NORME RELATIVE ALLA RIORGANIZZAZIONE TERRITORIALE DELLA REPUBBLICA ITALIANA NONCHÉ SOSTITUZIONE DEGLI ARTICOLI 132 E 133 DELLA COSTITUZIONE.
R e l a z i o n e.

Uno dei problemi essenziali del rapporto tra territorio e istituzioni locali è quello che riguarda la questione della dimensione ottimale dei governi: quanto maggiori sono le attribuzioni che si vogliono dare ad un ente locale, tanto bisogna assicurarsi che esso sia dotato delle risorse materiali adeguate per gestirle.

In un momento storico in cui si studia la redistribuzione dei poteri all’interno del futuro Stato federale si manifesta l'esigenza di un'attenta valutazione dei quadri politico-territoriali esistenti, per verificarne la coerenza con le prospettive di ridisegno istituzionale. E’ opportuno che a un nuovo «regionalismo» di stampo federalista si possa accompagnare una nuova «regionalizzazione», ossia una nuova articolazione politico-territoriale dello spazio nazionale, e ciò alla luce di istanze che stanno tanto sul terreno della «quantità» ovvero degli equilibri tra risorse, che su quello della «qualità» ovvero dell'adeguatezza a disegni di sviluppo.

La debolezza strutturale di molte economie del Mezzogiorno, evidenziata anche dagli eccezionali livelli di dipendenza dalla spesa pubblica, è tra gli elementi che suscitano dubbi sulla la capacità di reggere un'autentica autonomia da parte di alcune delle attuali entità regionali: Ma le realtà che più sembrano a rischio sono quelle di più minute dimensioni. A ciò va aggiunto un ulteriore elemento che si rivela importante per la definizione di una plausibile architettura federale: si tratta della necessità di realizzare alcuni equilibri istituzionali attraverso un accorto uso della leva territoriale.

La problematica della taglia dimensionale delle Regioni infatti non riguarda soltanto l'ambito degli equilibri fiscali, ma anche la stessa natura dei rapporti politici che si possono instaurare in una federazione, e quindi la qualità della convivenza democratica che essa potrà garantire.

Il primo equilibrio al quale sembra opportuno avvicinarsi riguarda gli ordini di grandezza delle Regioni all'interno di un sistema federale. Federazioni caratterizzate da marcate differenze nella dimensione dei membri non sono certo sconosciute, ma proprio i problemi innescati da tali differenze hanno rappresentato una tipica falla nel loro funzionamento, attraverso la quale si è riproposto un forte ruolo dello Stato centrale. L’incapacità di gestire compiti complessi o di garantire equilibri finanziari da parte dei più piccoli stati federati è stata alla base delle tendenze alla ricentralizzazione tanto negli Stati Uniti quanto nella Germania Federale. La stessa numerosità dei membri di una federazione rappresenta un problema, qualora si postulino modalità integrate di funzionamento (federalismo cooperativo di stampo tedesco) e non una netta separazione tra livelli di governo (federalismo duale di stampo statunitense). Lezioni in tal senso vengono sia dall'esperienza tedesca, con il recente passaggio da undici a sedici Länder dopo la riunificazione, sia dall'esperienza europea, con le crescenti difficoltà decisionali registratesi a ogni aumento del numero dei membri della Comunità.

Un rischio opposto è peraltro rappresentato dall'emergere più o meno esplicito dell'egemonia di una Regione, o di un insieme di Regioni, sugli altri membri della federazione. E’ fin troppo evidente che forti squilibri dimensionali possono portare in tale direzione, soprattutto quando, come accade in Italia, la Regione più popolosa è anche la più ricca, e sarà quindi la detentrice di risorse essenziali per il corretto funzionamento di un sistema di federalismo fiscale. In secondo luogo, e si tratta evidentemente di una questione strettamente collegata alla prima, la questione della taglia media delle unità è essenziale anche dal punto di vista dei rapporti tra Stato e Regione. Unità troppo grandi, ed in numero troppo limitato non possono che rappresentare un elemento di turbolenza nelle relazioni con lo Stato, soprattutto quando alcuni loro interessi divergano marcatamente: anche per questo le vecchie e fortunatamente superate ipotesi orientate alla creazione di tre «Repubbliche» macro-regionali sembrano incompatibili, quali che ne fossero le intenzioni, con un assetto stabile di tipo federale (e non già confederale).

Ma unità troppo piccole e troppo numerose non possono rappresentare un efficace contro-potere rispetto alla Stato in quanto non garantiscono equilibri finanziari, e sono quindi destinate a ricreare le condizioni per una dipendenza dal centro che non può non perpetuare o riprodurre surrettiziamente un assetto centralista, a scapito delle Regioni la cui dimensione economica e territoriale è compatibile con la loro proiezione in chiave federale ed europea.

Se tale rischio è già elevato con l'attuale ordinamento territoriale basato su venti Regioni, diventerebbe elevatissimo se ci si muovesse nelle direzioni accennate da alcuni progetti, che propongono di riarticolare in cento o cinquanta nuove macro-province la realtà amministrativa italiana, eliminando gli altri livelli di governo locale o regionale. Al di là della difficile praticabilità di tali prospettive, certo non federaliste, una loro inevitabile conseguenza sarebbe la riduzione di queste entità a ruoli meramente amministrativi. Parrebbe in effetti impossibile che istituzioni del genere possano avere potestà legislativa, o esercitare competenze anche soltanto analoghe a quelle, assai limitate, che l'attuale Costituzione riserva alle Regioni. Non a caso proposte simili (trenta «grandi prefetture») vennero avanzate da un anti-regionalista come Crispi nel 1891, con l'intento di dare maggior forza al governo nella periferia e non certo in un’ottica autonomista; ed è sintomatico che idee simili siano circolate negli anni settanta in Francia a opera di esponenti della tradizione centralista, preoccupati di ridimensionare i già modesti connotati e le ambizioni «girondine» del regionalismo francese. E’ il caso delle ipotesi, ormai ampiamente superate, orientate a creare una quarantina di super-dipartimenti. Ma non è nemmeno un caso che, ancora in Francia, il dibattito recente abbia preso in considerazione l'ipotesi di puntare verso spazi regionali più ampi degli attuali, quanto meno come riferimento per le grandi politiche di aménagement du territoire.

Ciò permette di introdurre il terzo equilibrio verso cui tendere sul piano economico-territoriale: quello tra Regioni italiane e Regioni o omologhi livelli di governo degli altri paesi europei. Sarebbe auspicabile far emergere entità che siano abbastanza solide da reggere il confronto con le principali Regioni europee e che abbiano risorse sufficienti per configurarsi come credibili interlocutori di Bruxelles. Se la prospettiva di un ruolo diretto delle Regioni nell'architettura europea non è più relegata tra le utopie federaliste, essa potrà trovare effettiva realizzazione solo a patto di essere sorretta da soggetti di adeguato respiro.

Le prime a subire i danni di una taglia inadeguata per la scala europea sarebbero, ovviamente, le Regioni più piccole. Come qualche anno fa riconosceva l'incaricato per le questioni europee del pur ricco Land di Amburgo, la cui popolazione è all'incirca pari a quella ligure e il cui PIL totale è superiore a quello pugliese, «credere che Amburgo possa in qualche modo influire sugli affari europei è una mera finzione».

E’ dunque utile ribadire che importanti ragioni, tra cui l'obiettivo del raggiungimento di una taglia critica nell'Europa delle regioni, che converge con la ricerca di efficienza nella spesa pubblica, e con la necessità di garantire adeguati equilibri politico-istituzionali nell'ambito dell'architettura federale della Repubblica, sembrano spingere verso un ridisegno del riparto regionale italiano quale oggi lo conosciamo.

Dovrebbe tuttavia essere chiaro che nessuno, vuole imporre aggregazioni forzate, o suggerire come soluzione del problema una mera operazione di ridisegno dei confini, sullo stile della geografia post-coloniale. E’ evidente che nessuna autorità, comunque legittimata, potrebbe pensare di fare a meno di verificare, in forme più o meno dirette, il consenso delle popolazioni interessate. Ma sembra anche evidente come in una fase neo-costituente imperniata su di un nuovo ruolo delle Regioni e degli enti locali il legislatore non possa semplicemente chiudere gli occhi di fronte alla discrepanza tra disegni istituzionali e basi territoriali che per più versi rischia di determinarsi. Da un lato, dunque stanno le istanze dell'autonomia, più che mai rispettabili in un disegno d'ispirazione federale; dall'altro, sta la necessità per la legislazione costituzionale di pensare insieme regole della convivenza, e realtà alle quali tali regole si applicheranno.

Ecco quindi manifestarsi l’esigenza di un processo federativo che parta dal basso, attraverso una revisione dell'organizzazione comunale, quindi provinciale, infine regionale, condotta tuttavia nel rispetto di una serie di standard dimensionali minimi, tra i quali, come alcuni ipotizzano, una taglia regionale non inferiore al quattro milioni di abitanti. A nostro parere se, da un lato, si può discutere sull'adeguatezza di tale soglia minima (soltanto Piemonte, Lombardia, Campania e Sicilia hanno oggi più di quattro milioni di abitanti), dall'altro, non è irragionevole suggerire anche limiti dimensionali massimi.

La cosa che stupisce è che non si è mai presa seriamente in considerazione l’ipotesi di una riorganizzazione territoriale dello Stato. Il dibattito sulla forma di governo e sulla redistribuzione dei poteri non può assolutamente prescindere dalla definizione dei soggetti destinatari delle riforme e dall’ipotesi di un loro divenire sotto la spinta della modernizzazione del concetto di federalismo in chiave europea.

La proposta di legge che segue vuole essere un contributo per focalizzare l’attenzione su quanto sopra esposto. Vuole essere parimenti uno strumento di ulteriore democratizzazione del processo di riorganizzazione territoriale della Repubblica italiana definendo anche le nuove competenze delle Regioni nell’ambito delle modificazioni territoriali che riguardano il loro ambito.

Riassumendo, possiamo definire quali punti fondamentali del PdL:

a) Il territorio della Repubblica può essere oggetto di una nuova riorganizzazione territoriale al fine di garantire alle Regioni, alle Province ed ai Comuni la possibilità di adempiere ai compiti assegnati loro dalla Costituzione e dalle leggi.

b) Nel predisporre una nuova suddivisione devono essere salvaguardati i vincoli di carattere storico e culturale, l’opportunità economica nonchè le esigenze della pianificazione territoriale, al fine di offrire ai cittadini interessati dal riassetto un’ulteriore opportunità di crescita sociale nel rispetto delle caratteristiche peculiari di ogni comunità.

c) La legge statale determina la costituzione di nuove Regioni risultato di fusione di Regioni contermini. Ogni altra variazione dell’assetto territoriale concernente Province o Comuni è di competenza della legge regionale.

d) Per assicurare una capacità funzionale adeguata alle nuove entità territoriali risultanti dalla fusione di Regioni contermini esistenti alla data del 1° gennaio 1997, volendo parimenti evitare posizioni egemoniche, si pone ad esse un limite minimo di quattro milioni di abitanti ed un limite massimo di nove milioni di abitanti.

e) L’iniziativa per la fusione di Regioni contermini può essere dei Consigli regionali ovvero popolare.

Osservando più compiutamente la proposta di legge:

l’articolo 1 modifica l’articolo 131 della Costituzione. Il successivo articolo 2 del PdL, contrariamente a quanto attualmente previsto dall’art.132, prevede quale fonte normativa per la riorganizzazione territoriale delle Regioni la legge ordinaria. Non ritenendo quindi la fonte costituzionale la più appropriata, anche in considerazione della complessità delle procedure di approvazione, non si ravvisa la necessità e l’opportunità del mantenimento dell’articolo 131 così come scritto. La proposta di modifica prevede l’aggiunta di un comma che ne rende automatico l’aggiornamento in seguito alla costituzione di nuove Regioni.

l’articolo 2 sostituisce l’articolo 132 della Costituzione, dettando nuove norme in tema di fusione di Regioni, coinvolgendo direttamente i Consigli regionali e soprattutto la popolazione che diventa soggetto attivo, titolare del potere d’iniziativa referendaria. Il referendum è in ogni caso la verifica finale della volontà popolare, la cui efficacia deve essere misurata nella partecipazione al voto di almeno il 60% degli aventi diritto. Si è ritenuto inoltre opportuno, a tutela della volontà delle Regioni più piccole, inserire la norma secondo la quale il referendum ha esito positivo solo se in ogni realtà territoriale il consenso alla fusione supera il 40% dei consensi;

l’articolo 3 definisce le competenze e gli organi transitori della nuova Regione fino all’elezione del nuovo Consiglio regionale;

l’articolo 4 sostituisce l’articolo 133 della Costituzione ed attribuisce alle Regioni la competenza delle modificazioni territoriali concernenti Province e Comuni.


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