Il problematicismo pedagogico

 

di Mariagrazia Contini

 

Riflettere sul problematicismo pedagogico, oggi, nel 2003, a pochi mesi dalla scomparsa di GMB implica, oltre a una messa a punto degli obiettivi e dei percorsi del mio impegno pedagogico in termini teoretici e operativi, una riconsiderazione dei punti nodali del problematicismo stesso

·        all’interno di una condizione storica che si connota come “globale” e in cui, ad antiche e più consuete espressioni di problematicità, se ne intrecciano di inedite e destabilizzanti sia, e preliminarmente, sul piano cognitivo, sia su quello emozionale e del rapporto con gli altri;

·         in un orizzonte culturale che, mentre registra conquiste di grande rilievo e diffusione, ad esempio in ordine al riconoscimento dei fondamentali diritti umani, rivela insufficienze e contraddizioni nel delineare traiettorie di un impegno etico-sociale affrancato da ipoteche metafisiche e rigorosamente rivolto in direzione di “ragione”;

·        nel “dominio” di un pensiero unico che svaluta fino alla negazione il ruolo dell’esercizio critico, e autocritico, e sostituisce al “diritto alla differenza” il bisogno dell’omologazione e del conformismo;

·        di fronte a soggetti educativi – bambini, giovani, adulti – che subiscono forti pressioni all’interno del perimetro della loro “gettatezza” e chiedono un contributo, al mondo dell’educazione, per progettare e costruire, da protagonisti e non da esecutori di copioni altrui, la loro esistenza.

Questa cornice, approssimativa, appena abbozzata, offre la possibilità di aprire le mie riflessioni rivolgendo, innanzi tutto, un pensiero affettuoso e riconoscente al mio Maestro e di corrispondere a un suo monito, ribadito nell’ultima conversazione che abbiamo avuto. Eravamo andati a casa sua, Franco Frabboni e io, il 7 settembre dello scorso anno, giorno del suo novantesimo compleanno. Volevamo fargli festa e, soprattutto, “farlo contento”, come si è soliti fare con le persone molto anziane: per risarcirli, forse, per consolarli o, più probabilmente, per consolare noi stessi del distacco che si preannuncia. Così, gli avevamo comunicato che anche quest’anno avremmo impostato i nostri corsi di insegnamento sul “suo” problematicismo; a quel punto, il volto sorridente si era fatto serio e lo sguardo aveva riacquistato la pensosità autorevole del Maestro della nostra giovinezza, mentre ci diceva: “Se ritenete che possa contribuire alla maturazione dei giovani, in questo momento…” Ovvero, solo la sua possibile incisività sul piano dello sviluppo e della trasformazione, individuale e collettiva, legittimava la riproposta del problematicismo pedagogico, in linea con una tradizione che l’aveva visto giocare un ruolo significativo in tempi e contesti diversi, in forza della sua tensione critico-decostruttiva da un lato e propositiva-utopica dall’altro: come dire - utilizzando un termine caro a Bertin per la sua ascendenza nietzscheana - in forza della sua “inattualità”.

 

 

1. L’“inattualità” del problematicismo razionalista nel tempo di Banfi e di Bertin

 

Era successo, dapprima con Banfi che, giovanissimo nei primi anni del secolo scorso, aveva cominciato a sperimentare, sul piano della propria formazione intellettuale, i limiti e le chiusure di un mondo culturale che gli appariva dominato da “astrattezza, disorganicità e provincialismo” Per questo chiese ed ottenne una borsa di studio per la Germania dove rimase per un anno, scoprendo con entusiasmo “una cultura filosofica varia, ricca, differenziata, in cui il demone socratico della verità si soddisfaceva col demone faustiano dell’esperienza”.[1] Dapprima il neokantismo di Marburgo e la filosofia della vita di Simmel, poi la fenomenologia di Husserl, furono i “reagenti” che consentirono A Banfi di elaborare una teoria della ragione intesa come principio metodologico, come analisi e integrazione dell’esperienza nelle sue infinite sfaccettature, nella sua inesauribile complessità. La lezione husserliana, in particolare, aveva dato un impulso notevole alla formulazione di tale prospettiva: la concezione della filosofia come “strenge Wissenschaft (ovvero, come integratrice delle singole regioni del sapere, le scienze particolari) , l’uso dell’epoché e il ritorno alle “cose stesse” agivano a favore di un orientamento critico, aperto, antidogmatico. Si trattava soprattutto, peraltro, di una lezione di metodo: Banfi non aderì incondizionatamente al pensiero di Husserl, ma ne discusse le tesi, per poi rielaborarle all’interno della sua filosofia critica. [2]

Al suo ritorno in Italia, lo attendevano anni “grevi”, d’isolamento culturale e politico, impegnati peraltro nell’insegnamento al liceo e connotati di intenso raccoglimento nello studio storico-filosofico e nella lettura di romanzieri, poeti e drammaturghi. Finché, negli anni ’20, cominciò a pubblicare i suoi primi lavori filosofici, collocandosi al di fuori e contro le tendenze prevalenti della cultura italiana: se politicamente si opponeva alle tendenze nazionaliste e conservatrici orientandosi verso il marxismo e arrivando a partecipare, durante la seconda guerra mondiale, alla resistenza come militante comunista, teoreticamente si contrapponeva alle correnti filosofiche maggiormente accreditate, come l’idealismo e lo spiritualismo, valorizzandole per il rilevo che accordavano a un aspetto particolare dell’esperienza (la cultura, la persona), ma denunciando il dogmatismo implicito nella loro pretesa di una verità assoluta. Dunque, nella società italiana, nella cultura di anni pesantemente condizionati dal regime fascista prima e dalla tragedia della guerra dopo, Banfi imposta la sua prospettiva e il suo insegnamento universitario su due fondamentali assi portanti:

-         dal punto di vista teoretico, propone una teoria della ragione critica e antidogmatica, tesa a “fondare la possibilità di una sistematica del sapere e di una fenomenologia della cultura, aperta al movimento stesso del sapere e della cultura e avversa ad ogni mutilazione arbitraria di entrambi per opera di ideologie e dogmatismi”[3];

-         dal punto di vista etico rivendica un umanesimo libero e profondo; l’indipendenza delle coscienze da motivi superetici, in genere religiosi, e l’attenuazione delle tonalità sentimentali; prospetta una coscienza del mondo morale come mondo della libertà della persona e dell’universalità del sistema sociale insieme, e auspica il diffondersi di una certezza: “che il problema morale non è posto per il singolo né deve essere risolto dal singolo, ma è posto per l’umanità e risolto nell’umanità”.[4]

 

Molto diversa la trama del “romanzo di formazione” di Giovanni Maria Bertin che, come egli stesso ha raccontato, è stata caratterizzata dall’attraversamento di una lunga stagione all’insegna di motivi irrazionalisti e mistico-estetizzanti, prima di approdare, tardivamente a suo dire, ma aveva appena ventisei anni, alla scelta della pedagogia come ambito di ricerca e di intervento, elaborando, sulla scorta dell’insegnamento banfiano, la prospettiva teoretica del problematicismo pedagogico. Nel mezzo secolo in cui si situa la sua vasta produzione scientifica sono ovviamente accaduti molti eventi, succedute mode e tendenze, presentati problemi e domande sociali e culturali differenziati: elementi, tutti, da cui Bertin si è fatto interpellare e rispetto ai quali si è pronunciato. Ne sono derivati la proposta di impegno eticosociale nel dopoguerra degli anni 50 – contro le “anime belle” e le “anime disperate” e alla loro comune tentazione individualistica ed evasiva – in cui confluiscono, oltre alla lezione banfiana, motivi esistenzialisti e marxisti; il richiamo al rigore critico, riflessivo e autoriflessivo della ricerca teorica pedagogica impostata secondo una linea metodologica di tipo trascendentale-fenomenologica, contro ideologismi metafisiche e scientismi che si succedevano o sovrapponevano nel tempo; l’indicazione di percorsi audaci fino all’utopia, sulle tracce di Nietzsche, per prefigurare nuovi modelli di umanità dopo la fase contestativa del ‘68 e la relativa valorizzazione della dimensione collettiva e dell’agire politico in termini non solo unilaterali, ma fideistici per quanto riguardava la possibilità di risoluzione dei problemi fondamentali del genere umano; il richiamo a progettare e costruire la propria esistenza nel mondo, contro la passività e il conformismo indotti da un disordine esistenziale che in quel momento si nutriva di sempre più consistenti processi di massificazione e di smarrimento di fronte a uno spazio “liberato” - dalla crisi e dalla caduta di fondamenti metafisici - che non si riusciva a “popolare” di nuove possibilità e di nuove attribuzioni di significato; il monito a disseminare inquietudine esistenziale negli anni 80/90 in un mondo (quello industrializzato e ricco) dominato dall’impronta e dallo stile dello “yuppi”, ovvero dalla spregiudicatezza morale, dalla violenta competitività, dal compiacimento arrogante di una realizzazione che, pur attenendo alla sola dimensione economica, dato il rilievo riconosciuto a quest’ultima   poteva rappresentarsi in termini totalizzanti.

Dunque, non critiche e messa in discussione di categorie e modelli in astratto, in linea esclusivamente con le traiettorie della propria prospettiva teoretica e della conseguente visione del mondo, ma rilievi e analisi di “figure” di pensiero e di stili esistenziali così come si prospettano e si realizzano nei tempi e nei luoghi concreti della storia, in relazione a un’idea di ragione da far valere, come vedremo, in senso regolativo-metodologico: libera da pre-determinazioni contenutistiche e valoriali.

E oggi? Prima di verificare i quozienti di inattualità del problematicismo nei confronti dell’accennato orizzonte storico del nostro tempo, e per argomentare la risposta all’interrogativo emerso nell’ultimo incontro con Bertin, procediamo con una sintetica rivisitazione dei dispositivi teoretici del “congegno” pedagogico problematicista.

 

 

2. In direzione di ragione: dalla problematicità dell’esperienza alla sua legge trascendentale

Il primo tassello della teoria problematicista è costituito dal concetto generale di esperienza inteso come rapporto di integrazione (di tensione all’integrazione) fra due polarità – io e mondo - che, qualunque identità assumano fra le innumerevoli possibili, sono contrassegnate da una distanza reciproca e da reciproci tassi di opacità, tali da rendere la loro integrazione sempre approssimativa e parziale. Ipotizziamo che l’”io” sia riferito a me stessa e che, al posto di “mondo”, indichi di volta in volta la mia sfera intrapsichica, costituita di pensieri ed emozioni, oppure gli allievi dei miei corsi universitari, o, ancora, un testo filosofico che intendo studiare, o una Elegia di Rilke che amo tanto: in tutti i casi io sperimento un rapporto con qualcuno o qualcosa che, come minimo, mi si presenta con una pluralità di messaggi e di significazioni che richiedono di essere decifrati, e a volte con bisogni, richieste o proposte ambivalenti, o incomprensibili, o che confliggono con i miei (anche se sono io l’interlocutrice di me stessa!) o che ad essi si oppongono decisamente, connotandosi di segno contrario. Le mosse che compio per comprendere e farmi comprendere, per accostarmi all’altro da me e lasciarmi raggiungere, per dirimere i conflitti –cognitivi o emozionali che siano- rivelano la loro insufficienza anche nei casi in cui, con legittima soddisfazione, registro un progresso in quelle direzioni: non perché svaluti il mio progresso, ma perché l’obiettivo cui tendo si sposta sempre in avanti e mi mostra la strada che sempre, di nuovo, devo intraprendere e percorrere. L’obiettivo, infatti, l’integrazione tra le due polarità io-mondo, vale come idea limite, regolativa, trascendentale; “serve” per promuovere la nostra processualità, per renderci avvertiti dei nostri limiti, per favorire sia la lucidità critica nel riconoscere la parzialità dei nostri traguardi sia la ricerca, giorno per giorno e in situazione, delle condizioni per realizzarli in modo meno parziale, un po’ più compiuto.

Ma torniamo per un momento alla problematicità, al fine di sottolinearne, anche, gli elementi di ricchezza che la connotano e, soprattutto, quelli che ciascuno di noi può acquisire incontrandola e confrontandosi con essa. Se la prima figura di problematicità, l’assenza di significati univoci - riferibili a eventi, a categorie o a comportamenti umani – può contribuire a farci riconoscere e superare il nostro egocentrismo cognitivo, rendendoci consapevoli della legittimità di punti di vista divergenti dai nostri e dell’opportunità di porli in reciproco ascolto e in reciproca comunicazione, l’incontro con ambivalenze nel mondo delle mie emozioni può costringermi a guardarle in faccia, a riconoscerle e a chiamarle per nome, affrancandomi da inconsapevolezza e analfabetismi emotivi, così come nella sofferenza del conflitto con l’altro posso veder emergere bisogni, aspirazioni o aspettative – importanti per me e per l’altro – che entrambi non avremmo saputo o osato esprimere e forse neppure concepire, senza confliggere. Sono, questi, alcuni dei motivi per cui la problematicità dell’esperienza, di qualunque ambito dell’esperienza e in qualunque forma si presenti, non va elusa, negata o rimossa e per cui, anzi, è produttivo procedere alla problematizzazione di equilibri che appaiono solidi e forse sono cristallizzati o di convinzioni che possono sembrarci inoppugnabili solo perché esprimono i nostri più radicati pregiudizi. In tutti questi casi la possibilità di imparare a conoscere la propria conoscenza, di sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda delle proprie emozioni e di decentrarsi da se stessi per approssimarsi all’altro e agli altri implica l’accorgersi delle zone d’ombra, delle insufficienze e dei dissidi che abitano le suddette forme di esperienza nonché il confrontarsi con esse. Implica inoltre, in forza dell’idea trascendentale di esperienza, il non permanere all’interno della problematicità, una volta riconosciuta e affrontata, ma il tendere al suo superamento in direzione della massima integrazione possibile, ossia in direzione di ragione. Anche questo rende preziosa la problematicità, nella sua connessione ai principi di trascendentalità e di ragione: che per superarla mirando alla dilatazione e all’arricchimento di possibilità per tutte le “parti” coinvolte, richiede percorsi di ricerca, sperimentazione di modalità relazionali, apertura al cambiamento, in altre parole: impegno!

Va ricordato, infatti, che la ragione problematicista “non rappresenta un principio metafisico di tipo hegeliano, non si identifica con il reale come sua necessità, e non è fornita di una struttura definita e conclusa dogmaticamente”. [5]Non è neppure una ragione intellettualistica, tersa ma muta negli ambiti dell’etica o dell’affettività o condannata all’altrove dai motivi dell’estetico e del religioso. E’ un’istanza, un’esigenza e in quanto tale, per realizzarsi, deve essere scelta dal soggetto umano: per questo la storia della ragione nel mondo è segnata da scacchi, cadute e crisi gravissime; ma è anche una ragione demonica e proteiforme che non preclude, alle sue costruzioni, neppure gli spazi del tragico e si nutre di intelligenza e sensibilità di immaginazione e tensione etica. “E’ un’istanza, precisa Bertin, rivolta a risolvere forme unilaterali, indeterminate, incongrue (e in tal senso problematiche) in direzione rispettivamente di pluralità, determinatezza, congruenza, acquisendo o chiarendo i criteri più opportuni per ciascuna di tali operazioni”[6]

 La fenomenologia del razionale non consiste, però, nell’astratta contrapposizione del “contrario” a ogni figura del problematico, poiché in tale caso il contrario rappresenterebbe anziché un’indicazione metodologica per superare il problematico, la soluzione stessa, astratta e stereotipata. Essa si presenta, al contrario, illimitata, in relazione ai diversi piani dell’esperienza e ai sistemi categoriali di riferimento: possiamo scegliere di procedere in direzione razionale nella costruzione della nostra personalità, per superare la problematicità che caratterizza l’esperienza intellettuale o quella sociale, affettiva, religiosa, politica e così via. In ogni caso sarà una scelta che tenderà a integrare direzioni potenzialmente antinomiche – ad esempio quelle egocentrica ed eterocentrica, per quanto attiene alla costruzione personale – in un processo, Bertin dice in un travaglio incessante, in cui condizionamenti di vario genere gravano e inceppano un cammino destinato a non pervenire a una conclusione definitiva, ma sempre connotato e sostenuto da una tensione critica mirata ad approfondire, in altezza e profondità, direbbe Nietzsche, la struttura ricca e articolata della concretezza storica.

 Dunque, una ragione che non assomiglia a quella messa in crisi, in particolare, nel nostro paese, negli anni 80 del secolo scorso, per i suoi connotati di astrazione, per i suoi apriorismi dogmatici, per il suo rifiuto di tutto ciò che non entra nel suo ordine o può sovvertirlo. La ragione problematicista per mettersi in crisi o riconoscere la sua crisi non attende processi dall’esterno dei suoi limiti territoriali: sia perché questi ultimi sono sfumati, mutevoli e spostabili, sia perché è il suo procedere stesso che implica problematizzazione. Ma è anche per questo che può attraversare e rendere agibili, e produttivi, i terreni della problematicità prospettando ad essi orizzonti d’apertura: in altri termini e paradossalmente rispetto ai canoni tradizionali, è una ragione che può definirsi forte proprio perché tende a fare del momento di problematicità che le è costitutivo, il principio del proprio sviluppo e del proprio arricchimento creativo.

 

 

3. Progettare l’esistenza nell’orizzonte del possibile, tendendo alla differenza                                Impegno e utopia

 

Come dicevo, procedere in direzione di ragione costituisce una scelta: non obbligata, anzi per lo più contrastata da noi stessi e dal mondo, ma neppure impossibile, e fortunatamente la storia del genere umano ne offre testimonianza. Ciò significa che, nonostante i condizionamenti impliciti nella nostra “condizione data”, nella gettatezza in termini heideggeriani, non è precluso il nostro intervento sul “come” delineare le sue traiettorie future in modo tale da incamminarci verso una “destinazione prescelta”. Il futuro, infatti non si presenta con i connotati della necessità, ma con quelli del possibile: non ci garantisce sulla realizzazione dei nostri progetti, ma non li condanna neppure allo scacco; inoltre e soprattutto, li legittima in quanto progetti, come prefigurazione di obiettivi, e di percorsi per tendere ad essi, individuati da noi, non prescritti o suggeriti da condizionamenti dal volto più o meno sorridente e accattivante.

La teoria della progettazione esistenziale, elaborata negli anni 80 e confluita nel volume Bertin/Contini, Costruire l’esistenza (che in questi mesi ho riveduto e ampliato per una sua riedizione, a vent’anni dalla prima) rivendica, contro la dispersione distruttiva del “disordine esistenziale”, in alternativa a un modello di umanità che sembra riproporre all’infinito il copione di un’antica nevrosi, un protagonismo del soggetto che si esplichi nel campo delle scelte, all’insegna dell’impegno etico-razionale. Riconoscendo un debito nei confronti dell’esistenzialismo e rivolgendo lo sguardo alle espressioni di problematicità più evidenti nella società e nella cultura di quegli anni, Bertin propone “l’esigenza di superare la crisi con una salda e massiccia riorganizzazione delle forze protese a recuperare la potenzialità etica della ragione, effettuata mediante una chiara e vigorosa progettazione individuale e collettiva, ancorata al presente ma protesa al futuro.”[7] E’ una proposta teoreticamente audace che attinge dallo Zarathustra nietszcheano motivi di critica radicale all’esistente, fino ad auspicare il “tramonto” dell’uomo attuale, incompiuto, malriuscito, che dovrebbe cedere lo spazio all’avvento di un demonico. utopico oltreuomo. In termini problematicisti tale proposta si traduce nell’indicazione di un obiettivo fondamentale, per la progettualità esistenziale, la “differenza”, intesa come diritto del soggetto a non essere considerato elemento indistinto di un pluralismo informe – il granello in un mucchio di sabbia – ma come potenziale portatore di trascendenza esistenziale, di una volontà lucida e audace di sfidare il mare, sconfinato e tumultuoso ma aperto alla speranza, del possibile.

 Per meglio comprendere la portata etica di una progettazione alla differenza, occorre distinguere quest’ultima categoria da quella della diversità, riferibile a caratteristiche connesse alla nostra condizione data di tipo biopsicologico e sociale, a un “dato di fatto” di cui non abbiamo né merito né colpa poiché non l’abbiamo potuta scegliere. Nonostante ciò, a partire dalla diversità vediamo stabilire gerarchie in base a classi, etnie e culture d’appartenenza e quindi a parametri di potere e il prendere atto della diversità equivale spesso a discriminare e a ghettizzare definitivamente chi ha il torto – incolpevole- di essere diverso rispetto a leggi, costumi, pregiudizi dominanti. Contro questo tipo di “riconoscimento” della diversità si deve continuare a lottare per affermare un diritto all’uguaglianza di opportunità che costituisce, però, solo una tappa del percorso che ha come obiettivo ultimo – e trascendentale – l’affermazione e la reciproca accettazione non in base all’identità (il riconoscimento del sosia che mi conferma), ma alla differenza. Quest’ultima ci interpella con la possibilità di protenderci al di là della nostra realtà biopsicologica e sociale e dunque, mentre la diversità afferma ed esibisce quella realtà, la differenza si delinea “a partire” dal suo superamento, dalla chance che abbiamo di liberarci dai condizionamenti impliciti in quel “dato di fatto” che rappresenta la nostra identità più convenzionale ma anche più rigidamente cristallizzata dallo sguardo degli altri e dalla nostra autopercezione. Ma: differenza da chi? da che cosa?

·        Differenza da noi stessi, dal riproporsi noioso di sempre identici repertori difensivi o autolesivi, da rigidità e stereotipie cognitive, da nodi e blocchi emozionali;

·        differenza dagli altri, dai loro vincoli e dalle suggestioni dei loro modelli di potere e di seduzione tesi al dominio e all’omologazione;

·        differenza dall’umanità nella sua linea di sviluppo e condizione storica attuali, dominate dalle tendenze alla conflittualità permanente e all’esercizio della violenza come sua pseudosoluzione, per affermare una volontà di trasformazione che prefiguri la possibilità di un’umanità altra, in una storicità orientata alla negoziazione dei conflitti, per una convivenza pacifica.

 

La connotazione pedagogica più interessante, della differenza, mi sembra consistere nella sua duplice valenza, utopica e trascendentale, e cerco di spiegarlo.  Proiettandosi al di là dell’attuale, verso un mondo del possibile ancora indeterminato – ancora da scoprire, da progettare, da sperimentare – la tensione alla differenza obbliga alla dislocazione e al decentramento rispetto ai più consolidati schemi di riferimento, alle procedure che siamo soliti praticare e agevola una presa di distanza che, mentre ci rende più critici nei confronti dell’esistente, può farci intravedere scenari e rappresentazioni di cui oggi non si danno le condizioni di realizzabilità, ma che, intanto, diventiamo capaci di pensare e prefigurare. E’ questo il significato più produttivo dell’utopico quando non si pone in termini evasivi e consolatori ma corrisponde all’assunzione di un impegno etico-razionale: prospettare vie di superamento della problematicità svincolandole da impedimenti blocchi chiusure che ci appaiono immodificabili e insuperabili in quanto inscritti, radicati nel nostro tempo e nel nostro mondo, e cominciare a delineare, con la creatività di una ragione demonica, i contorni di un altro tempo e di altri mondi.

Certo, il demonismo, nelle sue connotazioni più radicali, rimanda a un possibile di domani, non di oggi, e dunque all’utopia, con il suo alludere alle dimensioni della libertà della nobiltà e della lievità, ma quanto è opportuno educare giovani e adulti a immaginare e prospettare un’esistenza nel mondo e con gli altri caratterizzata da quelle dimensioni così inattuali! Capacità critica e consapevolezza di sé; apertura alla felicità, al dolore e alla loro mescolanza; tensione a rapportarsi agli altri sostituendo, alla volontà di potenza, la lievità della volontà di donare sono solo alcune di esse e già bastano a farci avvertire un divario profondo con i nostri scenari abituali e gli stili esistenziali che al loro interno risultano più diffusi e, soprattutto, vincenti.

La differenza, come la ragione, come l’obiettivo etico del “realizza te stesso realizzando l’altro” contraddice, a mio parere, la rappresentazione del problematicismo quale prospettiva che, proponendosi in termini metodologici, risulterebbe “povera”, addirittura “afasica” sul piano dei valori. Se, infatti, non vengono indicate (ovvero, prescritte) soluzioni specifiche e predeterminate per le diverse espressioni della problematicità che il soggetto può trovarsi a vivere; se non si prefigurano punti d’arrivo precisi e già articolati per i percorsi della progettualità è solo perché viene riconosciuto a ciascuno il diritto/dovere (se adeguatamente sostenuto sul piano educativo) di scegliersi la propria “terra felice”: nemmeno la felicità, in una forma già definita, può essere proposta da altri, pena la caduta di ogni suo possibile significato. Al rispetto per la libertà di scelta di ciascuno si intreccia la convinzione che, anziché ai valori assoluti della tradizione metafisica, ci si debba riferire ai valori storici: molteplici, differenziati, reciprocamente contrapposti a seconda del tempo, del luogo, del contesto, dei soggetti coinvolti. E che ciò non debba condurre a un “relativismo etico” lo spiega efficacemente Bertin rispondendo proprio a una critica in tale senso: “L’etica dell’impegno è sì consapevole della relatività di ogni impostazione e soluzione particolare, ma anche dell’esigenza che questa, nell’adeguarsi a particolari condizioni storico-sociali, si disponga in funzione

di un’universale e progressiva integrazione razionale”[8]

Da parte sua, la valenza trascendentale, cui accennavo, assolve invece alla funzione di arginare e correggere il rischio che la progettazione esistenziale tesa alla differenza assuma i connotati del titanismo: “pretendendo” il superamento di paure e resistenze nei confronti del cambiamento e dell’ignoto; prospettando l’oltreuomo nietszcheano come se fosse un soggetto storico che può realizzarsi qui e ora; delineando un futuro quasi non fossimo tutti imbarcati su un Titanic che da un momento all’altro, può farci affondare insieme ai nostri sogni oltre che ai nostri progetti…

 

 

4. Fra impegno e utopia: la direzione, più che la meta

 

Differenza, ragione e obiettivo etico del “realizza te stesso realizzando l’altro”, ponendosi in termini trascendentali, ci richiedono un impegno che, come sono solita a dire ai miei studenti suscitando animate discussioni, non pretende un monte premi finale, privilegia la direzione più che la meta, assume su di sé il carico dei limiti della condizione umana e accetta il permanere di una “sproporzione” tra la “fatica” messa in campo e i risultati raggiunti. Ma non è, questo, forse, l’unico modo possibile per realizzare un impegno etico serio e consapevole, al di là di retoriche sempre in agguato?

Ho letto con interesse ed emozione un articolo di Susan Sontag pubblicato recentemente su “La Repubblica”. Ricordando il vescovo Romero, assassinato nel 1980 perché cercava di opporsi alla violenza e all’oppressione in Salvador, e Rachel Corrie studentessa americana ventitreenne uccisa pochi mesi fa, con indosso il giubbotto fosforescente degli “scudi umani”, mentre cercava di fermare la demolizione di un’abitazione civile nella striscia di Gaza, la scrittrice si chiede: “che significa agire in nome di un principio quando ciò non altererà l’evidente distribuzione delle forze, la palese ingiustizia e la ferocia…? Chi si fa portavoce di un principio morale fa pensare a chi corre dietro a un treno in corsa gridando: “ferma! ferma!” Si può fermare quel treno? No, non si può. O perlomeno non ora. E i passeggeri che sono su quel treno saranno indotti a saltar giù e a unirsi a chi è rimasto a terra? Forse qualcuno lo farà, ma, certo, non la maggioranza.” E dunque?  La conclusione di Susan Sontag che ribadisce la necessità di combattere l’ingiustizia anche se è probabile che non riusciremo a fermarla e la possibilità che la nostra azione abbia comunque risonanze: “se non qui, là; se non ora, presto: altrove, oltre che qui”, mi sembra in significativa assonanza con il significato più profondo dell’idea trascendentale di impegno etico-razionale che rivela, così, una ulteriore nota di produttiva “inattualità” anche oggi.

 Un’altra ancora, di pari rilevanza, è rintracciabile nel suo obiettivo “realizza te stesso realizzando l’altro” che richiede, alla progettualità tesa alla differenza, di non esprimersi in termini individuali, ma intersoggettivi, procedendo a cerchi concentrici che si moltiplichino in spazi sempre più vasti, includendo, al limite, l’intera umanità. E’ una direzione che si snoda in opposizione ai localismi e all’individualismo che attraversano e pervadono il nostro mondo globalizzato: tutti insieme a consumare gli stessi prodotti e a vedere la stessa televisione, ma ciascuno barricato nel suo recinto difensivo a nascondere i propri progetti!  Lo affermava già Bertin e credo debba essere sottolineato con vigore in questo 2003 ferito da tanta violenza, l’educazione deve impegnarsi a promuovere la condivisione di progettualità e costruzione, nella consapevolezza di quanto, la loro realizzazione, dipenda da condizioni generali, mondiali e dalla possibilità che si realizzino anche quelli degli altri perché …o ci si salva insieme o non ci si salva affatto!

In conclusione, questa riflessione un po’ troppo lunga (ma dovevo dare una risposta al mio Maestro!) e tuttavia poco esaustiva rispetto alla ricchezza dei temi del problematicismo pedagogico, può riannodare il filo con le osservazioni iniziali. Che la prospettiva problematicista possa orientare e contribuire a una formazione, pluridimensionale, della personalità dei soggetti, nel mondo storico e nel rapporto con gli altri, dovrebbe risultare dall’analisi dei suoi dispositivi teoretici e delle indicazioni, etico-esistenziali, che ne derivano. In particolare, mi riferisco alla funzione metodologica del problematicismo, tesa a salvaguardare da prescrittività e dogmatismi di ogni genere, alla sua impronta critico-regolativa e al conseguente, costante esercizio di decostruzione, decifrazione della realtà e dei suoi possibili significati, alla sua proposta di un modello di soggetto umano demonico e tragico insieme: proteso alla lievità del riso, della danza e del volo, e, nel contempo, sofferente, impegnato in un travaglio incessante di ricerca – poiché nulla gli è già dato – e di costruzione di percorsi la cui fatica non ha la garanzia della riuscita, ma la rivendicazione di un significato, per l’esistenza propria e altrui, per la storia che ciascuno contribuisce a tessere, per il mondo che abitiamo. Su queste linee, con la fedeltà a una scuola, come il problematicismo, che chiede a ciascuno di andare “per la strada per cui il dio lo chiami”[9], mi piace indicare i seguenti itinerari, per il futuro, da portare avanti con il contributo di tutti gli studiosi di pedagogia teoretica e in particolare dei più giovani[10]:

·        ricerche sui processi cognitivi e metacognitivi, per un’educazione critica che orienti su problematicità e possibilità del proprio e altrui conoscere e apra alla capacità-disponibilità di confronto con gli altri, anche con i non-sosia;

·        ricerche sui processi emozionali perché l’educazione alla ragione, tendendo all’arricchimento e alla dilatazione di possibilità per i soggetti educativi, richiede anche un’alfabetizzazione sul piano di emozioni e sentimenti, ai fini di una comunicazione intersoggettiva capace di ascolto e di empatia, di tolleranza e gestione pacifica dei conflitti;

·        ricerche su significati e modalità di realizzazione dell’impegno etico-razionale, per promuovere tendenze trasformatrici sul piano del costume e dei modelli esistenziali e per produrre possibilità d’incontro e di realizzazione senza che nessuno debba rinunciare, per questo, a perseguire la propria differenza, la più “demonica” possibile.

 

 

 

 

 

 



[1][1] A.Banfi, Lettera autobiografica, scritta a G.M.Bertin in risposta alla richiesta e alla affettuosa insistenza di quest’ultimo, nel 1942 e pubblicata in “Appendice” a G.M.Bertin, L’idea pedagogica e il principio di ragione in A.Banfi, Roma, Armando, 1961, p.175

[2] Anche Bertin, pur apprezzando l’impostazione fenomenologica della pedagogia elaborata da P.Bertolini dapprima in Fenomenologia e pedagogia (Bologna, Malipiero, 1958) e poi in L’esistere pedagogico (Firenze, La Nuova Italia, 1988), precisa: “L’impostazione qui esposta (il problematicismo), nonostante la comune esigenza antidogmatica, l’analogo valore attribuito al momento della possibilità, ecc., differisce da quella delineata da Bertolini, per aspetti essenziali: la riduzione trascendentale ha il suo fondamento non nella coscienza pura, ma nella storicità dell’esperienza; ha il suo obiettivo non nell’intuizione di essenze, ma nell’ipotesi di criteri metodologici ed operativi; non conchiude a impostazioni pedagogiche determinate.” (Educazione alla ragione, Roma, Armando, 1968, p.106)

[3] G.M.Bertin, L’idea pedagogica.cit., p. 23

[4] A.Banfi, La ricerca della realtà, Firenze, Sansoni, 1959, pp. 566-567

[5] G.M.Bertin, “Crisi, ragione, creatività esistenziale”, in G.M.Bertin/M.Contini, Costruire l’esistenza. Il riscatto della ragione educativa, Roma, Armando, 1983, p. 34

[6] G.M.Bertin, Educazione alla ragione, cit., p. 28

[7] G.M.Bertin, “Antecedenti storico-culturali e definizione del concetto di educazione alla progettazione esistenziale”, in G.M.Bertin/M.Contini, op. cit., p. 89

Nello stesso capitolo Bertin definisce la progettualità esistenziale come “orientamento, assunto più o meno consapevolmente dal soggetto, rivolto ad elaborare, vagliare e unificare aspirazioni, criteri di valori e obiettivi di azione sul piano di un “quotidiano” vissuto in rapporto al futuro.” E cioè proteso “a configurarsi non semplicemente in funzione dell’adattamento alla realtà presente, ma anche (ed anzi prevalentemente) in funzione di un “possibile”ipotizzabile dall’immaginazione, effettuabile mediante l’intelligenza e concretabile in un processo incessante di costruzione e decostruzione dell’esperienza in cui il soggetto (singolo o collettivo) è storicamente inserito e, ovviamente, proiettato al futuro.” (Ivi, p.90)                                                                                                                  

[8] G.M.Bertin, Educazione alla ragione, cit., p.381 Sempre a tale proposito, Bertin aggiunge: “E’ il porsi in questa direzione (di integrazione razionale) che permette la discriminazione tra la relatività delle posizioni di moralità inautentica (relatività che è alibi e arbitrio) e la relatività delle posizioni di moralità autentica (relatività che è impegno razionale)

[9]“Penso a voi, ciascuno per la strada per cui il dio lo chiami, direbbe Socrate, ciascuno ad aprire orizzonti nuovi alla verità, a bandire falsità o menzogne retoriche, a raggiungere il contatto con un aspetto della vita e riscoprirsi in esso…” Lettera autobiografica di A.Banfi a G.M.Bertin, cit.

[10] Nei due volumi “in onore” di G.M.Bertin, Educazione e ragione (I e II) a cura di M.Gattullo, P.Bertolini, A.Canevaro, F.Frabboni, V.Telmon, (Firenze, La Nuova Italia, 1985), sono presenti studi sul problematicismo elaborati da diverse prospettive che privilegiano di volta in volta motivi diversi, prodotti dai più significativi teorici dell’educazione a livello nazionale. Hanno poi manifestato un particolare interesse per il problematicismo all’interno delle loro riflessioni e della loro produzione, oltre agli allievi storici di Bertin, come F.Frabboni, A.Genovese e la sottoscritta, e un allievo più giovane come M.Fabbri (ultimo studente laureatosi con Bertin), studiosi di altre Università come F.Pinto Minerva, A.Erbetta e, in particolare, F.Cambi.