Enza Colicchi

 

 

RAZIONALISMO CRITICO

 

 

             Nell’orientamento di pensiero che viene comunemente definito razionalismo critico  è possibile fare rientrare autori e indirizzi diversi. Infatti, se il termine razionalismo ha da tempo assunto un significato estremamente ampio e generico – quello di una prospettiva filosofica che fa semplicemente appello alla ragione (senza che della ragione si specifichi la natura) – e se quindi  non sorprende l’eterogeneità di accezioni e ascendenze teoriche disparate che possono essere attribuite a quel termine, anche la storia del razionalismo critico presenta una fisionomia quanto mai ricca e complessa. Il razionalismo critico si  alimenta di molteplici e differenti riflessioni sorte in svariati campi di indagine e segna i programmi di ricerca di studiosi anche molto distanti tra loro, quali Jean Piaget e Gaston Bachelard, Giovanni Vailati e Federigo Enriques,  Karl Popper e Hans Albert, Hilary Putnam, Thomas Nagel e Bertrand Willams e, per quanto concerne il cosiddetto neoilluminismo italiano,  Antonio Banfi e Nicola Abbagnano, Ludovico Geymonat  ed Eugenio Garin, Giulio Preti  e Norberto Bobbio.

            In generale si può affermare che la tradizione del razionalismo critico trova comunque in Kant un punto di riferimento basilare (anche al di là dalla stessa consapevolezza dichiarata dei vari autori), nella misura in cui assume il compito – squisitamente criticista – di sviluppare positivamente una critica della ragione. Cosicché si deve, con Preti, indicare nel problematicismo il  tratto che  maggiormente  distingue questo orientamento di pensiero: per il razionalismo critico “la conoscenza è problema, la dualità soggetto-oggetto è ineliminabile, e la ragione è per la sua stessa struttura dialettica e antinomica: la verità non è nell’impossibile soluzione delle antinomie della ragione, bensì nel disporsi e nel muoversi, dei contenuti dell’esperienza, elaborati dall’intelletto, entro le forme trascendentali-dialettiche della ragione: è quindi piuttosto un limite, un ideale, un orizzonte infinito del sapere che non una sua qualità determinata e definibile con un qualsiasi criterio materiale.”[1] Opponendosi con forza alla tradizione del razionalismo classico - in tutte le varianti della filosofia fondazionale -, i razionalisti critici assumono insomma in senso positivo il compito di sviluppare una critica della razionalità volta ad indagare il ruolo, la funzione, il significato e i limiti del pensiero nella sua capacità di produrre conoscenze, di costruire orizzonti di intelligibilità del mondo e di elaborare strutture di senso: la natura delle funzioni razionali, la loro struttura e la loro configurazione storica rappresentano cioè i principali problemi che il razionalismo critico ha approfondito sistematicamente nei più svariati ambiti disciplinari.

              Data la fisionomia quanto mai ricca e complessa della prospettiva filosofica del razionalismo critico e data la inopportunità – oltre che l’impossibilità - di tracciare un quadro storico delle sue vicende, in  queste note mi limiterò a prendere in considerazione il modello teorico elaborato da Popper e da Albert. Ciò soprattutto in ragione del fatto che questo si offre come un quadro adeguatamente strutturato e  profilato, dotato di una sua specifica omogeneità e organicità; e purtuttavia costituisce un sistema ad ’ampio spettro’: perché è impegnato in poche (e chiaramente esplicitate) tesi filosofiche ‘forti’ - peraltro  in linea con le tendenze più significative e feconde della temperie culturale contemporanea - e perché non è relativo unicamente ai problemi della conoscenza, ma anche a tutti i problemi in generale, compresi quelli che investono la dimensione pratica della razionalità umana. Siamo in presenza, insomma, di un modello  in grado di sollecitarci ed aiutarci a riconsiderare e a riformulare in profondità la nostra interpretazione della realtà e dell’uomo, della conoscenza e dell’agire umani, della società e della storia e, quindi, della stessa ricerca pedagogica.

        Più in particolare, il modello popperiano non solo attua una  rottura radicale e argomentata con il razionalismo classico, con l’essenzialismo ed il cognitivismo della tradizione occidentale – e quindi si offre come luogo di risoluzione delle antitesi che da tempo vincolano la riflessione pedagogica (scienza/filosofia, conoscenza/azione, teoria/prassi, descrizione/costruzione, fatti/valori ecc.); non solo opera il superamento netto e deciso della problematica della  fondazione – cosicché consente di sciogliere talune ardue  questioni che da sempre impegnano la ricerca teorica in pedagogia,  rappresentando una valida alternativa e al dogmatismo e allo scetticismo in cui inevitabilmente sfociano le problematiche fondative -; ma fornisce altresì taluni orientamenti euristici e princìpi metodologici rilevantissimi, utili ad essere presi in considerazione dalla ricerca in educazione quali importanti direttive di svolgimento.

        Nelle pagine che seguono mi limiterò a richiamare sinteticamente i punti centrali della teoria della conoscenza popperiana, mentre dedicherò maggiore spazio e attenzione al modello di razionalità pratica (‘normativa’) che quella teoria produce in campo politico ed etico, in quanto – è questa l’ipotesi che guida queste note – la teorizzazione pedagogica  può convenientemente richiamarsi a quel modello ed utilizzarne taluni elementi essenziali.

 

 

La teoria della conoscenza

 

      La rilevanza della teoria della conoscenza di Popper risiede nel fatto che essa risulta applicabile a pressoché tutti gli ambiti della prassi conoscitiva, nell’avere cioè una portata per così dire ‘transdisciplinare’. Questo dipende dal fatto che essa tematizza e descrive sia l’obbiettivo comune alla ricerca in quanto tale - che è quello di progredire nella conoscenza – sia il metodo dei procedimenti conoscitivi – secondo la scansione problemi/teorie/critiche. Come è noto, tale metodo si  basa sul procedimento per tentativi ed errori – o congetture e confutazioni – ed  assegna alla ricerca scientifica, che prende  avvio ogni qualvolta “si  inciampa” in un problema, il duplice compito di ideare una soluzione (una teoria) e di sottoporre a controllo quella soluzione: ciò che sarà all’origine o dell’abbandono della teoria o del suo mantenimento in nuovi contesti problematici.

       Certamente la teoria della conoscenza elaborata da Popper è in primo luogo una teoria della conoscenza scientifica e, poiché nella scienza il procedimento attraverso cui viene fondata una qualsiasi proposizione è il metodo,  la teoria della conoscenza popperiana consiste in una teoria generale del metodo della scienza empirica [2]. Senonché non solo l’analisi della  conoscenza scientifica costituisce, per Popper, un modo per studiare “la conoscenza umana in generale”[3], ma ciò che più conta è che il razionalismo critico popperiano assume una connotazione particolarmente ampia e comprensiva in quanto riferisce alle pratiche di  soluzione dei problemi  i n  g e n e r a l e,  e non soltanto a quelle dei problemi conoscitivi.        

       Popper, infatti, ritiene che, poiché la scienza ha prodotto il metodo maggiormente efficace e proficuo di accrescimento della conoscenza, è legittimo ipotizzare che lo stesso metodo possa essere utilmente adottato nel campo delle problematiche umane an sich.

        Egli, più in particolare, giudica le teorie metafisiche (sull’uomo, sulla storia, sull’universo: cioè le antropologie filosofiche, le filosofie della storia, le cosmologie filosofiche ecc.) teorie significative – e non già non-sensi, come i neopositivisti -, cioè a dire teorie sensate e comprensibili, di cui non si può non tenere conto. Non solo, infatti,  senza idee metafisiche (quali la credenza in una realtà esterna alla mente e indipendente da essa  o la presunzione di un ordine immanente alla realtà stessa) la scienza non sarebbe possibile, non solo quelle idee costituiscono la grande storia del pensiero umano, ma esse rappresentano altresì le teorie umanamente e socialmente più rilevanti, dato che è sulla loro base che gli uomini conducono la propria vita. E sebbene esse non risultino falsificabili empiricamente, tuttavia è di regola possibile procedere ad una discussione razionale di esse. In tale senso risulta legittimo e opportuno attribuire alla ricerca scientifica un unico metodo, che è quello che “sistematizza il metodo prescientifico dell’imparare dai nostri errori;  lo sistematizza grazie allo strumento che si chiama discussione critica”.[4]

     Ancora, nell’Addendum a La società aperta e i suoi nemici, Popper  afferma la possibilità  che, una volta che il metodo per tentativi ed errori e la procedura della discussione razionale vengano estesi alla dimensione etico-politica, si realizzi un ‘progresso’ della vita morale analogo a quello riscontrabile nella sfera conoscitiva. Insomma: se la conoscenza è condizione di ogni agire razionale (rispetto allo scopo) e se le procedure della conoscenza scientifica rappresentano l’esito più elevato della conoscenza razionale prodotta dall’uomo,  il ricorso al metodo della conoscenza scientifica consentirà di accedere anche nella sfera morale e politica  a forme di pensiero più razionali e dunque più idonee al controllo di tale sfera.

               La indeterminatezza e genericità del metodo proposto, di cui si diceva, consente a Popper, peraltro,  di affermare che ciascuna ricerca deve utilizzare  parametri e prospettive valutative  messe a punto in stretto riferimento al genere di  questioni  di volta in volta affrontate. Pur essendo, in altri termini, unico il metodo sia nelle scienze sia nei saperi della cultura e nella filosofia, sono invece molte sia le euristiche, le procedure di prova e le metodologie, sia le fonti stesse della conoscenza (ragione, immaginazione, tradizione, intuizione), dato che esse variano da disciplina a disciplina, da problema a problema. Per quanto concerne in particolare la filosofia, poi, Popper nega che si dia un metodo specifico, giacché “i problemi filosofici genuini sono sempre radicati in urgenti problemi esterni alla filosofia, e scompaiono se tali radici deperiscono. Nei loro sforzi volti a risolvere detti problemi, i filosofi sono soggetti a inseguire quello che pare un metodo, o una tecnica filosofica, ovvero una chiave infallibile per il successo della filosofia. Ma metodi o tecniche siffatti  non esistono; in filosofia i metodi sono privi di importanza; qualsiasi metodo è legittimo se conduce a risultati suscettibili di una discussione razionale.”[5] Coerentemente Popper si dice critico nei confronti di tutte le filosofie (hegelismo, fenomenologia, analisi linguistica) che teorizzano “una specie di metodo per pervenire a conclusioni di natura filosofica”[6] e sostiene che l’unico metodo razionale consiste nella formulazione chiara del problema e nell’esame critico delle soluzioni che vengono proposte.

         Come è noto, la teoria della conoscenza popperiana si basa su tre principi,  strettamente interdipendenti: il fallibilismo, il razionalismo metodologico, il realismo critico.

   La ricerca di Popper  consiste per  un  verso in una attenta  e  articolata  critica  delle concezioni  non  fallibiliste della conoscenza, per altro verso nello sviluppo della concezione fallibilista. Il fallibilismo esprime l’idea che la conoscenza umana non è epistème, cioè sapere certo, e neppure téchne, cioè sapere meramente utile, bensì doxa, cioè a dire sapere congetturale, - che l’uomo è colui che cerca la verità piuttosto che colui che la possiede - e va ricondotto al riconoscimento della impossibilità di sostenere lo stretto legame tra verità e certezza affermato dal razionalismo classico. Questo, infatti, sostiene che “la scienza è sapere; e il sapere implica la certezza insieme con la giustificazione della certezza; implica cioè la possibilità, empirica o razionale, della fondazione[7]. ( Il modello classico, in altre parole mira “a conseguire la sicurezza che quanto è stato trovato è anche vero, e una tale sicurezza appare ottenibile solo disponendo di un fondamento per il nostro sapere, vale a dire fondando questo sapere in modo da eliminare ogni dubbio.”[8]

    Ma, sostiene Popper in Congetture e confutazioni, il problema  della fondazione – di come sia possibile una conoscenza certa – è insolubile, cioè a dire è un  ‘falso problema’[9]  e “deve venire effettivamente abbandonato in quanto privo di senso”[10]. Se la scienza risulta allora essere ‘un sistema di ipotesi’, “un sistema di tentativi di indovinare, o di anticipazioni, che non possono essere giustificati in linea di principio, ma con i quali lavoriamo fintanto che superano i controlli, e dei quali non abbiamo mai il diritto di dire che sappiamo che sono ‘veri’, o ‘più o meno certi’, o anche ‘probabili’”, e non più ‘un corpo di conoscenza’,[11] i suoi esiti non sono tuttavia scettici: riconoscere il carattere congetturale delle teorie scientifiche non equivale a negare che la scienza sia ricerca della verità. La stessa nozione di fallibilità implica l’idea di verità, dato che “è soltanto l’idea della verità che ci consente di parlare sensatamente di errori”[12].

        (D’altronde Popper sottopone al principio della fallibilità anche la propria teoria della conoscenza: di questa non si può infatti asserire la verità, ma solo argomentare razionalmente a favore: ”nulla è esente da critica, […] nulla deve essere considerato esente da critica: neppure questo stesso principio del metodo critico”[13]).

 

         Il superamento sia del dogmatismo tipico del razionalismo classico,  sia  dello scetticismo alternativo a quello, conduce Popper ad una posizione di criticismo che, pur riconoscendo  l’impossibilità di una giustificazione definitiva della conoscenza umana e quindi la fallibilità della stessa, tuttavia non rinuncia alla tensione conoscitiva. Popper afferma infatti che le  soluzioni dei problemi, sebbene non siano passibili di una giustificazione definitiva, sono però suscettibili di vaglio critico, nel senso che è possibile stabilire se e in quale misura esse vadano preferite ad altre soluzioni e, quindi, procedere nella ricerca delle opportunità per migliorarle. Noi impariamo dai nostri errori, in special modo da quelli che si manifestano nella discussione critica dei nostri tentativi di soluzione.  Di qui la connotazione critica della ricerca, che non persegue verificazioni e prove definitive, ma prove cruciali che possano confutare le teorie.  Una volta abbandonata la concezione tradizionale della razionalità come giustificazione, Popper perviene insomma ad una interpretazione della razionalità come critica, come attività in grado di risolvere i problemi relativi alla preferenza razionale tra  teorie rivali e, quindi, di determinare una crescita della conoscenza. Questa preferenza è esito della discussione critica, nel senso che la teoria migliore è  quella che risulta meglio corroborata nella sua pretesa di risolvere i problemi in ordine ai quali è stata elaborata, cioè a dire in grado di superare meglio i controlli cui viene sottoposta.

          Con il realismo critico poi, pur affermando il carattere selettivo della conoscenza (si accede  solo a sezioni finite della realtà), Popper sostiene un’idea regolativa della verità. Infatti si può parlare di discussione critica delle teorie nei termini di ricerca degli errori solo in quanto si accoglie l’idea di verità in quanto  principio regolativo  - la verità come corrispondenza ai fatti - e, pur dichiarando la inattingibilità della verità in quanto tale e dunque rinunciando all’idea che si diano  criteri di verità atti a stabilire la verità di una teoria, tuttavia si affida alla nozione di verità una funzione regolativa, di guida nelle pratiche conoscitive. Popper intende cioè la verità, kantianamente, come un’idea della ragione, ovvero come un principio regolativo irrinunciabile perché si possa assegnare un senso alla ricerca[14] E’ solo in relazione alla “scoperta della verità”, egli scrive, “che possiamo affermare come, pur essendo fallibili, speriamo di imparare dai nostri errori. E’ soltanto l’idea della verità che ci consente di parlare sensatamente di errori e di critica razionale, e rende possibile la discussione razionale, cioè la discussione critica nella ricerca degli errori, con la seria intenzione di eliminarne quanti più possiamo, al fine di avvicinarci alla verità.”[15]

 

         La discussione critica muove da un insieme di  premesse –  da  una  conoscenza di fondo – che  viene assunta come non problematica. Ma questi assunti di fondo non sono, come accade nelle posizioni di Habermas e Apel relative all’argomentazione giustificativa, degli a priori affatto indiscutibili. Sono piuttosto elementi accettati in via ipotetica, che possono essere - per sezioni limitate e in momenti successivi - criticati e rifiutati: ”L’argomentazione giustificativa, riconducendo a ragioni positive, raggiunge infine ragioni che non possono esse stesse venire giustificate (altrimenti l’argomentazione condurrebbe ad un regresso all’infinito). E il giustificazionista conclude di solito che tali ‘presupposizioni ultime’ devono, in qualche senso, andare oltre la possibilità dell’argomentazione, e che non possono essere criticate. Ma le critiche, le ragioni critiche, offerte nel mio approccio non sono ultime in nessun senso; sono aperte anch’esse alla critica; sono congetturali. Si può continuare ad esaminarle all’infinito; esse sono infinitamente aperte ad un riesame e ad una considerazione. Tuttavia non si genera nessun regresso all’infinito: giacché non esiste la questione di dimostrare o giustificare o stabilire qualcosa; e non esiste il bisogno di una presupposizione ultima. E’ solo l’esigenza di dimostrazione o giustificazione a generare un regresso all’infinito, e a creare il bisogno di un termine ultimo della discussione.”[16] Certamente, poiché la discussione critica non ha un termine ultimo, essa ha un esito a seguito di una decisione relativa al fatto che le argomentazioni critiche siano giudicate sufficienti a corroborare o respingere una teoria. Tuttavia anche queste decisioni rientrano nel metodo critico e, in quanto tali, sono sempre provvisorie e soggette a critica.

        Dove, allora, risulta chiaro come l’aggettivo critico sia  dunque  rivolto contro l’arroganza del sapere e in special modo contro il razionalismo classico e le sue pretese di fondazione. La critica non serve infatti a giustificare un’asserzione, ma a migliorare un sapere che è, per definizione, fallibile: essa serve ad eliminare gli errori con il  sottoporre le proposte di correzione a verifiche rigorose.

 

 

Teoria della conoscenza e filosofia politica

 

           Nella parte conclusiva di Miseria dello storicismo Popper afferma l’unità procedurale del metodo scientifico, sostenendo che anche le scienze sociali e storiche devono procedere attraverso la elaborazione di ipotesi da sottoporre all’esame dell’esperienza e della discussione critica. (Non a caso la scienza può a sua volta venire letta come “un caso speciale di dialogo socratico in cui la critica è empirica”[17]).

            La tesi fallibilista vale infatti, per Popper, non solo a scongiurare la fede dogmatica nell’autorità della scienza, ma si offre come un bene intellettuale e pratico in grado, grazie alla sua portata antidogmatica e antiautoritaria, di garantire le basi della società libera, pluralista  e tollerante.

       In effetti, la società aperta risulta essere la conseguenza diretta, sul piano politico-sociale, del razionalismo critico. Nella concezione  popperiana, le istituzioni democratiche rappresentano il corrispettivo, in campo comunitario, delle regole metodologiche della scienza; nel senso che razionalità scientifica e democrazia convergono quando si comprende che “solo la democrazia fornisce una struttura istituzionale che permette… l’uso della ragione in campo politico”. [18]  Infatti nella scienza, come nella politica: 1) si cerca di risolvere problemi; 2) sono necessarie ipotesi nuove da sottoporre a critica e valutazione; 3) all’illusione di possedere la verità definitiva da parte  del dogmatico corrisponde l’utopista, il quale crede di possedere la verità sulla società perfetta; 4) le teorie scientifiche mutano e sono scientifiche se rispettano il metodo scientifico; in politica mutano maggioranze/minoranze, leggi  e programmi, ma vanno rispettate le regole della democrazia.

           Ora, come si è visto, la scienza che Popper teorizza, pur costituendo il luogo maggiormente evoluto della conoscenza umana, è affatto congetturale – è simile a “un edificio costruito su palafitte”[19] - e non assicura il possesso della verità. Inoltre essa non ha indicazioni da dare riguardo ai problemi metafisici ed esistenziali: non fornisce certezze né criteri di senso e di valore. Piuttosto essa indica alla ricerca in campo etico-politico taluni rilevantissimi princìpi metodologici. Insomma: la società e la politica non derivano dalla scienza le proprie scelte o la determinazione dei propri mezzi, bensì il metodo: non viene prospettata  una politica che si serve delle scienze e neppure una politica che attinge i propri contenuti e norme da una qualche scienza, bensì una politica come scienza, nel senso che l’azione politica e l’attività di organizzazione istituzionale della società divengono scientifiche in quanto utilizzano lo stesso metodo della scienza.

      Quella di Popper è, in altri termini, una concezione che è possibile definire come riduzionismo metodologico. La teoria della società aperta riguarda esclusivamente le regole formali della società democratica e non già i suoi contenuti, che si configurano come l’esito di libere scelte politiche entro il quadro istituzionale costituito da quelle regole: è il quadro generale e complessivo delle norme procedurali che adegua  e ricalca il metodo scientifico, non le ipotesi che di volta in volta possono essere giudicate buone in relazione a determinati  problemi. In breve: l’utilizzazione del modello della società aperta non vale  – né ambisce – a fornire risposte su che cosa si debba effettivamente fare: tali risposte sono in ogni caso oggetto della libera scelta dei soggetti politici.

           Sono essenzialmente  due gli elementi della concezione popperiana che risultano rilevanti e decisivi allorché vengono applicati all’area di problematicità socio-politica: la tesi  della natura congetturale delle teorie e il principio di falsificazione.

         Risulta immediatamente evidente che, una volta stabilito che il metodo delle congetture e confutazioni è il metodo della scienza, la società aperta costituisce l’esito necessario dell’applicazione del metodo scientifico alla organizzazione della società e alla politica. Infatti, così come non esiste una teoria assolutamente e definitivamente vera, non esiste una società perfetta; così come la scienza produce teorie migliori, ma mai definitivamente vere, allo stesso modo la società può progredire secondo forme migliori, ma mai definitivamente perfette. La società chiusa si distingue dalla società aperta non solo perché si definisce e si organizza in termini religiosi e tribali, ma anche perché si fonda su  un uso assolutistico e dogmatico della ragione, laddove la società aperta si affida ad un uso critico della ragione che non garantisce certezze. Obbiettivo critico di Popper è, come è noto, lo storicismo, che egli condanna in quanto holistico ed essenzialistico. Lo storicismo pretende infatti di potere conoscere la storia e la società come un tutto organico: “Lo storicismo si occupa dello sviluppo della società come ‘un tutto unico’  e non dello sviluppo di particolari aspetti di essa”.[20] Ma, essendo la conoscenza scientifica limitata e selettiva, ad essa non risulta accessibile la totalità, cosicché ogni tentativo di pianificazione totale della società o di “meccanica sociale utopistica” è votato al fallimento.

         Da tutto ciò consegue che il modello politico popperiano non ammette – perché non sono razionalmente prospettabili - interventi politici radicali,  in grado di risolvere tutti i problemi della società, ma solo interventi parziali che, in via affatto ipotetica, tentano di dare soluzione a questioni limitate e circoscritte; di qui l’esclusione di interventi  holistici e  rivoluzionari e l’opzione per una ingegneria sociale  gradualistica in opposizione all’ingegneria sociale utopica[21].  Il metodo scientifico, negando la possibilità di un sapere esaustivo e assolutamente certo, vale insomma  a decretare sia la impossibilità di determinare e definire fini e modelli assoluti, sia la irrazionalità di qualsiasi forma di gnosticismo e utopismo, cosicché esso condanna ogni approccio utopistico e holistico ai problemi sociali e dunque qualsiasi progetto di mutamento totale e radicale dell’ordine esistente come espressione di una ragione onnipotente e violenta. L’utopia, che si basa su una interpretazione della scienza come sapere certo, necessario e infallibile, risulta in tanto incompatibile con il metodo scientifico. D’altronde, come aveva già chiaramente inteso Kant, l’ordine statico e definitivo auspicato  dalla ragione utopica, in quanto portatore di un’idea religiosa della verità,  si rivela antinomico rispetto alle istanze della libertà umana.

      Si comprende allora per quali  ragioni il modello popperiano di razionalità rifiuti il monismo axiologico a favore del politeismo dei valori. In assenza di un sapere certo dei fini e dei valori e in conseguenza della fallibilità della ragione umana, non solo va infatti accolta e salvaguardata la coesistenza  di una pluralità di codici morali e di modelli di vita, ma  la competizione tra i programmi metafisici di ricerca  va favorita e incrementata allo stesso modo in cui, in ambito scientifico, va sollecitata  e assicurata la concorrenza tra le teorie; cosicché  i programmi politici e le istituzioni sociali devono essere continuamente criticate ed eventualmente  ridisegnate alla luce delle nuove acquisizioni ed esigenze che si manifestano. Risultando insomma, nella società aperta,  prioritario il controllo piuttosto  che  il fondamento dell’autorità, il pluralismo politico viene, per così dire,  istituzionalizzato e il momento del dissenso viene privilegiato rispetto al momento del consenso. Qui la critica  si rivolge contro ogni forma di autorità morale: la società aperta è pluralistica, dato che rifiuta il fondamentalismo e si basa sull’elogio del politeismo e della tolleranza.

         D’altronde, pur non essendo empiricamente confutabili, le teorie filosofiche sono criticabili nella misura in cui è possibile stabilirne la capacità di risoluzione dei problemi sul tappeto e la eventuale incompatibilità con altre teorie indispensabili per risolvere altri problemi. Infatti, scrive Popper, possiamo valutare una teoria filosofica chiedendoci: “Risolve essa il problema? Lo risolve meglio di altre teorie? Si è forse limitata a spostarlo? La soluzione è semplice? E’ feconda? Contraddice forse ad altre teorie filosofiche necessarie alla soluzione di altri problemi?”[22]

        Certamente, potrebbe a questo proposito venire paventato il rischio dell’anarchia sociale, nel senso che così come il razionalismo critico può ritenersi esposto ad una degenerazione nell’anarchismo metodologico (à la Feyerabend), il dissenso sistematico e distruttivo può essere visto come esito della società aperta. Senonché si deve rispondere che il modello popperiano è in grado di scongiurareun tale esito.  Infatti, così come in ambito scientifico la competizione tra teorie non è fine a se stessa, ma è funzionale alla sostituzione di una teoria passibile di critica con una teoria migliore, allo stesso modo in ambito socio-politico la critica e il dissenso sono diretti a promuovere quei cambiamenti (gradualistici)  atti a risolvere più efficacemente i problemi e dunque a conquistare un consenso più ampio. Non solo insomma il consenso rimane garanzia della stabilità della società aperta, ma esso è espressione della bontà di un programma politico: allo stesso modo in cui l’accettazione da parte della comunità dei ricercatori di una teoria scientifica è indice della sua validità.

           Il razionalismo critico può allora essere interpretato, nella sostanza,  come una teoria normativa, la quale prescrive una serie di imperativi metodologici volti a massimizzare il grado di razionalità delle pratiche umane, conoscitive e non conoscitive.

            Va infine sottolineato come l’opzione a favore del razionalismo critico, come anche la scelta a favore della società aperta, si basano su quella che Popper stesso definisce una “fede irrazionale nella ragione”[23]. Il razionalismo critico, a differenza del razionalismo acritico - rispetto a cui anche l’irrazionalismo appare logicamente superiore –, non pretende infatti di essere autosufficiente, ma riconosce la propria origine in una decisione irrazionale. “Il problema non può essere quello della scelta tra conoscenza e fede, ma soltanto fra due generi di fede. Il nuovo problema è: qual è la fede giusta e qual è la fede sbagliata?”[24]

 

 

         L’immagine dell’uomo e l’etica

 

        Alla base del modello della società aperta – così come della strategia sociale gradualistica - non c’è, come si è detto,  alcuna idea o presupposto relativamente alle tendenze storiche o al destino o alle finalità delle vicende umane. E pur tuttavia si trova una precisa concezione dell’uomo: che è quella di un essere libero e responsabile, capace di conoscere, di scegliere, di decidere e di agire, portato a ricercare, ad esplorare, a risolvere problemi. (Non a caso a questa immagine dell’uomo corrisponde l’assunzione dichiarata del principio dell’individualismo metodologico, principio secondo il quale solo gli individui possono agire).  Si tratta di un essere padrone della propria vita e del proprio destino, capace di incidere sulla storia secondo i propri scopi e le proprie scelte, che si impegna nell’”individuare ( e … combattere contro) i più gravi e più urgenti mali della società, invece di cercare (e di battersi per) il suo più grande bene ultimo” [25], dato che ciò cui la vita lo sollecita non è la felicità (“perché non ci sono mezzi istituzionali atti a rendere un uomo felice, quanto l’esigenza di non essere resa infelice, nei casi in cui l’infelicità può essere evitata”[26]). Inoltre, a differenza del razionalismo classico, il razionalismo critico non indica  nell’uomo un essere integralmente e compiutamente razionale, ma riconosce nei suoi comportamenti conoscitivi e pratici la presenza significativa di elementi non logici. Da tale antropologia discendono una serie di ipotesi su ciò che l’uomo e  la ragione umana devono essere: deriva insomma  una precisa axiologia.

          Vediamo la questione più da vicino. La legge di Hume – che Popper sottoscrive ed anzi utilizza ampiamente – stabilisce l’impossibilità logica di derivare i giudizi-di-valore dai giudizi-di-fatto, gli asserti prescrittivi dalle proposizioni descrittive  e quindi vieta di trasferire i contenuti della conoscenza scientifica alla sfera etico-politica.  Popper non solo distingue nettamente i fatti dalle norme, ma è fortemente avverso ad ogni forma di riduzione delle norme ai fatti (psicologici, sociali, storici), ovvero  delle leggi normative alle leggi naturali; cosicché  nega decisamente la possibilità di una scienza dei valori e dei fini: l’etica, infatti, non descrive bensì prescrive, non spiega bensì valuta.

       Indicando  nell’antica Sofistica (Protagora) la prima distinzione tra natura e convenzione e, quindi, tra leggi naturali e leggi normative, egli rileva come  le prime ”sono inalterabili, non possono essere né violate né imposte” e “sono al di là del controllo umano”, mentre  le seconde sono alterabili e presuppongono la libertà dell’uomo di accettarle o di negarle. Una legge normativa può infatti “essere giudicata buona o cattiva, giusta o ingiusta, accettabile o inaccettabile.”[27] E questo al di là del fatto che di essa si  affermi una origine  storica o la arbitrarietà: che si sostenga che è stata scoperta o inventata.

             (Sulla distinzione tra norme e fatti poggia d’altronde la distinzione popperiana tra società chiusa e società aperta, dato che nella prima le norme sono concepite come dotate dello stesso statuto delle leggi di natura, immutabili e intangibili; nella seconda gli uomini, divenuti consapevoli di se stessi e del piano storico-culturale della propria vita collettiva, sanno di potere modificare le proprie leggi, cosicché acquisiscono la responsabilità di esse: “le norme e le leggi normative possono essere fatte e cambiate dall’uomo” e “l’uomo è moralmente responsabile nei confronti… delle norme cui è disposto a sottoporsi una volta che egli abbia scoperto di poter fare qualcosa per modificarle”[28]).

       Rifiutando qualsiasi forma di riduzione delle norme ai fatti (sociali, storici, psicologici), delle leggi normative alle leggi naturali, Popper accoglie dunque l’idea, di ascendenza kantiana,  dell’autonomia della morale; idea che  riafferma   peraltro allorché sostiene che né la storia del genere umano né la vita personale dei singoli hanno di per sé un senso a prescindere dal nostro impegno morale a conferire loro un senso. Se, insomma,  già nella Logica della scoperta scientifica,   Popper prende le distanze dalla epistemologia neopositivistica e assegna una funzione di tutto rilievo al soggetto conoscente, in maniera analoga afferma la centralità del ruolo del soggetto come soggetto morale.

       Ora, la autonomia della morale, basandosi sul non-cognitivismo etico, consiste nel disconoscere come fondamento dell’etica gli imperativi provenienti da autorità quali la natura, la storia, Dio, gli organi di potere e nell’assegnare all’uomo il compito e dunque la responsabilità di giudicare criticamente e di decidere se obbedire o meno a quegli imperativi. La responsabilità delle nostre decisioni etiche – scrive Popper – è interamente nostra e non può essere fatta ricadere su nessun altro: né su Dio, né sulla natura, né sulla società, né sulla storia.”

         Senonché questo non significa dovere ripiegare su posizioni scettiche, cioè a dire prospettare il rischio di scetticismo morale che è sotteso dalla sfiducia nell’uomo e nelle sue possibilità. Se l’etica non è una scienza, ciò non equivale a riconoscere che la ragione è ad essa estranea. Tutt’altro: la ragione in campo etico può fare moltissimo. Essa può esaminare e stabilire i mezzi più efficaci per raggiungere gli scopi perseguiti, o può farci comprendere come certi fini siano irrealizzabili;  può mostrarci come la realizzazione di un valore può compromettere il raggiungimento di un altro valore, o può prospettare un maggior numero di soluzioni ad un problema etico; può renderci maggiormente responsabili chiarendo le conseguenze delle nostre scelte, o può mostrarci come all’etica dell’intenzione va spesso accompagnata un’etica della responsabilità; può, soprattutto, eliminare quei conflitti che dipendono da disaccordi nelle credenze. In breve: la ragione vale a dimostrare come l’etica non è un sapere, come i suoi valori non sono teoremi ma proposte di vita, ideali di comportamento: oggetti delle nostre scelte, sfide alla nostra iniziativa e al nostro coraggio o alla nostra rinuncia ed ignavia.  Le proposte etiche, insomma, non si fondano né si confutano: si accettano o si respingono sulla base della libertà di coscienza di ciascuno. D’altra parte, poiché vivere equivale a risolvere problemi,  e poiché la soluzione di problemi esige molteplici proposte di soluzione e critiche accurate, risulta chiaro che, data la nostra ignoranza e fallibilità, tutti devono essere liberi di avanzare proposte e muovere critiche e che solo la discussione può consentire di pervenire a soluzioni razionali dei problemi che via via sorgono. Ma risulta evidente  anche  la necessità della società aperta, la quale  sola può consentire un’etica umanistica.

 

 

Note conclusive

 

        Sulla base di quanto del razionalismo critico popperiano si è fin qui richiamato, è possibile enucleare una costellazione di principi, criteri e indicazioni  che sono in grado di sollecitare e suggerire nuovi  orientamenti alla ricerca pedagogica, o, quantomeno, meritano di venire considerati, discussi e valutati in relazione a quella.

        Mi limiterò a citarne, sinteticamente, alcuni.

 

 

 

1) Centralità dei problemi

        La posizione popperiana sollecita due considerazioni. a) Nella storia del sapere educativo appare, macroscopica, la tendenza a totalizzare, l’impazienza a produrre sistemi compiuti, la propensione a raggiungere rapidamente sintesi esaustive. Tendenza che trova motivazione nel carattere pratico del sapere dell’educazione - tradizionalmente  indirizzato al controllo, alla razionalizzazione, alla direzione e trasformazione-progettazione consapevole dei processi educativi - e che è alla base sia dell’impegno prevalente del discorso pedagogico nel produrre risposte, sia della forma teorico-discorsiva che lo caratterizza: finalizzata più a generare assenso, a suggerire prese di posizione, ad influire su credenze, atteggiamenti, pratiche, anziché a promuovere programmi di ricerca effettivi, cioè a curare l’opera primaria della teorizzazione, che è quella di formulare buone domande. D’altronde troppo spesso la ricerca pedagogica si riduce all’applicazione di sistemi teorici d’altra natura alle tematiche educative, cosicché non solo il sistema teorico utilizzato manca la sua funzione di ipotesi euristica finalizzata a risolvere una situazione problematica che quell’ipotesi mette alla prova, sollevando quesiti nuovi che richiedono soluzioni nuove; ma viene inibito un contatto adeguato, euristicamente fecondo, con l’oggetto di indagine.

 b) Allorché Popper  pone al centro della ricerca i problemi e l’esigenza di risolverli, sottrae rilevanza alla nozione di disciplina. Alla disciplina, infatti, egli assegna lo status di semplice “unità amministrativa”.[29] Ora, la posizione popperiana induce a guardare con cautela alla tesi disciplinaristica che, da qualche tempo, viene affermata in pedagogia e che concretamente si manifesta, tra l’altro, negli studi sul discorso pedagogico o sulla metateoria o sul linguaggio pedagogico, dove tende ad assumere significanza epistemologica (normativa) e non semplicemente storico-filologica. Insomma: sostenere e rivendicare tout-court la specificità disciplinare della pedagogia (ovvero supporre come già data o disponibile la sua identità e consistenza – in termini di oggetto, linguaggio concettuale e logico, metodologia euristica -), mentre risponde a preoccupazioni e istanze storicamente legittime e rilevanti (legate ai fenomeni della espropriazione, della minorità teorica, della inefficienza pratica, delle difficoltà di ruolo istituzionale ecc., che gravano sul discorso dell’educazione), rischia tuttavia di ostacolare una reale riorganizzazione razionale della ricerca e quindi del sapere educativo: nel senso che può provocare un pregiudiziale arroccamento su posizioni per molti aspetti logore e consunte. A fronte dell’interpretazione disciplinare della specificità del discorso educativo – che inevitabilmente ne sacrifica la determinazione come ricerca – si profila cioè l’opportunità di intendere la specificità come qualcosa da rivendicare e perseguire nell’ordine degli oggetti-problemi intorno a cui si costituisce, o si dimostra opportuno che si costituisca, il sapere pedagogico; non già dunque tematizzazione epistemologica di un sapere in qualche modo definito, ma delineazione progressiva di problemi specifici che richiedono la elaborazione di un sapere specifico: pena la loro mancata copertura teorica e risoluzione pratica.

 

 

 

2) Superamento dell’idea di fondazione a favore del controllo critico

          Come si è ricordato, la critica serrata condotta da Popper nei confronti del razionalismo classico  investe la teoria della conoscenza di tipo fondazionale. Questa,  perseguendo un ideale di sapere palese, ultimo e conclusivo, si chiede quali teorie sono vere, cioè a dire come possiamo fondare una teoria  (il postulato della metodologia classica del pensiero razionale impone: “cerca sempre un fondamento sufficiente per le tue convinzioni”). Senonché le procedure fondazionali, sostengono Popper e Albert,   non solo negano qualsiasi progresso conoscitivo, ma, soprattutto, confondono verità e certezza: per chi ha di mira la certezza, infatti, la riconduzione di tutte le convinzioni, conoscitive e normative, a fondamenti sicuri si presenta come un requisito ovvio e irrinunciabile. E però è possibile assumere delle certezze solo “immunizzando con la dogmatizzazione” certe convinzioni contro critiche eventuali.

        Ebbene,  il discorso pedagogico, come mostra la sua storia,  si è prevalentemente svolto entro il paradigma del razionalismo classico e i procedimenti adottati per accreditare, mostrandone la verità, le soluzioni di volta in volta avanzate in ordine al definire e prescrivere l’educazione - le risposte che ciascuna pedagogia ha dato alle domande ‘che cos’è l’educazione?’ e ‘che cosa dobbiamo fare per educare?’ – hanno riguardato i  fondamenti. Senonché è alla determinazione razionalistico-fondazionale della pedagogia che vanno  imputate le notevoli difficoltà teorico-pratiche che ne hanno segnato la tradizione ed ancora oggi ne compromettono il ruolo: la condizione di perenne ancillarità nei confronti di saperi altri, l’incompatibilità e incommensurabilità reciproche accusate dalle teorie/dottrine dell’educazione, la loro forma parenetica e precettistica, la difficoltà a rapportarsi con le pratiche reali di educazione e dunque ad incidere su di esse, l’imbarazzo a fronte del pluralismo culturale oggi prevalente.

           Ora, il ricorso alla razionalità criticista, nella misura in cui sostituisce il principio di ragion sufficiente - tipico del razionalismo classico - con il principio del controllo critico, consente di interpretare la questione giustificativa nei termini di   una scelta e di una decisione che avvengono nell’ambito della vita pratica di soggetti storici. Infatti, sulla base dell’interpretazione della conoscenza in termini di sapere congetturale, non neutrale ma axiologicamente compromesso (già in campo conoscitivo siamo noi che scegliamo i nostri problemi, privilegiamo talune soluzioni rispetto ad altre, in base a decisioni non esenti da implicazioni valutative) da una parte e sulla base della critica al platonismo naturalistico dei valori – il quale  trasferisce sul terreno conoscitivo il problema della decisione e opera una fusione linguistica (logica) di valori e fatti – dall’altra parte, il razionalismo critico può  affrontare la problematica generale dei valori - e quindi la questione della fondazione delle convinzioni etiche - reinterpretandola come problema dei rapporti tra conoscenza e decisione.

        Inoltre, una volta riconosciuto che  la conoscenza e la decisione non appartengono a “domini distanti senza contatti”[30], si rende possibile conciliare razionalità e impegno. Infatti,  il razionalismo critico “supera la neutralità del pensiero analitico”, anche se  “contrappone all’impegno totale delle problematiche teologiche e quasi-teologiche, e alle sue connotazioni antiliberali, un impegno critico per un pensiero razionale”[31].  Insomma: Popper si schiera contro la filosofia ‘descrittiva’ e disimpegnata, ma anche contro la filosofia dell’impegno totale, che pretende di essere guidato dalla verità.

 

         D’altronde,  la rinuncia a ricercare un punto archimedeo consente di sfuggire al monismo teorico – un pensare in alternativa risulta incompatibile con la fondazione – e dunque al dogmatismo e di aderire ad una teoria della conoscenza non contemplativa e non autoritaria,  che riconosce rilevanza al momento creativo ed alle  dimensioni sociologiche e politiche del pensiero. Questa teoria della conoscenza assume la metodologia del controllo critico. Metodologia che può venire applicata - in quanto alternativa generale alla concezione classica - alle convinzioni di tutti i tipi, anche alle concezioni normative e ai criteri valutativi; con ciò tra l’altro eliminando le antitesi di conoscenza e decisione, fatti e valori, credenze/ideologie e verità, giustificazione ed esecuzione ecc. che tradizionalmente affollano l’area di problematicità pedagogica. E’ possibile  in altre parole – è questa la tesi affermata dal razionalismo critico - discutere intorno a problemi di valore senza fare entrare in gioco la presa di posizione personale mediante l’introduzione di giudizi di valore individuali: nel senso che è possibile una pratica di discussione razionale che tenga conto dell’impossibilità di fondare conoscenze e decisioni - e quindi rinunci alla fondazione ed alla tensione verso la certezza – senza tuttavia escludere la critica e dunque la decisione razionale.

 

 

3) L’ambito della ricerca  

           In Miseria dello storicismo Popper  rileva che, mentre nelle scienze della natura domina ormai il nominalismo metodologico, nelle scienze sociali domina ancora l’essenzialismo. Dove per essenzialismo egli intende la dottrina, di ascendenza aristotelica, secondo cui la ricerca scientifica deve penetrare l’essenza delle cose per poterle spiegare e per nominalismo la tesi che la scienza deve limitarsi a descrivere il comportamento dei fenomeni.  (Mentre gli essenzialisti pongono domande quali ‘cos’è la materia?’, i nominalisti si chiedono ‘come si comporta questa porzione di materia?’). Superfluo rilevare che in pedagogia prevale l’essenzialismo. Ma quale la possibile alternativa?

          Assumere in pedagogia l’orientamento criticista significa in primo luogo, evidentemente, rinunciare alla pretesa di vedere tutto da tutti i lati  per ripiegare su forme di teorizzazione limitate e finite, restringendo la portata dell’intellezione ritenuta possibile ‘a misura d’uomo’. Significa, quindi, muoversi ed operare all’interno di situazioni problematiche reali: dove situazione problematica reale è, nel caso dell’educazione, quella che si istituisce intorno al fatto che ci sono uomini che pensano, parlano, agiscono, ricevono, progettano, criticano intorno a qualcosa che dicono educazione. Cosicché assumere quell’orientamento equivale, alla fine, a optare per una teorizzazione di tipo storico-empirico, che collochi il proprio oggetto di indagine in una dimensione euristica che consenta di coglierne la fenomenologia in un particolare contesto storico-geografico. Equivale, insomma, a scegliere di lavorare su problemi che sono nostri – cioè di individui finiti e situati (storicamente e geograficamente) – e dunque ad operare sulla pluralità delle esperienze locali, sulla molteplicità dei linguaggi determinati, sulla geografia delle diverse pratiche di educazione. Utilizzando insieme il principio di realtà – in quanto vincolo esperienziale e storico, condizionatezza culturale linguistica  geografica – e un principio di decisione – in quanto rispondente all’idea di educazione come azione umana propriamente intenzionale, messa in atto da soggetti determinati. 

 

4) Il metodo

        Il metodo suggerito dal razionalismo critico è il metodo dialettico, che tende alla scoperta e al superamento delle contraddizioni e richiede una situazione dialogica in cui possano esprimersi diversi interlocutori. E’ un metodo negativo perché non conduce ad una fondabilità positiva, ma alla confutabilità e quindi  solo ad una conferma provvisoria. Esso prescrive  di considerare le soluzioni pedagogiche che via via si presentano come ipotesi e di trattarle come tali, ovvero giudicarle criticabili indipendentemente dal fatto che vengano di fatto dogmatizzate.

          Dal punto di vista del pensiero critico e del fallibilismo il compito della teorizzazione  non è quello di fondare una qualche esperienza o norma, dogmatizzandola come trascendentale o in qualche modo costitutiva. Né di giustificare un qualche modello educativo, al fine di ancorarlo alla coscienza degli uomini e nei contesti sociali. Suo compito invece è quello di illuminare criticamente quell’esperienza, norma o modello, di metterne in evidenza i limiti e di sviluppare concezioni rilevanti per il suo eventuale miglioramento.

            Il metodo dialettico si applica, indifferentemente, a asserti fattuali e asserti normativi. I presupposti di valore sono infatti sempre uniti a conoscenze, dato che sono cresciuti insieme con convinzioni fattuali (osservazione, questa, di grande rilievo nel caso dell’oggetto-educazione). D’altronde è vero che da un asserto fattuale non si può inferire un giudizio di valore, ma nuove esperienze e nuove idee possono portarci a strutturare il nostro sistema cognitivo in un certo modo e, indirettamente, a modificare il nostro sistema di valori.

          A ciò provvedono quelli che Albert definisce ‘principi-ponte’ di carattere critico, i quali  colmano la distanza tra asserti normativi e asserti fattuali  (per es: il principio di realizzabilità  o quello di congruenza con le nostre conoscenze.). Nel senso che, attraverso l’impiego di principi-ponte, si possono individuare  nessi tra conoscenze e prese di posizione morali  che permettono di sottoporre a critica quelle prese di posizione.

           Degno di nota è che le utopie vengono, all’interno del metodo dialettico, rivalutate – come i pregiudizi e le metafisiche in ambito propriamente conoscitivo -,  in quanto esprimono desideri e disagi, costituiscono uno stimolo che conduce oltre l’ordine dato, esercitano una efficace critica nei confronti della realtà. Ma perché la loro azione sia feconda occorre una pluralità di teorie da sottoporre al criterio della falsificabilità. Va infatti evitata l’ipostatizzazione del loro carattere contemplativo: la conoscenza – e questo vale in special modo per il sapere pedagogico - si muove sempre tra costruzione e critica: è un tipo di prassi umana in cui devono essere prese delle decisioni. Ma in ogni caso il metodo dialettico esclude la critica radicale propria del pensiero utopico, che conduce alla necessità di una catastrofe purificatrice la quale preclude a sua volta  ad una costruzione futura. Il razionalismo critico impone infatti un’analisi alternativa realistica, cioè a dire l’elaborazione di concrete alternative realizzabili, che costituiscano delle possibilità reali.

          Gli ideali, infatti,  devono potersi tradurre in alternative concrete: si devono prospettare interventi in situazioni in qualche misura strutturate, nel senso che esistono condizioni limitative di cui una prassi realistica deve tenere conto.

          Per quanto riguarda infine il metodo della discussione razionale tra sostenitori di concezioni diverse, il principio del controllo critico assume una dimensione sociale e riveste un significato politico: dato che rinvia ad una dialettica reale e ad una impresa cooperativa. Poiché punti di vista differenti portano a soluzioni differenti, non si tratta di conseguire la verità o una soluzione definitiva, bensì una soluzione soddisfacente di problemi pratici. “Questo non significa che tutti devono condividere gli stessi valori ultimi o debbano proporsi le stesse mete supreme affinché sia raggiungibile un consenso praticamente efficace. Al contrario si verifica più spesso che certe soluzioni a problemi di questo tipo siano ritenute praticabili da persone con concezioni e interessi del tutto divergenti.”[32] Di qui la possibilità di costruire teorie (pedagogiche) di natura prussica e politica[33]

 

 

 

 

 



[1] G. Preti (a cura di), Filosofia, Milano 1966, pp.249-50.

[2] K.R. Popper, I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza, trad. it.,    Milano   1987, p.5.

[3] K.R. Popper, Congetture e confutazioni, trad. it., Bologna 1972 [1969], I, p.370.

[4] K.R. Popper, Scienza e filosofia, trad. it., Torino 1969 [1956-67],  p. 146.

[5] K.R. Popper, Congetture e confutazioni, cit., I, pp. 126-7.

[6] Ibidem.

[7] K.R. Popper, I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza, cit.,  p.XX.

[8] H. Albert, Per un razionalismo critico,  trad. it., Bologna  [1969], pp.17-8.

[9]  K.R. Popper, Congetture e confutazioni, cit., I, pp.164,327.

[10]  K.R. Popper, I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza, cit., p.50.

[11] K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, trad. it., Milano 1970 [1934], p.351),

[12] K.R. Popper, Congetture e confutazioni, I, cit,  p.393.

[13] K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, trad. it., Roma 1973 [1943],  II, p.501.

[14] K.R. Popper, Congetture e confutazioni, cit., I, pp.382-88. 

[15] Ibidem, p.393.

[16] K. R. Popper, Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, trad. it., Milano 1984  [1983],  p.57.

[17] J. Agassi, Epistemologia, metafisica e storia della scienza, trad. it., Roma 1978, p.52.

[18] K. R. Popper,  La società aperta e i suoi nemici, cit., I, p.19.

[19] K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, cit., pp.107-8.

[20] K.R. Popper, Miseria dello storicismo, trad. it.,  Milano 1975 [1957], p.75.

[21] K. R. Popper,  La società aperta e i suoi nemici, cit., I, pp.44-5.

[22] K.R. Popper, Congetture e confutazioni, cit.,, I, p.341)

[23] K. R. Popper,  La società aperta e i suoi nemici, cit., II p.304

[24] Ibidem, II, p.323.

[25] K. R. Popper,  La società aperta e i suoi nemici, cit., I, p.223.

[26] Ibidem, I, pp.222-3.

[27] Ibidem,  I, pp.92-3.

[28] Ibidem, I, pp.62-3.

[29]  K. R. Popper, Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, cit.,  I, p.35.

[30] H. Albert, Per un razionalismo critico, cit., p.12.

[31] Ibidem, p.14.

[32] H. Albert, Per un razionalismo critico, cit., p. 221-29.

[33] Cfr. E. Colicchi, Educazione libertà ragione, Pisa-Roma 1999, soprattutto il saggio  Una teoria politica per un’educazione laica, pp.85-93.