SULLA
PEDAGOGIA FENOMENOLOGICA
Premessa,
ovvero sull’irrinunciabilità della pedagogia generale.
Sono
totalmente convinto dell’opportunità di continuare a dare vita, nell’ambito
della SIPED, al Seminario permanente di pedagogia generale. Come più volte ho avuto
modo di sostenere, la pedagogia generale non solo non può essere impunemente
eliminata dai vari curricoli formativi (come da qualche parte si sostiene
ritenendola troppo astratta e perciò inutile), ma mai come ora va affermata e
quindi adeguatamente perseguita. Essa,
infatti, come ricerca teorica o come teoria è l’espressione di quell’esigenza
di sistematizzazione e di organizzazione delle esperienze, dei dati, di tutto
ciò che si è storicamente e perciò concretamente verificato così come di tutto
ciò verso cui si tende, che caratterizza i vari ambiti del sapere. Si tratta di un’esigenza, nel caso della pedagogia, particolarmente forte
essendo l’esperienza educativa quanto mai complessa (anzi, sempre più complessa)
e perciò esposta al rischio della dispersione nell’occasionale (che corrisponde
al subdolamente condizionato). Di ciò è
conferma la presenza ormai evidente di una richiesta
di senso da parte di molti insegnanti ed operatori dell’educazione che si stanno, malgrado tutto, rendendo
conto dell’insufficienza delle soluzioni meramente metodologiche o
didattiche. Una richiesta di senso - d’altro canto tipica anche di molti giovani
- che nasce in particolare dallo
sconcerto che produce la contradditorietà dell’esperienza quotidiana, in particolare per ciò che concerne i
comportamenti sociali, che è ben altra
cosa rispetto alla condizione di strutturale e costitutiva incertezza (o
mancanza di certezze) dell’uomo e di tutto ciò che lo caratterizza. Ebbene, a me pare che la pedagogia generale,
intesa come ricerca teorica, possa essere considerata come un importante
(irrinunciabile?) tentativo di uscire
da quello sconcerto, senza negarne l’esistenza e senza ignorarne volutamente le
ragioni. Ma perché ciò possa
legittimamente verificarsi appare decisivo il modo con cui si cerca di teorizzare: che non pretenda di conquistare una o, peggio, la verità, ma che si sforzi di condurre
una ricerca costante e persino sofferta di mettere un po’ di ordine in ciò che si
sperimenta, sapendo bene che questo ordine non è mai definitivo ma sempre
aperto e da mettere in forse, dunque da conquistare sempre di nuovo. Ciò che conta non è tanto il risultato delle
diverse teorizzazioni, quanto il loro presentarsi come un modo consapevolmente
non definitivo, non globalizzante, di affrontare, nel nostro caso, le questioni
educative e soprattutto di problematizzarle, di rimetterle continuamente in
discussione, nella consapevolezza della loro insuperabile provvisorietà e
incertezza. Come dire, in primo luogo,
che la funzione di un corretto modo di impostare e di perseguire la pedagogia
generale consiste sia in un netto
rifiuto di ogni forma di semplificazione
che quasi sempre conduce agli innumerevoli esempi di ‘ismi’ (agli innumerevoli
esempi di fondamentalismi); sia ad un
analogo netto rifiuto di tutte le forme di scetticismo
che corrispondono di fatto ad un comodo disimpegno rispetto alla prassi di cui
siamo e dobbiamo essere protagonisti.
In secondo luogo, che - come molti grandi pensatori del passato ci hanno
insegnato, primo fra tutti Dewey - il
metodo irrinunciabile per una corretta impostazione di una pedagogia generale
deve consistere in una costante dialettica tra teoria e prassi - io preferisco parlare di una logica a spirale - tra l’esperienza storicamente verificatasi
(e verificantesi) e il momento della
riflessione teoretica o, se si preferisce, francamente filosofica.
L’incontro con la
fenomenologia.
E’
alla luce di queste importanti seppure necessariamente stringate osservazioni
che mi pare sia possibile cogliere il senso (le ragioni di fondo ma anche le
prospettive) di quella che abbiamo definito in termini di pedagogia fenomenologica.
Una definizione, questa, che abbiamo assunto allo scopo di distinguere
l’orizzonte di senso che caratterizza il nostro modo di impostare il discorso
pedagogico da altre impostazioni che pure dicono di riferirsi almeno in parte
(o, meglio, solo per quelle parti che paiono fornire un interessato sostegno a
posizioni sicuramente ‘altre’) alla fenomenologia. Poiché siamo in sede
pedagogica, ritengo sia più opportuno parlare appunto della pedagogia
fenomenologica anziché in generale di fenomenologia, con una eventuale breve
appendice su una possibile estensione del pensiero fenomenologico alle
tematiche proprie dell’educazione e quindi della pedagogia.
Qui
di seguito cercherò dunque di segnalare i punti più qualificanti di tale
orientamento pedagogico, quelli più
recenti e quelli futuri. Nel
fare questo, ovviamente, mi riferirò non solo ai miei due volumi L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di
una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata (La Nuova Italia, Firenze, 1988) e Pedagogia fenomenologica (La Nuova
Italia, Firenze, 2001), ma anche agli altri ventidue volumi, pubblicati sempre
dalla Nuova Italia, che insieme ai due citati, costituiscono la collana Enciclopaideia che si arricchisce
peraltro di anno in anno e che
unitamente alla rivista dal medesimo titolo (edizioni Clueb, Bologna),
rappresenta il luogo nel quale i membri del gruppo di persone che si
riconoscono, sia pure secondo percorsi autonomi, nell’ispirazione
fenomenologica, evidenziano il loro contributo al costituirsi e
all’approfondirsi appunto della pedagogia fenomenologica.
La
nostra prima preoccupazione è stata quella di pervenire ad una lettura fenomenologica dell’esperienza
educativa che consentisse di
chiarire meglio il senso stesso di tale esperienza e conseguentemente di costituire una pedagogia come scienza,
ovviamente non naturalistica od oggettivistica. Una scienza che in quanto tale
sia in grado di opporsi all’estemporaneità, all’occasionalità e al
pressapochismo propri di un certo modo di intendere quella esperienza, che
finiscono per trasformarla in facile strumento di istanze (ideologiche) ‘altre’
e dei ‘poteri’ (economici, politici…) via via costituitisi nel tempo. Come dire che l’esigenza da cui siamo
partiti è stata quella di mettere in relazione l’indubbio stato di
crisi della nostra cultura e della nostra società con l’azione educativa e con il pensiero pedagogico, nella
convinzione che questi ultimi, con le loro contraddizioni e con le loro
debolezze epistemologiche, ma anche con la loro rilevanza esistenziale, fossero
quanto meno co-responsabili di quello stato di crisi. Contraddizioni e debolezze epistemologiche che possono essere
rintracciate facilmente in una oscillazione tra un modo di intendere
l’educazione e la pedagogia (come riflessione su di essa) in termini spontaneistici, tali da
legittimare condizionamenti ad un tempo interessati ed ingenui; ed un modo di
intendere quella realtà e quel sapere in termini necessaristici, tali da
legittimare l’approntamento di piani bene ordinati e di precisi strumenti
operativi aventi la pretesa di produrre inequivocabili risultati in precedenza
stabiliti (scelti, voluti, imposti…).
E’ pur vero che in anni più
vicini a noi si è potuto assistere sia ad uno sforzo condotto trasversalmente
da certa pedagogia di pervenire ad una propria scientificizzazione; sia ad una
più decisa attenzione da parte di tutti per la dimensione
metodologico-didattica considerata l’unica in grado di fare uscire la pedagogia
da un vuoto formalismo nonché da un inevitabile moralismo. Ma nel primo caso, si è trattato di una
scientificizzazione condotta per lo più secondo canoni di tipo oggettivistico,
tipici delle scienze naturali che non consentono di cogliere la natura
autentica della stessa esperienza educativa.
Nel secondo caso, si è trattato di una attenzione per la didattica tanto
esclusivistica e perciò riduttiva da farle correre il rischio di una sua
esasperata tecnicizzazione che, ancora una volta, si presta ad ogni possibile
sfruttamento o utilizzazione dell’esperienza educativa da parte di contesti e
di interessi affatto diversi.
Il punto allora era ed è quello di pervenire ad
un diverso modo di intendere l’esperienza educativa (rispetto alle due
concezioni cui ho appena fatto riferimento) e di conseguenza ad un diverso modo
di scientificizzare la pedagogia, che, non disconfermando le caratteristiche
autentiche di quella esperienza l’aiuti a realizzarsi nel modo più corretto
possibile.
Il
ricorso alla fenomenologia husserliana
con i suoi successivi sviluppi legati ai nomi di M. Merleau-Ponty, M. Scheler,
L. Binswanger, M. Heidegger, E. Paci, ecc. ha avuto per me - e successivamente per gli altri
membri del gruppo - una grande importanza. Tale ricorso, infatti, ci ha offerto, più
che specifici seppure rilevanti risultati, una metodologia di ricerca
particolarmente stimolante proprio dal punto di vista pedagogico. E’ peraltro ovvio che il rapporto mio e
degli altri membri del gruppo dell’Enciclopaideia con la fenomenologia husserliana non si è arroccato su posizioni
di rigida dipendenza, ma si è andato progressivamente autonomizzando anche
sulla base degli stimoli che ci venivano offerti dalle prassi educative in cui
ciascuno di noi era, come è, direttamente coinvolto.
In
questo senso si può comprendere bene perché, accanto ed oltre l’individuazione
da parte nostra di alcuni punti chiave della proposta teoretica della
fenomenologia husserliana che ci parevano e ci paiono euristicamente
interessanti allo scopo di pervenire ad una più autentica comprensione dell’esperienza educativa, lo sforzo maggiore
che abbiamo compiuto in questi anni è stato quello di pervenire a riflessioni
di carattere epistemologico intorno a quella esperienza, fino alla pretesa di
costituire una pedagogia come scienza.
Per opportuni motivi di chiarezza e soprattutto per ovvi motivi di
sinteticità, mi sforzerò qui di seguito di dare conto di quei due tipi di
approccio con la fenomenologia che ho appena indicati, precisando peraltro che
tra loro esiste una stretta correlazione.
Il
ritorno alla soggettività e la costruzione della conoscenza.
Una
prima indicazione forte contenuta nella proposta teoretica della fenomenologia,
e che consente di pervenire ad una lettura dell’esperienza educativa di
straordinario interesse pedagogico, consiste nel richiamo che essa ha fatto
perché l’uomo sappia (ri)guadagnare la
propria soggettività sia a livello individuale sia a livello comunitario.
Il che vuol dire, in prima istanza, lottare contro ogni forma di alienazione
che si esprime tanto in una rinuncia (in una impossibilità?) alla propria
autonomia o, se si preferisce, in una passiva acquiescenza
nell’eterodirezione; quanto in quella
crisi della cultura e della società che si caratterizza in una perdita di senso
delle loro strutture e delle loro
stesse ragioni d’essere. In altre
parole, riguadagnare la propria soggettività significa (ri)prendere coscienza
del proprio responsabile coinvolgimento nel costituirsi stesso della storia
personale e sociale.
Ma
il ritorno alla propria soggettività
- che per i motivi appena
accennati può essere legittimamente considerato come un obiettivo centrale di
ogni esperienza (azione) educativa -
non è, nel caso della fenomenologia e a maggior ragione della pedagogia
fenomenologica, un ingenuo ritorno al modo classico e moderno di intenderla, come
fondamento stesso della realtà e dunque come esasperato antropocentrismo. Nell’interpretazione fenomenologica della
soggettività - la cui caratteristica
strutturale sarebbe costituita soprattutto dall’intenzionalità ovvero dalla capacità di dare un senso (dei
molteplici sensi) a ciò che le è esterno -
la presenza dell’oggettività (sia della realtà materiale sia delle
‘altre’ soggettività), infatti, non solo è riconosciuta come avente una propria
radicale autonomia, ma è considerata addirittura come costitutivamente
necessaria all’esistenza stessa della soggettività. Come dire che, secondo questa interpretazione, non si dà un
soggetto (gli infiniti soggetti) se non nel suo rapporto con un oggetto (con
gli infiniti soggetti), così come, corrispondentemente, non si dà alcun oggetto
se non in quanto esso si trovi in rapporto con un soggetto. Come disse chiaramente Husserl, “perdere
l’altro comporterebbe perdere se stessi”.
Proprio per questo, la soggettività di cui qui si parla, ed alla quale
la pedagogia fenomenologica fa esplicito riferimento, non può in alcun modo
essere concepita (e trattata) come una soggettività assoluta (di idealistica
memoria), ma sempre come una soggettività biologicamente psicologicamente materialmente condizionata,
dunque sempre individuale, o, come preferiamo dire noi, una soggettività sempre e comunque in carne ed
ossa e storicamente costituentesi.
L’interpretazione fenomenologica
non è, dunque, oggettivistica né soggettivistica, ma
‘relazionistica’.
In
questo senso, si tratta di (aiutare a formarsi) una soggettività debole poiché ben consapevole della propria storicità
e quindi della propria precarietà
esistenziale - testimoniata d’altro
canto dai tanti suoi fallimenti concreti -
ma non per questo necessariamente rinunciataria o caratterizzata da un
inevitabile naufragio. Al contrario,
proprio la sua strutturale debolezza le restituisce tutta la sua responsabilità
esistenziale o, se si preferisce, la sua capacità di intervenire
significativamente sul mondo, sugli altri
e su se stessa, momento per momento, secondo una prospettiva operativa
che rinvia ovviamente anche al
realizzarsi delle molteplici esperienze educative.
Da
qui la seconda indicazione forte che emerge dalla fenomenologia e che consente,
sempre a nostro parere, una
interessante lettura dell’esperienza educativa. Si tratta dell’interpretazione husserliana della conoscenza e/o della verità. La conoscenza (la verità), come, sulla
scorta della tradizione fenomenologica, è bene ripensata nel volume di L.
Caronia - Costruire la conoscenza - non
va intesa come lo sforzo dell’intelletto umano per adeguarsi alla (ad una)
realtà esterna in quanto presuntivamente dotata di strutture oggettive ed
assolutamente vere; né come una sorta
di imposizione del soggetto alla realtà esterna delle proprie modalità di
funzionamento, fino alla pretesa idealistica di considerare reale solo ciò che
è razionale. Si tratta invece di
concepirla come un processo costruttivo sempre dinamico e dialettico
(storicamente condizionato) nel quale ciò che conta è l’essere in quanto si manifesta e si rivela.
Il
soggetto va, dunque, interpretato come apertura a… e l’oggetto come rivelantesi
a… e la conoscenza come lo sforzo di cogliere il ‘come’ dell’essere (l’esistere), sapendo che questo ‘come’
dipende anche dall’attività del soggetto, condizionata a sua volta dallo stesso oggetto verso cui
si dirige. Come dire che il problema della conoscenza e della verità - che è certamente cruciale per l’educazione - si
affronta e si risolve anziché con la pretesa di cogliere il ‘soggettivo’ e
l’’oggettivo’, con lo sforzo di cogliere di ogni fenomeno (di ogni realtà) il
senso o il significato - i molteplici
sensi o significati - nella
consapevolezza che l’unica verità-per-l’uomo che conta davvero é l’insieme dei
significati che egli contribuisce a costituire. Ecco perché mi è parso fondamentale parlare di verità del senso anziché del senso della
verità. L’accostamento del termine ‘senso’ a quello di ‘verità’, infatti,
impedisce di intendere quest’ultimo in una accezione che richiami l’orizzonte
della certezza, dell’assolutezza, dell’inconfutabile; mentre l’accostamento del termine ‘verità’ a quello di ‘senso’
comporta la non accettazione per quest’ultimo di una interpretazione
soggettivistica che finirebbe per essere il fondamento di posizioni di
scetticismo, agnosticismo, qualunquismo.
Sostenere che il senso ha una verità comporta il riconoscimento che esso
ha una inconfutabile dignità e persino una ‘oggettività aposteriori’ di cui
occorre prendere atto per tentare di comprenderlo nella sua autenticità.
Infine,
su una terza indicazione forte
emergente dalla fenomenologia intendo qui soffermarmi sia pure molto
sinteticamente. Si tratta della
prospettiva della intersoggettività
che si afferma per l’impossibilità, già in precedenza sostenuta, di parlare di ‘io’ senza parlare nel
medesimo tempo dell’altro, degli altri io e/o delle altre persone: l’io e l’altro si richiamano vicendevolmente
giungendo così a costituire un complesso tessuto di relazioni
intersoggettive. Da qui la legittimità
di sostenere l’esistenza di una intersoggettività originaria, ovvero di un
tessuto sociale costitutivo della stessa esperienza umana. Poiché anche l’intersoggettività si attiva
mediante la capacità intenzionale, ci si trova di fronte a delle verità-per-noi (da cui derivano le
diverse culture e i diversi saperi) che, pur andando al di là delle singole verità-per-me (per-te, per-lui…) non le
elimina.
Ebbene, una lettura fenomenologica
dell’esperienza educativa caratterizzata dalle indicazioni appena precisate
appare non solo possibile e legittima ma, come ho via via riconosciuto, di
grande interesse, consentendo di allontanarci dalle due concezioni estreme di
quella esperienza che ho individuato all’origine della crisi della nostra
contemporaneità. I risultati di essa
possono essere così sintetizzati:
1)- L’esperienza educativa è
sempre una esperienza in situazione,
il che comporta il rifiuto di ogni tentativo di ingabbiarla in formule e schemi
precostituiti. 2)- Il suo ‘essere in situazione’ è legato non
solo al fatto che si tratta sempre e comunque di un rapporto fra due o più
soggetti, ma anche alla constatazione che essa risulta un processo continuo ma
non per questo necessariamente lineare, che senza rifiutare il passato e tanto
meno il presente ha nel futuro (da
intendersi come possibilità ovviamente
sempre aperte) la sua più propria connotazione. 3)- Essendo in situazione, l’esperienza educativa, comunque la si
imposti e la si realizzi, non risulta mai caratterizzata dalla certezza e dalla
sicurezza: gli stessi principi della
relazione e della possibilità possono essere disattesi fino al punto di
rovesciarsi nel loro contrario. Ad
esempio, qualsiasi relazione adulto/bambino può trasformarsi in un caso di
non-relazionalità quando il primo tendesse ad imporre al secondo la sua
volontà, i suoi convincimenti, le sue ‘verità’; analogamente il trattamento di
una istituzione come la scuola che dovrebbe, per la sua stessa ragion d’essere,
caratterizzarsi come l’occasione forse più stimolante per un autonomo
costituirsi del futuro dei propri ospiti, può tramutarsi in un trattamento che
di fatto lo ‘blocca’ quando invitasse o addirittura obbligasse i soggetti che
la frequentano ad una semplice e passiva accettazione di un sapere fatto vivere come definitivo ed
intoccabile. 4)- La visione
del mondo personale che emerge dalla capacità intenzionale di ogni individuo (quindi anche dell’educando) è
sempre aperta e soggetta al cambiamento.
Essa, di fatto, costituisce anche il quadro motivazionale (non causale,
sia ben chiaro…) del comportamento e dell’insieme delle condotte di ciascuno, e
perciò consente all’educatore di instaurare un
rapporto non autoritario ed impositivo, ovviamente se e nella misura in
cui egli sappia rifarsi (per
riconoscerne comunque la dignità) entropaticamente ad essa. 5)- L’intervento educativo di conseguenza non
consiste (non deve consistere), nell’imporre una determinata visione del
mondo - quella giudicata migliore o
addirittura come l’unica ‘vera’ dall’educatore - ma nel far vivere all’educando una serie di esperienze nuove e
stimolanti, ovvero nell’espandere il suo
campo di esperienza esistenziale, in modo che sia lui stesso in grado di
arricchire, se necessario (come nel caso del ragazzo difficile) di modificare
anche radicalmente, la propria visione del mondo.
Una
pedagogia come scienza debole.
Come
ho scritto in precedenza, il ricorso alla fenomenologia , o, meglio, l’incontro con essa, mi ha pure consentito
di tentare (e di proporre) la costituzione di una pedagogia come scienza (non naturalistica od oggettivistica), o
quanto meno di assegnare alla pedagogia la definizione di scienza. Si tratta di un tentativo che trova la sua
giustificazione nella consapevolezza che solo il raggiungimento di un livello
scientifico può comportare il superamento delle semplici intuizioni, non
importa quanto felici, per accedere a giustificazioni extra-individuali (ma non
extra-soggettive) di ciò che si afferma e per evitare così estemporaneità
improvvisazione superficialità, spesso assai pericolose.
Come
sappiamo bene, c’è un modo di interpretare l’essere
una scienza che fa riferimento ad un orizzonte di oggettività intesa come
garanzia della verità o della esattezza di un’affermazione, di una nozione, di
un idea e che esige di espungere dalla propria ricerca la soggettività sia
individuale sia sociale. Da tale
interpretazione consegue che la forma(zione)
- e quindi l’educazione che, a nostro parere, è un sinonimo di
formazione - debba essere individuata in
una prospettiva prestabilita appartenendo ad una struttura biologicamente o
naturalisticamente data. E
consegue che la pedagogia non dovrebbe
realizzarsi altrimenti che come un percorso rigido, in un certo senso
incontrovertibile, in grado di aiutare
o addirittura di condurre ogni soggetto da educare alla conquista di quella
determinata forma, con ciò non dando spazio né al dubbio né ad una qualsiasi
prospettiva di co-costruzione.
Ma
c’è un altro modo di interpretare l’essere
una scienza che non si esaurisce nel (o che non richiede come assolutamente
necessario) l’orizzonte di una oggettività esterna alla soggettività intesa
come garanzia di verità. Si tratta di
un modo che ha il suo punto di forza nella rigorosità
(non nella esattezza…) del suo procedere o, se si preferisce, in una
razionalità critica tutta protesa ad
evitare qualsiasi ‘concretizzazione malposta’ (per usare una significativa
espressione di A.N. Whitehead) e quindi qualsiasi sostituzione della realtà
autentica con una sorta di sua esasperata matematizzazione/
oggettivazione. Viene qui chiamata in
causa la nozione husserliana di Lebenswelt
o
mondo della vita (pre-categoriale) intesa come fonte e serbatoio per
qualsiasi scienza in quanto è lì che si realizza quell’incontro tra le soggettività
intenzionali (da intendersi comunque sempre ‘in carne ed ossa’) e il mondo
esterno per il quale le prime non si perdono in un’astrattezza che le
annullerebbero come tali, ed il secondo acquista quei significati che lo fanno
essere, sempre in situazione e quindi sempre storicamente, in un certo
modo. Una Lebenswelt che, riferendosi sempre ad esperienze
vissute dai soggetti (considerati individualmente e socialmente), costituisce l’unico autentico mondo-per-l’uomo. E’ ad esso quindi che la pedagogia - come qualsiasi altro ambito conoscitivo o
qualsiasi altra scienza- deve rifarsi
per mettere in evidenza le caratteristiche fondamentali dell’esperienza di
riferimento, nel nostro caso dell’esperienza educativa. Da esso è possibile riconoscere la regionalizzazione
ontologica dell’educazione (per usare ancora una volta un termine di chiara
derivazione husserliana) che è la garanzia della autonomia di quest’ultima (ma non di chiusura) rispetto agli
altri campi di esperienza e quindi agli altri saperi.
Le
prospettive che consentono di parlare di scienza, dunque, nel caso
dell’esperienza educativa (come in qualsiasi altro caso), consistono nella capacità di cogliere le cose stesse dell’educazione ovvero di
precisarne le unità di senso
(ovviamente intersoggettive) che le hanno costituite originariamente e
continuano a costituirle.
In
primo luogo, il punto cruciale era ed é di rispondere alla domanda se la
pedagogia ha un proprio oggetto autonomo di riferimento non confondibile con
altri oggetti o campi di indagine. Una domanda, questa, ed una eventuale
risposta decisive al fine della possibilità di affermare o no l’originarietà
dell’esperienza educativa come uno dei momenti significativi - una delle regioni ontologiche -
della Lebenswelt, e quindi l’autonomia della stessa pedagogia. A tale
domanda ho creduto di potere dare una risposta affermativa identificando l’oggetto specifico della
pedagogia (la cosa stessa dell’educazione) nell’insieme di quei fenomeni di
cambiamento e trasformazione - di
sviluppo e di crescita non necessariamente lineari - che la comunicazione
interpersonale e la trasmissione
culturale consentono e talvolta determinano. D’altro canto, sono fenomeni che se per un verso sono in
continuità con la situazione attuale sempre problematica - il dato di fatto
storicamente necessario o, se si preferisce, l’insieme dei risultati via via e
sempre di nuovo raggiunti dagli uomini -
per un altro verso sono da correlare anche con gli interventi scelti
responsabilmente seppure non obbligatoriamente consapevoli, dai suoi
protagonisti (V. P. Bertolini, L’esistere
pedagogico, Firenze, La Nuova Italia, 1988 (8°, 2000), pag. 155).
In
secondo luogo, il punto cruciale era ed
è quello di identificare le unità di senso originarie
o, come ho creduto opportuno definirle, le direzioni
intenzionali originarie dell’esperienza educativa, quelle che, in ogni
caso, consentono di identificare autonomamente quella stessa esperienza e che,
andando al di là delle singole soggettività, fondano la legittimità di
parlare di scienza non in senso
ontologistico (che è termine ben diverso da ‘ontologico’) o metafisico
ma in senso storico, materiale, ovvero concreto. Poco importa in questa sede
riferire che dalla mia analisi al riguardo sono emerse le direzioni
intenzionali della relazione-reciproca, della sistemicità, della possibilità,
dell’irreversibilità, della socialità;
né che dalle successive analisi condotte da altri membri del gruppo (V.
Iori, M. Tarozzi) sono emerse anche le direzioni intenzionali originarie della
asimmetria e della differenza. Ciò che
importa qui sottolineare è che l’originarietà di quelle direzioni intenzionali
(o unità di senso costitutive dell’esperienza educativa) non fa riferimento,
come qualcuno polemicamente sostiene, ad una sorta di cornice metafisica, ma ha
la sola peraltro fondamentale pretesa di indicare che esse nascono (si fondano,
per l’appunto) su una più o meno lunga storia dalla quale non è possibile
prescindere. D’altro canto, il ricorso
al concetto di originarietà ha anche il significato di sottolineare che ciò che
è nella storia ha il carattere della universalità in quanto appartiene a tutti
gli uomini che ad esso si rifanno ogni volta che vivono (rivivono) quella
realtà, quel fenomeno, quella interpretazione.
Ma originario non definisce ciò che è immutabile o ‘vero in assoluto’:
definisce piuttosto un punto di partenza (non oggettivistico ma nemmeno
ingenuamente soggettivistico) dal quale prendono le mosse tutte le successive
costituzioni di senso (ed i successivi interventi nel nostro caso educativi)
non necessariamente lineari. In più c’è
da dire che la qualifica di ‘originario’ consente di non chiudersi nella
singolarità, ma di passare dalla singola soggettività alla intersoggettività,
che è una condizione imprescindibile perché si possa pervenire alla
costituzione di una scienza. Sicché
tali direzioni intenzionali originarie della esperienza educativa hanno, oltre
ad una funzione di tipo cognitivo, una
di tipo metodologico/operativo nella misura in cui sono in grado di suggerire,
stimolare, orientare i nuovi interventi educativi (le varie procedure di
intervento e gli stessi strumenti operativi), anche se questi ultimi, pur
dovendosi confrontare dialetticamente con esse, vanno continuamente ripensati e
rivisti in relazione alle condizioni storiche sempre diverse di cui debbono in
ogni caso tenere conto. Poiché non si
tratta di principi rigidi e dati oggettivisticamente, esse hanno la
caratteristica dell’apertura e della problematicità, da intendersi perciò
come costitutivi dell’educazione.
Si
comprende così che questo tipo di pedagogia,
coniugando i suoi momenti teorici con quelli più esplicitamente pratici
o didattici, si presenta come una
scienza debole dal momento che, come
ho appena affermato, le sue strutture portanti o le sue forme essenziali sono
appunto delle direzioni intenzionali e non dei principi rigidi o delle leggi
causalisticamente connotate. Il che,
se per un verso comporta che lo
sviluppo di tale scienza, le sue concrete modalità di essere e realizzarsi non
possono che essere caratterizzate da un continuo impegno storico ed
esperienziale (che coinvolge i singoli operatori dell’educazione come le varie
istituzioni educative) da ridisegnare peraltro
sempre di nuovo; per un altro verso
e di conseguenza, non esclude ma anzi giustifica meglio il suo essere
propugnatore di una educazione forte
nel senso di consapevole della sua rilevanza sociale e della sua possibilità di
svolgere una funzione eminentemente rivoluzionaria rispetto a prassi sociali
pericolosamente sclerotizzate.
Da ciò che mi sono sforzato di dire sia pure molto in sintesi sulle linee principali in cui si dipana la pedagogia fenomenologica, mi pare che si possa
comprendere la nostra convinzione che si tratti di una
pedagogia di notevole attualità, pur non nascondendoci i suoi limiti e le sue
continue possibilità (necessità) di aggiornamento e persino di significative
revisioni. Una attualità che si misura
attraverso la sua capacità di offrire,
in ambito educativo, delle quanto meno
interessanti alternative sia alle
impostazioni francamente oggettivistiche che puntano, come ho detto in
precedenza, ad una prassi educativa rigida perché causalisticamente fondata; sia alle impostazioni francamente
soggettivistiche che puntano su una
prassi educativa che, per rivalutare in particolare le dimensioni non puramente
intellettualistiche dei singoli individui,
risulta estremamente parcellizzata, individualistica, non ripetibile e
dunque esposta a molteplici rischi di utilizzazione ideologica. Ne sono una testimonianza i contributi
personali e/o di gruppo che nel corso degli ultimi quattordici anni sono stati
dati ad una sempre migliore definizione (ed estensione) della pedagogia
fenomenologica, contenuti sia nella collana sia nella rivista citati in
apertura di questo intervento.
Non
è certo possibile in questa sede procedere ad una loro sistematica
presentazione e discussione, ciò che d’altro canto ho fatto nel capitolo
secondo del mio recente volume Pedagogia
fenomenologica, capitolo dal titolo significativo approfondimenti e diramazioni della pedagogia fenomenologica, al
quale quindi rinvio chi desideri documentarsi in proposito. Qui di seguito mi limiterò a qualche
indicazione di talune linee di ricerca e di talune prese di posizione che
caratterizzano (o che sono contenute) i vari volumi della collana, non senza avere sottolineato che
ciascuno di essi, pur se cresciuto anche a partire dagli altri, è stato composto
in piena autonomia.
Per
quanto riguarda l’approfondimento e la precisazione delle principali linee di
ricerca che sono state seguite in questi anni, mi permetto ricordare, oltre al
citato volume di Letizia Caronia Costruire
la conoscenza nel quale si chiarisce il modo fenomenologico di impostare e
condurre le ricerche scientifiche in ambito educativo: il volume di Vanna Iori Essere per l’educazione nel quale l’a. mette in evidenza quelli che
sono i possibili fondamenti di una scienza eidetica
o trascendentale (l’Epoché, l’Erlebnis
educativo, l’essere-in-relazione, il progetto da intendersi come
valorizzazione di un possibile che si traduce in decisione e scelta; il volume collettaneo Pedagogia al limite, vero e proprio manifesto dell’intero movimento
dell’Enciclopaideia, nel quale i numerosi saggi, spaziando in varie aree del
sapere pedagogico (spesso non consueto), e non solo, ne mettono in evidenza i
necessari aspetti di problematicità (ovvero di rifiuto di qualsiasi forma di
linearità che impoverirebbe la ricerca e la successiva prassi educativa) ed
insieme cercano di far vedere la possibilità di una loro dialettica
unificazione da intendersi come antidoto alla persistente debolezza
epistemologica della pedagogia ed alla
sua frammentarietà.
D’altro
canto, per quanto concerne quella che ho definito in termini di diramazioni
della pedagogia fenomenologica, ovvero del suo valore euristico, non posso non
citare i contributi di Roberto Farné sulla opportunità di intendere la pace
secondo un orizzonte di senso intenzionale; di Gabriele Boselli che propone un
modo alternativo di intendere e di perseguire la programmazione scolastica
affinché essa non si trasformi in una sorta di volontà di razionalizzazione del
soggetto individuale che non coincide affatto con la ragione che è invece tensione, ordine aperto al disordine, sistema
di modelli interpretativi; di Bertolini
e Caronia che propongono nel volume Ragazzi
difficili, una interpretazione della devianza e della delinquenza
soprattutto minorile lontana dalle
tradizionali posizioni positivistico/ deterministiche (che di fatto giungono a
sostenere l’impossibilità di intervenire sul piano rieducativo) che, ridando
senso alla stessa individualità dei soggetti in questione considerata quanto
meno co-responsabile del proprio modo di essere e di comportarsi, fonda un modo
alternativo di intendere e di perseguire un’autentica e produttiva azione
educativa; ancora di Vanna Iori che nel suo volume Lo spazio vissuto, rivendica la necessità di riferirsi, per ciò che concerne l’esperienza educativa,
non agli aspetti fisici, materiali, strutturali di uno spazio considerato sotto
la categoria dell’oggettività, ma alla sua caratteristica di essere un costesto
esistenziale vivo, dinamico e popolato di percorsi formativi; di Marco Dallari che in più di un’occasione
propone in termini sia teoretici sia didattici di considerare l’arte come un
autentico luogo dell’educazione.
Ancora
con riferimento all’arricchimento e alla espansione della pedagogia fenomenologica
merita citare gli interventi di più autori volti a discutere, suggerire o
riscoprire modi alternativi o dimenticati di proporre discorsi critici su
argomenti e tematiche di grande rilievo non solo pedagogico. Anche in questo caso il richiamo alla fenomenologia
appare come uno dei leit-motiv
irrinunciabili. Rientrano in questo
filone di ricerca il volume collettaneo Pedagogia
al passato prossimo in cui ci si è sforzati di confrontarci con la dimensione storica del sapere
pedagogico; quello di Alessandra Risso,
I modi di amare Sofia, nel quale l’a.
si cimenta con grande impegno storiografico ed ermeneutico nel proporre una
lettura dei dialoghi platonici chiaramente ispirata alla fenomenologia se non
altro perché ben consapevole della strutturale non limpidezza di qualsiasi
intreccio/verità narrativi, sia dell’intima aporeticità di ogni strumento
logico, linguistico, espressivo; quello
di Mariangela Giusti, Il desiderio di
esistere, nel quale, presentando una serie di opere letterario/ narrative
scritte da disabili o su disabili da chi ne condivide l’esistenza quotidiana,
l’a. fa vedere come tali soggetti testimonino una volontà non solo di vivere ma
di dare senso alla propria vita; quello
di Duccio Demetrio, L'educazione
interiore, nel quale l’a. affronta
con straordinario acume e coraggio questo difficile e delicato tema, da troppo
tempo trattato con modalità del tutto insoddisfacenti, proponendo una sorta di
rivendicazione di una soggettività individuale o personale che non può essere
confusa o ridotta esclusivamente a implicazioni relazionistiche ed altruistiche
che spesso si fondano su privilegi e paralleli svantaggi: una rivendicazione che invita ad intendere
l’interiorità come esperienza del nostro essere nulla ed insieme qualcosa, nel
momento in cui ci accorgiamo di pensare e di avere, in un tempo più o meno
lontano, pensato e vissuto. Sicché
l’interiorità rappresenta la più antifondamentalista vita della psiche e della
impresa conoscitiva, per la quale quindi non solo appare legittimo ma addirittura
irrinunciabile prevedere un’educazione consapevole che consenta o stimoli
nell’educando (non importa se bambino o adulto) una capacità di sperimentare se
stessi ponendosi in una perpetua autoformazione; ed, ancora quello di Antonio
Erbetta, Il tempo della giovinezza,
nel quale l’a. offre uno straordinario esempio di lettura trasversale del mondo
giovanile in cui convergono letteratura, filosofia e scienze umane, in funzione
di una idea fondamentale: quella per la
quale la giovinezza, età pedagogica per eccellenza, è una situazione esemplare
che mette in gioco, in ciascuno di noi, la nostra autenticità
esistenziale.
Infine,
mi pare indispensabile accennare a tre volumi collettanei nei quali i membri
del gruppo si confrontano con alcune delle tematiche educative e pedagogiche
più ampiamente discusse in questo periodo storico, con l’intenzione tuttavia di
prendere posizione. E’ così per il volume Sulla didattica nel quale, stigmatizzando ogni maldestro tentativo
di dicotomizzare la mente ed il corpo, si considera la didattica come un momento indispensabile della scientificità
del discorso pedagogico, alla stessa stregua con cui affermata, considerata
e perseguita come un analogo momento indispensabile di essa, quella riflessione
teoretica che consiste nella ricerca e nella definizione dei significati
originari e perciò orientativi dell’esperienza educativa. E’ così per il volume Nel tempo della pluralità, nel quale ci si propone di fare uscire
l’educazione interculturale da una persistente situazione di grave
compromissione. Pedagogia
interculturale è quindi un guardare e un agire oltre le contraddizioni che, ad
un costume monoculturalmente disegnato, continueranno ad apparire insanabili: essa è un creare situazioni intellettuali ed
operative entro le quali ogni differenza si dia e possa essere riconosciuta nel
suo diritto ad esserci, nel qui ed ora, e nel suo pari diritto a non esserci, a
restare cioè in quell’altrove che sempre ricompare ogni volta che si
intraprenda un’educazione interculturale fondata sulla convivenza delle
antinomie e sulla ricerca delle commistioni, delle metamorfosi reciproche,
degli arricchimenti condivisi. Infine è
così per il volume La valutazione
possibile nel quale gli autori, senza perdersi in inutili polemiche verso
un modo di fare valutazione alla moda, confermano la complessità di
quell’operazione. Ma mentre si assiste
a tentativi sempre più diffusi di
superare quelle difficoltà semplificando al massimo le proprie strategie, qui
si considera come fondamentale la capacità di non negare la complessità del
fenomeno ma di saperla gestire il più problematicamente (ma anche il più realisticamente) possibile.
Un’ultima
informazione che riguarda lo sforzo che il gruppo sta compiendo per l’immediato
futuro: esso consiste nel prendere in
esame la questione, scontata quanto si vuole ma non per questo adeguatamente
pensata e soprattutto perseguita, del rapporto tra educazione e politica. Una questione che, soprattutto in questa
nostra contingenza storica, appare come un compito irrinunciabile anche se
estremamente difficile e complesso. Per
questo motivo abbiamo deciso di chiamare a confronto con noi numerosi studiosi
italiani e stranieri in un convegno che si terrà a Bologna nei giorni 7,8,9
novembre prossimi.