Il Corano così recita: "Gli uomini sono in posizione superiore alle donne" (4,34). Nella Tradizione degli Hadith viene riportato che Maometto abbia detto: "Non ho visto nessuno più minorato di voi femmine nell'intelligenza e nella religione; un uomo serio può essere facilmente traviato da alcune di voi" e anche "Non è evidente che la testimonianza di DUE donne è uguale a quella di UN uomo?". La donna è, insieme al cane e al maiale, uno degli esseri che corrompe la preghiera di un musulmano, se passa alla distanza di un tiro di sasso vicino a lui (Abu Dauud, Salat 109). Aran ibn Hussain narrò che Maometto disse: "Guardai nell'inferno, e vidi che le donne costituivano la maggior parte dei suoi abitanti". In altre fonti antiche si narra che Maometto abbia detto: "Quello che Dio accoglie in paradiso sposerà 72 mogli", che saranno sempre sensuali e disponibili per il piacere dell'eletto. Nelle udienze in tribunale la testimonianza femminile non ha peso, anche se viene fatta da quattro donne, ed anche i matrimoni non sono validi se non vi è un testimone maschile.(vedi Cor 2, 282). In Cor 4,15 si aggiunge: "Se alcune delle vostre donne commettono turpitudini, portate quattro testimoni (maschi) a testimoniare contro di esse e se questi testimoniano sulla verità del fatto, rinchiudete le colpevoli in casa finché le colga la morte o Allah le salvi". Agli uomini dal comportamento malvagio viene invece data la possibilità del perdono se si pentono. Nelle eredità al maschio va lasciata "la parte di due femmine" (Cor 4,11-12). In Cor 4,20-24 è scritto: "Se volete scambiare una moglie con un'altra e a una di esse avete già dato una gran quantità d'oro, non riprendetevi nulla .. Vi sono pure vietate le donne maritate, eccetto le schiave che possedete". Nell'islam è permesso il ripudio della moglie, ma non quello della moglie verso il marito. All'uomo è inoltre concessa la poligamia, che è invece vietata alle donne. Nel Corano nessuna donna è menzionata col proprio nome (salvo Maria, madre di Gesù, di cui Maometto nel VII secolo conosceva l'esistenza). Naturalmente non possiamo giudicare tutto l'Islam solo da questi dati, ed ogni giudizio è comunque inopportuno in quanto l'Islam appartiene alla cultura di un popolo, per il quale il tentativo di una regolamentazione sociale, presente nel Corano, rappresentò nell'antichità una forma di evoluzione rispetto ai costumi ereditati dal politeismo che lo precedeva. |
Quanto ai militari, questi devono essere "servitori della sicurezza e della libertà dei popoli". Inoltre rimane in vigore la legge morale anche durante i conflitti armati: "Non per il fatto che una guerra è disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto" (2312). Ed anche "si devono rispettare e trattare con umanità i non-combattenti, i soldati feriti e i prigionieri. Le azioni manifestamente contrarie al diritto delle genti e ai suoi principi universali sono dei crimini" (2313). La Chiesa ha toni piuttosto duri su questo punto: "Non basta un'obbedienza cieca a scusare coloro che vi si sottomettono. Così lo sterminio di un popolo, di una nazione o di una minoranza etnica deve essere condannato come un peccato mortale. Si è moralmente in obbligo di far resistenza agli ordini che comandano un genocidio" (2313). "Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità, e con fermezza e senza esitazione dev'essere condannato." (2314). I confini della cosiddetta "guerra giusta" sono dunque assai stretti. La Chiesa condanna pure la corsa agli armamenti anche perché nei suoi costi danneggia i poveri. Purtroppo "gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo; ma se riescono, uniti nell'amore, a vincere il peccato, essi vincono anche la violenza" (2317). "Beati gli operatori di Pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9). |
Dall'Avvenire di mercoledì 7 novembre '01 COLPO ALLE FONDAMENTA IRRISO IL CROCIFISSO Il Crocifisso irriso in diretta tv da un estremista islamico invitato da Bruno Vespa ad una puntata tempestosa del suo "Porta a Porta". Adel Smith, presidente dell'Unione musulmani d'Italia, non solo ha apertamente offeso il simbolo della Cristianità, ma ha voluto anche assestare un colpo alle fondamenta del vivere civile del nostro Paese. Inevitabili l'indignazione e le proteste. Vespa: "Abbiamo dato voce ad una parte non irrilevante della comunità islamica in Italia" SE IL SIGNOR SMITH È UN PESSIMO CITTADINO Di Maurizio Blondet Il signor Adel Smith, presidente di una Unione dei Musulmani Italiani (che non si sa quanti e quali musulmani rappresenti), invitato l'altra sera nel salotto di Bruno Vespa, ha avuto modo di dichiararsi contrario all'esposizione del Crocifisso nelle scuole. Ciò passi per ora (ne dirò dopo): è un'opinione che in Italia è lecito esprimere, ed è probabilmente condivisa da altri cittadini italiani, quali il signor Smith s'è proclamato. Il punto è che, nel difendere il suo argomento, il signor Smith ha definito il Crocifisso "un cadavere in miniatura". Ed ha aggiunto che quel simbolo cristiano non merita rispetto, "perché è simbolo di un suicidio-deicidio". E questo è illecito, per le leggi italiane. Perché? Provi il cittadino Smith a immaginarsi per un attimo dall'altra parte. Immagini che, nel salotto di Vespa, un cattolico integralista insultasse Maometto chiamandolo, che so, un impostore e un vizioso, o il Corano, chiamandolo una farragine di falsità e violente insensatezze. Si sentirebbe offeso nella sua fede, il cittadino italiano Aden Smith, di religione islamica? Sì, e ne avrebbe diritto. Sentirebbe come bestemmie quelle parole? Sì. E crediamo che reagirebbe: anche per vie legali. Esistono infatti in Italia leggi, che puniscono il vilipendio delle credenze religiose di altri concittadini. Nei Paesi musulmani non esistono leggi simili. Ma in Italia sì. Come musulmano di fresca conversione, Smith può pensare quello che ha detto. Ma come cittadino italiano, è passibile di conseguenze penali se lo dice in pubblico. E' il diritto, caro signor Smith. Lei ha invocato l'estromissione del Crocifisso dalle aule scolastiche in nome della "laicità" dello Stato: con ingenuo cinismo di neoconvertito islamico, lei crede di poter giocare le garanzie degli stati moderni contro se stesse, e a vantaggio di Allah. Lei, ingenuamente astuto, scambia la laicità per relativismo: se lo Stato non professa alcuna fede, nessun simbolo religioso deve essere esposto nei luoghi pubblici. E' la tesi sostenuta da certi italiani, semplicemente atei o secolari. Subito dopo però offende e bestemmia il Crocifisso, e qui mostra il lato sinistro della sua pretesa laicità. Non riesce a capire che le leggi a garanzia del pluralismo e della libertà religiosa non nascono da relativismo (nessuna fede è vera, dunque tutte si equivalgono), ma costituiscono una difesa dei diritti della persona: ciascuno può professare la sua fede senza venire discriminato e angariato dagli altri. Come nessuno in Italia può essere offeso fisicamente, così non deve essere offeso nella sua fede, nelle sue intime convinzioni. E' questo il diritto di cui godono gli islamici in Italia: un diritto a difesa della loro persona, quella fisica e quella intima. Il quale diritto comporta il dovere della reciprocità: non devono offendere le altre persone, che professano altre fedi. E' il diritto, signor Smith. Un diritto difficile, che ha le persone al suo centro. E' il diritto di uno stato laico. Ma che proviene in modo chiaro e diretto da un antico principio: "Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te". Queste sono parole di Gesù. Recepite dal diritto romano (a cui non si opponevano in via di principio) e anche dagli stati laici moderni. Come si vede, il diritto laico, la radice del pluralismo, della tolleranza e della libertà della coscienza, ha la sua radice in Cristo. Si sa che una simile tolleranza, e rispetto della coscienza, non è prevista dalle leggi islamiche e dagli stati di matrice islamica, nemmeno se secolarizzati. Detto per inciso, è appunto per questo che quegli stati sono per lo più sistematicamente oppressivi: vivere sotto leggi che non riconoscono i diritti della persona è scomodo. Anche i diritti politici sono in pericolo là (infatti) e persino i diritti della fede islamica: minoranze islamiche vengono spesso perseguitate da regimi islamici d'altra setta. Lei, signor Smith, ha reso un cattivo servigio all'Islam, insultando la credenza tradizionale di tanti cittadini; e l'ha fatto a suo danno, violando leggi che anche a lei conviene garantire, a propria difesa. E' il diritto, il quale ha lo scopo di consentire l'esercizio pacifico delle libertà. Ma che vive di reciprocità, che è una bilancia: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Non so se lei sia un buon musulmano, signor Smith. Certo è un pessimo cittadino. Maurizio Blond QUEL LEGNO: PER" TUTTI Di Domenico Del Rio Ogni anno ci perviene dai teleschermi l'immagine di un Papa Wojtyla che tiene il capo schiacciato contro la croce nera nella Via Crucis al Colosseo, nella sera del Venerdì Santo. Il suo volto, in una concentrazione quasi spasmodica, gli occhi fortemente serrati, entra nelle case, attraverso la televisione, come una antica icona di orante e di contemplante lungo tutte le quattordici stazioni della rappresentazione della salita al Calvario. "Io porto le stimmate di Gesù Cristo nel mio corpo", dice san Paolo, nel suo saluto di congedo, scrivendo ai Galati. Papa Wojtyla, oggi, ha anch'egli le "stimmate" nella sua carne, così come, nel mondo, le ha la moltitudine infinita dei sofferenti, dei perseguitati, degli affamati. E oggi il mondo stesso, questa nostra società mondializzata, sembra presentarsi con le stimmate: i segni di una crocifissione data dal terrorismo, dalla guerra, dalla paura. La croce di Cristo è già la rappresentazione di questa immensa sofferenza umana. Perché, allora, un uomo che proclama di credere in Dio, il Misericordioso, si avventa a ingiuriare la croce di Cristo, come è avvenuto l'altra sera alla trasmissione televisiva "Porta a Porta"? Anche perché la croce di Cristo non è soltanto dolore e spasimo. C'è, infatti, soprattutto nella cultura cristiana antica, una concezione della croce che è di sollievo per l'uomo. Il "legno" della morte di Cristo è, sì, il supplizio doloroso e ignominioso applicato ai ribelli, ai ladri, ai briganti, ai pirati, quindi il supplizio del disonore, il supplizio "servile", dei servi, degli schiavi, ma per il cristiano esso diventa segno di salvezza, fonte di speranza, salutato con la grande aspettativa della redenzione: "Ave, Crux spes unica!". Ciò che c'è di più saldo, infatti, per la fede di un cristiano è quello che si è rivelato sulla croce: non tanto la sofferenza di Cristo, non tanto il suo urlo finale di dolore, ma l'intenzione di Dio di donare all'uomo la redenzione. La convinzione di fede è che la salvezza viene per mezzo di un avvenimento, la croce, che non è una insignificante peripezia nello svolgersi della storia. Che Dio lo ama, il cristiano lo sa definitivamente solo attraverso Cristo. Solo attraverso il Cristo crocifisso sa che Dio ama perdonando. Dal momento in cui il suo Signore è morto sulla croce, il cristiano sa che tutto è mutato. Sa che è avvenuto qualcosa "per" gli uomini. Diceva il grande teologo Karl Barth che la differenza tra Cristo e noi è che Cristo è "uomo per gli uomini", mentre ognuno di noi è "uomo con gli uomini". Karol Wojtyla, in una sua poesia, contempla la salita al Calvario e in questo camminare dolorante vede non solo il Figlio di Dio, il Misericordioso, che si offre vittima d'amore, ma, pur in mezzo all'odio, scorge anche cuori di uomini che ricambiano il loro Dio. Egli vede la Veronica che alza le mani al volto di Cristo, quasi una carezza di riconoscenza, a nome di tutti gli uomini, per la redenzione che si sta compiendo: "Il tuo panno è ora un grido dei cuori,/ il tuo cammino è parallelo/ alla strada del Condannato". Vede il Cireneo, figura degli uomini in partecipazione alla sofferenza della croce, ma anche simbolo dell'accostarsi dell'umanità al Dio redentore: "Accanto scorre la folla/ donne, bambini, soldati,/ tutti si aggirano ai confini di Dio". Domenico Del Rio ALBERO TAGLIATO, RIPIANTATO OVUNQUE Di Erri De Luca "Non ti farai idolo e alcuna immagine" (Esodo/Shmot 20,4), così inizia il comandamento del Sinai che vieta la raffigurazione della divinità. Il monoteismo proclamava lassù per iscritto il suo primato alzando il più fitto sbarramento contro i culti che brulicavano intorno. Escludeva di riprodursi in immagine e così spiazzava e spiantava di colpo tutto il corso degli idoli. L'Islam ha ereditato e ribadito la regola, il cristianesimo no. La croce non è una riproduzione, è l'ultimo punto di contatto tra la terra e il cielo, l'ultimo fiato del suo messia, l'altura dove l'agonia di un corpo si caricò le colpe dei vivi presenti e successivi e pagò il conto. La storia della croce è quella di un patibolo romano trasfigurato in simbolo di fede attraverso il martirio di un giovane rabbi ebreo nato a Betlemme, flagellato e giustiziato dall'impero romano in Gerusalemme, ultimo loro luogo di conquista. Quella croce è da qualche millennio piantata in mezzo a Roma secondo il più prodigioso viaggio di ritorno di una religione: staccata dal luogo di martirio del suo capostipite, da una spellata collina del territorio di Giuda, arriva a svettare sui templi dei suoi carnefici, a trasformarli in cupole, a sostituirsi interamente agli dei conquistatori e infine conquistati. La croce non è un'immagine, ma il luogo di una nuova alleanza scritta con sangue e resurrezione. È un albero tagliato in un punto e ripiantato ovunque da un messia falegname. Questo lo so adesso. Ma prima di questa notizia la croce è stata spesso per me fuori posto. Non che dovesse risiedere solo in chiesa, perché invece nelle case, nelle stanze da letto dei nonni, dei genitori ci stava giusta, accompagnata da un ramo di ulivo dalle foglie tenaci che pure da seccate non cadevano. Governava i sonni, le preghiere imparate da voci di mamme, stava in alto e così evitava le pallonate che potevano capitare in un'ora sfrenata di bambini a corto di spazio. Stavano bene i crocifissi anche in strada, agli angoli delle vie, dietro un vetro oppure esposti alle intemperie, ignudi anche d'inverno. Ma nelle scuole, nelle poste, nei commissariati, dietro la schiena delle autorità, che ci facevano lì? Chiedevo, anzi no, non chiedevo, ma dubitavo zitto: proteggi pure loro o loro ti hanno fatto prigioniero? Col tempo mi sono dato la seconda risposta. Non si poteva fare niente contro l'abuso della sua figura piantata con un chiodo in un pubblico edificio accanto al faccione di un presidente di Repubblica. E niente si può fare se un esercito decide di portarselo dietro a fare guerra contro un altro popolo, magari monoteista pure lui, per esempio afgano, appartenente a quella comunità musulmana del mondo che ha diritto di moschea a Gerusalemme. Il crocifisso è, appunto, messo in croce, ha le mani legate. Oggi qualcuno chiede di rimuoverlo da qualche punto dell'arredamento. Non sono d'accordo, non è una suppellettile revocabile dal nostro paesaggio. Piuttosto profittiamo delle sue braccia spalancate e se qualcuno chiede ospitalità accanto a lui, ben venga l'accoglienza. Se chiede di mettergli vicino uno spicchio di luna e una stellina, se vuole collocare nella stanza un segno per indicare il punto cardinale, per esempio l'est di Gerusalemme o de La Mecca, credo che ci sia spazio. Se gli schiodiamo le mani, vedremo che farà lui stesso posto all'ospite venuto da lontano. Mentre i governanti borbottano la triste parola guerra, ai governati spetta la smentita opposta attraverso ogni possibile gesto di fraternità con l'islam, con la sua intensa religiosità. Antidoto alle guerre sante sono le alleanze laiche tra gente di buona volontà, di diverse fedi e di una sola pace. |