PIERO  BERTOLINI

 

                 SULLA  PEDAGOGIA  FENOMENOLOGICA

 

Premessa, ovvero sull’irrinunciabilità della pedagogia generale.

Sono totalmente convinto dell’opportunità di continuare a dare vita, nell’ambito della SIPED,  al Seminario permanente di pedagogia generale. Come più volte ho avuto modo di sostenere, la pedagogia generale non solo non può essere impunemente eliminata dai vari curricoli formativi (come da qualche parte si sostiene ritenendola troppo astratta e perciò inutile), ma mai come ora va affermata e quindi adeguatamente perseguita.  Essa, infatti, come ricerca teorica o come teoria è l’espressione di quell’esigenza di sistematizzazione e di organizzazione delle esperienze, dei dati, di tutto ciò che si è storicamente e perciò concretamente verificato così come di tutto ciò verso cui si tende, che caratterizza i vari ambiti del sapere.  Si tratta di  un’esigenza, nel caso della pedagogia, particolarmente forte essendo l’esperienza educativa quanto mai complessa (anzi, sempre più complessa) e perciò esposta al rischio della dispersione nell’occasionale (che corrisponde al subdolamente condizionato).  Di ciò è conferma la presenza ormai evidente di una richiesta di senso da parte di molti insegnanti ed operatori dell’educazione  che si stanno, malgrado tutto, rendendo conto dell’insufficienza delle soluzioni meramente metodologiche o didattiche.  Una richiesta di senso  - d’altro canto tipica anche di molti giovani -  che nasce in particolare dallo sconcerto che produce la contradditorietà dell’esperienza quotidiana,  in particolare per ciò che concerne i comportamenti sociali,  che è ben altra cosa rispetto alla condizione di strutturale e costitutiva incertezza (o mancanza di certezze) dell’uomo e di tutto ciò che lo caratterizza.  Ebbene, a me pare che la pedagogia generale, intesa come ricerca teorica,   possa essere considerata come un importante (irrinunciabile?)  tentativo di uscire da quello sconcerto, senza negarne l’esistenza e senza ignorarne volutamente le ragioni.  Ma perché ciò possa legittimamente verificarsi appare decisivo il modo con cui si cerca di teorizzare:  che non pretenda di conquistare una o, peggio, la verità, ma che si sforzi di condurre una ricerca costante e persino sofferta di mettere un po’ di ordine in ciò che si sperimenta, sapendo bene che questo ordine non è mai definitivo ma sempre aperto e da mettere in forse, dunque da conquistare sempre di nuovo.  Ciò che conta non è tanto il risultato delle diverse teorizzazioni, quanto il loro presentarsi come un modo consapevolmente non definitivo, non globalizzante, di affrontare, nel nostro caso, le questioni educative e soprattutto di problematizzarle, di rimetterle continuamente in discussione, nella consapevolezza della loro insuperabile provvisorietà e incertezza.  Come dire, in primo luogo, che la funzione di un corretto modo di impostare e di perseguire la pedagogia generale  consiste sia in un netto rifiuto di ogni forma di semplificazione che quasi sempre conduce agli innumerevoli esempi di ‘ismi’ (agli innumerevoli esempi di fondamentalismi); sia ad un analogo netto rifiuto di tutte le forme di scetticismo che corrispondono di fatto ad un comodo disimpegno rispetto alla prassi di cui siamo e dobbiamo essere protagonisti.  In secondo luogo, che - come molti grandi pensatori del passato ci hanno insegnato, primo fra tutti Dewey -  il metodo irrinunciabile per una corretta impostazione di una pedagogia generale deve consistere in una costante dialettica tra teoria e prassi  - io preferisco parlare di una logica a spirale -   tra l’esperienza storicamente verificatasi (e verificantesi) e  il momento della riflessione teoretica o, se si preferisce, francamente  filosofica.         

 

L’incontro con la fenomenologia.

E’ alla luce di queste importanti seppure necessariamente stringate osservazioni che mi pare sia possibile cogliere il senso (le ragioni di fondo ma anche le prospettive) di quella che abbiamo definito in termini di pedagogia fenomenologica.  Una definizione, questa, che abbiamo assunto allo scopo di distinguere l’orizzonte di senso che caratterizza il nostro modo di impostare il discorso pedagogico da altre impostazioni che pure dicono di riferirsi almeno in parte (o, meglio, solo per quelle parti che paiono fornire un interessato sostegno a posizioni sicuramente ‘altre’) alla fenomenologia. Poiché siamo in sede pedagogica, ritengo sia più opportuno parlare appunto della pedagogia fenomenologica anziché in generale di fenomenologia, con una eventuale breve appendice su una possibile estensione del pensiero fenomenologico alle tematiche proprie dell’educazione e quindi della pedagogia. 

Qui di seguito cercherò dunque di segnalare i punti più qualificanti di tale orientamento pedagogico, quelli più  recenti e quelli futuri.  Nel fare questo, ovviamente, mi riferirò non solo ai miei due volumi L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata  (La Nuova Italia, Firenze, 1988) e Pedagogia fenomenologica (La Nuova Italia, Firenze, 2001), ma anche agli altri ventidue volumi, pubblicati sempre dalla Nuova Italia, che insieme ai due citati, costituiscono la collana Enciclopaideia che si arricchisce peraltro  di anno in anno e che unitamente alla rivista dal medesimo titolo (edizioni Clueb, Bologna), rappresenta il luogo nel quale i membri del gruppo di persone che si riconoscono, sia pure secondo percorsi autonomi, nell’ispirazione fenomenologica, evidenziano il loro contributo al costituirsi e all’approfondirsi appunto della pedagogia fenomenologica.

 

La nostra prima preoccupazione è stata quella di pervenire ad una lettura fenomenologica dell’esperienza educativa che consentisse  di chiarire meglio il senso stesso di tale esperienza e conseguentemente  di costituire una pedagogia come scienza, ovviamente non naturalistica od oggettivistica. Una scienza che in quanto tale sia  in grado  di opporsi all’estemporaneità, all’occasionalità e al pressapochismo propri di un certo modo di intendere quella esperienza, che finiscono per trasformarla in facile strumento di istanze (ideologiche) ‘altre’ e dei ‘poteri’ (economici, politici…) via via costituitisi nel tempo.   Come dire che l’esigenza da cui siamo partiti   è stata quella di  mettere in relazione l’indubbio stato di crisi della nostra cultura e della nostra società  con l’azione educativa e con il pensiero pedagogico, nella convinzione che questi ultimi, con le loro contraddizioni e con le loro debolezze epistemologiche, ma anche con la loro rilevanza esistenziale, fossero quanto meno co-responsabili di quello stato di crisi.   Contraddizioni e debolezze epistemologiche che possono essere rintracciate facilmente in una oscillazione tra un modo di intendere l’educazione e la pedagogia (come riflessione su di essa)  in termini spontaneistici, tali da legittimare condizionamenti ad un tempo interessati ed ingenui; ed un modo di intendere quella realtà e quel sapere in termini necessaristici, tali da legittimare l’approntamento di piani bene ordinati e di precisi strumenti operativi aventi la pretesa di produrre inequivocabili risultati in precedenza stabiliti (scelti, voluti, imposti…).   E’ pur vero che in  anni più vicini a noi si è potuto assistere sia ad uno sforzo condotto trasversalmente da certa pedagogia di pervenire ad una propria scientificizzazione; sia ad una più decisa attenzione da parte di tutti per la dimensione metodologico-didattica considerata l’unica in grado di fare uscire la pedagogia da un vuoto formalismo nonché da un inevitabile moralismo.  Ma nel primo caso, si è trattato di una scientificizzazione condotta per lo più secondo canoni di tipo oggettivistico, tipici delle scienze naturali che non consentono di cogliere la natura autentica della stessa esperienza educativa.  Nel secondo caso, si è trattato di una attenzione per la didattica tanto esclusivistica e perciò riduttiva da farle correre il rischio di una sua esasperata tecnicizzazione che, ancora una volta, si presta ad ogni possibile sfruttamento o utilizzazione dell’esperienza educativa da parte di contesti e di interessi affatto diversi.

Il  punto allora era ed è quello di pervenire ad un diverso modo di intendere l’esperienza educativa (rispetto alle due concezioni cui ho appena fatto riferimento) e di conseguenza ad un diverso modo di scientificizzare la pedagogia, che, non disconfermando le caratteristiche autentiche di quella esperienza l’aiuti a realizzarsi nel modo più corretto possibile. 

Il ricorso  alla fenomenologia husserliana con i suoi successivi sviluppi legati ai nomi di M. Merleau-Ponty, M. Scheler, L. Binswanger, M. Heidegger, E. Paci, ecc. ha avuto per me   - e successivamente per gli altri membri  del gruppo -  una grande importanza.   Tale ricorso, infatti, ci ha offerto, più che specifici seppure rilevanti risultati, una metodologia di ricerca particolarmente stimolante proprio dal punto di vista pedagogico.  E’ peraltro ovvio che il rapporto mio e degli altri membri del gruppo dell’Enciclopaideia  con la fenomenologia husserliana non si è arroccato su posizioni di rigida dipendenza, ma si è andato progressivamente autonomizzando anche sulla base degli stimoli che ci venivano offerti dalle prassi educative in cui ciascuno di noi era, come è, direttamente coinvolto.

In questo senso si può comprendere bene perché, accanto ed oltre l’individuazione da parte nostra di alcuni punti chiave della proposta teoretica della fenomenologia husserliana che ci parevano e ci paiono euristicamente interessanti allo scopo di pervenire ad una più autentica comprensione  dell’esperienza educativa, lo sforzo maggiore che abbiamo compiuto in questi anni è stato quello di pervenire a riflessioni di carattere epistemologico intorno a quella esperienza, fino alla pretesa di costituire una pedagogia come scienza.  Per opportuni motivi di chiarezza e soprattutto per ovvi motivi di sinteticità, mi sforzerò qui di seguito di dare conto di quei due tipi di approccio con la fenomenologia che ho appena indicati, precisando peraltro che tra loro esiste una stretta correlazione.

 

Il ritorno alla soggettività e la costruzione della conoscenza.  

Una prima indicazione forte contenuta nella proposta teoretica della fenomenologia, e che consente di pervenire ad una lettura dell’esperienza educativa di straordinario interesse pedagogico, consiste nel richiamo che essa ha fatto perché l’uomo sappia (ri)guadagnare la propria soggettività sia a livello individuale sia a livello comunitario. Il che vuol dire, in prima istanza, lottare contro ogni forma di alienazione che si esprime tanto in una rinuncia (in una impossibilità?) alla propria autonomia o, se si preferisce, in una passiva acquiescenza nell’eterodirezione;  quanto in quella crisi della cultura e della società che si caratterizza in una perdita di senso delle loro strutture e  delle loro stesse ragioni d’essere.   In altre parole, riguadagnare la propria soggettività significa (ri)prendere coscienza del proprio responsabile coinvolgimento nel costituirsi stesso della storia personale e sociale.  

Ma il ritorno alla propria soggettività  -  che per i motivi appena accennati può essere legittimamente considerato come un obiettivo centrale di ogni esperienza (azione) educativa -   non è, nel caso della fenomenologia e a maggior ragione della pedagogia fenomenologica, un ingenuo ritorno al modo classico e moderno di intenderla, come fondamento stesso della realtà e dunque come esasperato antropocentrismo.  Nell’interpretazione fenomenologica della soggettività  - la cui caratteristica strutturale sarebbe costituita soprattutto dall’intenzionalità ovvero dalla capacità di dare un senso (dei molteplici sensi) a ciò che le è esterno -  la presenza dell’oggettività (sia della realtà materiale sia delle ‘altre’ soggettività), infatti, non solo è riconosciuta come avente una propria radicale autonomia, ma è considerata addirittura come costitutivamente necessaria all’esistenza stessa della soggettività.  Come dire che, secondo questa interpretazione, non si dà un soggetto (gli infiniti soggetti) se non nel suo rapporto con un oggetto (con gli infiniti soggetti), così come, corrispondentemente, non si dà alcun oggetto se non in quanto esso si trovi in rapporto con un soggetto.  Come disse chiaramente Husserl, “perdere l’altro comporterebbe perdere se stessi”.   Proprio per questo, la soggettività di cui qui si parla, ed alla quale la pedagogia fenomenologica fa esplicito riferimento, non può in alcun modo essere concepita (e trattata) come una soggettività assoluta (di idealistica memoria), ma sempre come una soggettività biologicamente  psicologicamente materialmente condizionata, dunque sempre individuale, o, come preferiamo dire noi, una soggettività sempre e comunque in carne ed ossa e storicamente costituentesi.  L’interpretazione fenomenologica  non è, dunque, oggettivistica né soggettivistica, ma ‘relazionistica’. 

In questo senso, si tratta di (aiutare a formarsi) una soggettività debole poiché ben consapevole della propria storicità e  quindi della propria precarietà esistenziale  - testimoniata d’altro canto dai tanti suoi fallimenti concreti -    ma non per questo necessariamente rinunciataria o caratterizzata da un inevitabile naufragio.  Al contrario, proprio la sua strutturale debolezza le restituisce tutta la sua responsabilità esistenziale o, se si preferisce, la sua capacità di intervenire significativamente sul mondo, sugli altri  e su se stessa, momento per momento, secondo una prospettiva operativa che rinvia ovviamente  anche al realizzarsi delle molteplici esperienze educative.

 

Da qui la seconda indicazione forte che emerge dalla fenomenologia e che consente, sempre a nostro parere, una  interessante lettura dell’esperienza educativa.  Si tratta dell’interpretazione husserliana della conoscenza e/o della verità.  La conoscenza (la verità), come, sulla scorta della tradizione fenomenologica, è bene ripensata nel volume di L. Caronia  - Costruire la conoscenza -  non va intesa come lo sforzo dell’intelletto umano per adeguarsi alla (ad una) realtà esterna in quanto presuntivamente dotata di strutture oggettive ed assolutamente vere;  né come una sorta di imposizione del soggetto alla realtà esterna delle proprie modalità di funzionamento, fino alla pretesa idealistica di considerare reale solo ciò che è razionale.  Si tratta invece di concepirla come un processo costruttivo sempre dinamico e dialettico (storicamente condizionato) nel quale ciò che conta è l’essere in quanto si manifesta e si rivela. 

Il soggetto va, dunque, interpretato come apertura a… e l’oggetto come rivelantesi a… e la conoscenza come lo sforzo di cogliere il ‘come’ dell’essere (l’esistere), sapendo che questo ‘come’ dipende anche dall’attività del soggetto, condizionata  a sua volta dallo stesso oggetto verso cui si dirige. Come dire che il problema della conoscenza e della verità  - che è certamente cruciale per l’educazione  -  si affronta e si risolve anziché con la pretesa di cogliere il ‘soggettivo’ e l’’oggettivo’, con lo sforzo di cogliere di ogni fenomeno (di ogni realtà) il senso o il significato  - i molteplici sensi o significati -  nella consapevolezza che l’unica verità-per-l’uomo che conta davvero é l’insieme dei significati che egli contribuisce a costituire.  Ecco perché mi è parso fondamentale parlare   di  verità del senso anziché del senso della verità. L’accostamento del termine ‘senso’ a quello di ‘verità’, infatti, impedisce di intendere quest’ultimo in una accezione che richiami l’orizzonte della certezza, dell’assolutezza, dell’inconfutabile;  mentre l’accostamento del termine ‘verità’ a quello di ‘senso’ comporta la non accettazione per quest’ultimo di una interpretazione soggettivistica che finirebbe per essere il fondamento di posizioni di scetticismo, agnosticismo, qualunquismo.  Sostenere che il senso ha una verità comporta il riconoscimento che esso ha una inconfutabile dignità e persino una ‘oggettività aposteriori’ di cui occorre prendere atto per tentare di comprenderlo nella sua autenticità.

 

Infine, su una terza  indicazione forte emergente dalla fenomenologia intendo qui soffermarmi sia pure molto sinteticamente.  Si tratta della prospettiva della intersoggettività che si afferma per l’impossibilità, già in precedenza sostenuta,  di parlare di ‘io’ senza parlare nel medesimo tempo dell’altro, degli altri io e/o delle altre persone:  l’io e l’altro si richiamano vicendevolmente giungendo così a costituire un complesso tessuto di relazioni intersoggettive.   Da qui la legittimità di sostenere l’esistenza di una intersoggettività originaria, ovvero di un tessuto sociale costitutivo della stessa esperienza umana.   Poiché anche l’intersoggettività si attiva mediante la capacità intenzionale, ci si trova di fronte a delle verità-per-noi (da cui derivano le diverse culture e i diversi saperi) che, pur andando al di là delle singole verità-per-me (per-te, per-lui…) non le elimina.

  Ebbene, una lettura fenomenologica dell’esperienza educativa caratterizzata dalle indicazioni appena precisate appare non solo possibile e legittima ma, come ho via via riconosciuto, di grande interesse, consentendo di allontanarci dalle due concezioni estreme di quella esperienza che ho individuato all’origine della crisi della nostra contemporaneità.  I risultati di essa possono essere così sintetizzati:  1)-  L’esperienza educativa è sempre una esperienza in situazione, il che comporta il rifiuto di ogni tentativo di ingabbiarla in formule e schemi precostituiti.  2)-  Il suo ‘essere in situazione’ è legato non solo al fatto che si tratta sempre e comunque di un rapporto fra due o più soggetti, ma anche alla constatazione che essa risulta un processo continuo ma non per questo necessariamente lineare, che senza rifiutare il passato e tanto meno il presente ha nel futuro (da intendersi come possibilità ovviamente sempre aperte) la sua più propria connotazione.  3)- Essendo in situazione, l’esperienza educativa, comunque la si imposti e la si realizzi, non risulta mai caratterizzata dalla certezza e dalla sicurezza: gli  stessi principi della relazione e della possibilità possono essere disattesi fino al punto di rovesciarsi nel loro contrario.  Ad esempio, qualsiasi relazione adulto/bambino può trasformarsi in un caso di non-relazionalità quando il primo tendesse ad imporre al secondo la sua volontà, i suoi convincimenti, le sue ‘verità’; analogamente il trattamento di una istituzione come la scuola che dovrebbe, per la sua stessa ragion d’essere, caratterizzarsi come l’occasione forse più stimolante per un autonomo costituirsi del futuro dei propri ospiti, può tramutarsi in un trattamento che di fatto lo ‘blocca’ quando invitasse o addirittura obbligasse i soggetti che la frequentano ad una semplice e passiva accettazione di un sapere  fatto vivere come definitivo ed intoccabile.  4)-  La visione del mondo personale che emerge dalla capacità intenzionale di ogni  individuo (quindi anche dell’educando) è sempre aperta e soggetta al cambiamento.  Essa, di fatto, costituisce anche il quadro motivazionale (non causale, sia ben chiaro…) del comportamento e dell’insieme delle condotte di ciascuno, e perciò consente all’educatore di instaurare un  rapporto non autoritario ed impositivo, ovviamente se e nella misura in cui egli sappia  rifarsi (per riconoscerne comunque la dignità) entropaticamente  ad essa.  5)-  L’intervento educativo di conseguenza non consiste (non deve consistere), nell’imporre una determinata visione del mondo  - quella giudicata migliore o addirittura come l’unica ‘vera’ dall’educatore -   ma nel far vivere all’educando una serie di esperienze nuove e stimolanti, ovvero nell’espandere il suo campo di esperienza esistenziale, in modo che sia lui stesso in grado di arricchire, se necessario (come nel caso del ragazzo difficile) di modificare anche radicalmente, la propria visione del mondo.                   

Una pedagogia come scienza debole. 

Come ho scritto in precedenza, il ricorso alla fenomenologia , o, meglio,  l’incontro con essa, mi ha pure consentito di tentare (e di proporre) la costituzione di una pedagogia come scienza (non naturalistica od oggettivistica), o quanto meno di assegnare alla pedagogia la definizione di scienza.  Si tratta di un tentativo che trova la sua giustificazione nella consapevolezza che solo il raggiungimento di un livello scientifico può comportare il superamento delle semplici intuizioni, non importa quanto felici, per accedere a giustificazioni extra-individuali (ma non extra-soggettive) di ciò che si afferma e per evitare così estemporaneità improvvisazione superficialità, spesso assai pericolose.

Come sappiamo bene, c’è un modo di interpretare l’essere una scienza che fa riferimento ad un orizzonte di oggettività intesa come garanzia della verità o della esattezza di un’affermazione, di una nozione, di un idea e che esige di espungere dalla propria ricerca la soggettività sia individuale sia sociale.  Da tale interpretazione consegue che la forma(zione)  - e quindi l’educazione che, a nostro parere, è un sinonimo di formazione -  debba essere individuata in una prospettiva prestabilita appartenendo ad una struttura biologicamente o naturalisticamente data.  E consegue  che la pedagogia non dovrebbe realizzarsi altrimenti che come un percorso rigido, in un certo senso incontrovertibile,  in grado di aiutare o addirittura di condurre ogni soggetto da educare alla conquista di quella determinata forma, con ciò non dando spazio né al dubbio né ad una qualsiasi prospettiva di co-costruzione.

Ma c’è un altro modo di interpretare l’essere una scienza che non si esaurisce nel (o che non richiede come assolutamente necessario) l’orizzonte di una oggettività esterna alla soggettività intesa come garanzia di verità.  Si tratta di un modo che ha il suo punto di forza nella rigorosità (non nella esattezza…) del suo procedere o, se si preferisce, in una razionalità  critica tutta protesa ad evitare qualsiasi ‘concretizzazione malposta’ (per usare una significativa espressione di A.N. Whitehead) e quindi qualsiasi sostituzione della realtà autentica con una sorta di sua esasperata matematizzazione/ oggettivazione.   Viene qui chiamata in causa la nozione husserliana di Lebenswelt o  mondo della  vita (pre-categoriale) intesa come fonte e serbatoio per qualsiasi scienza in quanto è lì che si realizza quell’incontro tra le soggettività intenzionali (da intendersi comunque sempre ‘in carne ed ossa’) e il mondo esterno per il quale le prime non si perdono in un’astrattezza che le annullerebbero come tali, ed il secondo acquista quei significati che lo fanno essere, sempre in situazione e quindi sempre storicamente, in un certo modo.  Una Lebenswelt  che, riferendosi sempre ad esperienze vissute dai soggetti (considerati individualmente e socialmente),  costituisce l’unico autentico  mondo-per-l’uomo.  E’ ad esso quindi che la pedagogia  - come qualsiasi altro ambito conoscitivo o qualsiasi altra scienza-  deve rifarsi per mettere in evidenza le caratteristiche fondamentali dell’esperienza di riferimento, nel nostro caso dell’esperienza educativa.   Da esso è possibile   riconoscere la  regionalizzazione ontologica dell’educazione (per usare ancora una volta un termine di chiara derivazione husserliana) che è la garanzia della  autonomia di quest’ultima (ma non di chiusura) rispetto agli altri campi di esperienza e quindi agli altri saperi. 

Le prospettive che consentono di parlare di scienza, dunque, nel caso dell’esperienza educativa (come in qualsiasi altro caso), consistono  nella capacità di cogliere le cose stesse dell’educazione ovvero di precisarne le unità di senso (ovviamente intersoggettive) che le hanno costituite originariamente e continuano a costituirle. 

In primo luogo, il punto cruciale era ed é di rispondere alla domanda se la pedagogia ha un proprio oggetto autonomo di riferimento non confondibile con altri oggetti o campi di indagine. Una domanda, questa, ed una eventuale risposta decisive al fine della possibilità di affermare o no l’originarietà dell’esperienza educativa come uno dei momenti significativi  - una delle regioni ontologiche  -  della Lebenswelt, e quindi l’autonomia della stessa pedagogia. A tale domanda ho creduto di potere dare una risposta affermativa  identificando l’oggetto specifico della pedagogia (la cosa stessa dell’educazione) nell’insieme di quei fenomeni di cambiamento e trasformazione  - di sviluppo e di crescita non necessariamente lineari -  che la comunicazione interpersonale e la trasmissione culturale consentono e talvolta determinano.  D’altro canto, sono fenomeni che se per un verso sono in continuità con la situazione attuale sempre problematica - il dato di fatto storicamente necessario o, se si preferisce, l’insieme dei risultati via via e sempre di nuovo raggiunti dagli uomini -  per un altro verso sono da correlare anche con gli interventi scelti responsabilmente seppure non obbligatoriamente consapevoli, dai suoi protagonisti (V. P. Bertolini, L’esistere pedagogico, Firenze, La Nuova Italia, 1988 (8°, 2000), pag. 155).       

In secondo luogo,  il punto cruciale era ed è quello di identificare le unità di senso originarie o, come ho creduto opportuno definirle, le direzioni intenzionali originarie dell’esperienza educativa, quelle che, in ogni caso, consentono di identificare autonomamente quella stessa esperienza e che, andando al di là delle singole soggettività,  fondano la legittimità di parlare di scienza non in senso  ontologistico (che è termine ben diverso da ‘ontologico’) o metafisico ma in senso storico, materiale, ovvero concreto. Poco importa in questa sede riferire che dalla mia analisi al riguardo sono emerse le direzioni intenzionali della relazione-reciproca, della sistemicità, della possibilità, dell’irreversibilità, della socialità;  né che dalle successive analisi condotte da altri membri del gruppo (V. Iori, M. Tarozzi) sono emerse anche le direzioni intenzionali originarie della asimmetria e della differenza.  Ciò che importa qui sottolineare è che l’originarietà di quelle direzioni intenzionali (o unità di senso costitutive dell’esperienza educativa) non fa riferimento, come qualcuno polemicamente sostiene, ad una sorta di cornice metafisica, ma ha la sola peraltro fondamentale pretesa di indicare che esse nascono (si fondano, per l’appunto) su una più o meno lunga storia dalla quale non è possibile prescindere.   D’altro canto, il ricorso al concetto di originarietà ha anche il significato di sottolineare che ciò che è nella storia ha il carattere della universalità in quanto appartiene a tutti gli uomini che ad esso si rifanno ogni volta che vivono (rivivono) quella realtà, quel fenomeno, quella interpretazione.  Ma originario non definisce ciò che è immutabile o ‘vero in  assoluto’:  definisce piuttosto un punto di partenza (non oggettivistico ma nemmeno ingenuamente soggettivistico) dal quale prendono le mosse tutte le successive costituzioni di senso (ed i successivi interventi nel nostro caso educativi) non necessariamente lineari.  In più c’è da dire che la qualifica di ‘originario’ consente di non chiudersi nella singolarità, ma di passare dalla singola soggettività alla intersoggettività, che è una condizione imprescindibile perché si possa pervenire alla costituzione di una scienza.   Sicché tali direzioni intenzionali originarie della esperienza educativa hanno, oltre ad una  funzione di tipo cognitivo, una di tipo metodologico/operativo nella misura in cui sono in grado di suggerire, stimolare, orientare i nuovi interventi educativi (le varie procedure di intervento e gli stessi strumenti operativi), anche se questi ultimi, pur dovendosi confrontare dialetticamente con esse, vanno continuamente ripensati e rivisti in relazione alle condizioni storiche sempre diverse di cui debbono in ogni caso tenere conto.  Poiché non si tratta di principi rigidi e dati oggettivisticamente, esse hanno la caratteristica dell’apertura e della problematicità, da intendersi perciò come  costitutivi dell’educazione.

Si comprende così che questo tipo di pedagogia,  coniugando i suoi momenti teorici con quelli più esplicitamente pratici o didattici,   si presenta come una scienza debole dal momento che, come ho appena affermato, le sue strutture portanti o le sue forme essenziali sono appunto delle direzioni intenzionali e non dei principi rigidi o delle leggi causalisticamente connotate.  Il che, se  per un verso comporta che lo sviluppo di tale scienza, le sue concrete modalità di essere e realizzarsi non possono che essere caratterizzate da un continuo impegno storico ed esperienziale (che coinvolge i singoli operatori dell’educazione come le varie istituzioni educative) da ridisegnare peraltro  sempre di nuovo; per un altro verso e di conseguenza, non esclude ma anzi giustifica meglio il suo essere propugnatore di una educazione forte nel senso di consapevole della sua rilevanza sociale e della sua possibilità di svolgere una funzione eminentemente rivoluzionaria rispetto a prassi sociali pericolosamente sclerotizzate.

 

Sviluppi e attualità della pedagogia fenomenologica

Da ciò che mi sono sforzato di dire sia pure molto in sintesi sulle linee principali in cui si dipana la pedagogia fenomenologica, mi pare che si possa   

comprendere   la nostra convinzione che si tratti di una pedagogia di notevole attualità, pur non nascondendoci i suoi limiti e le sue continue possibilità (necessità) di aggiornamento e persino di significative revisioni.  Una attualità che si misura attraverso  la sua capacità di offrire, in ambito educativo,  delle quanto meno interessanti  alternative sia alle impostazioni francamente oggettivistiche che puntano, come ho detto in precedenza, ad una prassi educativa rigida perché causalisticamente fondata;  sia alle impostazioni francamente soggettivistiche  che puntano su una prassi educativa che, per rivalutare in particolare le dimensioni non puramente intellettualistiche dei singoli individui,  risulta estremamente parcellizzata, individualistica, non ripetibile e dunque esposta a molteplici rischi di utilizzazione ideologica.   Ne sono una testimonianza i contributi personali e/o di gruppo che nel corso degli ultimi quattordici anni sono stati dati ad una sempre migliore definizione (ed estensione) della pedagogia fenomenologica, contenuti sia nella collana sia nella rivista citati in apertura di questo intervento. 

Non è certo possibile in questa sede procedere ad una loro sistematica presentazione e discussione, ciò che d’altro canto ho fatto nel capitolo secondo del mio recente volume Pedagogia fenomenologica, capitolo dal titolo significativo approfondimenti e diramazioni della pedagogia fenomenologica, al quale quindi rinvio chi desideri documentarsi in proposito.  Qui di seguito mi limiterò a qualche indicazione di talune linee di ricerca e di talune prese di posizione che caratterizzano (o che sono contenute) i vari volumi della  collana, non senza avere sottolineato che ciascuno di essi, pur se cresciuto anche a partire dagli altri, è stato composto in piena autonomia.  

Per quanto riguarda l’approfondimento e la precisazione delle principali linee di ricerca che sono state seguite in questi anni, mi permetto ricordare, oltre al citato volume di Letizia Caronia Costruire la conoscenza nel quale si chiarisce il modo fenomenologico di impostare e condurre le ricerche scientifiche in ambito educativo:  il volume di Vanna Iori Essere per l’educazione nel quale l’a. mette in evidenza quelli che sono i possibili fondamenti di una scienza eidetica o trascendentale (l’Epoché, l’Erlebnis educativo, l’essere-in-relazione, il progetto da intendersi come valorizzazione di un possibile che si traduce in decisione e scelta;  il volume collettaneo Pedagogia al limite, vero e proprio manifesto dell’intero movimento dell’Enciclopaideia, nel quale i numerosi saggi, spaziando in varie aree del sapere pedagogico (spesso non consueto), e non solo, ne mettono in evidenza i necessari aspetti di problematicità (ovvero di rifiuto di qualsiasi forma di linearità che impoverirebbe la ricerca e la successiva prassi educativa) ed insieme cercano di far vedere la possibilità di una loro dialettica unificazione da intendersi come antidoto alla persistente debolezza epistemologica della pedagogia  ed alla sua frammentarietà. 

D’altro canto, per quanto concerne quella che ho definito in termini di diramazioni della pedagogia fenomenologica, ovvero del suo valore euristico, non posso non citare i contributi di Roberto Farné sulla opportunità di intendere la pace secondo un orizzonte di senso intenzionale; di Gabriele Boselli che propone un modo alternativo di intendere e di perseguire la programmazione scolastica affinché essa non si trasformi in una sorta di volontà di razionalizzazione del soggetto individuale che non coincide affatto con la ragione che è invece tensione, ordine aperto al disordine, sistema di modelli interpretativi;  di Bertolini e Caronia che propongono nel volume Ragazzi difficili, una interpretazione della devianza e della delinquenza soprattutto minorile  lontana dalle tradizionali posizioni positivistico/ deterministiche (che di fatto giungono a sostenere l’impossibilità di intervenire sul piano rieducativo) che, ridando senso alla stessa individualità dei soggetti in questione considerata quanto meno co-responsabile del proprio modo di essere e di comportarsi, fonda un modo alternativo di intendere e di perseguire un’autentica e produttiva azione educativa;  ancora di Vanna Iori  che nel suo volume Lo spazio vissuto, rivendica la necessità di riferirsi,  per ciò che concerne l’esperienza educativa, non agli aspetti fisici, materiali, strutturali di uno spazio considerato sotto la categoria dell’oggettività, ma alla sua caratteristica di essere un costesto esistenziale vivo, dinamico e popolato di percorsi formativi;  di Marco Dallari che in più di un’occasione propone in termini sia teoretici sia didattici di considerare l’arte come un autentico luogo dell’educazione.           

Ancora con riferimento all’arricchimento e alla espansione della pedagogia fenomenologica merita citare gli interventi di più autori volti a discutere, suggerire o riscoprire modi alternativi o dimenticati di proporre discorsi critici su argomenti e tematiche di grande rilievo non solo pedagogico.  Anche in questo caso il richiamo alla fenomenologia appare come uno dei leit-motiv irrinunciabili.   Rientrano in questo filone di ricerca il volume collettaneo Pedagogia al passato prossimo in cui ci si è sforzati di confrontarci con  la dimensione storica del sapere pedagogico;  quello di Alessandra Risso, I modi di amare Sofia, nel quale l’a. si cimenta con grande impegno storiografico ed ermeneutico nel proporre una lettura dei dialoghi platonici chiaramente ispirata alla fenomenologia se non altro perché ben consapevole della strutturale non limpidezza di qualsiasi intreccio/verità narrativi, sia dell’intima aporeticità di ogni strumento logico, linguistico, espressivo;  quello di Mariangela Giusti, Il desiderio di esistere, nel quale, presentando una serie di opere letterario/ narrative scritte da disabili o su disabili da chi ne condivide l’esistenza quotidiana, l’a. fa vedere come tali soggetti testimonino una volontà non solo di vivere ma di dare senso alla propria vita;  quello di Duccio Demetrio, L'educazione interiore,  nel quale l’a. affronta con straordinario acume e coraggio questo difficile e delicato tema, da troppo tempo trattato con modalità del tutto insoddisfacenti, proponendo una sorta di rivendicazione di una soggettività individuale o personale che non può essere confusa o ridotta esclusivamente a implicazioni relazionistiche ed altruistiche che spesso si fondano su privilegi e paralleli svantaggi:  una rivendicazione che invita ad intendere l’interiorità come esperienza del nostro essere nulla ed insieme qualcosa, nel momento in cui ci accorgiamo di pensare e di avere, in un tempo più o meno lontano, pensato e vissuto.   Sicché l’interiorità rappresenta la più antifondamentalista vita della psiche e della impresa conoscitiva, per la quale quindi non solo appare legittimo ma addirittura irrinunciabile prevedere un’educazione consapevole che consenta o stimoli nell’educando (non importa se bambino o adulto) una capacità di sperimentare se stessi ponendosi in una perpetua autoformazione; ed, ancora quello di Antonio Erbetta, Il tempo della giovinezza, nel quale l’a. offre uno straordinario esempio di lettura trasversale del mondo giovanile in cui convergono letteratura, filosofia e scienze umane, in funzione di una idea fondamentale:  quella per la quale la giovinezza, età pedagogica per eccellenza, è una situazione esemplare che mette in gioco, in ciascuno di noi, la nostra autenticità esistenziale.     

Infine, mi pare indispensabile accennare a tre volumi collettanei nei quali i membri del gruppo si confrontano con alcune delle tematiche educative e pedagogiche più ampiamente discusse in questo periodo storico, con l’intenzione tuttavia di prendere posizione.  E’ così per il volume Sulla didattica nel quale, stigmatizzando ogni maldestro tentativo di dicotomizzare la mente ed il corpo, si considera la didattica come un momento indispensabile della scientificità del discorso pedagogico, alla stessa stregua con cui affermata, considerata e perseguita come un analogo momento indispensabile di essa, quella riflessione teoretica che consiste nella ricerca e nella definizione dei significati originari e perciò orientativi dell’esperienza educativa.   E’ così per il volume Nel tempo della pluralità, nel quale ci si propone di fare uscire l’educazione interculturale da una persistente situazione di grave compromissione.  Pedagogia interculturale è quindi un guardare e un agire oltre le contraddizioni che, ad un costume monoculturalmente disegnato, continueranno ad apparire insanabili:  essa è un creare situazioni intellettuali ed operative entro le quali ogni differenza si dia e possa essere riconosciuta nel suo diritto ad esserci, nel qui ed ora, e nel suo pari diritto a non esserci, a restare cioè in quell’altrove che sempre ricompare ogni volta che si intraprenda un’educazione interculturale fondata sulla convivenza delle antinomie e sulla ricerca delle commistioni, delle metamorfosi reciproche, degli arricchimenti condivisi.  Infine è così per il volume La valutazione possibile nel quale gli autori, senza perdersi in inutili polemiche verso un modo di fare valutazione alla moda, confermano la complessità di quell’operazione.  Ma mentre si assiste a  tentativi sempre più diffusi di superare quelle difficoltà semplificando al massimo le proprie strategie, qui si considera come fondamentale la capacità di non negare la complessità del fenomeno ma di saperla gestire il più problematicamente (ma  anche il più realisticamente) possibile.

Un’ultima informazione che riguarda lo sforzo che il gruppo sta compiendo per l’immediato futuro:  esso consiste nel prendere in esame la questione, scontata quanto si vuole ma non per questo adeguatamente pensata e soprattutto perseguita, del rapporto tra educazione e politica.  Una questione che, soprattutto in questa nostra contingenza storica, appare come un compito irrinunciabile anche se estremamente difficile e complesso.  Per questo motivo abbiamo deciso di chiamare a confronto con noi numerosi studiosi italiani e stranieri in un convegno che si terrà a Bologna nei giorni 7,8,9 novembre prossimi.