Enza Colicchi
RAZIONALISMO CRITICO
Nell’orientamento di pensiero che viene comunemente definito razionalismo critico è possibile fare rientrare autori e
indirizzi diversi. Infatti, se il termine razionalismo
ha da tempo assunto un significato estremamente ampio e generico – quello di
una prospettiva filosofica che fa semplicemente appello alla ragione (senza che
della ragione si specifichi la natura) – e se quindi non sorprende l’eterogeneità di accezioni e ascendenze teoriche
disparate che possono essere attribuite a quel termine, anche la storia del
razionalismo critico presenta una fisionomia quanto mai ricca e complessa. Il
razionalismo critico si alimenta di
molteplici e differenti riflessioni sorte in svariati campi di indagine e segna
i programmi di ricerca di studiosi anche molto distanti tra loro, quali Jean
Piaget e Gaston Bachelard, Giovanni Vailati e Federigo Enriques, Karl Popper e Hans Albert, Hilary Putnam,
Thomas Nagel e Bertrand Willams e, per quanto concerne il cosiddetto
neoilluminismo italiano, Antonio Banfi
e Nicola Abbagnano, Ludovico Geymonat
ed Eugenio Garin, Giulio Preti e
Norberto Bobbio.
In generale si può affermare che la
tradizione del razionalismo critico trova comunque in Kant un punto di
riferimento basilare (anche al di là dalla stessa consapevolezza dichiarata dei
vari autori), nella misura in cui assume il compito – squisitamente criticista
– di sviluppare positivamente una critica
della ragione. Cosicché si deve, con Preti, indicare nel problematicismo il tratto che
maggiormente distingue questo
orientamento di pensiero: per il razionalismo critico “la conoscenza è problema,
la dualità soggetto-oggetto è ineliminabile, e la ragione è per la sua stessa
struttura dialettica e antinomica: la verità
non è nell’impossibile soluzione delle antinomie della ragione, bensì nel
disporsi e nel muoversi, dei contenuti dell’esperienza, elaborati
dall’intelletto, entro le forme trascendentali-dialettiche della ragione: è
quindi piuttosto un limite, un ideale, un orizzonte infinito del sapere che non
una sua qualità determinata e definibile con un qualsiasi criterio materiale.”[1]
Opponendosi con forza alla tradizione del razionalismo classico - in tutte le
varianti della filosofia fondazionale -, i razionalisti critici assumono
insomma in senso positivo il compito di sviluppare una critica della
razionalità volta ad indagare il ruolo, la funzione, il significato e i limiti
del pensiero nella sua capacità di produrre conoscenze, di costruire orizzonti
di intelligibilità del mondo e di elaborare strutture di senso: la natura delle
funzioni razionali, la loro struttura e la loro configurazione storica
rappresentano cioè i principali problemi che il razionalismo critico ha
approfondito sistematicamente nei più svariati ambiti disciplinari.
Data la fisionomia quanto mai ricca e complessa della prospettiva
filosofica del razionalismo critico e data la inopportunità – oltre che
l’impossibilità - di tracciare un quadro storico delle sue vicende, in queste note mi limiterò a prendere in
considerazione il modello teorico elaborato da Popper e da Albert. Ciò
soprattutto in ragione del fatto che questo si offre come un quadro
adeguatamente strutturato e profilato,
dotato di una sua specifica omogeneità e organicità; e purtuttavia costituisce
un sistema ad ’ampio spettro’: perché è impegnato in poche (e chiaramente
esplicitate) tesi filosofiche ‘forti’ - peraltro in linea con le tendenze più significative e feconde della
temperie culturale contemporanea - e perché non è relativo unicamente ai
problemi della conoscenza, ma anche a tutti i
problemi in generale, compresi quelli
che investono la dimensione pratica
della razionalità umana. Siamo in presenza, insomma, di un modello in grado di sollecitarci ed aiutarci a
riconsiderare e a riformulare in profondità la nostra interpretazione della
realtà e dell’uomo, della conoscenza e dell’agire umani, della società e della
storia e, quindi, della stessa ricerca pedagogica.
Più in
particolare, il modello popperiano non solo attua una rottura radicale e argomentata con il razionalismo classico, con
l’essenzialismo ed il cognitivismo della tradizione occidentale – e quindi si
offre come luogo di risoluzione delle antitesi
che da tempo vincolano la riflessione pedagogica (scienza/filosofia,
conoscenza/azione, teoria/prassi, descrizione/costruzione, fatti/valori ecc.);
non solo opera il superamento netto e deciso della problematica della fondazione
– cosicché consente di sciogliere talune ardue
questioni che da sempre impegnano la ricerca teorica in pedagogia, rappresentando una valida alternativa e al
dogmatismo e allo scetticismo in cui inevitabilmente sfociano le problematiche
fondative -; ma fornisce altresì taluni orientamenti euristici e princìpi
metodologici rilevantissimi, utili ad essere presi in considerazione dalla
ricerca in educazione quali importanti direttive di svolgimento.
Nelle pagine che seguono mi limiterò a
richiamare sinteticamente i punti centrali della teoria della conoscenza
popperiana, mentre dedicherò maggiore spazio e attenzione al modello di
razionalità pratica (‘normativa’) che quella teoria produce in campo politico
ed etico, in quanto – è questa l’ipotesi che guida queste note – la
teorizzazione pedagogica può
convenientemente richiamarsi a quel modello ed utilizzarne taluni elementi
essenziali.
La teoria
della conoscenza
La
rilevanza della teoria della conoscenza di Popper risiede nel fatto che essa
risulta applicabile a pressoché tutti gli ambiti della prassi conoscitiva,
nell’avere cioè una portata per così dire ‘transdisciplinare’. Questo dipende
dal fatto che essa tematizza e descrive sia l’obbiettivo comune alla ricerca in quanto tale - che è quello di
progredire nella conoscenza – sia il metodo dei procedimenti conoscitivi –
secondo la scansione problemi/teorie/critiche. Come è noto, tale metodo si basa sul procedimento per tentativi ed errori – o congetture e confutazioni – ed assegna alla ricerca scientifica, che
prende avvio ogni qualvolta “si inciampa” in un problema, il duplice compito
di ideare una soluzione (una teoria) e di sottoporre a controllo quella
soluzione: ciò che sarà all’origine o dell’abbandono della teoria o del suo
mantenimento in nuovi contesti problematici.
Certamente la teoria della conoscenza elaborata da Popper è in primo
luogo una teoria della conoscenza scientifica e, poiché nella scienza il
procedimento attraverso cui viene fondata una qualsiasi proposizione è il metodo,
la teoria della conoscenza popperiana consiste in una teoria generale
del metodo della scienza empirica [2].
Senonché non solo l’analisi della
conoscenza scientifica costituisce, per Popper, un modo per studiare “la
conoscenza umana in generale”[3],
ma ciò che più conta è che il razionalismo critico popperiano assume una
connotazione particolarmente ampia e comprensiva in quanto riferisce alle pratiche di
soluzione dei problemi i n g
e n e r a l e, e non soltanto a
quelle dei problemi conoscitivi.
Popper,
infatti, ritiene che, poiché la scienza ha prodotto il metodo maggiormente
efficace e proficuo di accrescimento della conoscenza, è legittimo ipotizzare
che lo stesso metodo possa essere utilmente adottato nel campo delle
problematiche umane an sich.
Egli,
più in particolare, giudica le teorie metafisiche (sull’uomo, sulla storia,
sull’universo: cioè le antropologie filosofiche, le filosofie della storia, le
cosmologie filosofiche ecc.) teorie significative – e non già non-sensi, come i
neopositivisti -, cioè a dire teorie sensate e comprensibili, di cui non si può
non tenere conto. Non solo, infatti,
senza idee metafisiche (quali la credenza in una realtà esterna alla
mente e indipendente da essa o la
presunzione di un ordine immanente alla realtà stessa) la scienza non sarebbe
possibile, non solo quelle idee costituiscono la grande storia del pensiero
umano, ma esse rappresentano altresì le teorie umanamente e socialmente più
rilevanti, dato che è sulla loro base che gli uomini conducono la propria vita.
E sebbene esse non risultino falsificabili empiricamente, tuttavia è di regola
possibile procedere ad una discussione razionale di esse. In tale senso risulta
legittimo e opportuno attribuire alla ricerca scientifica un unico metodo, che
è quello che “sistematizza il metodo prescientifico dell’imparare dai nostri
errori; lo sistematizza grazie allo
strumento che si chiama discussione critica”.[4]
Ancora,
nell’Addendum a La società aperta e i suoi nemici, Popper afferma la possibilità
che, una volta che il metodo per tentativi ed errori e la procedura
della discussione razionale vengano estesi alla dimensione etico-politica, si
realizzi un ‘progresso’ della vita morale analogo a quello riscontrabile nella
sfera conoscitiva. Insomma: se la conoscenza è condizione di ogni agire
razionale (rispetto allo scopo) e se le procedure della conoscenza scientifica
rappresentano l’esito più elevato della conoscenza razionale prodotta
dall’uomo, il ricorso al metodo della
conoscenza scientifica consentirà di accedere anche nella sfera morale e
politica a forme di pensiero più
razionali e dunque più idonee al controllo di tale sfera.
La indeterminatezza e genericità del metodo proposto, di cui si diceva,
consente a Popper, peraltro, di
affermare che ciascuna ricerca deve utilizzare
parametri e prospettive valutative
messe a punto in stretto riferimento al genere di questioni
di volta in volta affrontate. Pur essendo, in altri termini, unico il
metodo sia nelle scienze sia nei saperi della cultura e nella filosofia, sono
invece molte sia le euristiche, le procedure di prova e le metodologie, sia le
fonti stesse della conoscenza (ragione, immaginazione, tradizione, intuizione),
dato che esse variano da disciplina a disciplina, da problema a problema. Per
quanto concerne in particolare la filosofia, poi, Popper nega che si dia un
metodo specifico, giacché “i problemi
filosofici genuini sono sempre radicati in urgenti problemi esterni alla
filosofia, e scompaiono se tali radici deperiscono. Nei loro sforzi volti a
risolvere detti problemi, i filosofi sono soggetti a inseguire quello che pare
un metodo, o una tecnica filosofica, ovvero una chiave infallibile per il successo
della filosofia. Ma metodi o tecniche siffatti
non esistono; in filosofia i metodi sono privi di importanza; qualsiasi metodo è legittimo se conduce
a risultati suscettibili di una discussione razionale.”[5]
Coerentemente Popper si dice critico nei confronti di tutte le filosofie
(hegelismo, fenomenologia, analisi linguistica) che teorizzano “una specie di
metodo per pervenire a conclusioni di natura filosofica”[6]
e sostiene che l’unico metodo razionale consiste nella formulazione chiara del
problema e nell’esame critico delle soluzioni che vengono proposte.
Come è
noto, la teoria della conoscenza popperiana si basa su tre principi, strettamente interdipendenti: il
fallibilismo, il razionalismo metodologico, il realismo critico.
La ricerca
di Popper consiste per un
verso in una attenta e articolata
critica delle concezioni non
fallibiliste della conoscenza, per altro verso nello sviluppo della
concezione fallibilista. Il fallibilismo
esprime l’idea che la conoscenza umana non è epistème, cioè sapere certo, e neppure téchne, cioè sapere meramente utile, bensì doxa, cioè a dire sapere congetturale, - che l’uomo è colui che
cerca la verità piuttosto che colui che la possiede - e va ricondotto al
riconoscimento della impossibilità di sostenere lo stretto legame tra verità e
certezza affermato dal razionalismo classico. Questo, infatti, sostiene che “la scienza è sapere; e il sapere implica
la certezza insieme con la giustificazione della certezza; implica
cioè la possibilità, empirica o
razionale, della fondazione”[7].
( Il modello classico, in altre parole mira “a conseguire la sicurezza che quanto è stato trovato è
anche vero, e una tale sicurezza appare ottenibile solo disponendo di un
fondamento per il nostro sapere, vale a dire fondando questo sapere in modo da
eliminare ogni dubbio.”[8]
Ma, sostiene Popper in Congetture e confutazioni, il
problema della fondazione – di come sia
possibile una conoscenza certa – è insolubile, cioè a dire è un ‘falso problema’[9] e “deve venire effettivamente abbandonato in
quanto privo di senso”[10].
Se la scienza risulta allora essere ‘un sistema di ipotesi’, “un sistema di
tentativi di indovinare, o di anticipazioni, che non possono essere
giustificati in linea di principio, ma con i quali lavoriamo fintanto che
superano i controlli, e dei quali non abbiamo mai il diritto di dire che
sappiamo che sono ‘veri’, o ‘più o meno certi’, o anche ‘probabili’”, e non più
‘un corpo di conoscenza’,[11]
i suoi esiti non sono tuttavia scettici: riconoscere il carattere congetturale
delle teorie scientifiche non equivale a negare che la scienza sia ricerca
della verità. La stessa nozione di fallibilità implica l’idea di verità, dato
che “è soltanto l’idea della verità che ci consente di parlare sensatamente di
errori”[12].
(D’altronde Popper sottopone al principio della fallibilità anche la
propria teoria della conoscenza: di questa non si può infatti asserire la
verità, ma solo argomentare razionalmente a favore: ”nulla è esente da critica,
[…] nulla deve essere considerato esente da critica: neppure questo stesso
principio del metodo critico”[13]).
Il
superamento sia del dogmatismo tipico del razionalismo classico, sia
dello scetticismo alternativo a quello,
conduce Popper ad una posizione di criticismo
che, pur riconoscendo
l’impossibilità di una giustificazione definitiva della conoscenza umana
e quindi la fallibilità della stessa, tuttavia non rinuncia alla tensione
conoscitiva. Popper afferma infatti che le
soluzioni dei problemi, sebbene non siano passibili di una
giustificazione definitiva, sono però suscettibili di vaglio critico, nel senso
che è possibile stabilire se e in quale misura esse vadano preferite ad altre
soluzioni e, quindi, procedere nella ricerca delle opportunità per migliorarle.
Noi impariamo dai nostri errori, in special modo da quelli che si manifestano
nella discussione critica dei nostri tentativi di soluzione. Di qui la connotazione critica della
ricerca, che non persegue verificazioni e prove definitive, ma prove cruciali
che possano confutare le teorie. Una
volta abbandonata la concezione tradizionale della razionalità come
giustificazione, Popper perviene insomma ad una interpretazione della
razionalità come critica, come
attività in grado di risolvere i problemi relativi alla preferenza razionale
tra teorie rivali e, quindi, di
determinare una crescita della conoscenza. Questa preferenza è esito della
discussione critica, nel senso che la teoria migliore è quella che
risulta meglio corroborata nella sua pretesa di risolvere i problemi in ordine
ai quali è stata elaborata, cioè a dire in grado di superare meglio i controlli
cui viene sottoposta.
Con
il realismo critico poi, pur affermando il carattere selettivo della conoscenza
(si accede solo a sezioni finite della
realtà), Popper sostiene un’idea regolativa della verità. Infatti si può
parlare di discussione critica delle teorie nei termini di ricerca degli errori solo in quanto si accoglie l’idea di verità in
quanto principio regolativo - la verità
come corrispondenza ai fatti - e, pur
dichiarando la inattingibilità della verità in quanto tale e dunque rinunciando
all’idea che si diano criteri di verità atti a stabilire la
verità di una teoria, tuttavia si affida alla nozione di verità una funzione
regolativa, di guida nelle pratiche conoscitive. Popper intende cioè la verità,
kantianamente, come un’idea della ragione, ovvero come un principio regolativo
irrinunciabile perché si possa assegnare un senso alla ricerca[14]
E’ solo in relazione alla “scoperta della verità”, egli scrive, “che possiamo
affermare come, pur essendo fallibili, speriamo di imparare dai nostri errori.
E’ soltanto l’idea della verità che ci consente di parlare sensatamente di
errori e di critica razionale, e rende possibile la discussione razionale, cioè
la discussione critica nella ricerca degli errori, con la seria intenzione di
eliminarne quanti più possiamo, al fine di avvicinarci alla verità.”[15]
La
discussione critica muove da un insieme di
premesse – da una
conoscenza di fondo – che viene
assunta come non problematica. Ma questi assunti di fondo non sono, come accade
nelle posizioni di Habermas e Apel relative all’argomentazione giustificativa,
degli a priori affatto indiscutibili.
Sono piuttosto elementi accettati in via ipotetica, che possono essere - per
sezioni limitate e in momenti successivi - criticati e rifiutati:
”L’argomentazione giustificativa, riconducendo a ragioni positive, raggiunge
infine ragioni che non possono esse stesse venire giustificate (altrimenti l’argomentazione
condurrebbe ad un regresso all’infinito). E il giustificazionista conclude di
solito che tali ‘presupposizioni ultime’ devono, in qualche senso, andare oltre
la possibilità dell’argomentazione, e che non possono essere criticate. Ma le
critiche, le ragioni critiche, offerte nel mio approccio non sono ultime in nessun senso; sono aperte anch’esse alla critica; sono congetturali. Si può
continuare ad esaminarle all’infinito; esse sono infinitamente aperte ad un
riesame e ad una considerazione. Tuttavia non si genera nessun regresso all’infinito: giacché non
esiste la questione di dimostrare o giustificare o stabilire qualcosa; e non
esiste il bisogno di una presupposizione ultima.
E’ solo l’esigenza di dimostrazione o giustificazione a generare un regresso
all’infinito, e a creare il bisogno di un termine ultimo della discussione.”[16]
Certamente, poiché la discussione critica non ha un termine ultimo, essa ha un
esito a seguito di una decisione relativa al fatto che le argomentazioni
critiche siano giudicate sufficienti a corroborare o respingere una teoria.
Tuttavia anche queste decisioni rientrano nel metodo critico e, in quanto tali,
sono sempre provvisorie e soggette a critica.
Dove,
allora, risulta chiaro come l’aggettivo critico
sia dunque rivolto contro l’arroganza del sapere e in special modo contro il
razionalismo classico e le sue pretese di fondazione.
La critica non serve infatti a giustificare un’asserzione, ma a migliorare un
sapere che è, per definizione, fallibile: essa serve ad eliminare gli errori
con il sottoporre le proposte di
correzione a verifiche rigorose.
Teoria della conoscenza e filosofia politica
Nella parte conclusiva di Miseria
dello storicismo Popper afferma l’unità procedurale del metodo scientifico,
sostenendo che anche le scienze sociali e storiche devono procedere attraverso
la elaborazione di ipotesi da sottoporre all’esame dell’esperienza e della
discussione critica. (Non a caso la scienza può a sua volta venire letta come
“un caso speciale di dialogo socratico in cui la critica è empirica”[17]).
La
tesi fallibilista vale infatti, per Popper, non solo a scongiurare la fede
dogmatica nell’autorità della scienza, ma si offre come un bene intellettuale e pratico in grado, grazie alla sua portata
antidogmatica e antiautoritaria, di garantire le basi della società libera,
pluralista e tollerante.
In
effetti, la società aperta risulta essere la conseguenza diretta, sul piano
politico-sociale, del razionalismo critico. Nella concezione popperiana, le istituzioni democratiche
rappresentano il corrispettivo, in campo comunitario, delle regole
metodologiche della scienza; nel senso che razionalità scientifica e democrazia
convergono quando si comprende che “solo la democrazia fornisce una struttura
istituzionale che permette… l’uso della ragione in campo politico”. [18] Infatti nella scienza, come nella politica:
1) si cerca di risolvere problemi; 2) sono necessarie ipotesi nuove da
sottoporre a critica e valutazione; 3) all’illusione di possedere la verità
definitiva da parte del dogmatico
corrisponde l’utopista, il quale crede di possedere la verità sulla società
perfetta; 4) le teorie scientifiche mutano e sono scientifiche se rispettano il
metodo scientifico; in politica mutano maggioranze/minoranze, leggi e programmi, ma vanno rispettate le regole
della democrazia.
Ora,
come si è visto, la scienza che Popper teorizza, pur costituendo il luogo
maggiormente evoluto della conoscenza umana, è affatto congetturale – è simile
a “un edificio costruito su palafitte”[19]
- e non assicura il possesso della verità. Inoltre essa non ha indicazioni da
dare riguardo ai problemi metafisici ed esistenziali: non fornisce certezze né
criteri di senso e di valore. Piuttosto essa indica alla ricerca in campo
etico-politico taluni rilevantissimi princìpi metodologici. Insomma: la società
e la politica non derivano dalla scienza le proprie scelte o la determinazione
dei propri mezzi, bensì il metodo:
non viene prospettata una politica che
si serve delle scienze e neppure una politica che attinge i propri contenuti e
norme da una qualche scienza, bensì una
politica come scienza, nel senso che l’azione politica e l’attività di
organizzazione istituzionale della società divengono scientifiche in quanto
utilizzano lo stesso metodo della scienza.
Quella di
Popper è, in altri termini, una concezione che è possibile definire come riduzionismo metodologico. La teoria
della società aperta riguarda esclusivamente le regole formali della società democratica e non già i suoi
contenuti, che si configurano come l’esito di libere scelte politiche entro il quadro istituzionale costituito da
quelle regole: è il quadro generale e complessivo delle norme procedurali che
adegua e ricalca il metodo scientifico,
non le ipotesi che di volta in volta possono essere giudicate buone in
relazione a determinati problemi. In
breve: l’utilizzazione del modello della società aperta non vale – né ambisce – a fornire risposte su che
cosa si debba effettivamente fare: tali risposte sono in ogni caso oggetto
della libera scelta dei soggetti politici.
Sono
essenzialmente due gli elementi della
concezione popperiana che risultano rilevanti e decisivi allorché vengono
applicati all’area di problematicità socio-politica: la tesi della natura congetturale delle teorie e il
principio di falsificazione.
Risulta immediatamente evidente che, una volta stabilito che il metodo
delle congetture e confutazioni è il metodo della scienza, la società aperta costituisce l’esito
necessario dell’applicazione del metodo scientifico alla organizzazione della
società e alla politica. Infatti, così come non esiste una teoria assolutamente
e definitivamente vera, non esiste una società perfetta; così come la scienza
produce teorie migliori, ma mai definitivamente vere, allo stesso modo la
società può progredire secondo forme migliori, ma mai definitivamente perfette.
La società chiusa si distingue dalla società aperta non solo perché si
definisce e si organizza in termini religiosi e tribali, ma anche perché si
fonda su un uso assolutistico e
dogmatico della ragione, laddove la società aperta si affida ad un uso critico
della ragione che non garantisce certezze. Obbiettivo critico di Popper è, come
è noto, lo storicismo, che egli condanna in quanto holistico ed
essenzialistico. Lo storicismo pretende infatti di potere conoscere la storia e
la società come un tutto organico: “Lo storicismo si occupa dello sviluppo
della società come ‘un tutto unico’ e
non dello sviluppo di particolari aspetti di essa”.[20]
Ma, essendo la conoscenza scientifica limitata e selettiva, ad essa non risulta
accessibile la totalità, cosicché ogni tentativo di pianificazione totale della
società o di “meccanica sociale utopistica” è votato al fallimento.
Da tutto ciò consegue che il modello
politico popperiano non ammette – perché non sono razionalmente prospettabili -
interventi politici radicali, in grado
di risolvere tutti i problemi della
società, ma solo interventi parziali che, in via affatto ipotetica, tentano di
dare soluzione a questioni limitate e circoscritte; di qui l’esclusione di
interventi holistici e rivoluzionari e l’opzione per una ingegneria
sociale gradualistica in opposizione
all’ingegneria sociale utopica[21]. Il metodo scientifico, negando la
possibilità di un sapere esaustivo e assolutamente certo, vale insomma a decretare sia la impossibilità di
determinare e definire fini e modelli assoluti, sia la irrazionalità di
qualsiasi forma di gnosticismo e utopismo, cosicché esso condanna ogni
approccio utopistico e holistico ai problemi sociali e dunque qualsiasi
progetto di mutamento totale e radicale dell’ordine esistente come espressione
di una ragione onnipotente e violenta. L’utopia,
che si basa su una interpretazione della scienza come sapere certo, necessario
e infallibile, risulta in tanto incompatibile con il metodo scientifico.
D’altronde, come aveva già chiaramente inteso Kant, l’ordine statico e
definitivo auspicato dalla ragione utopica,
in quanto portatore di un’idea religiosa della verità, si rivela antinomico rispetto alle istanze
della libertà umana.
Si comprende allora per
quali ragioni il modello popperiano di
razionalità rifiuti il monismo axiologico a favore del politeismo dei valori.
In assenza di un sapere certo dei fini e dei valori e in conseguenza della
fallibilità della ragione umana, non solo va infatti accolta e salvaguardata la
coesistenza di una pluralità di codici
morali e di modelli di vita, ma la
competizione tra i programmi metafisici di ricerca va favorita e incrementata allo stesso modo in cui, in ambito
scientifico, va sollecitata e
assicurata la concorrenza tra le teorie; cosicché i programmi politici e le istituzioni sociali devono essere
continuamente criticate ed eventualmente
ridisegnate alla luce delle nuove acquisizioni ed esigenze che si
manifestano. Risultando insomma, nella società aperta, prioritario il controllo piuttosto
che il fondamento dell’autorità, il pluralismo politico viene, per così
dire, istituzionalizzato e il momento
del dissenso viene privilegiato rispetto al momento del consenso. Qui la
critica si rivolge contro ogni forma di
autorità morale: la società aperta è pluralistica, dato che rifiuta il
fondamentalismo e si basa sull’elogio del politeismo e della tolleranza.
D’altronde, pur non essendo empiricamente confutabili, le teorie
filosofiche sono criticabili nella
misura in cui è possibile stabilirne la capacità di risoluzione dei problemi
sul tappeto e la eventuale incompatibilità con altre teorie indispensabili per
risolvere altri problemi. Infatti, scrive Popper, possiamo valutare una teoria
filosofica chiedendoci: “Risolve essa il problema? Lo risolve meglio di altre
teorie? Si è forse limitata a spostarlo? La soluzione è semplice? E’ feconda? Contraddice
forse ad altre teorie filosofiche necessarie alla soluzione di altri problemi?”[22]
Certamente, potrebbe a questo proposito venire paventato il rischio
dell’anarchia sociale, nel senso che così come il razionalismo critico può
ritenersi esposto ad una degenerazione nell’anarchismo metodologico (à la Feyerabend), il dissenso
sistematico e distruttivo può essere visto come esito della società aperta.
Senonché si deve rispondere che il modello popperiano è in grado di
scongiurareun tale esito. Infatti, così
come in ambito scientifico la competizione tra teorie non è fine a se stessa,
ma è funzionale alla sostituzione di una teoria passibile di critica con una
teoria migliore, allo stesso modo in ambito socio-politico la critica e il
dissenso sono diretti a promuovere quei cambiamenti (gradualistici) atti a risolvere più efficacemente i
problemi e dunque a conquistare un consenso più ampio. Non solo insomma il
consenso rimane garanzia della stabilità della società aperta, ma esso è
espressione della bontà di un programma politico: allo stesso modo in cui
l’accettazione da parte della comunità dei ricercatori di una teoria
scientifica è indice della sua validità.
Il razionalismo critico può allora
essere interpretato, nella sostanza, come
una teoria normativa, la quale prescrive una serie di imperativi metodologici
volti a massimizzare il grado di razionalità delle pratiche umane, conoscitive
e non conoscitive.
Va
infine sottolineato come l’opzione a favore del razionalismo critico, come
anche la scelta a favore della società aperta, si basano su quella che Popper
stesso definisce una “fede irrazionale nella ragione”[23].
Il razionalismo critico, a differenza del razionalismo acritico - rispetto a
cui anche l’irrazionalismo appare logicamente superiore –, non pretende infatti
di essere autosufficiente, ma riconosce la propria origine in una decisione
irrazionale. “Il problema non può essere quello della scelta tra conoscenza e
fede, ma soltanto fra due generi di fede. Il nuovo problema è: qual è la fede
giusta e qual è la fede sbagliata?”[24]
L’immagine dell’uomo e l’etica
Alla
base del modello della società aperta – così come della strategia sociale
gradualistica - non c’è, come si è detto,
alcuna idea o presupposto relativamente alle tendenze storiche o al
destino o alle finalità delle vicende umane. E pur tuttavia si trova una
precisa concezione dell’uomo: che è quella di un essere libero e responsabile,
capace di conoscere, di scegliere, di decidere e di agire, portato a ricercare,
ad esplorare, a risolvere problemi. (Non a caso a questa immagine dell’uomo
corrisponde l’assunzione dichiarata del principio dell’individualismo metodologico, principio secondo il quale solo gli individui possono agire). Si tratta di un essere padrone della propria vita e del proprio
destino, capace di incidere sulla storia secondo i propri scopi e le proprie
scelte, che si impegna nell’”individuare ( e … combattere contro) i più gravi e
più urgenti mali della società, invece di cercare (e di battersi per) il suo
più grande bene ultimo” [25],
dato che ciò cui la vita lo sollecita non è la felicità (“perché non ci sono
mezzi istituzionali atti a rendere un uomo felice, quanto l’esigenza di non
essere resa infelice, nei casi in cui l’infelicità può essere evitata”[26]).
Inoltre, a differenza del razionalismo classico, il razionalismo critico non
indica nell’uomo un essere
integralmente e compiutamente razionale, ma riconosce nei suoi comportamenti
conoscitivi e pratici la presenza significativa di elementi non logici. Da tale
antropologia discendono una serie di ipotesi su ciò che l’uomo e la ragione umana devono essere: deriva insomma
una precisa axiologia.
Vediamo la questione più da vicino. La legge di Hume – che Popper sottoscrive
ed anzi utilizza ampiamente – stabilisce l’impossibilità logica di derivare i
giudizi-di-valore dai giudizi-di-fatto, gli asserti prescrittivi dalle
proposizioni descrittive e quindi vieta
di trasferire i contenuti della conoscenza scientifica alla sfera
etico-politica. Popper non solo
distingue nettamente i fatti dalle norme, ma è fortemente avverso ad ogni
forma di riduzione delle norme ai fatti (psicologici, sociali, storici),
ovvero delle leggi normative alle leggi
naturali; cosicché nega decisamente la
possibilità di una scienza dei valori e dei fini: l’etica, infatti, non
descrive bensì prescrive, non spiega bensì valuta.
Indicando nell’antica Sofistica
(Protagora) la prima distinzione tra natura e convenzione e, quindi, tra leggi
naturali e leggi normative, egli rileva come
le prime ”sono inalterabili, non possono essere né violate né imposte” e
“sono al di là del controllo umano”, mentre
le seconde sono alterabili e presuppongono la libertà dell’uomo di
accettarle o di negarle. Una legge normativa può infatti “essere giudicata
buona o cattiva, giusta o ingiusta, accettabile o inaccettabile.”[27]
E questo al di là del fatto che di essa si
affermi una origine storica o la
arbitrarietà: che si sostenga che è stata scoperta o inventata.
(Sulla distinzione tra norme e fatti poggia d’altronde la distinzione
popperiana tra società chiusa e società aperta, dato che nella prima le norme
sono concepite come dotate dello stesso statuto delle leggi di natura,
immutabili e intangibili; nella seconda gli uomini, divenuti consapevoli di se
stessi e del piano storico-culturale della propria vita collettiva, sanno di
potere modificare le proprie leggi, cosicché acquisiscono la responsabilità di
esse: “le norme e le leggi normative possono
essere fatte e cambiate dall’uomo” e “l’uomo è moralmente responsabile nei
confronti… delle norme cui è disposto a sottoporsi una volta che egli abbia
scoperto di poter fare qualcosa per modificarle”[28]).
Rifiutando qualsiasi forma di riduzione delle norme ai fatti (sociali,
storici, psicologici), delle leggi normative alle leggi naturali, Popper
accoglie dunque l’idea, di ascendenza kantiana, dell’autonomia della morale;
idea che riafferma peraltro allorché sostiene che né la storia
del genere umano né la vita personale dei singoli hanno di per sé un senso a
prescindere dal nostro impegno morale a conferire loro un senso. Se,
insomma, già nella Logica della scoperta scientifica, Popper prende le distanze dalla epistemologia neopositivistica e
assegna una funzione di tutto rilievo al soggetto
conoscente, in maniera analoga afferma la centralità del ruolo del soggetto
come soggetto morale.
Ora, la autonomia della morale, basandosi sul
non-cognitivismo etico, consiste nel disconoscere come fondamento dell’etica
gli imperativi provenienti da autorità quali la natura, la storia, Dio, gli
organi di potere e nell’assegnare all’uomo il compito e dunque la
responsabilità di giudicare criticamente e di decidere se obbedire o meno a
quegli imperativi. La responsabilità delle nostre decisioni etiche – scrive
Popper – è interamente nostra e non può essere fatta ricadere su nessun altro:
né su Dio, né sulla natura, né sulla società, né sulla storia.”
Senonché questo non significa dovere ripiegare su posizioni scettiche,
cioè a dire prospettare il rischio di scetticismo morale che è sotteso dalla
sfiducia nell’uomo e nelle sue possibilità. Se l’etica non è una scienza, ciò
non equivale a riconoscere che la ragione è ad essa estranea. Tutt’altro: la
ragione in campo etico può fare moltissimo. Essa può esaminare e stabilire i
mezzi più efficaci per raggiungere gli scopi perseguiti, o può farci
comprendere come certi fini siano irrealizzabili; può mostrarci come la realizzazione di un valore può compromettere
il raggiungimento di un altro valore, o può prospettare un maggior numero di
soluzioni ad un problema etico; può renderci maggiormente responsabili
chiarendo le conseguenze delle nostre scelte, o può mostrarci come all’etica
dell’intenzione va spesso accompagnata un’etica della responsabilità; può,
soprattutto, eliminare quei conflitti che dipendono da disaccordi nelle
credenze. In breve: la ragione vale a dimostrare come l’etica non è un sapere,
come i suoi valori non sono teoremi ma proposte di vita, ideali di
comportamento: oggetti delle nostre scelte, sfide alla nostra iniziativa e al
nostro coraggio o alla nostra rinuncia ed ignavia. Le proposte etiche, insomma, non si fondano né si confutano: si
accettano o si respingono sulla base della libertà di coscienza di ciascuno.
D’altra parte, poiché vivere equivale a risolvere problemi, e poiché la soluzione di problemi esige
molteplici proposte di soluzione e critiche accurate, risulta chiaro che, data
la nostra ignoranza e fallibilità, tutti devono essere liberi di avanzare
proposte e muovere critiche e che solo la discussione può consentire di
pervenire a soluzioni razionali dei problemi che via via sorgono. Ma risulta
evidente anche la necessità della società aperta, la
quale sola può consentire un’etica
umanistica.
Note
conclusive
Sulla
base di quanto del razionalismo critico popperiano si è fin qui richiamato, è
possibile enucleare una costellazione di principi, criteri e indicazioni che sono in grado di sollecitare e suggerire
nuovi orientamenti alla ricerca
pedagogica, o, quantomeno, meritano di venire considerati, discussi e valutati
in relazione a quella.
Mi
limiterò a citarne, sinteticamente, alcuni.
1) Centralità
dei problemi
La
posizione popperiana sollecita due considerazioni. a) Nella storia del sapere
educativo appare, macroscopica, la tendenza a totalizzare, l’impazienza a
produrre sistemi compiuti, la propensione a raggiungere rapidamente sintesi
esaustive. Tendenza che trova motivazione nel carattere pratico del sapere
dell’educazione - tradizionalmente
indirizzato al controllo, alla razionalizzazione, alla direzione e
trasformazione-progettazione consapevole dei processi educativi - e che è alla
base sia dell’impegno prevalente del discorso pedagogico nel produrre risposte, sia della forma
teorico-discorsiva che lo caratterizza: finalizzata più a generare assenso, a
suggerire prese di posizione, ad influire su credenze, atteggiamenti, pratiche,
anziché a promuovere programmi di ricerca effettivi, cioè a curare l’opera
primaria della teorizzazione, che è quella di formulare buone domande. D’altronde troppo spesso la ricerca pedagogica si
riduce all’applicazione di sistemi
teorici d’altra natura alle tematiche educative, cosicché non solo il sistema teorico
utilizzato manca la sua funzione di ipotesi euristica finalizzata a risolvere
una situazione problematica che quell’ipotesi mette alla prova, sollevando
quesiti nuovi che richiedono soluzioni nuove; ma viene inibito un contatto
adeguato, euristicamente fecondo, con l’oggetto di indagine.
b) Allorché
Popper pone al centro della ricerca i problemi e l’esigenza di risolverli,
sottrae rilevanza alla nozione di disciplina.
Alla disciplina, infatti, egli assegna lo status di semplice “unità
amministrativa”.[29] Ora, la
posizione popperiana induce a guardare con cautela alla tesi disciplinaristica che, da qualche tempo,
viene affermata in pedagogia e che concretamente si manifesta, tra l’altro,
negli studi sul discorso pedagogico o sulla metateoria o sul linguaggio
pedagogico, dove tende ad assumere significanza epistemologica (normativa) e
non semplicemente storico-filologica. Insomma: sostenere e rivendicare tout-court la specificità disciplinare
della pedagogia (ovvero supporre come già data o disponibile la sua identità e
consistenza – in termini di oggetto, linguaggio concettuale e logico,
metodologia euristica -), mentre risponde a preoccupazioni e istanze
storicamente legittime e rilevanti (legate ai fenomeni della espropriazione,
della minorità teorica, della inefficienza pratica, delle difficoltà di ruolo
istituzionale ecc., che gravano sul discorso dell’educazione), rischia tuttavia
di ostacolare una reale riorganizzazione razionale della ricerca e quindi del
sapere educativo: nel senso che può provocare un pregiudiziale arroccamento su
posizioni per molti aspetti logore e consunte. A fronte dell’interpretazione
disciplinare della specificità del discorso educativo – che inevitabilmente ne
sacrifica la determinazione come ricerca
– si profila cioè l’opportunità di intendere la specificità come qualcosa da
rivendicare e perseguire nell’ordine
degli oggetti-problemi intorno a cui si costituisce, o si dimostra
opportuno che si costituisca, il sapere pedagogico; non già dunque
tematizzazione epistemologica di un sapere in qualche modo definito, ma
delineazione progressiva di problemi specifici
che richiedono la elaborazione di un sapere specifico: pena la loro mancata
copertura teorica e risoluzione pratica.
2)
Superamento dell’idea di fondazione a favore del controllo critico
Come
si è ricordato, la critica serrata condotta da Popper nei confronti del
razionalismo classico investe la teoria
della conoscenza di tipo fondazionale. Questa,
perseguendo un ideale di sapere palese, ultimo e conclusivo, si chiede
quali teorie sono vere, cioè a dire come possiamo fondare una teoria (il postulato della metodologia classica del
pensiero razionale impone: “cerca sempre un fondamento sufficiente per le tue
convinzioni”). Senonché le procedure fondazionali, sostengono Popper e
Albert, non solo negano qualsiasi
progresso conoscitivo, ma, soprattutto, confondono verità e certezza: per
chi ha di mira la certezza, infatti, la riconduzione di tutte le convinzioni,
conoscitive e normative, a fondamenti sicuri si presenta come un requisito
ovvio e irrinunciabile. E però è possibile assumere delle certezze solo
“immunizzando con la dogmatizzazione” certe convinzioni contro critiche
eventuali.
Ebbene, il discorso pedagogico,
come mostra la sua storia, si è
prevalentemente svolto entro il paradigma del razionalismo classico e i
procedimenti adottati per accreditare, mostrandone
la verità, le soluzioni di volta in volta avanzate in ordine al definire e
prescrivere l’educazione - le risposte che ciascuna pedagogia ha dato alle
domande ‘che cos’è l’educazione?’ e ‘che cosa dobbiamo fare per educare?’ –
hanno riguardato i fondamenti. Senonché è alla determinazione
razionalistico-fondazionale della pedagogia che vanno imputate le notevoli difficoltà teorico-pratiche che ne hanno
segnato la tradizione ed ancora oggi ne compromettono il ruolo: la condizione
di perenne ancillarità nei confronti di saperi altri, l’incompatibilità e
incommensurabilità reciproche accusate dalle teorie/dottrine dell’educazione,
la loro forma parenetica e precettistica, la difficoltà a rapportarsi con le
pratiche reali di educazione e dunque ad incidere su di esse, l’imbarazzo a
fronte del pluralismo culturale oggi prevalente.
Ora,
il ricorso alla razionalità criticista, nella misura in cui sostituisce il
principio di ragion sufficiente - tipico del razionalismo classico - con il
principio del controllo critico, consente di interpretare la questione
giustificativa nei termini di una scelta e di una decisione che avvengono
nell’ambito della vita pratica di soggetti storici. Infatti, sulla base
dell’interpretazione della conoscenza in termini di sapere congetturale, non
neutrale ma axiologicamente compromesso (già in campo conoscitivo siamo noi che
scegliamo i nostri problemi, privilegiamo talune soluzioni rispetto ad altre,
in base a decisioni non esenti da implicazioni valutative) da una parte e sulla
base della critica al platonismo naturalistico dei valori – il quale trasferisce sul terreno conoscitivo il
problema della decisione e opera una fusione linguistica (logica) di valori e
fatti – dall’altra parte, il razionalismo critico può affrontare la problematica generale dei valori - e quindi la questione della fondazione delle convinzioni
etiche - reinterpretandola come problema
dei rapporti tra conoscenza e decisione.
Inoltre, una volta riconosciuto che
la conoscenza e la decisione non appartengono a “domini distanti senza
contatti”[30], si rende
possibile conciliare razionalità e impegno.
Infatti, il razionalismo critico
“supera la neutralità del pensiero analitico”, anche se “contrappone all’impegno totale delle
problematiche teologiche e quasi-teologiche, e alle sue connotazioni
antiliberali, un impegno critico per un pensiero razionale”[31]. Insomma: Popper si schiera contro la
filosofia ‘descrittiva’ e disimpegnata, ma anche contro la filosofia
dell’impegno totale, che pretende di essere guidato dalla verità.
D’altronde, la rinuncia a
ricercare un punto archimedeo consente di sfuggire al monismo teorico – un
pensare in alternativa risulta incompatibile con la fondazione – e dunque al
dogmatismo e di aderire ad una teoria della conoscenza non contemplativa e non
autoritaria, che riconosce rilevanza al
momento creativo ed alle dimensioni
sociologiche e politiche del pensiero. Questa teoria della conoscenza assume la
metodologia del controllo critico. Metodologia
che può venire applicata - in quanto alternativa generale alla concezione classica - alle convinzioni di tutti i
tipi, anche alle concezioni normative e ai criteri valutativi; con ciò tra
l’altro eliminando le antitesi di conoscenza e decisione, fatti e valori,
credenze/ideologie e verità, giustificazione ed esecuzione ecc. che
tradizionalmente affollano l’area di problematicità pedagogica. E’ possibile in altre parole – è questa la tesi affermata
dal razionalismo critico - discutere intorno a problemi di valore senza fare
entrare in gioco la presa di posizione personale mediante l’introduzione di
giudizi di valore individuali: nel senso che è possibile una pratica di
discussione razionale che tenga conto dell’impossibilità di fondare conoscenze
e decisioni - e quindi rinunci alla fondazione ed alla tensione verso la
certezza – senza tuttavia escludere la critica e dunque la decisione razionale.
3) L’ambito
della ricerca
In Miseria dello storicismo Popper rileva che, mentre nelle scienze della
natura domina ormai il nominalismo metodologico, nelle scienze sociali domina
ancora l’essenzialismo. Dove per essenzialismo egli intende la dottrina, di
ascendenza aristotelica, secondo cui la ricerca scientifica deve penetrare
l’essenza delle cose per poterle spiegare e per nominalismo la tesi che la
scienza deve limitarsi a descrivere il comportamento dei fenomeni. (Mentre gli essenzialisti pongono domande
quali ‘cos’è la materia?’, i nominalisti si chiedono ‘come si comporta questa
porzione di materia?’). Superfluo rilevare che in pedagogia prevale
l’essenzialismo. Ma quale la possibile alternativa?
Assumere in pedagogia l’orientamento criticista significa in primo
luogo, evidentemente, rinunciare alla pretesa di vedere tutto da tutti i lati
per ripiegare su forme di teorizzazione limitate e finite, restringendo
la portata dell’intellezione ritenuta possibile ‘a misura d’uomo’. Significa,
quindi, muoversi ed operare all’interno di situazioni
problematiche reali: dove situazione problematica reale è, nel caso
dell’educazione, quella che si istituisce intorno al fatto che ci sono uomini
che pensano, parlano, agiscono, ricevono, progettano, criticano intorno a qualcosa che dicono educazione. Cosicché
assumere quell’orientamento equivale, alla fine, a optare per una teorizzazione
di tipo storico-empirico, che collochi il proprio oggetto di indagine in una
dimensione euristica che consenta di coglierne la fenomenologia in un
particolare contesto storico-geografico. Equivale, insomma, a scegliere di
lavorare su problemi che sono nostri
– cioè di individui finiti e situati (storicamente e geograficamente) – e
dunque ad operare sulla pluralità delle esperienze locali, sulla molteplicità
dei linguaggi determinati, sulla geografia delle diverse pratiche di
educazione. Utilizzando insieme il principio di realtà – in quanto vincolo
esperienziale e storico, condizionatezza culturale linguistica geografica – e un principio di decisione –
in quanto rispondente all’idea di educazione come azione umana propriamente
intenzionale, messa in atto da soggetti determinati.
4) Il metodo
Il metodo suggerito dal razionalismo critico
è il metodo dialettico, che tende
alla scoperta e al superamento delle contraddizioni e richiede una situazione
dialogica in cui possano esprimersi diversi interlocutori. E’ un metodo
negativo perché non conduce ad una fondabilità positiva, ma alla confutabilità
e quindi solo ad una conferma
provvisoria. Esso prescrive di
considerare le soluzioni pedagogiche che via via si presentano come ipotesi e
di trattarle come tali, ovvero giudicarle criticabili indipendentemente dal
fatto che vengano di fatto dogmatizzate.
Dal punto di vista del pensiero critico e
del fallibilismo il compito della teorizzazione non è quello di fondare
una qualche esperienza o norma, dogmatizzandola come trascendentale o in
qualche modo costitutiva. Né di giustificare un qualche modello educativo, al
fine di ancorarlo alla coscienza degli uomini e nei contesti sociali. Suo
compito invece è quello di illuminare criticamente quell’esperienza, norma o
modello, di metterne in evidenza i limiti e di sviluppare concezioni rilevanti
per il suo eventuale miglioramento.
Il
metodo dialettico si applica, indifferentemente, a asserti fattuali e asserti
normativi. I presupposti di valore sono infatti sempre uniti a conoscenze, dato
che sono cresciuti insieme con convinzioni fattuali (osservazione, questa, di grande rilievo nel caso
dell’oggetto-educazione). D’altronde è vero che da un asserto fattuale non
si può inferire un giudizio di valore, ma nuove esperienze e nuove idee possono
portarci a strutturare il nostro sistema cognitivo in un certo modo e,
indirettamente, a modificare il nostro sistema di valori.
A ciò
provvedono quelli che Albert definisce ‘principi-ponte’ di carattere critico, i
quali colmano la distanza tra asserti
normativi e asserti fattuali (per es: il principio di realizzabilità o quello di congruenza con le nostre
conoscenze.). Nel senso che, attraverso l’impiego di principi-ponte, si possono
individuare nessi tra conoscenze e prese
di posizione morali che permettono di
sottoporre a critica quelle prese di posizione.
Degno di nota è che le utopie
vengono, all’interno del metodo dialettico, rivalutate – come i pregiudizi e le
metafisiche in ambito propriamente conoscitivo -, in quanto esprimono desideri e disagi, costituiscono uno stimolo
che conduce oltre l’ordine dato, esercitano una efficace critica nei confronti
della realtà. Ma perché la loro azione sia feconda occorre una pluralità di
teorie da sottoporre al criterio della falsificabilità. Va infatti evitata
l’ipostatizzazione del loro carattere contemplativo: la conoscenza – e questo vale in special modo per il sapere
pedagogico - si muove sempre tra costruzione
e critica: è un tipo di prassi umana
in cui devono essere prese delle decisioni. Ma in ogni caso il metodo
dialettico esclude la critica radicale propria del pensiero utopico, che
conduce alla necessità di una catastrofe purificatrice la quale preclude a sua
volta ad una costruzione futura. Il
razionalismo critico impone infatti un’analisi alternativa realistica, cioè a
dire l’elaborazione di concrete alternative realizzabili, che costituiscano
delle possibilità reali.
Gli
ideali, infatti, devono potersi
tradurre in alternative concrete: si devono prospettare interventi in
situazioni in qualche misura strutturate, nel senso che esistono condizioni
limitative di cui una prassi realistica deve tenere conto.
Per
quanto riguarda infine il metodo della discussione razionale tra sostenitori di
concezioni diverse, il principio del controllo critico assume una dimensione sociale
e riveste un significato politico: dato che rinvia ad una dialettica reale e ad
una impresa cooperativa. Poiché punti di vista differenti portano a soluzioni
differenti, non si tratta di conseguire la verità o una soluzione definitiva,
bensì una soluzione soddisfacente di problemi pratici. “Questo non significa
che tutti devono condividere gli stessi valori ultimi o debbano proporsi le
stesse mete supreme affinché sia raggiungibile un consenso praticamente
efficace. Al contrario si verifica più spesso che certe soluzioni a problemi di
questo tipo siano ritenute praticabili da persone con concezioni e interessi
del tutto divergenti.”[32]
Di qui la possibilità di costruire teorie (pedagogiche) di natura prussica e
politica[33]
[1] G. Preti (a cura di), Filosofia, Milano 1966, pp.249-50.
[2] K.R. Popper, I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza, trad. it., Milano 1987, p.5.
[3] K.R. Popper, Congetture e confutazioni, trad. it., Bologna 1972 [1969], I, p.370.
[4] K.R. Popper, Scienza e filosofia, trad. it., Torino
1969 [1956-67], p. 146.
[5] K.R. Popper, Congetture e confutazioni, cit., I, pp.
126-7.
[6] Ibidem.
[7] K.R. Popper, I due problemi fondamentali della teoria
della conoscenza, cit., p.XX.
[8] H. Albert, Per un razionalismo critico, trad. it., Bologna [1969], pp.17-8.
[9] K.R. Popper, Congetture e
confutazioni, cit., I, pp.164,327.
[10] K.R. Popper, I due problemi
fondamentali della teoria della conoscenza, cit., p.50.
[11] K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, trad.
it., Milano 1970 [1934], p.351),
[12] K.R. Popper, Congetture e confutazioni, I, cit, p.393.
[13] K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, trad. it., Roma 1973 [1943], II, p.501.
[14] K.R. Popper, Congetture e confutazioni, cit., I, pp.382-88.
[15] Ibidem, p.393.
[16] K. R. Popper, Poscritto alla Logica della scoperta
scientifica, trad. it., Milano 1984
[1983], p.57.
[17] J. Agassi, Epistemologia, metafisica e storia della scienza, trad. it., Roma 1978, p.52.
[18] K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, cit., I, p.19.
[19] K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, cit., pp.107-8.
[20] K.R. Popper, Miseria dello storicismo, trad.
it., Milano 1975 [1957], p.75.
[21]
K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, cit., I, pp.44-5.
[22] K.R. Popper, Congetture e confutazioni, cit.,, I,
p.341)
[23] K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, cit., II p.304
[24] Ibidem, II, p.323.
[25]
K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, cit., I, p.223.
[26] Ibidem, I, pp.222-3.
[27] Ibidem, I, pp.92-3.
[28] Ibidem, I, pp.62-3.
[29] K. R. Popper, Poscritto
alla Logica della scoperta scientifica, cit., I, p.35.
[30] H. Albert, Per un razionalismo critico, cit., p.12.
[31] Ibidem, p.14.
[32] H. Albert, Per un razionalismo critico, cit., p.
221-29.
[33] Cfr. E. Colicchi, Educazione libertà ragione, Pisa-Roma
1999, soprattutto il saggio Una teoria politica per un’educazione laica,
pp.85-93.