato perciò necessario prolungare i tubi. E nella stanza accanto c'è un vecchio stereo cui sono collegata con un microfono, gli altoparlanti disposti in tre punti della casa gli permettono di sentire il mio richiamo, anche debolissimo, quando è in cucina o altrove. Giornalmente mi pratica 20 minuti di fisioretapia e grazie ad essa ho conservato una ottima scioltezza delle articolazioni, per cui non ho alcun dolore. Per fortuna abbiamo pensato in tempo anche ai movimenti del collo e della bocca, generalmente trascurati. Lapertura della bocca è stata conservata grazie alla pulizia quotidiana con spazzolino elettrico con gettito d'acqua. L'acqua viene raccolta in un sacchetto di plastica avvolto davanti al collo. Il lavaggio del corpo è quotidiano, usa manopola ed alcool puro. Ogni mese provvede anche ai capelli con taglio, tinta e sciampo, ogni settimana li lava con alcool puro e manopole. Sono 8 anni che non muovo più niente a parte la bocca e gli occhi, ma un flebile movimento in un indice della mano sinistra mi è rimasto. Grazie ad esso comando un sensibile interruttore col quale gestisco un programma a scansione del computer. Posso quindi scrivere. Da tre mesi sono più felice. Sono serena per gran parte della giornata e anche se prima della malattia ero una donna attiva, anche adesso, a distanza di 11 anni, sono frequenti i momenti in cui non mi ricordo di essere ammalata. Abbiamo assistito ad altri 4 casi di SLA e purtroppo si vive spesso in preda a terrore e sofferenza, è per questo che ho sentito il dovere di portare questa testimonianza diversa. E anche se mi sono limitata solo ad alcuni aspetti tecnici, trascurando, per adesso, quelli umani così profondi e misteriosi, non nascondo che siano questi ultimi a guidare le nostre risposte all'avanzare degli eventi ineluttabili. Ma senza rinunciare al diritto di rabbia e dolore, augurandoci che nell'affrontare i momenti più difficili della sfida quotidiana prevalgano quella immensa saggezza e quel grande coraggio che sono patrimonio di ognuno di noi.

Emilia Andreoli Michienzi

Lovece (Bg)

(dal "Notiziario AIS.L.A. ", n. 19 - I semestre 1996)

"VALUTAZIONE PERSONALE SULLE MIE CONDIZIONI ATTUALI"

I miei arti inferiori hanno una funzionalità residua del 10% con dolori localizzati a livello dei piedi, mentre gli arti superiori hanno una funzionalità residua del 20% con dolori alle spalle ed alle dita della mano. La capacità di espressione è compromessa dalla situazione delle corde vocali, ed anche l'atto della respirazione diventa difficile in presenza di aria impura di qualsiasi genere: climatiche, odori esterni, odori casalinghi, in particolare il fumo, non tanto per l'odore in quanto tale, ma perchè può provocare affaticamento del respiro. La deglutizione è compromessa al 70%, salvo casi di giornate particolari in cui può anche migliorare, ed anche la lingua ha una capacità residua molta ridotta, che diminuisce mangiando ed affaticandomi. Per il problema sonno, dormo poco malgrado l'Haction, perchè l'immobilità mi causa forti dolori e faccio tanta fatica a cambiare posizione. Di notte i crampi sono più frequenti e dolorosi. Non ho piaghe da decubito, ed anche se ho avuto qualche arrossamento alla regione lombosacrale, è per fortuna sempre regredito Nonostante la fatica, mi sforzo a cambiare posizione e molte ore le passo in carrozzina. Sono in allarme per la schiena e per l'interno delle ginocchia. Per quanto riguarda l'alimentazione, conservo un discreto appetito ed un piacere per il gusto, ma il pasto mi costa una enorme fatica. I semiliquidi sono ancora la migliore soluzione, ma cerco sempre di non abbandonare la masticazione. Le contrazioni possono presentarsi improvvisamente in qualsiasi parte del corpo, ma si localizzano a periodi in qualche punto del corpo, anche in bocca, con pericolo del labbro inferiore e della lingua. Nei momenti di agitazione, per cause varie, oppure quando i movimenti vengono forzati, le contrazioni si estendono a tutto il corpo. Lo svuotamento dell'intestino è un grosso problema recente, in poco tempo è diventato tragico con crisi dolorose seguite da enorme stanchezza. La vescica, invece, non pone particolari problemi. Gli occhi si sono molto affaticati, e ho avuto subito un abbassamento della vista; per le dita, nonostante non abbia mai smesso di esercitarmi, mi riesce sempre più difficile scrivere e tenere il cucchiaio, e lo sforzo mi parte dalla bocca dello stomaco. Mi rimane poca forza residua nella schiena, e mi sforzo tutti i giorni a fare qualche passo dal letto al bagno, accompagnato naturalmente, e molto lentamente. La scialorrea aumenta notevolmente e diventa insistente se bevo e mangio determinate cose, in genere alimenti dolci. Un pezzetto di pane diminuisce l'inconveniente. Da tempo ho perduto il controllo delle emozioni, piangere o ridere vanno a ruota libera e non posso tenerne il controllo. Spesso ridere è solo una reazione nervosa o di fastidio. Ogni rumore improvviso, come ad esempio una porta che sbatte, il trillo del telefono o il campanello della porta mi provocano forti contrazioni in tutto il corpo ed agitazione. Per quanto riguarda la fisioterapia, eseguo esercizi passivi alle gambe e semiattivi alle braccia, due volte alla settimana. All'inizio della malattia il mio peso era di circa 90 kg. mentre attualmente peso meno di 60 kg. Incontro le seguenti altre difficoltà. Non riesco più a soffiarmi il naso, per le difficoltà alle mani, ma soprattutto per mancanza di fiato. Bevendo, ingurgito molta aria e non ho fiato per aspirare il liquido con la cannetta, che forse potrebbe evitarmi tale inconveniente. Ho gravi difficoltà ad ingerire le compresse, anche se scopro sempre una nuova tecnica per riuscire in questo come in altri problemi. Dopo i pasti, da sempre, tutti i movimenti subiscono un notevole rallentamento, sempre con più evidenza e tanta stanchezza. Sebbene sia diminuito il tempo ed il numero degli esercizi, la fisioterapia mi stanca sempre di più. Tutto rallenta, anche leggere il giornale diventa una fatica sempre più grande sebbene sia tanto il desiderio e la volontà. La solitudine, tanto sofferta a causa di un trasferimento in una località nuova e già da ammalato, pian piano si è affievolita a causa dell'aumento della stanchezza e del disagio, pur conservando sempre un grande desiderio di presenza e di affetto. Nonostante i tanti gravi disagi che provoca, questa terribile malattia resta completamente sconosciuta all'opinione pubblica e quindi la più completa disìnformazìone sul comportamento da tenere con ammalati di SLA, ed anche a chi è curato ed assistìto in casa può capitare che certi aspetti delle sue esigenze possono essere scambiati per capricci, nervosismi ecc. e questo provoca una agitazione sofferta con contrazioni, non avendo appunto la parola o il fiato per emettere un lamento. La gente assume un comportamento strano in presenza di tale soggetto, invalido o muto, alcuni alzano la voce e fanno gesti per comunicare, altri sono "sempre inconsciamente" portati ad escluderli dai propri discorsi, tranne, naturalmente, coloro che hanno modo di capire, grosso modo, la sensibilità, la emotività e la lucidìtà mentale. Le migliori medicine in assoluto sono la pazienza e la comprensione da un lato e la grande fortuna di poter vivere in una località dì clima non umido ed aria non inquinata, veramente micidiali per coloro che hanno simili problemi. Purtroppo non è il caso di Montecchio, umido e circondato da numerose fabbriche, in prevalenza concerie. Un ammalato di SLA in famiglia, presenta dei grossi problemi, sia di assistenza che economici. Non è facile trovare un aiuto valido, anche a livello infermieristico, oltre che costoso risulta anche gravoso per l'ammalato che non riesce a comunicare o a stabilire una intesa con persone diverse. Sostenere e mai forzare il movimento di una gamba o di un braccio, si otterrebbe l'effetto opposto, come una molla, e con disagio evidente. Ho sempre tenuto in esercizio il cervello, forse mi ha aiutato a mantenere la lucidità mentale e buona memoria.

Alcune riflessioni.

La diagnosi di SLA mi è stata fatta nel marzo '84, ma già avvertivo quei disturbi sin dall'83, e venivo curato per altre cause. Per quello che mi riguarda, il primo impatto con la malattia è stato di incredulità e ignoranza, e comunque non mi sono seduto ad attendere gli eventi, bensì armato di penna e telefono ho raccolto notìzie da tutta Italia, chiedendo consigli a medici, specialisti, ospedali, associazioni, ricercatori, ammalati ecc. Sono stato ricoverato più volte, mi sono curato e ho anche provato le cure alternative, come pranoterapia, magnetoterapia, prodotti di erbe ecc. Finchè ho potuto sono sempre uscito per una passeggiata esterna, naturalmente accompagnato, non sono mai rimasto un giorno a letto e ho sempre provveduto da solo a radermi ogni giorno, cosa che continuo a fare. Mi sono procurato depliant da alcune ditte di sanitari per disabili e ho studiato le varie possibilità di articoli per il mio caso. Ho sempre saputo dello sviluppo della malattia e, in previdenza delle varie tappe di difficoltà, ho provveduto a prepararmi, anche praticamente, per evitare pericoli e prolungarmi l'autonomia. La pazienza e la rassegnazione, come sostengono alcuni, aiutano soltanto in modo relativo poichè la situazione è sempre in progressione e mai stazionaria. Magari fosse vero che, come sostengono altri, per fortuna si ha il tempo a disposizione per scrivere, leggere, dormire, distrarsi ecc., purtroppo la realtà è ben diversa e più amara. Nonostante la volontà, il tempo è sempre più fitto di problemi e di sofferenze, e la stanchezza prende il sopravvento giorno per giorno. In circa cinque anni di malattia, ho sempre desiderato il mese precedente. Sono stato furtunato con i medici di base, prima a Conegliano e poi a Montecchio, i quali pur non avendo l'arma mirata per curarmi, mi hanno sempre sostenuto con la loro costante presenza, interessamento, pazienza, cure e tanto impegno. Un particolare grazie rivolgo al medico di Montecchio che mi ha in cura dall'agosto '85, e quindi nel secondo periodo della malattia, per il suo costante e fraterno aiuto. Un pensiero di gratitudine ai medici del reparto di neurologia degli ospedali di Mirano e Pavia, per la loro cortese disponibilità. Mi sono sempre commosso con gli ammalati, in modo particolare verso i giovani, ma ho visto anche tanti anziani disperarsi per un male anche non grave e ho capito che tutti hanno diritto alla stessa comprensione, perchè tutti hanno le proprie ragioni valide per vivere sani, ci si può abituare all'idea della morte, ma non certo alla sofferenza. lo ho badato a spendere le mie energie per difendermi e lottare, piuttosto che a disperarmi, non per questo mi accetto, anzi mi sento vittima di una ingiustizia della vita così come tanti altri. Ho speso la mia acerba età in guerra e nei lager dei più duri. Ho lavorato 40 anni con serietà e passione e tanti sacrifici. Ho rinunciato a tanti progetti e sogni per rimandare tutto alla terza età e, sul filo del traguardo, sono entrato in questo tunnel lungo, buio, spinoso e a senso unico. Ho avuta notizia in questi giorni di due casi di SLA nella mia zona, uno è più giovane di me e l'altro più anziano, ambedue con un decorso della malattia, per certi aspetti, diverso dal mio. Ed ora, vorrei chiedere scusa agli "addetti ai lavori", non ho avuto la pretesa e non penso di svelare novità con queste mie notizie approssimate, elementari ed imprecise, ma soltanto lasciare una traccia scritta di questa mia sventura. Infatti, pur avendo scritto centinaia di biglietti volanti per comunicare le mie necessità e le mie sensazioni al medico, ai familiari ecc. non mi è rimasto quasi niente. Ho voluto quindi cogliere l'occasione e spremere le mie forze, tra un problema e l'altro, ed in pochi giorni realizzare questo sfogo, prima di smettere del tutto di scrivere, la qual cosa mi spaventa e la considero una fase estrema di sopportabilità a livello psicologico. Fin dall'inizio della malattia, ho avuto i piedi gonfi e la sensazione di averli pesanti, come se fossero di piombo. Da circa un anno tendono a convergere verso l'interno, con dolori alle caviglie, cerco, per quanto mi è possibile, di tenere i piedi con le piante ben appoggiate ad una superficie. Ci sarà qualche soluzione valida. Sebbene sia molto triste, preferisco consumare i pasti da solo, intanto perchè mi rendo conto di non presentare uno spettacolo idoneo alla circostanza e quindi di non sentirmi a mio agio, ed inoltre per non perdere la concentrazione di cui necessito e che verrebbe meno anche per un solo accenno di sorriso, che con il cibo in bocca mi creerebbe grossi pericoli. Penso che sia scandaloso che lo Stato faccia pagare l'i.v.a. al 19% per l'acquisto di ausili sanitari già molto costosi. L:autoambulanza per un eventuale spostamento resta a carico dell'ammalato, anche se invalido al 100% e in barella. Nella prima metà di febbraio ho avuto, dopo un periodo di calma, un aumento delle difficoltà respiratorie. Nella seconda metà del mese, invece, un ritorno di forti dolori alle gambe, ai piedi, alla schiena ed alle mani. Sono comunque contento di essere riuscito a scrivere a tante persone per raccogliere adesioni all'A.i.s.I.a. Tutto rallenta ulteriormente. La stanchezza aumenta. Tutto mi affatica di più, mangiare, bere, respirare, leggere, guardare la televisione, qualsiasi emozione od agitazione. Gli odori di cucina, anche se gustosi, i profumi, l'odore dei detersivi mi possono bloccare la respirazione ed è tanta la stanchezza che la ripresa diventa sempre più difficile. Riesco ancora a muovermi nel letto aiutandomi con le spondine, ma diventa sempre più reale la necessità di essere aiutato a cambiare posizione per l'accentuarsi della immobilità. Qualche volta mi viene il desiderio di lasciarmi andare e fermare questa lunga ed impari lotta, ma desisto e non sempre per la volontà, ma forse per il timore di soffrire di più.

Pietro Eredità

Montecchio Maggiore (Vi)

(dal "Notiziario AIS.L.A ", n.5 - Novembre 1988)