Santo Stefano di Camastra

Cenni storici


     Ogni trattazione storica su Santo Stefano non può prescindere da due date certe e fondamentali:
     -Il sei giugno 1682 un vasto movimento franoso travolse l'abitato ubicato allora in quella contrada che oggi, proprio a ricordo della passata calamità, prende il nome di Lavanca;
     -Il trenta marzo del 1683 il governo spagnolo, di cui allora la Sicilia era un viceregno, concesse a don Giuseppe Lanza Barresi, duca di Camastra, la licentia aedificandi (il permesso di ricostruzione) del centro abitato nell'attuale sito, a nord-ovest del precedente e notevolmente più vicino al mare.
     La vecchia sede del centro abitato è oggi un ameno luogo collinare costellato di villette prevalentemente abitate in estate e di rare case coloniche. Del vecchio insediamento vi si conservano, o meglio sopravvivono, alcuni ruderi di chiese poeticamente rivestiti di edera, che col suo tenace e compatto mantello ne ha permesso l'identificazione e la permanenza nel tempo.
     Sono ancora vivi nell'uso comune i toponimi Lavanca, già citato, Santo Stefano Vecchio, di evidente significato, e Convento, contrada posta al confine settentrionale di Lavanca, dove prima della frana viveva una comunità di frati minori in un edificio i cui resti murari, di tozza forma quadrangolare e più solidi e consistenti di tutti gli altri oggi visibili, sono stati disinvoltamente ed impunemente abbattuti da pochissimi anni.
     I ricercatori ipotizzano fondatamente l'esistenza di almeno un sito ancora più antico, denominato Noma, di cui non è concordemente identificata l'ubicazione, né si conoscono i motivi dell'abbandono da parte della popolazione, che fino al 1682 visse nella località già descritta e citata nei documenti con i nomi di Santo Stefano di Mistretta oppure di Santo Stefano in Valdemone.
     Per spiegare l'origine dell'attuale denominazione, Santo Stefano di Camastra, bisogna rifarsi ad alcuni decenni prima della frana, precisamente al 1639, quando con decreto reale emesso a Madrid venne insignito del titolo di principe di Santo Stefano di Mistretta don Antonino Napoli, al quale nel 1659 l'abate del monastero di Sant'Anastasia di Castelbuono, feudatario ecclesiastico di Santo Stefano, cedette ogni suo diritto sul territorio in questione.
     Nel 1666 i diritti del Napoli passarono alla vedova Maria Gomez de Silveyra e da questa nel 1675 al suo secondo marito, don Giuseppe Lanza Barresi, duca di Camastra, sotto il cui principato si verificarono gli eventi calamitosi del 1682, che lo indussero a chiedere al re Carlo II di Spagna la licenza di ricostruire il paese nel sito attuale.
     Ottenuta la licenza, il Lanza Barresi si fregiò con pieno diritto del titolo di principe di Santo Stefano, che da allora cominciò ad assumere l'attuale denominazione. Nel 1754 gli eredi Lanza, oberati dai debiti, si disfecero dei possedimenti stefanesi a favore di don Antonino Strazzeri, che un anno dopo fu investito dei diritti feudali di barone di Santo Stefano, non di principe, però, perché gli eredi del duca di Camastra avevano conservato questo titolo, pur con funzione puramente onorifica.
     Con due atti notarili, rispettivamente del 1832 e del 1838 i principi Trigona-Gravina, eredi degli Strazzeri, cedettero al "Sig. dott. Luigi Sergio" i possedimenti stefanesi, lasciati agli eredi che li mantennero per oltre un secolo, insieme all'annesso titolo baronale, prettamente onorifico fin dall'acquisto dell'ex feudo, essendo stati aboliti in Sicilia fin dal 1812 i diritti e le prerogative feudali.
     Da questa data, ovviamente, non si parlerà più di investiture, ma per un certo tempo l'uomo della strada siciliano probabilmente non notò alcun cambiamento nella vita di ogni giorno e neppure nell'assetto dei posti di potere; a Santo Stefano, per esempio, le dignità ecclesiastiche e le cariche civili per un certo periodo furono distribuite tra le famiglie Sergio e Florena.
     Queste ed altre basavano il loro benessere sulla proprietà agricola, come prima lavorata da schiere di contadini analfabeti, ma nella stragrande maggioranza dei casi devoti ai padroni, sebbene angariati da amministratori senza scrupoli, esigentissimi verso i contadini, ma nella maggior parte dei casi veri e propri ladri salariati nei confronti dei padroni, che quasi mai avevano la possibilità di agire incisivamente per eliminare questi abusi, meglio reati continuati, forieri di rovina di molti patrimoni.
     I risultati furono evidenti dopo l'unità d'Italia, quando emersero figure di nuovi ricchi, descritti da Verga o da Tomasi di Lampedusa con dovizia di particolari.
     Da una parte vi furono nuovi ricchi alla don Calogero Sedara, che a poco a poco entrarono in possesso dei beni dei vecchi padroni, in parte con mezzi illeciti, in parte con matrimoni, e si dettero alla politica soppiantando il ceto patrizio nella funzione di classe dirigente.
     Vi furono poi dei villani o artigiani alla mastro don Gesualdo, che senza velleità politiche erano riusciti ad inserirsi tra i ricchi del paese, con i quali competevano vittoriosi nel tenore di vita o nell'educazione raffinata ai figli.
     Meno appariscenti, ma senza dubbio più numerosi, furono quei contadini alla Mazzarò, che con duro lavoro, ma anche con mano lesta, si procacciavano il denaro occorrente per acquistare terreni sempre più frequentemente offerti in vendita da ex feudatari in crisi economica ormai irreversibile.
     Tutto ciò non per vivere da signori in case comode né per fare studiare i figli né per permettersi agi fino ad allora impossibili, ma solo per inseguire il sogno plurigenerazionale di divenire possidenti di terreni sempre più estesi, anche se questo comportava il perpetuarsi di una vita di duro risparmio o addirittura di stenti, temperata solo dalla soddisfazione di procedere ad un nuovo acquisto, una volta raggranellata la somma necessaria.
     Santo Stefano per qualche tempo rischiò di essere totalmente assorbita nel fenomeno ora descritto, quando un fatto nuovo ne cambiò il volto socio-economico: alcune famiglie di stoviglieri, fino ad allora poveri artigiani, dettero una svolta alla loro produzione, lanciando sul mercato mattonelle maiolicate, dipinte a vivaci colori e destinate tanto alla pavimentazione quanto ad usi decorativi.
     Alla produzione di mattonelle si affiancò con notevole successo quella di oggetti ornamentali di svariata foggia e destinazione.
     In breve le mattonelle e in misura minore gli altri oggetti fittili stefanesi raggiunsero tutto il bacino del Mediterraneo, determinando diverse attività indotte, tra cui la creazione di una flottiglia di velieri da trasporto, i varchi ruossi (*), mezzi indispensabili prima dell'esistenza di strade rotabili e dei grossi mezzi di trasporto gommato.
     Tutto ciò portò un discreto benessere, che, comunque, poté solo attenuare, non scongiurare, il fenomeno dell'emigrazione transoceanica.
     Questa nuova fonte di ricchezza, però, sfuggì alla classe agricola, per estraneità di interessi, e più che mai alle residue famiglie considerate ancora aristocratiche, alle quali in linea di massima ripugnava l'idea di esercitare attività lavorative, fatta eccezione per gli alti gradi militari, per prestigiosi impieghi pubblici o per attività professionali di alto livello.
     La svolta economica portò, se non ad un totale ricambio, almeno alla cooptazione subita a malincuore dall'ex aristocrazia e dalla media borghesia terriera del nuovo ceto artigianale e marittimo nella classe dirigente del paese.
     L'avvento del fascismo tolse alle vecchie classi ogni velleità di ritorno all'antico, poiché, pur rimanendo quasi intatto il sistema di economia liberale, alla direzione amministrativa o politica si accedeva per meriti basati soprattutto sulla fedeltà al regime, senza ovviamente prescindere da capacità personali o professionali che potessero dar lustro all'immagine del regime stesso, che teneva ad accreditarsi come la sintesi delle aspirazioni di tutte le vecchie e le nuove classi della società italiana.
     La seconda guerra mondiale segna non solo il crollo del fascismo, ma anche la graduale introduzione, a Santo Stefano e in tutto l'Occidente, del sistema americano di vita, che premia quei cittadini che riescono ad emergere nell'economia e nella politica, indipendentemente dalle origini o dai mezzi usati per primeggiare.
     Le peculiarità e le tradizioni locali si perdono o vanno artificialmente mantenute, data la massificazione delle abitudini inculcata dai moderni mezzi di comunicazione.
     In questo contesto non ha più senso continuare a parlare di storia di Santo Stefano.

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NB. Il presente lavoro è stato scritto al solo scopo di fornire un quadro storico essenziale ad una ricerca scolastica. Per ampliare e approfondire le conoscenze su Santo Stefano si rinvia alle seguenti pubblicazioni, elencate in ordine cronologico:
1) - Edmondo Cataldi - Santo Stefano di Camastra(numero speciale del quotidiano Il Popolo di Sicilia). Palermo 1930;
2) - Liborio Mingari - Santo Stefano di Camastra in Atlante di storia urbanistica siciliana. Palermo 1982;
3) - Salvatore Ruggeri - Santo Stefano di Camastra. Messina 1982;
4) - Enzo Di Salvo - Santo Stefano di Camastra: Evoluzioni storiche della sua civiltà. Palermo 1994.
* - Barche grosse, così definite per distinguerle dalle barche da pesca notevolmente più piccole e che erano sistemate in uno scalo adiacente (ndr)."'E varchi ruossi" è un toponimo ancora oggi attribuito a quella parte del nostro litorale destinato allo scalo, ora irriconoscibile per il fenomeno dell'erosione delle coste e per gli effetti indesiderati della costruzione di alcune opere protettive.

"Maiores nostri"

     A questo punto è opportuno far menzione di alcuni stefanesi, che ebbero particolare importanza nella vita della nostra comunità, pur non essendo assurti alla notorietà dei personaggi storici di prima grandezza.
     Apriamo la rassegna con Mons. Giovanni Sergio(1766 - 1827). Figlio di don Gaetano, morto pochi mesi dopo la nascita del figlio, e di donna Giuseppa Pizzuto, compì gli studi al seminario di Cefalù, della cui diocesi allora faceva parte la nostra comunità parrocchiale.
     Poco dopo l'ordinazione presbiterale fu eletto vicario e poi primo arciprete di Santo Stefano, dove nel 1806 ebbe il singolare privilegio di ospitare nel palazzo di famiglia, il Re Ferdinando di Borbone, proveniente da Palermo, al quale si unirono il principe ereditario ed un altro figlio, provenienti dalla Calabria.
     In occasione dell'incontro l'arciprete Sergio riscosse nei suoi regali ospiti una tale stima, da esser proposto alla Santa Sede per la dignità episcopale. Il re di Napoli, infatti, come molti altri sovrani del tempo, godeva dello ius praesentationis, del diritto, cioè, di presentare alla Santa Sede i nomi dei candidati alle sedi vescovili del regno.
     Il palazzo dove avvenne l'eccezionale ricevimento, ubicato tra il corso Vittorio Emanuele, la piazza Matrice, la via Luigi Sergio e la via Caracciolo, oggi in parte è stato venduto a terzi e per la parte restante è adibito ad attività commerciali o ricreative, ma conserva nel cortile una lapide che in lingua latina fa menzione dell'avvenimento.
     La segnalazione reale ebbe attuazione nel 1814, quando la caduta di Napoleone consentì il rientro a Roma del papa Pio VII, il quale nominò vescovo di Cefalù mons. Sergio, che in precedenza aveva brillantemente sostenuto i relativi esami, come attestato da una lettera di plauso inviata al re dalla Santa Sede.
     Santo Stefano deve a mons. Sergio, tra l'altro, la riedificazione su un precedente e ben più modesto edificio della chiesa del Calvario, ricca di pitture e di stucchi, dedicata alla Vergine Addolorata, di cui il prelato era stato particolarmente devoto fin dalla fanciullezza.
     Mentre l'opera, seppur benemerita, di mons. Sergio si svolse all'insegna e all'ombra del vecchio regime, da un'altra famiglia, che già aveva annoverato personalità laiche ed ecclesiastiche di provata fedeltà alla dinastia borbonica, provengono il dott. Cristoforo Florena(1809 - 1864), che nella rivoluzione del 1848 fu eletto deputato alla Camera dei Comuni del Parlamento siciliano e il di lui figlio, avv. Filippo, (1840/1915), che per ben quarant'anni e per undici legislature fu deputato al Parlamento e poi senatore del Regno d'Italia.
     La transizione tra il Regno delle Due Sicilie e il nascente Regno d'Italia fu gestita da un comitato provvisorio composto dal canonico Croce Milia, presidente, dall'ingegnere palermitano Gaetano Priolo, dal capitano Andrea Serra. A questi furono aggiunti il predetto dott. Cristoforo Florena, il sac. Serafino Pagliaro, Antonino Garofalo, Giuseppe Alberti e Tommaso Aversa segretario. A questo punto è il caso di far menzione della famiglia Aversa, proveniente da Mistretta, che diede i natali nel secolo XVII a don Tommaso ,uomo di lettere, divenuto sacerdote, dopo aver perso giovanissimo la moglie e l'unica figlioletta. A lui Mistretta intitolò il Regio Ginnasio, trasformato con la stessa intitolazione nell'attuale scuola media statale, dopo la riforma Bottai del 1940.
     In un ben diverso contesto politico l'avv. Giuseppe Aversa(1879 - 1924) fu uno degli ottanta sansepolcristi, così chiamati perché nel 1920 diedero inizio in una casa milanese di piazza Santo Sepolcro al fascio di Benito Mussolini.
     Caddero la monarchia sabauda ed il regime fascista e nella nuova Italia repubblicana e democratica non mancarono figli di Santo Stefano, che si distinsero nel servire lo Stato in posti di prestigio e di responsabilità.
     Si possono annoverare tra essi l'ing. Arcangelo Florena (1892 - 1971), che, dopo aver percorso fino ai più alti gradi la carriera direttiva nelle Ferrovie dello Stato, fu per molti anni e fino alla morte senatore della Repubblica, proveniente dalle file della Democrazia Cristiana, e per qualche tempo anche sottosegretario nel Ministero dei Trasporti.
     Al Partito Comunista Italiano appartenne fin da giovanissimo avv. Nino Piscitello (1926 - 1978), distintosi subito dopo la Liberazione nelle lotte contadine contro i latifondisti. Ebbe incarichi di notevole importanza nell'organizzazione interna del partito di appartenenza e fu deputato eletto nella circoscrizione della Sicilia Orientale e successivamente fino alla morte senatore della Repubblica, eletto nel collegio di Siracusa.
     La lista dei parlamentari stefanesi si chiude, almeno finora, con il prof. Giuseppe Gerbino (1925 - 1995). Militante in organizzazioni ecclesiali e sociali del laicato cattolico ed iscritto alla Democrazia Cristiana, fu per un lungo periodo sindaco di Santo Stefano e successivamente per tre legislature deputato eletto nella circoscrizione della Sicilia orientale.
     Tra i sindaci non parlamentari emerge la figura di Gaetano Armao (1814 - 1880). Liberale e patriota secondo lo spirito risorgimentale, rivendicò come sindaco i diritti su alcuni territori del comune stefanese, aggregati nel passato per vari motivi al comune di Mistretta.
     Le sue più importanti benemerenze, però, vanno ricercate nell'industria delle ceramiche, che deve a lui l'introduzione di tecniche molto raffinate nella produzione di ambrogette (mattonelle decorate e smaltate) che da Santo Stefano si diffusero in molti paesi europei e mediterranei.
     Anche se fatiscente ed in attesa di restauro, rimane della famiglia Armao un palazzetto decorato con un fregio di mattonelle raffiguranti decorazioni riconducibili a motivi neoclassici ed immagini della morte di Ettore. L'opera più pregevole raffigura in un pavimento l'imperatore Napoleone III.
     Si potrebbe continuare con altri personaggi, ma essi, più che altro, possono essere considerati notabili locali di estrazione borghese, anche se alcuni di essi furono insigniti di cavalierati o di commende, che, secondo una celebre espressione, " in Italia, come un sigaro, a nessuno vengono negati".
     Qualcuno riuscì ad avere un titolo nobiliare puramente onorifico, concesso con molta facilità come i saldi di fine stagione, dalla monarchia borbonica ormai al lumicino, oppure acquistato da qualche aristocratico in decadenza economica.
     Ciò, come è ovvio, ha poco o nulla in comune con una ricerca scolastica.
    

Giuseppe Cataldi

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