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Architettura religiosa

Le realizzazioni dell'architettura templare meritano alla "città del selinon" di venire annoverata tra i centri più monumentali di tutto il mondo ellenico; e quel che ne resta ne fa il centro archeologico più importante di tutta l'area mediterranea. Di questa architettura ci sembra opportuno condensare qui, in una sintesi unitaria, i caratteri generali e peculiari. A chi visita le rovine di Selinunte è offerta la privilegiata occasione di leggervi, come in un libro aperto, la storia dello sviluppo dell'architettura templare di stile dorico: dall'elemento originario, il megaron (predorico) alle forme più arcaiche del tempio propriamente detto (tempietto M, a Gaggera; il c.d. "tempio delle piccole metope", sull'acropoli), a forme meno arcaiche (le grandi strutture monumentali dei templi peristili C e D sull'acropoli, il tempio F sulla collina orientale) e, attraverso forme di transizione (tempio G sulla collina orientale) e antiche (templi A e 0 sull'acropoli) sino a quelle di perfezione classica (tempio E sulla collina orientale). E questi templi per numero e grandiosità costituiscono uno dei più vasti complessi monumentali, in cui l'architettura dorica abbia fatto ampia e particolare applicazione di esperienze. E si spiega, ovviamente, la assoluta prevalenza dello stile dorico col fatto che i coloni fondatori della nostra polis erano di origine peloponnesiaca, i Megaresi. Per primi, nelle aree riservate sacre apparvero i santuari che potremmo definire "aperti": erano recinti delimitati o no da un muro perimetrale, nei quali sorgevano, con ordine molto approssimativo, edifici piccoli (thesauroi o sacelli, altari di forme diverse, offerte varie). L'assenza di un ampio sviluppo di strutture architettoniche non è indice di una datazione necessariamente molto alta, che vi si possono trovare costruzioni e ricostruzioni di epoca classica. Gli edifici piccoli, di cui s'è detto, sono una delle componenti del paesaggio urbano: non per caso li ritroviamo su alcune delle più belle monete di Selinunte, che presentano sul rovescio un personaggio (dio o eroe) che depone un'offerta su un altare, mentre l'ambiente è evocato per mezzo di qualche elemento naturale pittoresco(roccia, albero). Sappiamo che talvolta un santuario siceliota succedeva ad un luogo di culto indigeno: gli scavi hanno permesso, infatti, di identificare uno strato caratterizzato dalla presenza di focolari ed offerte che non lasciano dubbi sul carattere religioso dello stesso luogo.


A Selinunte vennero create tre aree di culto, di cui due in santuari aperti. Tali sono:



Quello della Malophoros,

Ad ovest dell'acropoli, oltre il Selinos, disposto sui fianchi di dune sabbiose, che inizialmente doveva comprendere soltanto alcuni piccoli altari. Questo luogo di culto periferico (che, per quello che finora ci ha dato, G. Pugliesc-Carratelli definisce "santuario pan-sicano", cioè punto d'incontro tra popolazioni indigene, greche e anelleniche) fu importante dal punto di vista cultuale greco, che comprendeva il santuario di Demetra Malophoros, accompagnata dalla figlia Kore e associata al culto di Ecate e di Zeus Meilikhios. Esso risale (in base al materiale rinvenuto) alla fine del VII o all'inizio del VI secolo a.C., cioè al momento in cui i coloni sembrano avere occupato la zona del porto alla foce del Selinos. L'arcaicità del santuario si può sostenerla perchè‚ il recinto di Zeus Meilikhios presenta accanto all'altare una caratteristica molto particolare: depositi votivi che sono stati seppelliti nella sabbia e il cui posto è segnalato da stele senza nessuna lavorazione ; e si può sostenerla anche sulla base del fatto che lo Zeus qui venerato era quello che nella mitologia greca era originariamente il dio anche dell'oltretomba ; mentre la scelta di questo luogo di culto periferico si può spiegare col fatto che i Megaresi fondatori dovettero trovarvi una popolazione indigena e culti che -come s'è detto- dovettero venire assimilati. Così, anche la presenza di Zeus Meilikios esprimeva il rapporto esistente tra il santuario e la necropoli che si estendeva in direzione N-O (ora detta di Manicalunga-Timpone Nero). A questo santuario venne probabilmente destinata la parte settentrionale di un'arca sacra originairiamente più vasta, e nel VI secolo a.C., si sovrapposero nella parte più bassa di esso: un propylon con due facciate di stile in antis, che vi dava accesso da est; un altare e una cappella, che era un semplice megaron di pianta regolare e senza colonne; più tardi ancora (forse nel sec,V a.C.) il santuario venne delimitato da un muro perimetrale meridionale costniito in blocchi regolari di tecnica classica. Devesi evidenziare che a sud di questo muro sono stati recentemente scavati i resti chiari di un altro edificio sacro e le fondazioni di tratti di un muro di recinzione, che presentano affinità tecniche col peristilio del temenos della Malophoros. Per attrazione, in prossimità di questo santuario venne ad installarsi, a nord, il c.d. tempio M, per il quale non s'è potuto stabilire a quale divinità fosse consacrato;



Quello della zona meridionale dell'acropoli

Durante il periodo più antico non doveva presentare un aspetto molto diverso dal primo: vari dispersi altari in blocchi regolari (VI-V secolo a.C.), i cui modesti avanzi, recentemente rinvenuti ed identificati sotto le costruzioni ellenistiche, sono attualmente oggetto di studio. Durante la
seconda metà del sec. VI a.C., in una parte di questo santuario venne costruito un temenos dai limiti, come s'è detto, ben definiti, mentre i settori sud e sud-ovest restarono aperti. Il limite occidentale del temenos, determinato
dal tracciato urbano, si allineava sul grande asse N-S, il che provocò la distruzione di alcuni altari. Anche sul
lato sud la costruzione del muro perimetrale determinò delle modifiche negli edifici anteriori; mentre a nord esso toccò la strada F (v. carta n. 13), che costituiva, si ripete ancora, il punto di riferimento del tracciato. All'interno di questo temenos vennero costruiti, verso la metà del sec. VI a.C., i templi peristili C e D, cosicchè il semplice santuario aperto si trasformò in santuario a carattere monumentale; e quando fu realizzato il grande asse nord-sud dell'acropoli, vi furono integrati i primi gradini della krepìs (=gradinata) del tempio D, che oltrepassavano il muro perimetrale ovest del temenos, e provocò la distruzione parziale di un edificio precedente situato ad ovest del tempio C. Fu il tracciato urbano che determinò la regolarizzazione del temenos, e non viceversa. Il gusto per il monumentale si tradusse nella sistemazione dell'estrema parte est dell'acropoli meridionale, dove fu realizzato un vasto spiazzo che metteva in valore le facciate dei templi; tale spiazzo era sostenuto nei suoi lati est e nord da un magnifico muro a gradini, che, nell'angolo nord-est, seguendo il pendio del terreno, dava accesso al santuario tramite una rampa, e questo accesso fu in seguito chiuso con la costruzione di un muro con una porta pur essa chiusa in seguito. Nel primo quarto del secolo VI a.C., nel settore sud dell'acropoli furono realizzati i templi A e 0 (più tardi nella parte meridionale dell'acropoli apparvero santuari di tipo punico, che erano legati all'abitato più strettamente di quanto non lo fossero i santuari greci). Tornando ai due santuari aperti, si ribadisce che essi non si preoccupavano della organizzazione o della sistemazione dello spazio; gli edifici erano disposti senza ordine, tenendo conto solo delle esigenze rituali (orientamento degli altari, ecc.) o, ripetiamo, da quelle imposte dalla topografia. I santuari (e poi i templi) furono, per esigenze di rito, orientati ad est; ma un est, cioè il punto dove sorge il sole, stabilito nel giorno della messa in opera dell'edificio e che quindi, presentava, secondo la stagione, delle differenze. Così si spiega che se il tempio C è orientato est-ovest, il tempio D, pressapoco parallelo al precedente, verso est viene a toccare un altare anteriore, il cui asse forma un angolo di 45' con quello del tempio D stesso;


La collina orientale

la terza area di culto (periferica come quella di Malophoros, che s'è detta, ma più importante dal punto di vista architettonico) sorse sulla attuale collina di Marinella o collina orientale (rispetto all'acropoli), come affermazione di egemonia cultuale e politica sin dal momento della fondazione della colonia. Qui i tre templi E - F - G erano disposti secondo una composizione di tipo "processionale", visibile non solo nel loro rapporto ma anche in rapporto alla grande strada nord-sud dell'acropoli; rapporto, quest'ultimo, approssimativo,
che fa supporre da un lato che uno schema topografico fu probabilmente ideato nell'insediamento della colonia
megarese sul sito, ma che d'altro canto uno spazio non fu definito e delimitato per le composizioni architettoniche. Il tempio "E" era rinchiuso nel suo proprio temenos, che lo separava dagli altri due; e gli scavi effettuati di recente (da G. Gullini, dell'Istituto Archeologico dell'Università di Torino) hanno dimostrato che un primo santuario (E 1) vi era stato creato al momento stesso della fondazione della colonia o poco tempo dopo. Vero è che il colpo d'occhio sul mare di rovine dei templi selinuntini ne coglie tutta la doricità, del resto sbocciata naturalmente sull'impianto etnico originario e alimentato di vivi rapporti colla cultura architettonica dorica di Sicilia e della madrepatria ellenica. In sostanza, mentre l'urbanistica di Selinunte nacque, almeno nei suoi elementi fondamentali, con la città stessa, l'architettura monumentale religiosa non apparve prima della seconda metà del sec. VI a.C., originariamente in forme tradizionali, in seguito con creazioni originali fatte di elementi di provenienza diversa, ma rielaborati con la volontà di farne opera veramente autonoma.

 

Influenze e originalità delle forme architettoniche

Infatti, nel sec.VI a.C., Selinunte, come la Sicilia greca in genere, si apri alle influenze più varie, specialmente a quelle provenienti dall'Est. In definitiva, una rielaborazione continua di forme e di tipi dominò il susseguirsi della serie dei templi selinun tini. Caratteristiche dei templi selinuntini (le quali si riscontrano fin nei più antichi esempi dei templi sicelioti in genere) sono: la proporzione allungata dell'edificio e l'organizzazione degli spazi interni. Già nei primi mégara la lunghezza era tre o quattro volte superiore alla larghezza, al pari che nei primi templi ionici. Influssi ionici, dunque. Ma diversa, cioè originale, è la divisione dello spazio interno, tripartito in vestibolo, ambiente mediano, adyton; questo schema era attuato, anche se in proporzioni ridotte, già nelle cappelle dei santuari aperti e si riscontrerà ancora nel corso del V secolo a.C.. L'influenza ionica (il gusto per i vasti spazi) è rilevabile particolarmente nel tempio G (in tutta la Sicilia, per le proporzioni, secondo solo all'Olimpieion di Agrigento), dove la lunghezza della galleria fra colonnato e cella corrisponde a tre interessi del colonnato (è larga ben undici metri, cioè quanto la cella del Partenone) e dove la cella è divisa in tre navate da due file di colonne interne su due (o tre) livelli separati da un architrave; e la navata centrale era a cielo aperto; e dove la sensazione di vastità era accentuata da un prostilo di 4x2 colonne all'ingresso della cella, con un vestibolo che dava accesso al santuario tramite porte corrispondenti alle tre navate. Nello stesso tempio G, poi, occhi culturalmente esperti rilevano influenze ioniche anche nella grammatica decorativa (decorazioni e modanature). La provenienza di tali influenze è stata recentemente individuata nell'arca samio-milesia (Asia Minore del sud-ovest) dal Theodorescu, che ha pubblicato una serie di capitelli ionici dalle proporzioni allungate e dalle volute poco sviluppate (proprie delle serie eoliche, ma modificate nel loro passaggio attraverso l'Attica) e perfino con motivi e disegni che ricordano Rodi e Cipro. A questi capitelli ritrovati a Selinunte al momento non si riesce a dare una collocazione monumentale. L'area di provenienza di tali influenze è quella stessa da cui venne esportata verso l'Occidente la produzione di ceramica e di piccole terrecotte. Come, poi, le influenze ioniche siano potute penetrare in Selinunte, e nella Sicilia greca in genere, anche prima che nella Grecia stessa, si spiega agevolmente col fatto che abitanti dell'Eubea (arca ionica) vennero tra i primi a fondare nell'isola un imponente numero di colonie. Le influenze dell'architettura corinzia si limitano alle strutture esterne, senza modificare la pianta interna, cioè nella peristasis dei templi preclassici (nel tempio corinzio però le due facciate della cella erano simmetriche e ciascuna aveva il suo vestibolo attraverso il quale si accedeva alla cella divisa in due ambienti non comunicanti). Altre caratteristiche dei templi di Selinunte sono: la valorizzazione della facciata con un dispositivo a prostilo; il notevole risalto della galleria del peristilio, paragonabile a quella degli edifici della Grecia dell'Est (senza che si possa parlare di vera e propria influenza) e maggiore che nelle piante continentali. 

 

Il tempio dorico canonico (il tempio E)

Contaminazioni cessarono a Selinunte quando, all'inizio del sec. Va. C., si stabilì il tempio classico. Il rapporto lunghezza-larghezza andò riducendosi sino a presentare nei lati lunghi della petistasis il doppio più una delle colonne dei lati corri; tale rapporto costituisce uno dei canoni del tempio dorico classico (quale è qui a Selinunte il tempio E), al quale venne giustapposto, ad ovest, l'opisthòdomos. Si constata inoltre che la colonia megarese, mentre, pur nella sua posizione periferica, si apriva precocemente alle forme nuove che l'architettura dorica veniva elaborando, d'altro lato indulgeva a soluzioni dettate dal persistere di una tradizione molto antica; oppure risolveva in modo originale, per proprio conto, i problemi struttivi, e non solo struttivi, atti a realizzare le forme importate. Doveva esserci spazio per soluzioni originali in un tempo in cui l'architettura templare dorica non aveva ancora definito i suoi canoni. D'altro canto tali soluzioni erano fors'anco imposte dal tipo di materiale disponibile in loco; e la presenza di gente venuta da paesi lontani può aiutare a spiegare la diversità delle tecniche e delle forme dell'architettura templare della nostra polis. Così a Selinunte è dato di trovare -come s'è detto- l'elemento originario della sua architettura templare: il megaron predorico, un ambiente rettangolare tutto chiuso, con una porta d'ingresso sulla fronte e un àdyton nel fondo (vedi quello di Malophòros e l'altro sull'acropoli), semplici porte mettevano in comunicazione i vari ambienti. Il megaron predorico, appunto, un pò modificato nelle proporzioni e nel pronao talora aperto, diventa poi la cella dei grandi templi, nei quali al megaron-cella si sono aggiunti stilobate, peristilio, trabeazione. Da sottolineare la persistenza dell' àdyton (cioè la divisione tripartita dello spazio interno: vestibolo, cella, àdy ton) tanto negli edifici primitivi quanto nelle costruzioni templari con peristilio, anche nel tempio E (canonico), che ha ormai, come s'è detto, un opisthòdomos con due colonne in antis, con conseguente riduzione dell'ambiente mediano del naòs (e col t. E siamo in epoca classica, che dall'inizio del V secolo a.C., l'influenza di Atene in Sicilia fu rapida e totale in tutti i campi, specialmente a Selinunte). La detta persistenza è dovuta forse a motivi di culto e attesta, si ripete ancora, la discendenza del megaron-cella dal megaron predorico. Chi poi abbia presenti le forme canoniche del tempio dorico, coglierà gli imperfetti o originali risultati attuati dall'architettura selinuntina nel suo sviluppo. La gran parte dei templi di Selinunte si colloca, perciò, in quello che viene definito come stile dorico siciliano, caratterizzato dalle particolarità specifiche dovute alle primitive tecniche locali, che danno una impressione di inesperienza, e alla diversità delle già rilevate influenze ricevute. Da sottolineare la totale impossibilità all'inizio di far corrispondere nei lati corti i triglifi e gli assi delle colonne; inoltre, nei primi templi, la variabilità degli interassi, proporzioni pesanti e massicce dovute al restringimento del colonnato, all'ammassamento delle colonne e alla mole sovrastante della trabeazione; mentre la stereotomia (che fa grande uso di blocchi megalitici e monolitici) mal si adattava al nuovo materiale che veniva a sostituire il mattone crudo.

 

Il dorico siciliano

 Più in particolare:
a) nel Megaron della Malophòros: assenza di basamento, di fregio, di mutuli; salienti dei timpani senza rastremazione sul frontone orientale; pronao chiuso (un megaron di Demeter in Megara di Grecia è ricordato da Plutarco, de E ap. Delph. 388 f );
b) nel tempio M: assenza di basamento; avamportico; forse assenza dell' àdyton;
c) nel tempio C, il primo dei templi peristili sull'acropoli: colonnato fitto e pesante; pianta molto allungata e quindi facciata preceduta da un doppio colonnato, la cui profondità corrispondeva a tre colonne; quattordici colonne monolitiche (riproduzione lirica dei tronchi lignei impiegati nel pteròn originario del tempio dorico); assenza di
éntasis (=rigonfiamento) e numero vario di scanalature (da 16 a 20) nelle colonne; intercolumni diseguali; colon-
ne angolari di modulo maggiore rispetto alle altre; assenza di contrazione degli elementi delle estremità dei lati
e, quindi, architrave più corto dei capitelli angolari e quindi, ancora, triglifi di moduli diversi per far coincidere i triglifi angolari (più lunghi) con l'asse delle colonne; architrave di due assise; metope incassate tra i triglifi;
d) nel tempio F: quattro colonne sul fronte del pronao, che assume una forma intermedia fra il pronao in antis e il naòs prostilo; esistenza di ori muro (alto quasi cinque metri) a chiusura degli intercolumni;
e) nel tempio G (monumento a grande effetto più che opera d'arte, costruito verso la metà del sec. VI a.C., all'epoca in cui a Selinurite apparve la tirannide): evidenti influenze ioniche già rilevate; più in particolare: àdyton
quadrangolare isolato, incluso nel naòs e realizzato come un naìskos, cioè come edificio quasi autonomo, che ha
indotto in passato taluno a opinare che questo tempio fosse un "mantéion" dedicato ad Apollo pitico (ma recentemente, sulla base soprattutto della "grande iscrizione degli dei" rinvenuta tra i suoi stessi ruderi, lo si attribuisce a Zeus e ripeteva certamente il tempio ipetrale di Zeus Kronios in Megara di Grecia, ricordato da Plutarco, de E ap. Delph., 388 f); peristilio diptero (=a doppio colonnato) ma che, mancandovi il colonnato interno, era in sostanza pseudo-diptero. Lo si può considerare come il capolavoro degli architetti selinuntini, che vi seppero fondere tradizioni siciliane, strutture doriche, una concezione dello spazio interno e una pianta tipicamente ioniche. Si può parlare, dunque, di un vero e proprio stile composito dorico-ionico, la cui apparizione in Grecia è molto tarda e di cui gli architetti selinuntini appaiono dei precursori. Uno stile più omogeneo si formò verso l'inizio del sec. V a.C., quando, si generalizzò il sistema modulare nelle proporzioni e nei ritmi dorici. Alcune soluzioni empiriche tuttavia persistettero più per raffinatezza che per necessità, come per esempio nell'Heràion (tempio E2), dove il taglio lievemente trapezoidale dei singoli blocchi della gradinata (krepìs) era destinato a dare all'insieme un movimento di curvature. All'inizio, forme e tecniche dell'architettura dovettero adattarsi alle risorse e ai materiali locali: le forme erano rudimentali e le tecniche erano quelle della pietra, del mattone crudo e del legno. 

 

Le cave

I costruttori selinuntini, non disponendo di marmo, usavano pietra ricavata da cave locali ben individuate: per l'immediato, il ciglio roccioso della zona Acropoli-Manuzza; successivamente quella di Latomie, a nord della città; quella di Cusa, ad Ovest della città (oggi in territorio di Campobello di Mazara): esse davano una pietra calcarea a grana grossa, di natura tufacea, impiegata fin dalle prime costruzioni di una certa importanza con tecnica isodoma fatta di blocchi regolari. L'ultima delle tre cave ha conservato tutti i segni della tecnica adottata: per estrarre i blocchi si praticavano profondi tagli, si usavano punzoni di legno dopo aver effettuato col piccone le necessarie intaccature rettilinee o circolari; anche il primo lavoro di sbozzatura dei blocchi veniva praticato nella cava, compreso quello dei fusti o dei tamburi delle colonne, che erano arrotondati prima di essere staccati. Le tracce rinvenute sui blocchi dei templi permettono di riconoscere i procedimenti usati nel sollevarli: i solchi a forma di U e i canali a V scavati nelle pareti laterali dei massi; i dadi esterni (olivelle) volutamente lasciati sporgenti dal centro della superficie inferiore dei tamburi; i fori a forma di piramide tronca praticati al centro della superficie superiore dei tamburi e destinati a ricevere gli elementi delle olivelle. I blocchi venivano giustapposti o sovrapposti e rari sono i legamenti orizzontali o verticali fra i blocchi stessi. Tale tecnica costringeva i costruttori selinuntini ad una preparazione molto accurata degli angoli, a lavorare con la massima precisione le superfici orizzontali e verticali, per assicurare un migliore appoggio dei blocchi gli uni agli o sugli altri. Certo è che i Selinuntini, forse risentendo della influenza delle tradizioni indigene, sicule o sicane, ebbero il gusto del megalitismo delle loro costruzioni, come è documentato dai templi C, D, e G in special modo. Predominarono fin dalle costruzioni più arcaiche le assise in blocchi rettangolari segati seguendo i filoni della cava, ma senza la preoccupazione puntuale del ritmo preciso della isodomia; le assise erano si abbastanza regolari, ma i blocchi non avevano una lunghezza costante, nè rispettavano dovutamente le giunture verticali. I blocchi venivano tagliati dalla maggior parte dei prigionieri che appartenevano allo Stato; per il loro trasporto venivano impiegati carri a quattro ruote, che dovevano essere trainati da un centinaio di buoi (Diodoro, IV, 80, 5-6). 

 

Rivestimento in terracotta

Significativo è che l'architettura templare selinuntina conservasse, almeno nel tempio C, il tipo di rivestimento in terracotta, anche quando tutta la trabeazione era realizzata in pietra; probabilmente perchè la mediocre qualità del calcare non si prestava ad una decorazione scolpita. Tali rivestimenti potevano raggiungere un metro di altezza. Si tratta di lastre a disegni dipinti (trecce, fiori di loto, kyma, palmette) che nascondevano le estremità delle strutture di legno destinate a sopportare i tetti o che rivestivano le strutture litiche collocate sopra le colonne sia dei lati brevi che dei lati lunghi; di antemi a palmette che rivestivano i gocciolatoi; della colossale protome di una grottesca Gorgone a rilievo basso dipinto, che decorava la fronte del timpano del tempio C, il cui frontone poteva essere sormontato da un ampio "acroterio"; dei tegoloni curvi polieromi che coprivano le estremità dell'asse del tetto. Un rivestimento racchiudeva le parti apparenti dell'impalcatura (il "ghèison"); un altro, a forma di cornicione, serviva da grondaia (la "sima"). Come si vede, queste terrecotte architettoniche avevano una duplice funzione: pratica (servivano a proteggere le parti esterne rivestite) e decorativa (in quanto elementi ricchi di rilievi e di colori). Inoltre, conferivano ai templi arcaici di Selinunte un aspetto sontuoso e provavano ad un tempo le qualità tecniche ed artistiche degli artigiani della nostra polis. Per le coperture dei templi (e degli edifici pubblici in genere) si fece uso di grandi lastre di terracotta rettangolari (fino a cm,75 di lunghezza) con delle tegole semicircolari o pentagonali per coprirne le commettiture. 

 

Intonaci e stucchi

Per rivestire i materiali porosi delle colonne e dei capitelli, venivano impiegati intonaci e stucchi, sia nelle costruzioni antiche che per tutta l'epoca classica. Suggestivamente sposati con la policromia (fu l'Hittorff a scoprire la policromia architettonica particolarmente attuata in Sicilia), intonaci e stucchi risultano essere stati largamente e originalmente impiegati, tanto più che i Selinuntini disponevano in loco della materia prima, e in tale abbondanza da esportarne anche. La terra o creta selinuntina (menzionata, ghè Selinusia, in Dioscoride,V, 179; in Galeno, XIII; in Vitruvio,VII, 1 4; in Plinio, Nat. hist., XXXV, 23 e 56) era tutt'altra cosa dell'argilla per vasi. Essa, diluita nell'acqua o nel latte di calce, formava una sostanza colorante che si potrebbe chiamare "il bianco di Selinunte" ed entrava appunto nella composizione degli intonaci. Tinta con del pastello, dava una imitazione di indaco. Dell'uso di intonaci colorati nei templi di Selinunte, per tanto tempo messo in dubbio, è dato tuttora cogliere tracce su frammenti architettonici. U'insieme di questi elementi decorativi, estranei peraltro al gusto greco, fanno intendere di quali valori si caricasse, per un'insopprimibile esigenza di espressione decorativa, l'architettura templare di Selinunte (e siceliota in genere), a danno, certo non a valorizzazione, degli elementi strutturali fondamentali così percepibili, essenziali e scoperti sopratutto nell'ordine dorico.

 

Il legno

 Pure, e soprattutto, architettonico fu, nei primi anni della nostra colonia, l'uso del legno. Di legno erano i primi sostegni, la trabeazione, gli architravi con tutta la modanatura. Per i templi (come in genere per gli edifici di notevoli dimensioni) furono usate travi di una portata di gran lunga superiore a quella degli edifici contemporanei in Grecia (si possono immaginare le dimensioni dell'ossatura di legno del tetto del tempio G.). L'incorniciatura a forte rilievo delle metope del tempio C dimostra che il fregio primitivo comportava anch'esso una struttura di legno destinata a ricevere sia un riempiniento di mattoni sia una lastra di terracotta dipinta. Di legno erano state, come s'è detto, le prime colonne del peristilio (il che spiega, come s'è rilevato, come alcune colonne del peristilio del tempio C risultano monolitiche).