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La guerra del
1688 ebbe una strana origine, il cui aneddoto, sicuro e al tempo stesso strano,
serve a caratterizzare così bene il Re e il suo ministro Louvois che deve
essere raccontato qui. Louvois, alla morte di Colbert, aveva avuto la
sovrintendenza delle costruzioni. Il piccolo Trianon di porcellana, fatto un
tempo per la Montespan, infastidiva il Re che voleva palazzi dappertutto. Si
divertiva molto con le costruzioni. Aveva come un compasso negli occhi per la
precisione, le proporzioni e la simmetria, ma non altrettanto gusto come vedremo
altrove. Quell'architettura era appena uscita dalla terra, quando il Re si
accorse di uno sbaglio in una finestra che stava per essere terminata lungo il
pianterreno. Louvois, violento per natura ed inoltre viziato al punto di
sopportare con difficoltà di essere ripreso dal suo padrone, si mise a
discutere in modo fermo e deciso sostenendo che la finestra era perfetta. Il Re
voltò le spalle e andò a passeggiare altrove nell'edificio. Il giorno dopo il
Re trovò Le Nôtre, buon architetto, famoso soprattutto per i giardini da lui
introdotti in Francia e portati al massimo splendore. Il Re gli domandò se era
stato a Trianon, egli rispose di no. Il Re gli spiegò il motivo del suo
fastidio dicendogli di recarvisi. L'indomani stessa domanda, stessa risposta; il
giorno dopo altrettanto. Il Re comprese che Le Nôtre non osava esporsi a dare
torto a lui o a biasimare Louvois. Si ritirò ordinandogli di trovarsi
l'indomani a Trianon quando ci sarebbe andato anche lui e dove avrebbe fatto
venire Louvois. Non vi fu più modo per tirarsi indietro. Il giorno seguente il
Re li trovò tutti e due a Trianon. Subito si parlò della finestra, Louvois si
mise a discutere, Le Nôtre non pronunciava parola. Quindi il Re gli ordinò di
tirare le linee, di prendere le misure e riferirgli poi cosa aveva trovato.
Mentre questi era intento al lavoro, Louvois, furibondo per quella verifica,
brontolava ad alta voce e sosteneva con asprezza che la finestra era in tutto
simile alle altre. Il Re taceva e ascoltava, ma sopportava. Quando tutto fu ben
esaminato chiese a Le Nôtre cosa gliene pareva, ma questi prese a balbettare.
Il Re andò in collera e gli ordinò di esprimersi chiaramente. Allora Le Nôtre
confermò che il Re aveva ragione e indicò lo sbaglio trovato. Ancora non aveva
terminato quando il Re, girandosi verso Louvois, gli disse che la sua caparbietà
era insopportabile, che se non fosse intervenuto lui si sarebbe costruito in
modo sbagliato e sarebbe stato necessario abbattere il tutto non appena
terminata la costruzione; in poche parole gli diede una forte lavata di capo.
Louvois, indignato per questa uscita e per il fatto che si era svolta alla
presenza di cortigiani, operai e valletti, tornò a casa furente. Vi trovò
Sain-Pouenge, Villacerf, il cavaliere di Nogent, i due Tilladet e qualche altro
amico fedele ed intimo che si preoccuparono di vederlo in quello stato. «È
fatta,» disse, «ho perduto il favore del Re dal momento che mi ha trattato così
per una finestra. L'unica risorsa è una guerra che lo distragga dai suoi
palazzi rendendomi indispensabile e per...! l'avrà». Infatti pochi mesi dopo
mantenne l'impegno e, contro il volere del Re e delle altre potenze, la rese
generale. Questa portò alla rovina la Francia all'interno, non la fece
ingrandire al di fuori, nonostante la potenza dell'esercito, e produsse al
contrario avvenimenti vergognosi. Fra tutti,
quello che si abbatté con maggiore forza sul Re fu la sua ultima campagna
durata un solo mese. Aveva in Fiandra due eserciti formidabili, superiori per lo
meno del doppio a quelli dei nemici che invece ne avevano uno solo. Il principe
d'Orange si era accampato nell'abbazia di Parc, il Re si trovava ad una sola
lega, mentre Luxembourg con l'altro esercito a mezza lega, e nessun ostacolo si
frapponeva fra i tre eserciti. Il principe d'Orange era talmente circondato che
si giudicava senza scampo nei trinceramenti da lui con rapidità fatti alzare
intorno al campo e talmente perduto che lo comunicò quattro o cinque volte a
Vaudémont, suo amico intimo a Bruxelles, non vedendo alcuna speranza di poter
scappare, né di salvare il suo esercito. Niente lo separava dalle truppe del Re
ad eccezione di quei deboli trinceramenti e niente sarebbe stato più facile e
più sicuro che forzarli con uno dei due eserciti ottenendo la vittoria con
l'altro riposato, dato che tutti e due erano al completo, indipendenti l'uno
dall'altro, abbondantemente equipaggiati di viveri e di artiglieria. Erano i
primi di giugno e quanto avrebbe fatto sperare una tale vittoria all'inizio
della campagna! Così lo stupore fu enorme e generale in tutti e tre gli
eserciti quando si apprese che il Re si ritirava e costituiva due grossi
distaccamenti con quasi tutto l'esercito da lui personalmente comandato: uno per
l'Italia, l'altro per la Germania al comando di Monseigneur. Luxembourg,
convocato dal Re, il mattino della vigilia della partenza, per metterlo a
conoscenza di quelle nuove disposizioni, si gettò in ginocchio e gli tenne a
lungo le gambe abbracciate per distoglierlo, mostrandogli la facilità, la
sicurezza e la grandezza del successo se avesse attaccato il principe d'Orange.
Riuscì solo a infastidirlo, tanto più che il Re non ebbe neppure una parola da
opporgli. Si creò nei due eserciti uno scoramento tale che è impossibile
descrivere. Abbiamo visto che c'ero anche io. Persino i cortigiani, di solito
così felici di tornare a casa, non riuscirono a trattenere il loro dolore, che
in ogni occasione si manifestò apertamente, come anche la sorpresa, e in
entrambi i casi fecero seguito spiacevoli considerazioni. Il Re partì
l'indomani per raggiungere la Maintenon e le dame e con loro ritornò a
Versailles, per non rivedere più la frontiera nè gli eserciti salvo che per
suo piacere e in tempo di pace. La vittoria di Neerwinden riportata da
Luxembourg sei settimane dopo sul principe d'Orange, il quale in modo
prodigioso, avvalendosi delle condizioni naturali e delle cognizioni tecniche,
in una sola notte, si era con accanimento trincerato, rinnovò nuovi dolori e
discorsi, tanto più che la posizione dell'abbazia di Parc era completamente
diversa da quella di Neerwinden, e noi non avevamo le stesse forze, ma
soprattutto perché nonostante fossimo privi di viveri e di un equipaggiamento
sufficiente di artiglieria, quella vittoria poté essere conseguita. Per
concludere tale argomento tutto in una volta, si venne a sapere che il principe
d'Orange, avvertito della partenza del Re, aveva mandato a dire a Vaudémont
come lui ne avesse avuto notizia da fonte bene informata che mai gli aveva detto
il falso, ma che, quella volta, non aveva potuto prestarvi fede né abbandonarsi
alla speranza, così, tramite un secondo corriere, aveva appurato che la notizia
era vera, ossia che il Re partiva e che era proprio alla sua confusione e cecità
che egli doveva una così insperata liberazione. La cosa singolare è che Vaudémont,
stabilitosi molto tempo dopo nella nostra corte, lo ha spesso raccontato agli
amici, anche in gruppo, e addirittura nel salone di Marly. La pace che
seguì quella guerra, alla quale il Re e lo Stato senza altre possibilità di
scampo da molto tempo sospiravano, fu vergognosa. Si dovette accettare tutto ciò
che volle il duca di Savoia per fargli abbandonare i suoi alleati e addirittura
riconoscere il principe d'Orange quale re d'Inghilterra, dopo un così lungo
prosieguo di sforzi, odio e disprezzo personale, e inoltre ricevere Portland,
suo ambasciatore, come una specie di divinità. La nostra avventatezza ci costò
il Lussemburgo e l'ignoranza militare dei nostri plenipotenziari, assolutamente
non informati dal governo, diede ai nemici grandi vantaggi nella determinazione
delle frontiere. Tale fu la pace di Ryswyck conclusa nel settembre del 1697.
L'inattività delle armi non durò che tre anni, durante i quali provammo la
sofferenza di dover restituire paesi e piazzeforti che avevamo conquistato,
oltre all'oneroso costo della guerra. Qui termina il secondo periodo di questo
regno. Il terzo iniziò
con un trionfo di gloria e di inaudita prosperità. Ma fu di breve durata. Il
tempo inebriò e preparò strane sventure, la soluzione delle quali è stata una
specie di miracolo. Altre sventure accompagnarono e condussero il Re alla tomba,
felice se fosse sopravvissuto di pochi mesi alla presa del potere della intera
monarchia spagnola, avvenuta senza colpo ferire, da parte di suo nipote.
Quest'ultimo periodo è ancora così vicino a noi per cui non c'è ragione di
dilungarsi. Ma questa succinta descrizione del regno del defunto Re era
indispensabile per meglio comprendere quanto stiamo per dire sulla sua persona,
con la raccomandazione di ricordarsi quanto in proposito si trova tra le pagine
di queste Memorie e di non provare fastidio se vi si trovano ripetizioni, che
sono necessarie per meglio raccogliere e formare un tutto.
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