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Per
la realizzazione di questa pagina si ringrazia il
dott. M. Melis per la cortese collaborazione.
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GLI
ARATRI
Anche
se oramai completamente caduti in disuso perchè
sostituiti da prodotti dell'industria più idonei,
non è lontano il tempo in cui gran parte di lavori
di aratura venivano effettuati dall'agricoltore
sardo col caratteristico aratro di legno a chiodo.
Mancando dell'orecchio, esso veniva usato in
particolare per tracciare le gore di scolo
dell'acqua piovana nei campi, in quanto consentiva
di aprire un solco nel quale le zolle venivano
divise e riversate ai due lati. Quando la gora
doveva essere più larga, a livello del vomere
veniva legata una fascina di ramaglie che permetteva
la contemporanea pulizia del fosso.
Veniva
confezionato artigianalmente in loco ed era
costituito da una lunga stanga di legno resistente,
spezzata a metà circa per una sua maggiore
elasticità, terminante con una curvatura, in fondo
alla quale era fissato un porta vomere bipennato sul
retro e appuntito nella parte anteriore per poter
ricevere il vomere di ferro a chiodo. Tra questi due
elementi era inserito un bastone (nèrbiu), che
aveva una triplice funzione: di sostegno, in quanto
irrobustiva la struttura di tutto il complesso; di
regolazione della profondità del solco e di
spartizolla. Per la guida portava infissa
verticalmente, nel punto della stanga, col
portavomere, una asta di legno terminante nella
parte superiore a croce.
Dai
primi decenni di quest'ultimo secolo le tecniche
agricole si sono evolute anche presso l'agricoltOre
trexentese, nonostante il suo attaccamento alla
tradizione e una certa refrattarietà alle
innovazioni. L'aratro di ferro è stato il primo
prodotto della tecnica che è entrato nella vita
agricola nostrana. Per la sua enorme diffusione non
riteniamo di doverci soffermare a descriverlo;
diremo solo che i tipi prevalentemente usati erano
quello standard e il voltaorecchio, quest'ultimo
particolarmente utile nelle arature in collina in
quanto consentiva di arare solco su solco anzichè
in circolo.
Di
ancora notevole utilità è per l'agricoltore un
altro attrezzo con funzioni aratorie denominato
erpice frangizolle (Tsapp'à Kavallo), costituito da
una serie (5 o 7) di aste di ferro ricurve, fissate
ad un telaio, e terminanti ciascuna con un piccolo
vomere triangolare. Due bracci ne consentivano la
manovrabilità e due ruote laterali la profondità
dell'aratura e una più spedita funzionalità. Il
nome è già esplicativo della funzione; veniva
usato però anche per sotterrare le granaglie
seminate a spaglio, invece dell'aratro, per una
maggiore rapidità nel lavoro.
Di
non minore utilità era l'erpice (tsrèppi) che
consentiva rapide zappatture dei cereali nella prima
fase vegetativa, l'estirpazione di erbacce appena
radicate ed un più uniforme livellamento del
terreno. La loro descrizione si è resa necessaria
per poter meglio mettere in evidenza il lavoro di
manutenzione che l'agricoltore deve esplicare anche
nei confronti di essi.
Quasi
quotidianamente, specie nei periodi di maggior uso
di questi attrezzi, deve verificarne l'efficienza e
provvedere alle riparazioni e regolazioni di
emergenza, salvo portarli dal fabbro ferraio quando
sia necessario il suo intervento.
Abbiamo
voluto mettere in evidenza anche queste incombenze
che gravano sull'agricoltore per far risaltare
vieppiù quanto egli sia carico di lavoro e quanto
poco tempo gli resti per riposare o ricrearsi.
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I
CARRI
Il
carro subisce radicali trasformazioni a
seconda dell'uso cui deve essere adibito. Il carro
agricolo tradizionale è costituito da una stanga di
legno resistente, opportunamente sagomata, spaccata
a metà per i 4/5 circa della sua lunghezza in modo
da poterne divaricare le due parti tanto da
consentire l'appoggio su di esse di un assito (sterrimentu)
con funzione di piano di carico. Su questo, in
opportuni incastri, vengono montate due spalliere
simmetriche (kubas) Il tutto poggia su un assale
collegato a due ruote a raggi, di legno, tenuto da
cerchi di ferro (lamonis) che ne costituiscono il
battiStrada. In certe occasioni is kubas, per
allargare la capienza del carro, vengono integrate
da una speciale gabbia (kubabis),
formata da grossi bastoni di legno,
generalmente mandorlo, che viene incastrata negli
spazi vuoti de is kubas per consentire il carico di
covoni di grano, il trasporto delle fave dal campo
all'aia e di altri carichi voluminosi e
relativamente pesanti.In altre occasioni, quando il
materiale da trasportare non sufficientemente
consistente da poter essere trattenuto da is kubabis,
come paglia e letame da stalla, all'interno di essi
viene collocata sa cedra, sorta di stuoia
confezionata con mazzi di verbaSco (kadumbu). Nel
periodo della vendemmia il carro viene liberato da
is kubas per lasciare spazio a un tino che viene
fissato a sa skaba de su karru per mezzo di funi
attorcigliate. Quando si doveva trasportare la legna
da ardere, raramente reperibile in zona, per cui era
necessario spostarsi nelle zone boscose del Gerrei,
era opportuno sfruttare al massimo la capienza del
carro, e pertanto, mediante l'incastro di una
speciale forcella (frocidda) nella parte anteriore
de sa skaba, il carico delle fronde poteva essere
effettuato fin quasi a raggiungere il punto de sa
skaba dove si attaccava il giogo (guàbi). La
forcella sopra citata serviva a restringere il
carico tanto da consentire libertà di movimento ai
buoi. A tutti questi adattamenti del carro deve
provvedere sempre l'interessato e anche la
confezione delle attrezzature accessorie sopra
descritte avviene in modo autarchico; di queste
ultime descriveremo le fa si di lavorazione
nell'apposito capitolo.
GLI
ATTREZZI A MANO
Questi
attrezzi sono numerosi e di vario uso. Quelli
maggiormente usati sono le zappe, le falci; i
rastrelli, i tridenti, i badili e certe zappe a
foglio molto largo (marralladas). L'uso cui sono
adibiti è troppo noto perché sia necessaria una
particolare descrizione; mi limiterò ad accennare
che anche di essi l'agricoltore deve tenere
particolare cura affilando quelli a lama,
sostituendone i manici quando lo richiedano e
evitando di lasciarli esposti alle intemperie.
Appare interessante mettere in rilievo la cura quasi
religiosa che l'agricoltore dedica alla confezione
dei manici di questi attrezzi. In quelle zone dove
mancano i perastri e gli olivastri, il cui legno è
notoriamente ritenuto il migliore a tale scopo, per
le sue caratteristiche di leggerezza e di
resistenza, ripiega sul mandorlo, anch'esso
sufficientemente rispondente allo scopo. I rami da
usare vengono scelti con grande meticolosità,
sfrondati, stagionati artificialmente mediante
cottura alla fiamma e quindi costretti sotto massi
di pietra per ottenere la forma più idonea
all'attrezzo cui venivano destinati. Analogo
trattamento veniva riservato ai pungoli (strunbus) e
a certi grossi bastoni che costituivano
all'occorrenza accessorio del carro per determinati
carichi (fustis de karru, fustis de Kubabis).
[da:
"edilizia e manifattura domestica in
Trexenta" (1900-1960) M.Melis]
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