Dies
Mortis: il giorno della morte
Problemi
metodologici.
Per condurre
in modo scientificamente corretto e plausibile un'analisi sugli atteggiamenti
della società romana davanti alla morte non bisogna mai dimenticare
che le fonti letterarie di cui disponiamo, e su cui basiamo i nostri studi,
sono una diretta
espressione
dei ceti dominanti e come tale rappresentano e sostengono ben determinati
ideali politici e culturali.
Come rileva
J.-L. Voisin, già Tacito tende a classificare la morte in
due categorie: quella honesta, bona, pulchra, decora, che
rappresenta
con tutta evidenza l'ideale della morte romana per eccellenza, e quella
invece ignominiosa, turpis, che non
appartiene,
o almeno non dovrebbe appartenere, alla più pura tradizione quirite.
Partendo da
una tale premessa dobbiamo perciò essere molto cauti nel valutare
l'effettivo valore che possono rivestire ai nostri fini gli episodi narrati
dallo storico romano.
I personaggi
delle vicende narrate, infatti, vengono identificati come appartenenti
a determinati gruppi sociali in base al loro
atteggiamento
davanti alla morte.
All'interno
dell'opera tacitiana, ad esempio, si ritrovano generalmente dei comportamenti
codificati e stereotipati davanti alla
morte che
corrispondono solitamente alle caratteristiche sociali e culturali dei
diversi gruppi umani.
Infatti i
protagonisti della filosofia, come Seneca, o della letteratura, come Petronio
e Lucano, muoiono con coraggio e serenità e con la medesima dignitas
che li aveva contraddistinti in vita.
Del resto
Tacito aderisce ad una mentalità ben radicata nella società
romana: anche Ovidio infatti, quasi un secolo prima, si
augura che
ai suoi funerali la folla possa dire: "conveniens vitae mors fuit ista
tuae".
Anche per
il poeta, dunque, il segno distintivo dell'appartenenza al ceto dominante,
e di conseguenza la spia di un animo nobile, è la coerenza
fra l'atteggiamento tenuto in vita e quello davanti
alla morte.
Ma la morte
dei liberti o degli schiavi, considerati dal mondo romano esseri miseri
e meschini, sarà invece vista come degna
delle loro
umili origini: sarà fatta di ripensamenti e tentennamenti e mancherà,
eccezione fatta per casi come quello di Epicharis,
di coraggio
e fermezza d'animo; anche Seneca, del resto, giudica in modo negativo il
suicidio degli schiavi.
Quanto vogliamo
qui sottolineare è che, in definitiva, l'adesione alle istanze etiche
e culturali del mos maiorum da parte della
grande maggioranza
degli autori che fanno parte dei ceti superiori della società romana,
porta a presentare la morte in modo
spesso paradigmatico
ed esemplare, uniformando visioni ed atteggiamenti ad un ideale precostituito,
quello della mors pulchra e decora, in cui però un'ampia parte del
mondo romano non si identifica.
Non dobbiamo
dimenticare, poi, che le fonti a nostra disposizione si mostrano
molto carenti e lacunose per quello che
riguarda i
riti e le cerimonie precedenti ed immediatamente seguenti alla morte.
Un attento
esame delle fonti storiche, dagli Annales di Tacito alle Vitae Caesarum
di Svetonio, dalle Vite Parallele del greco
Plutarco alla
Historia Augusta dei cosiddetti S. H. A., non fornisce un soddisfacente
riscontro che ci aiuti a ricostruire con
chiarezza
e completezza le emozioni e gli atteggiamenti del mondo romano nei riguardi
della morte e del cadavere, che, ancora in casa, attende di essere preparato
per le cerimonie pubbliche.
Questo quasi
assoluto silenzio nella letteratura porta dunque ad ampliare il nostro
campo di ricerca e spoglio delle fonti con
l'analisi
di materiale di carattere giuridico ed epigrafico.
La scarsità
delle testimonianze, e la necessità di essere costretti ad integrare
materiali e fonti di diverso tipo per arrivare a
formulare
ipotesi e ricostruzioni corrette e plausibili, ci devono fare
riflettere.
Abbiamo, infatti,
ancora una volta la dimostrazione di quanto la mors ed il suo universo
angosciano le coscienze dei Romani, e
di come il
cadavere venga avvertito dalla collettività: un elemento di contaminazione
per tutta la domus che partecipa, per
qualche tempo,
dell'oscuro e triste mondo della morte.
Messi in chiaro
questi punti fondamentali tenteremo, per quanto possibile, di compiere
un'analisi dei comportamenti e dei riti
dell'uomo
romano davanti alla morte consapevoli del fatto che non è
facile arrivare a definire aspetti e caratteristiche precise
senza cadere
in superficiali e artificiose generalizzazioni, ma è possibile invece
individuare validi spunti e diffuse ed interessanti
linee di tendenza.
Il
morente (in casa) e il ruolo della gens.
Nella società
romana vivere significa appartenere ad un gruppo all'interno del
quale l'individuo è integrato ed inquadrato in
diverse realtà
concentriche che regolano la sua esistenza: dalla domus, alla gens,
per finire con la città: e sappiamo bene quale
profondo significato
abbia per un Romano la parola civis e quanto discriminante sia tale definizione.
Lo stato e
le altre micro-realtà che presentano analoghe strutture di
gestione del potere, come il nucleo familiare o il clan
gentilizio,
esercitano un sostanziale controllo sulle attività dell'individuo
ed intervengono anche nella sfera del privato,
condizionando
mentalità e comportamenti.
Per l'uomo
romano, ma anche per la donna, morire diventa, come per altri aspetti
della sua vita, un fatto essenzialmente
pubblico,
a cui prendono parte pure gli altri membri del gruppo.
La cultura
moderna invece, che ha conosciuto e promosso un forte processo di emancipazione
dell'individualità, non si
riconosce
più in una ritualità collettiva come quella romana
e delle altre civiltà antiche, perché la avverte distante
e non
funzionale
alle sue esigenze di produttività e di progresso.
Il modello
della morte moderna, infatti, è dettato fondamentalmente dal materialismo
che pervade larga parte degli atteggiamenti di massa e che tende
ad una razionalizzazione strumentale e ad una esorcizzazione dell'evento
luttuoso.
La morte,
che rappresenta nella società moderna la fine ultima del ciclo produttivo,
viene così avvertita come un fallimento e per questo motivo è
occultata e mimetizzata in strutture che a tale scopo sono adibite: gli
ospedali, o meglio, i reparti per gli anziani o i malati terminali, due
categorie che sono l'espressione palese dell'incapacità di efficienza
all'interno delle dinamiche sociali, e
della sconfitta
sul piano biologico nei confronti della morte .
Gli ospedali,
infatti, sono concepiti per trattare e guarire il corpo-macchina: un anziano
che si spegne lentamente o un malato in
condizioni
disperate appaiono come fattori di disturbo, degli impedimenti allo
svolgimento dei compiti primari della medicina.
Il decesso
avviene dunque in solitudine, affinché il disagio che ispira non
turbi il delicato meccanismo produttivo che regola ogni
società
moderna.
Considerazioni
di questo tipo sono invece estranee alla mentalità quirite
che, se da una parte vive - riguardo all'estinzione fisica
- tensioni
ed angosce simili alle nostre, come già abbiamo sottolineato in
precedenza, dall'altra tende a vedere il morire come un fatto sostanzialmente
corale.
I suicidi
dei neostoici e, primo fra tutti, quello di Seneca hanno come caratteristica
principale di essere avvenimenti pubblici che avvengono con la compartecipazione
di molte persone.
Anche
Petronio, molto polemico nei confronti della teatralità neostoica,
si toglie la vita in presenza di schiavi e soprattutto di
amici con
cui discute serenamente.
L'iconografia
classica, poi, ci offre alcune raffigurazioni in cui il morente,
sdraiato su di un letto, attende la fine attorniato dai
membri del
suo gruppo sociale, (moglie, figli, parenti) che si preparano a celebrare
le liturgie legate a questo evento.
L'uomo romano,
ma in genere chiunque - in qualsiasi società - abbia qualcosa cui
veramente tiene sulla terra, teme la morte, ne è angosciato,
ha terrore dell'annientamento fisico: gli provoca un dolore straziante
abbandonare per sempre ciò che in questo
mondo ha avuto
di più caro, dagli affetti familiari ai beni materiali.
L'atteggiamento
di Achille nell'Ade omerico è estremamente significativo: il nobile
guerriero non sa che farsene del suo primato
nel regno
degli Inferi, preferirebbe piuttosto tornare a vivere da schiavo sulla
terra dove ha lasciato tutto ciò che amava.
Mecenate,
piuttosto di abbandonare questa terra, è disposto anche a
"debilem facito manu, debilem pede coxo, / tuber adstrue gibberum, lubricos
quate dentes: / vita dum superest, bene est, hanc mihi vel acuta
/ si sedeam cruce sustine": inoltre,
spaventato
dall'idea di morire, tedia l'amico Orazio con i suoi lamenti e le
sue angosce.
Trimalchione
è talmente angustiato dall'idea di perdere tutto il potere e la
ricchezza accumulata, che tenta in ogni modo di
allontanare,
esorcizzandolo, lo spettro della fine e cerca goffamente di portare
con sé, con il progetto di un funerale lussuoso e
di un sepolcro
imponente, almeno una parte del suo enorme patrimonio.
Forse è
proprio questo il motivo più plausibile che porta il morente
a circondarsi, quando è possibile, di coloro che a vario
titolo gli
sono stati più vicini durante la vita: nessuno vuole affrontare
la morte da solo, è un passo troppo grande per chiunque e
perciò
c'è la ricerca del sostegno morale, oltre che fisico, nella solidarietà
del gruppo.
Il
morente all'interno della casa.
Chi ha il
privilegio di morire di morte naturale fra le mura della sua casa,
nella grande maggioranza dei casi a noi noti attende il suo destino sdraiato
in un letto. Dalle fonti iconografiche si può desumere con sufficiente
chiarezza che non si tratta di un letto
come lo intendiamo
nell'accezione moderna del termine, cioè il lectus cubicularis,
quello su cui i Romani dei ceti abbienti
dormono nel
cubiculum, (ne esistono anche altri come il lectus convivialis e il lectus
funebris), ma piuttosto qualcosa di
simile ad
un odierno divano.
Questa interpretazione
parrebbe confermata anche dalla testimonianza di Cornelio Nepote, il quale,
parlando della morte di
Attico, sostiene
che il ricco uomo d'affari, in punto di morte, riceve i suoi amici "in
cubitum innixus", cioè nella posizione tipica
appoggiata
su un gomito di colui che sta sdraiato su di un fianco sul divano.
Questo divano,
come si evince dal rilievo di un sarcofago della fine del I secolo d.C.
proveniente da Amiternum, può anche
venire utilizzato
come letto funebre nel corteo che accompagna il morto alla tomba.
Le fonti antiche
che riguardano la morte degli imperatori, o di persone appartenenti ai
ceti ricchi e dominanti della società
romana,
ricordano, nella grande maggioranza dei casi, che il letto o il divano
vengono posti "in cubiculo eodem" come ci dice
Svetonio parlando
di Augusto, "in ipso cubiculo" come afferma Seneca a proposito di
Tullio Marcellino, "in cubiculo
principum",
come si narra a proposito di Antonino Pio. Stando alle
testimonianze degli autori antichi, dunque, il morente
attende la
sua sorte nella stanza da letto.
Se questa
tesi, però, può senza dubbio essere valida per gli imperatori
e per coloro che dispongono di un patrimonio personale molto ingente, che
possiedono dunque domus e ville ampie e spaziose, deve senz'altro
essere messa in discussione quando si parla di personaggi appartenenti
ai ceti inferiori.
Quelli che
hanno possibilità economiche limitate risiedono generalmente
nelle insulae - grandi caseggiati urbani che si
sviluppano
su più piani in altezza, composti da numerosi appartamenti di dimensioni
assai modeste - e non possono dunque
disporre di
tutto lo spazio domestico dei palazzi signorili o delle ville.
Della vita
precaria e dell'incredibile sovraffollamento che si verifica nelle
"abitazioni" dei poveri ci dà, infatti, testimonianza
Valerio Massimo,
il quale - pur riferendosi ad una piccola domus della gens Aelia,
nel II secolo a.C. - scrive che "XVI eodem tempore Aeli fuerunt, quibus
una domuncula erat eodem loci, quo nunc sunt Mariana monumenta".
In mancanza
di dati certi e verificabili, sempre per le ragioni esposte sopra, è
però ipotizzabile che coloro che risiedono in un
piccolo appartamento,
a volte composto di una sola stanza, devono stare necessariamente
a stretto contatto con il moribondo.
Le fonti,
come abbiamo già sottolineato, tacciono riguardo alla morte dei
poveri, ma possiamo supporre che la naturale pietà
nei confronti
di colui che, in una situazione già disagiata ed ulteriormente
aggravata dalla vecchiaia o dalla malattia, sta per
abbandonare
questo mondo, induca i familiari a cedere al morente quello che spesso
è l'unico giaciglio della casa (di norma un
pagliericcio
su assi) e ad adattarsi a sistemazioni alternative.
Tale atteggiamento
di pietoso rispetto però non è sempre confermato dalle
fonti; Orazio, infatti, afferma che "huc prius angustis eiecta cadavera
cellis / conservus vili portanda locabat in arca; / hoc miserae plebi stabat
commune sepulcrum".
Una così
scarsa attenzione ed un trattamento così irrispettoso nei
confronti del cadavere ci inducono perciò a pensare che, in
alcuni casi,
plausibilmente anche in vita, le necessità del moribondo vengono
subordinate a quelle del gruppo residente nella
minuscola
abitazione.
La
preparazione psicologica del morente.
Un esponente
dei ceti privilegiati che sente avvicinarsi la sua ultima ora, vuoi per
un istintivo pudore nei confronti della morte,
vuoi per lasciare
di sé un'immagine composta e serena ai familiari ed agli amici
convocati al suo capezzale, mostra
generalmente
una particolare attenzione all'aspetto fisico.
Dalle fonti
di cui disponiamo sembra, comunque, prevalere la seconda delle ipotesi
sopra elencate: la cura del proprio aspetto è generalmente funzionale
al ricordo pubblico che il morente intende lasciare di sé e della
sua condizione sociale.
Ed è
proprio in questo senso che vanno interpretate le parole pronunciate dall'imperatore
Vespasiano in punto di morte:
"<<imperatorem>>
ait <<stantem mori oportere>>".
La stessa
preoccupazione di presentarsi con un aspetto gradevole e soprattutto
consono alla propria carica è evidente anche in Augusto, che, prima
di far entrare i suoi amici e di mostrarsi a loro negli ultimi momenti
della sua vita, "petito speculo capillum
sibi comi
ac malas labantes corrigi praecepit".
Il liberto
Trimalchione, arricchitosi enormemente con il commercio ed orgoglioso
della posizione sociale acquisita grazie al
denaro, esibisce
ai suoi ospiti "vitalia in quibus volo me efferri... et unguentum et ex
illa amphora gustum, ex qua iubeo lavari
ossa mea".
Anche Trimalchione,
dunque, tiene moltissimo a lasciare un buon ricordo di sé,
ma soprattutto a rammentare a tutti quanto
grande è
stata in vita la sua ricchezza, l'unico metro di valutazione che
lui conosca: "credite mihi: assem habeas, assem valeas;
habes, habeberis",
sostiene l'ex-schiavo nel brano sopra citato.
Colui che
sta per morire, dunque, si prepara, attende la morte, non vuole, per quanto
è possibile, essere colto di sorpresa.
Se riguardo
alla preparazione esteriore del moribondo le fonti antiche ci forniscono
un numero limitato di testimonianze, ma
comunque molto
interessanti, per quanto concerne invece la preparazione intima, psicologica
del morente ci troviamo quasi del
tutto privi
di dati plausibili e riscontrabili.
Nel mondo
romano infatti, a differenza di quello attuale, non esistono i conforti
religiosi, e quindi colui che muore non trova
aiuto e sostegno
in un culto di stato che, come abbiamo già sottolineato, si
occupa della morte e dei morti esclusivamente per
esorcizzarne
la paura e conciliarne la benevolenza.
Nella cultura
quirite, almeno a quanto ne sappiamo, non sono nemmeno conosciute
opere equiparabili alle artes moriendi,
trattati fra
il religioso ed il superstizioso, che regolano e descrivono minuziosamente
gli atti e le formule che il morente deve
compiere e
recitare per assicurarsi una buona morte, che tanto successo riscuotono
nel XV e XVI secolo.
Anzi possiamo
dire che la mentalità romana elabora, se mi si consente il termine,
delle vere e proprie "controartes" moriendi,
come vediamo
ampiamente testimoniato nei reperti epigrafici e letterari che già
abbiamo citato.
Dobbiamo supporre,
invece, che in alcuni casi, ma esclusivamente presso i ceti superiori,
siano le dottrine filosofiche,
prevalentemente
quella neostoica e - suo modo - quella epicurea, a prestare conforto al
morente.
Queste due
scuole di pensiero, infatti, sono molto diffuse fra l'élite quirite
ed è dunque probabile che coloro che si ispirano a
queste idee
si accostino alla morte seguendo l'esempio e i precetti di illustri pensatori
come Seneca.
Questo sembra
essere indirettamente testimoniato da Petronio, che, con il suo suicidio
intimo e riservato, si pone in aperta
polemica con
i suicidi di matrice neostoica, portandoci a ritenere che episodi di questo
tipo debbano essere abbastanza diffusi
nella Roma
imperiale.
Lo stesso
Seneca del resto, durante l'agonia, scrive alcune pagine a carattere etico,
per cui è immaginabile che anch'egli cerchi
nella dottrina
stoica un conforto davanti alla morte.
Le
figure istituzionali della gens che assistono e partecipano alla morte.
Come abbiamo
sottolineato sopra, colui che sta per morire raramente sente questo evento
come un momento da vivere
privatamente,
lontano dagli sguardi delle altre persone: anzi, nel mondo romano dei ceti
superiori la morte, quando è possibile, è un fatto che coinvolge
tutto il gruppo sociale cui il morente appartiene.
Numerose
testimonianze antiche, infatti, ci mostrano il moribondo, o colui
che ha preso l'estrema decisione di togliersi la vita,
mentre raduna
i membri della sua famiglia, gli schiavi più fidati e soprattutto
gli amici più cari.
Attico vuole
vicino le persone che ama maggiormente e per questo motivo fa venire il
genero Agrippa e altri due amici; Tullio
Marcellino,
nel racconto di Seneca, chiede consiglio agli amici riuniti al suo capezzale.
Anche Seneca,
come racconta Tacito nel brano più volte citato, quando decide di
suicidarsi chiama la moglie Paolina, gli amici
intimi, con
cui discute di filosofia (è da rimarcare che fra questi figura anche
un medico), e gli schiavi più fedeli.
L'imperatore
Marco Aurelio, contagiato dalla peste, raduna i suoi più intimi
collaboratori ai quali affida il figlio, discute
brevemente
con loro sul significato della vita e la paura della morte e
definisce alcuni affari concernenti la successione, quindi
fa venire
il figlio per dargli le ultime direttive.
Se,
abbiamo già potuto notare, la presenza degli amici intorno al capezzale
del morente è un elemento costante che tutte le
fonti mettono
in evidenza, dobbiamo altresì sottolineare che, soprattutto i reperti
iconografici, dimostrano come la
partecipazione
della componente femminile a questi riti del pre-morte non sia assolutamente
secondaria.
Ce lo testimoniano,
infatti, i numerosi rilievi funerari che raffigurano le ultime ore del
moribondo, nei quali appaiono diverse
figure femminili.
Un'urna funeraria ritrovata a Volterra rappresenta infatti la scena della
chiusura degli occhi di colui che è
appena morto
e la figura femminile che compie questo gesto potrebbe plausibilmente essere
identificata con la moglie.
Del resto
apprendiamo dalle testimonianze storiografiche che le mogli hanno compiti
di questo tipo nei rituali della morte:
Svetonio infatti,
parlando della fine di Augusto, sostiene che Livia raccoglie con
un bacio l'ultimo respiro del marito, come
sappiamo essere
tradizione nel mondo romano. Su un sarcofago conservato a Parigi, in effetti,
sono raffigurati i parenti riuniti
intorno ad
un moribondo e fra essi figurano numerose donne fra cui si possono identificare
la moglie e la figlia.
Dai riscontri
letterari emerge, poi, un altro dato piuttosto interessante.
Le matrone
romane, soprattutto in età imperiale, fanno ricorso sempre più
frequentemente ad altre donne, libere o di condizione schiavile, per l'allattamento
dei propri figli. E' inevitabile dunque che si formi uno stretto
legame affettivo fra la nutrice e i bambini, i quali, una volta cresciuti,
spesso accolgono la balia nel sepolcro di famiglia o le dedicano un'iscrizione.
Alla luce
di questa considerazione possiamo supporre che la nutrice, soprattutto
nel caso che la persona prossima alla fine sia
giovane, debba
essere una figura spesso presente in tali tragiche occasioni.
Su di un rilievo,
nel Museo Maffeiano di Verona, vediamo intorno al letto di una giovane
ragazza morente tre figure la cui
identità
è rivelata dalle iscrizioni poste sopra di loro: uno di questi personaggi
è la madre.
Questo è,
però, uno dei pochi reperti utili per tentare di definire la situazione
femminile davanti alla morte: assai raramente,
infatti, troviamo
testimonianze per quanto attiene agli ultimi momenti di vita della donna.
La studiosa
inglese S. Treggiari sostiene che nel mondo romano dei ceti dominanti la
perdita di una moglie viene avvertita dal
marito come
una delle maggiori sciagure possibili.
Questo discorso
è valido anche per i ceti subalterni, i cui rappresentanti,
generalmente, si sposano per riuscire ad affrontare
meglio la
quotidiana fatica di vivere, stabilendo così, frequentemente, dei
forti legami di solidarietà, mentre nei matrimoni di
personaggi
di condizione sociale elevata spesso sono presenti motivazioni di carattere
politico ed economico per cui il legame
fra i coniugi
tende a divenire meno solido e più artificioso.
Sia in ambito
epigrafico che letterario, abbiamo testimonianze di tenero affetto
e di sincero cordoglio da parte di mariti che
piangono
per la scomparsa della moglie.
Properzio,
nella sua elegia in ricordo di Cornelia, offre, ai fini del nostro lavoro,
delle indicazioni interessanti sugli ultimi
momenti della
nobile matrona: il poeta fa dire, infatti, alla defunta: "tu Lepide, et
tu, Paulle, meum post fata levamen, / condita
sunt vestro
lumina nostra sinu / ... filia, tu specimen censurae natae paternae, /
fac teneas unum nos imitata virum.".
Un'iscrizione
d'età imperiale fornisce degli spunti analoghi: "quoius in ore animam
frigida deposui. / Ille mihi lachrimans morientia lumin(a) pressit: / post
obitum satis hac femina laude nitet".
La donna sposata
dunque, come parrebbero confermare le poche fonti disponibili al riguardo,
muore generalmente fra le
braccia del
marito (nel caso di Cornelia sono presenti anche i figli), il quale compie
il pietoso rito di chiuderle gli occhi, anche
se, dall'ultimo
verso dell'epigrafe sopra ricordata, non possiamo fare a meno di
notare che tale pratica (lumina premere)
sembra
essere una gratificazione non comune.
Del resto,
la vicenda della suicida Arria pare indirettamente confermare l'ipotesi
secondo cui, come gli uomini, anche le donne
muoiono con
accanto i rispettivi coniugi: infatti, questa coraggiosa matrona,
si toglie la vita, nel 42 d.C., praticamente fra le
braccia del
marito Peto, invitandolo poi a fare lo stesso.
Non bisogna,
infine, trascurare per completezza un elemento che ha una grande
incidenza nella mortalità femminile, ma
scarsissima
rilevanza nella sensibilità quirite sia pubblica che privata: il
decesso in seguito ai problemi del parto.
In un mondo
come quello romano, dove le conoscenze medico-scientifiche sono molto limitate,
dove molte ragazze si sposano a dodici/quattordici anni e sono madri
già a tredici/quindici, dove una donna partorisce in giovane età
un numero generalmente piuttosto elevato di figli (che in molti casi,
però, non le sopravvivono), con la debilitazione fisica che ne consegue,
morire di parto è un'eventualità nient'affatto remota.
Di ciò
ci viene resa testimonianza sia dall'epigrafia che dalla letteratura, ed
anche le esponenti dei ceti sociali privilegiati, per
quanto in
grado di ricorrere alle cure dei medici più famosi, non sfuggono
a questo tragico problema; sappiamo infatti che il
tasso di mortalità
perinatale nel mondo romano è molto elevato, e possiamo stimare
che fra il 5 e il 10% delle partorienti
muoiano a
causa del parto o delle sue conseguenze.
Dobbiamo,
comunque, sottolineare ancora una volta, che i pochi dati di cui
disponiamo riguardano esclusivamente le
rappresentanti
dei ceti dominanti e non abbiamo alcuna notizia riguardo alle condizioni
delle donne di umile estrazione sociale,
che dobbiamo
però supporre ulteriormente svantaggiate dalla loro difficile situazione
economica.
Il
ruolo del medico.
A differenza
della società attuale, che ricorre al parere del medico anche nei
casi di malesseri leggeri, i Romani, o meglio coloro che hanno i mezzi
economici per farlo, consultano gli specialisti quando la malattia è
in fase acuta o avanzata.
E' molto facile,
dunque, per un medico romano dell'età imperiale vedere morire una
buona parte dei clienti che si sono rivolti a
lui: questo
anche perché le conoscenze scientifiche non sono tali da permettere
interventi positivamente risolutori.
Il medicus
romano insomma, come giustamente sottolinea M. Grmek, fondamentalmente
è in grado di alleviare le sofferenze
del paziente,
ma assai raramente di salvargli la vita, al punto che in molti casi questi
specialisti rifiutano di prestare le proprie
cure ad un
malato destinato, per la sua grave sintomatologia, ad una morte sicura.
Questo atteggiamento,
che ai nostri occhi può risultare cinico e sconsiderato, è
dettato dalla necessità per il medico di tutelare
la propria
reputazione (che si basa ovviamente sul rapporto fra le terapie andate
a buon fine e quelle invece risoltesi con esito
negativo),
dalla quale dipende lo sviluppo positivo o meno della sua carriera.
La figura
caratteristica della professione medica nella Roma repubblicana è
quella del servus medicus, uno schiavo o un liberto
appartenente
alle gentes più ricche, che lo impiegano nelle loro domus e
villae.
Fra il II
ed il I secolo a.C., però, a questi schiavi e liberti se ne affiancano
altri, di origine generalmente grecanica, i cosiddetti
medici peregrini,
in possesso di una conoscenza medico-scientifica superiore ed evoluta.
Ed è
proprio questa nuova categoria di medici, che rapidamente soppianta quella
dei servi medici, (i quali comunque non
scompaiono
del tutto), e che, in età imperiale, riesce ad ottenere per i suoi
membri più qualificati e capaci, come ad esempio
Sorano e Galeno,
affermazioni sociali ed economiche di grande rilievo.
Se da un lato
nei confronti della professione medica, esercitata prevalentemente
da personaggi non romani, persistono le
resistenze
della società tradizionale, ancora legata ad un tipo di medicina
domestica basata fondamentalmente sui semplici ed
antichi rimedi
del pater familias, una società incarnata nel I secolo d.C. da Plinio
il Vecchio che attacca, spesso in modo
violento,
la categoria medica, dall'altra essa riscuote rispetto e stima negli
ambienti meno tradizionalisti e conservatori del
mondo quirite.
L'ideale dei
ceti elevati è infatti quello del medicus amicus, che - oltre
ad essere un buon professionista - assiste il paziente con
affetto e
partecipazione, come sostiene Cicerone, il quale parlando delle qualità
ideali di un medicus, afferma che esso deve
caratterizzarsi
per la sua fidelitas, humanitas, suavitas.
Anche Seneca
è in sintonia con questa opinione: "ille magis pependit, quam medico
necesse est; pro me, non pro fama artis
extimuit;
... nullum ministerium illi oneri, nullum fastidio fuit; ...in turba multorum
invocantium ego illi potissima curatio fui; tantum
aliis vacavit,
quantum mea valetudo permiserat: huic ego non tamquam medico sed tamquam
amico obligatus sum".
Il medico
comunque - di origine generalmente grecanica - sia esso il professionista
od uno schiavo/liberto della domus con
conoscenze
scientifiche - è una figura che troviamo spesso al capezzale del
morente, malato o aspirante suicida.
Che il medico,
sempre per quanto riguarda i ceti superiori, sia presente in casa accanto
al letto del morente, e la sua opera sia
stimata, non
significa però automaticamente che il suo parere venga seguito alla
lettera dal malato, il quale anzi, in alcuni casi,
rifiuta e
disattende le prescrizioni del dottore perseguendo fermamente il fine di
lasciarsi morire.
Pochi, però,
possono permettersi di farsi assistere da un medico famoso e rinomato,
per cui coloro che appartengono ai ceti
inferiori,
ed hanno di conseguenza una scarsa disponibilità economica, ricorrono
alle cure dei praticoni e dei ciarlatani.
Il medico
di età imperiale è in grado - grazie anche alle
opere di un erudito come Celso, dell'inizio del I secolo d.C., e
di
medici
grecanici quali Sorano, della fine del I secolo d.C., e Galeno, della
fine del II secolo d.C. - di diagnosticare in modo
quasi infallibile,
almeno per quei tempi, l'approssimarsi della morte in base all'esame autoptico
del malato.
Studiando
infatti ogni parte del corpo del paziente, ma soprattutto il suo viso,
un buon professionista è in grado di scorgervi
quelli che
Celso chiama gli indicia mortis: "ad ultima vero iam ventum esse testantur,
nares acutae, collapsa tempora, oculi
concavi, frigidaeque
languidaeque aures et imis partibus leniter versae, cutis circa frontem
dura et intenta color aut niger aut
perpallidus".
Plinio ne
enumera altri nella Naturalis historia: "iam signa letalia: in furoris
morbo risum, sapientiae vero aegritudine fimbriarum
curam et stragulae
vestis plicateras, a somno moventium neglectum, praefandi umoris e corpore
effluvium, in oculorum quidem
et narium
aspectu indubitata maxime, atque etiam supino adsidue cubitu, venarum inaequabili
aut formicante percussu, quaeque
alia Hippocrati
principi medicinae observata sunt".
E' in base
a tali valutazioni che uno specialista decide se curare un paziente oppure
abbandonarlo al suo destino.
Il medico
che constata l'irreversibilità della malattia e l'impossibilità
di attuare qualsiasi cura efficace, poi si presta ad aiutare a
morire il
paziente consapevole del suo stato disperato o deciso, per altre gravi
ragioni, a togliersi la vita.
Capita, dunque,
che alcuni trasgrediscano apertamente il giuramento di Ippocrate che prescrive:
"non darò un farmaco mortale
a nessuno
neppure se richiestone, nè proporrò un tal consiglio".
E' il caso
di Seneca nel racconto tacitiano: "Seneca interim, durante tractu
et lentitudine mortis, Statium Annaeum, diu sibi
amicitiae
fide et arte medicinae probatum, orat provisum pridem venenum, quo damnati
publico Atheniensium iudicio
exstingueretur,
promeret".
E tale pratica
deve essere piuttosto diffusa se proprio Seneca, parlando dei medici, aveva
potuto affermare: "illi quibus vitam
non potuerunt
largiri facilem exitum praestant".
Questa è
la norma finché si tratta di schiavi e liberti domestici con
conoscenze scientifiche, obbligati perciò a ubbidire agli
ordini del
padrone, o di medici privati che, in coerenza con le loro scelte etiche,
accettano di aiutare un paziente a morire.
Ma ci sono
anche casi in cui le cose vanno in modo diverso, stando alle testimonianze
antiche: l'imperatore Adriano, ormai
gravemente
malato e fermamente deciso a mettere fine ai suoi giorni, non trova nessuno,
nemmeno il suo medico personale,
disposto ad
aiutarlo a morire e deve quindi provvedere da solo a questo estremo gesto.
E inoltre
la dichiarazione che Apuleio fa pronunciare ad un medico, di cui non specifica
il nome, nelle Metamorfosi esprime
un'assoluta
opposizione alla partecipazione al suicidio: "...nec exitio sed saluti
hominum medicinam quaesitam esse
didicissem...".
Aspetti giuridici e sociali connessi con la morte
Il testamento
e l'eredità.
Il testamento
nella cultura e nella prassi romana è essenzialmente un atto pubblico
come osserva anche Ulpiano: "tabularum
testamenti
instrumentum non est unius hominis, hoc est heredis, sed universorum quibus
quid illic adscriptum est: quin potius
publicum est
instrumentum".
I testamenti,
infatti, vengono pubblicamente aperti davanti al pretore a Roma ("Exhibere
autem apud praetorem oportet"), o
davanti al
proconsole nelle province ("et si forte omnibus absentibus causa aliqua
aperire tabulas urgueat, debet proconsul
curare").
Le tavolette
cerate contenenti le ultime volontà devono essere presentate
alle autorità in un periodo di tempo che va dai tre ai
cinque giorni
dopo la morte del testatore: "intra triduum vel quinque dies aperiendae
sunt tabulae".
In sintesi,
gli eredi presentano le tavolette ai testimoni che hanno apposto i loro
sigilli e che ne controllano l'integrità, dopodiché,
se tutto è
regolare e nessun sigillo risulta manomesso, viene data lettura del testamento.
Le tabulae
ceratae originali vengono consegnate al legittimo erede che deve renderle
note agli eventuali co-eredi, mentre il
pretore o
il proconsole ne tengono una copia su cui appongono il loro
sigillo e la conservano nell'archivio.
Coloro che
appartengono ai ceti dominanti nutrono per i testamenti, anche per
quelli in cui non sono direttamente coinvolti, un
notevole interesse,
come dimostrano le lettere di Cicerone o di Plinio il Giovane,
o lo stesso Satyricon petroniano, sempre alla ricerca di informazioni e
ragguagli riguardanti ultime volontà ed eredità.
Anche il popolo,
comunque, è sempre molto attento e partecipe a tutto ciò
che concerne i testamenti e le successioni.
Ed è
così che quando Q. Cecilio, ricco e potente cavaliere grazie al
suo protettore Lucullo, decide - dopo aver dichiarato
pubblicamente
che avrebbe lasciato erede unico il suo benefattore - di passare
invece tutte le sue ricchezze ad Attico
adottandolo,
il popolo, sdegnato per questo atto subdolo e sleale, trascina il cadavere
di Cecilio per le strade della città con
una corda
attorno al collo.
Il diritto
quirite, però, riserva la capacitas di testare (testamenti factio
activa) e la capacitas di ricevere un'eredità (testamenti
factio passiva)
a categorie giuridico-sociali ben determinate.
Può
fare testamento qualsiasi soggetto sui iuris, maschio e pubere: questa
definizione esclude dunque, a priori, gli schiavi, ad
eccezione
dei servi publici populi Romani che possono far testamento limitatamente
a metà del loro peculio, i filii familias, che
possono però
liberamente disporre del peculium castrense (cfr. più in là),
le donne, sposate o nubili, in quanto sotto la potestas
del pater
familias o del marito, e gli impuberi.
Anche coloro
che hanno gravi impedimenti fisici, come i muti e i sordi, vengono privati
della testamenti factio activa in quanto
non sono in
grado di pronunciare le formule prescritte dalla legge.
La situazione
giuridica della donna per quanto riguarda il diritto di successione è,
però, piuttosto sfumata nel corso dei secoli: se è vero infatti
che in età repubblicana, in base ad una lex Voconia del 169 a.C.,
non può nemmeno essere istituita erede (non ha, insomma, nemmeno
la testamenti factio passiva) di un cittadino appartenente alla prima classe
di censo, in seguito, in epoca
imperiale,
se libera, vedova o divorziata, le viene concesso di ereditare e di disporre
liberamente del suo patrimonio.
Di questo
fatto sono conferma, fra altri, due testamenti, entrambi su supporto
lapideo, uno redatto da Giunia Libertas all'inizio
del II secolo
d.C. e rinvenuto ad Ostia, l'altro da Fabia Adrianilla alla metà
dello stesso secolo e ritrovato a Siviglia, in cui le
due donne,
decidono, con ampia autonomia delle proprie ricchezze.
Merita poi
un breve approfondimento un particolare atto giuridico denominato
testamentum militis, in base al quale
Augusto
- per migliorare le condizioni dei soldati - introdusse nell'esercito
una forma di testamento privilegiata, il testamentum
militis appunto,
secondo cui il militare filius familias, benché rimanesse soggetto
in tutto il resto alla potestas del pater familias,
poteva però
liberamente disporre del peculium castrense (tutto ciò che ha guadagnato
durante il servizio militare), redigendo un testamento, orale o scritto,
al di fuori di qualsiasi osservanza delle comuni forme civili o pretorie.
In tutte le
culture antiche, e particolarmente in quella romana, il testamento
è oggetto di grande interesse perché rappresenta
uno strumento
potente ed efficace nelle mani del testatore.
Tramite tale
documento, infatti, chiunque disponga di un patrimonio, anche se di modeste
dimensioni, può controllare o
modificare
i comportamenti di coloro che hanno qualcosa a che fare con l'eredità,
allettandoli con la promessa di inserirli nel
testamento
o minacciando di diseredarli.
E' soprattutto
nei confronti dei captatores - i cacciatori di eredità, coloro che
assistono e adulano gli anziani ricchi e senza figli,
sperando di
essere "citati" nel testamento - che questo potere, tramite particolari
formule giuridiche, (ad esempio cum moriar),
si esplica
in tutta la sua ampiezza.
Petronio ce
ne fornisce un esempio illuminante nel Satyricon, quando fa dire ad Encolpio:
"sedeat praeterea quotidie ad rationes tabulasque testamenti omnibus...
renovet".
La modifica
periodica del testamento è, dunque, perenne fonte di inquietudine
e di aspettative per coloro che sperano in
qualche modo
di esserne beneficati e che di conseguenza si affannano per compiacere
in tutti i modi colui che potrebbe renderli
ricchi.
Se tenere
segreto il testamento, minacciando in continuazione di riscriverlo,
è un ottimo strumento di controllo e di
condizionamento
su coloro che paiono essere i più probabili destinatari dell'eredità,
anche renderlo pubblico, specialmente
davanti agli
interessati, può servire per ottenere notevoli vantaggi.
Trimalchione,
- quando durante la cena decide di leggere per intero il suo testamento
- compie sì questo gesto spinto dal
desiderio
di esibire la sua enorme ricchezza, ma soprattutto, come ci dice egli stesso:
"ut familia mea iam nunc sic me amet
tamquam mortuum".
Non solo:
menzionare qualcuno nel proprio testamento e tralasciare volutamente qualcun
altro, che tutti si aspetterebbero fra i
principali
eredi, è un metodo sottile ma efficacissimo di vendicarsi e nuocere
sia economicamente che politicamente a colui che
viene escluso
dall'asse ereditario, la cui figura subisce, sul piano dell'immagine pubblica,
un duro colpo.
In molti casi
questa pratica si configura come una forte dimostrazione di indipendenza
e di potere, come nel caso di
Trimalchione
che minaccia di cancellare dal testamento la moglie Fortunata,
oppure come una vera e propria sfida all'autorità:
Petronio,
ad esempio, al contrario di parecchi suoi contemporanei, in modo molto
provocatorio, prima esclude Nerone dal
novero dei
suoi eredi, poi fa in modo che circolino post mortem dei libella compromettenti
sul conto dell'imperatore,
provocandone
l'ira.
In linea di
massima, comunque, il patrimonio passa senza grossi contrasti a coloro
cui spetta di diritto: non è infatti così facile
istituire
un nuovo erede, diseredando gli eredi legittimi.
La legislazione
romana, con l'istituzione della forma di testamento per aes et libram introdotta
nel VI secolo a.C., concede al
testatore
ampie facoltà di suddividere come meglio ritiene i propri averi
fra diversi eredi.
Il testamentum
per aes et libram prevede l'enunciazione orale di particolari formule giuridiche
sia da parte del testatore, il quale
poi pronuncia
le sue ultime volontà leggendole sulle tabulae ceratae da lui già
preparate, sia da parte del familiae emptor,
l'esecutore
testamentario.
Tutto ciò,
però, non concede assoluta libertà perché il diritto
ereditario romano è sempre molto attento a salvaguardare
in
linea di massima
la sostanziale continuità ed unità del patrimonio.
Se infatti
succede spesso che un testatore lasci i suoi beni anche ad altre persone
oltre ai figli, o che devolva una quota più
cospicua all'uno
piuttosto che all'altro, difficilmente si dà il caso di un padre
che disereda completamente il figlio se non per
gravi e provati
motivi: ed infatti la maggioranza dei testatori nomina come eredi i propri
figli o dei parenti stretti.
Comunque,
nel caso che un erede venga privato, a suo dire, ingiustamente della parte
che gli spetta, dal I secolo a.C. la
legislazione
romana gli garantisce la possibilità di ricorrere in giudizio
contro tale decisione e di impugnare quindi il testamento
tramite la
querela inofficiosi testamenti.
Il figlio
che ritiene di essere stato defraudato dal padre della quota che gli spetta
naturalmente, intenta questo processo contro
l'effettivo
erede, sostenendo che il lascito deve essere ritenuto nullo
come se fosse stato redatto da un folle: "color insaniae" è
l'espressione
che utilizza Marciano, nel III secolo d.C., per descrivere le condizioni
di alterazione in cui si trova chi redige un
testamento
poco equilibrato.
Il figlio,
in pratica, si lamenta che il padre, per capriccio o per motivi futili,
lo ha diseredato ed ha quindi contravvenuto
all'officium
pietatis, ha commesso un oltraggio contro il dovere di rispettare
la propria gens, che è invece la prima norma di un
buon testamento.
Il mondo romano,
infatti, nonostante sia possibile per legge eliminare dall'asse l'erede
diretto, approva e loda un honestum
testamentum:
"reliquit filiam heredem..., prosecutus est nepotes plurimis iucundissimisque
legatis, prosecutus etiam pronepotem, in summa omnia pietate plenissima...
sunt".
L'honestum
testamentum, insomma, rispetta tutti i doveri nei confronti della
famiglia e degli amici.
Quello che
comunque a noi interessa sottolineare ed approfondire in questa sede
sono i sentimenti e le emozioni di un uomo
che, prossimo
alla morte, o meglio, che non vuole essere colto impreparato da questo
tragico evento, decide di stilare il proprio testamento; ma vogliamo altresì
rilevare gli atteggiamenti del gruppo familiare davanti a questa
situazione.
Come abbiamo
messo in evidenza poco sopra, nel mondo romano, come oggi del resto,
il testamento non viene stilato poche
ore o pochi
giorni prima della scomparsa, quando già l'interessato è
sul letto di morte, ma molto spesso viene preparato con
grande anticipo,
e in alcuni casi rimaneggiato, e modificato più volte nel tempo,
per i più svariati motivi.
Se seguiamo
le fonti letterarie a nostra disposizione, possiamo notare infatti come
la stesura dei testamenti da parte degli
interessati
risalga a molto tempo prima della loro scomparsa.
Svetonio,
parlando della morte di Augusto ci dice che: "testamentum L.
Planco C. Silio cons. III Non. Apriles, ante annum et
quattuor menses
quam decederet, factum", e sempre lo stesso autore a proposito di Tiberio:
"testamentum duplex ante
biennium fecerat":
e Tacito sostiene che Seneca "ille interritus poscit testamenti tabulas",
evidente segno del fatto che le sue
ultime volontà
erano state scritte tempo prima.
Ad ulteriore
riprova di tale situazione giungono anche le parole di Plinio il Giovane,
il quale consiglia di non mantenere il
testamento
immutato nel tempo, ma di aggiornarlo costantemente, affinché, con
il mutare dei sentimenti, cambino anche gli
intestatari
del patrimonio, per evitare invece che con un documento datato contravvenga
alle sue stesse volontà: "decessit veteri testamento, omisit quos
maxime diligebat, prosecutus est quibus offensior erat".
Sebbene la
forma più utilizzata, quella per aes et libram, sia
fondamentalmente orale, con l'enunciazione di formule codificate
dal diritto,
al suo fianco viene introdotta la consuetudine, anche per altre forme di
testamento, di redigere per iscritto il
documento
e di sigillarlo in presenza di testimoni.
L'atto è
inciso sulla parte interna di due tavolette cerate, mentre sulle
facce esterne sono visibili il nome del testatore e i sigilli
apposti dai
testimoni: lo scopo pratico di questa operazione è di rendere
impossibile a chiunque la lettura o la manomissione
illegale delle
tavolette, a meno di non infrangere i sigilli.
Il testamento
può essere redatto dal diretto interessato o anche da un'altra persona;
di solito il testatore cura personalmente la
parta
privata e lascia ad altri, generalmente ad un liberto
o uno schiavo con funzioni di scrivano, il compito di occuparsi delle
formalità: Augusto, ad esempio, stende personalmente una parte delle
sue ultime volontà, mentre un'altra parte viene scritta da
due suoi liberti,
ed ancora, il testamento di Tiberio è stilato in due copie
uguali, una dal sovrano e l'altra da un liberto.
La memoria.
Quello che
ci interessa maggiormente mettere in luce è come per i Romani fare
testamento rappresenti, per diversi motivi, il
tentativo
di sopravvivere alla propria morte e di conquistare, in un certo qual senso,
l'immortalità.
E' quanto
facilmente si evince dall'analisi di un documento epigrafico
importantissimo come l'Index rerum gestarum di
Augusto, peraltro
già ricordato nel suo testamento vero e proprio, in cui la ricerca
della memoria si fonde con motivazioni
eminentemente
politiche e valutazioni di carattere etico.
L'imperatore,
infatti, rende pubblico tale documento "cartaceo" nel modo più clamoroso,
dando ordine di riprodurlo su due
tabulae bronzee
e di collocarlo davanti al suo Mausoleo, e facendone fare delle copie lapidee,
forse in ogni provincia, (in greco
o bilingui
nella parte orientale), in modo che tutti i cittadini dell'impero romano
conoscano le sue opere ed il suo pensiero.
Il documento
si divide in quattro parti: nella prima vengono enumerate tutte le titolature
e gli honores che Augusto ha ricevuto
nel suo lungo
regno; nella seconda c'è l'elenco delle spese che egli stesso ha
sostenuto con il suo patrimonio privato per fini
pubblici;
nella terza vengono narrate tutte le spedizioni militari e le conquiste;
ed infine nella quarta è illustrato il suo ruolo
privilegiato
di pater patriae all'interno della res publica da lui restaurata.
E' evidente
dunque, anche dalla forma e dal contenuto dell'iscrizione, il desiderio
di Augusto - (non diversamente, del resto, da tanti dedicanti/dedicatari
su pietra) - che la sua opera venga ricordata e valutata.
Il testatore
sente, grazie al suo gesto, di essere parte integrante nella vita di colui
che ha beneficato, sa che il suo erede avrà un
patrimonio
e con questo un notevole avanzamento nella scala sociale e che tutto ciò
è esclusivamente merito suo.
Non solo:
un dominus, morendo, può fare ai suoi schiavi un dono anche più
prezioso del denaro o delle terre, la libertà.
Esiste nella
legislazione romana una particolare forma di affrancamento: la manumissio
testamento, in base alla quale un
padrone può,
manifestandone pubblicamente la volontà, liberare i suoi servi,
(che, dopo la sua morte, acquistano la qualifica di
liberti orcini).
Non è
difficile dunque immaginare che anche questi uomini, riconoscenti verso
il loro ex-padrone per la sua generosità,
dedichino
particolare cura nell'onorarne la memoria con riti ed offerte.
Colui che
stila un documento di questo tipo, insomma, si ripropone, nemmeno troppo
velatamente, di continuare a vivere
attraverso
i suoi eredi, come sostengono Seneca - il quale afferma che gli uomini
si compiacciono, nella prospettiva di lasciare
un buon ricordo
di sé, al pensiero che "hunc ego locupletiorem faciam et interim
huius dignitati adiectis opibus aliquid
splendoris
adfundam" - e Marziale ("iam sibi defunctus, caris dum vivit amicis").
Il testamento,
insomma, non è la sede privilegiata per una riflessione sull'aldilà,
ma è il tramite per assicurarsi la memoria, tanto
è vero
che la grande maggioranza di tali atti giuridici si riduce
ad un patto, più o meno esplicito, per farsi ricordare.
Ed uno dei
mezzi più efficaci per rimanere nella memoria della gente
è quello di avere una tomba dignitosa e ben visibile.
La preoccupazione
fondamentale di quasi tutti i testatori, in effetti, è di lasciare
precise ed inoppugnabili disposizioni riguardo la
determinazione
precisa degli spazi sepolcrali e la costruzione della propria tomba; molte
volte poi è il diretto interessato a
provvedere
con ogni cura alla costruzione del proprio sepolcro, così come risulta
da molte iscrizioni recanti la formula V F,
v(ivus) f(ecit).
Di questo
atteggiamento abbiamo uno splendido exemplum anche nel Satyricon,
dove, parlando del ricco e rozzo liberto
Trimalchione,
ci è offerto un quadro molto preciso di quanto il ceto
dominante e quelli emergenti nutrano una vera e propria
ossessione
per la propria tomba (si pensi all'imponente piramide protoimperiale di
C. Cestio a Roma), attraverso la quale
esprimono
la volontà di essere ricordati.
Un altro esempio
fra i più significativi viene dalla Gallia ed è quello del
cosiddetto testamento del Lingone, della seconda metà
del II secolo
d.C., in cui l'interessato dedica una cura puntigliosa per tutto ciò
che riguarda il suo monumento: "[...cellam quam
a]edificavi
memoriae, perfici volo ad exemplar quod dedi ita, ut exe/[d]ra sit eo [loco],
in quo statua sedens ponatur marmorea
ex lapide
/ quam optumo transmarino, v[el] aenea ex aere tabulari quam optumo, /
alt[a] ne minus p(edes) V".
Generalmente,
però, le prescrizioni non si fermano all'edificazione di un
sepolcro per il testatore ma prevedono l'obbligo della
cura della
tomba (si pensi all'attenzione meticolosa che Trimalchione dedica a tale
aspetto), l'interdizione di tale luogo a
qualsiasi
altra persona, sia anche ad un membro della famiglia "indegno", e l'esclusione
del monumento funebre dall'asse
ereditario
con la formula, a volte con qualche variante, incisa sulla lapide
HMHNS / Hoc monumentum heredem non sequatur.
E spesso vediamo
che, a ulteriore tutela di tale prescrizione, vengono previste delle vere
e proprie sanzioni pecuniarie.
Fondamentale
poi è il fatto che il ricordo venga periodicamente rinnovato: ecco
perché, dopo che a volte ha già programmato
anche il proprio
funerale, la maggior parte dei testatori dispone - spesso con un
vitalizio - che, a scadenze regolari, vengano
compiute
in suo onore le tradizionali offerte in occasione dei Parentalia.
Non dobbiamo
dimenticare poi che, nelle intenzioni di colui che lo stila, oltre a salvaguardare
la memoria, il testamento deve
servire in
molti casi a garantirgli l'assistenza e la cura da parte dei familiari,
non sempre disposti ad accudire volentieri un
morente, spesso
vecchio e malato.
Allettarli,
dunque, con la speranza di ricevere una parte più cospicua del patrimonio
o minacciarli con la prospettiva di eliminarli dall'asse ereditario, può
servire a colui che redige l'atto ad assicurarsi ciò di cui ha bisogno.
Morte e memoria nei ceti subalterni
Il povero.
I riti del
lutto vengono celebrati, con clamore e dispendio di mezzi,
esclusivamente per i maschi adulti - per le altre categorie,
infatti, donne,
vecchi, bambini, non conosciamo quasi nulla - che appartengono al
ceto dominante della società quirite e che
quindi, nella
maggioranza dei casi, possono morire nella propria dimora.
Non tutti
i Romani, però, hanno, per vari motivi, la possibilità di
morire nella propria casa: molto spesso perché non possiedono una
vera e propria abitazione fissa, altre volte, invece, perché
sorpresi dalla morte durante un viaggio, in un'arena (i gladiatori) o sul
campo di battaglia in un paese lontano, (i soldati).
Nell'Urbe,
soprattutto nella Suburra, non sono pochi quelli che, in condizioni
di miseria estrema, non possiedono un'abitazione
e agonizzano
generalmente per strada o in qualche rifugio di fortuna soli ed abbandonati
da tutti.
Ciò
che vogliamo a questo punto sottolineare è come ancora una volta
la grande maggioranza delle fonti antiche, epigrafiche e
letterarie,
mantiene un assoluto silenzio su tali personaggi, dal momento che sono
dei diseredati e dei miserabili i quali non
lasciano in
alcun modo traccia del loro passaggio sulla terra.
Costoro sono
i poveri "estremi", estranei all'ordine sociale della città, ai
margini delle dinamiche economiche del mondo
romano, dimenticati
dal potere nel momento in cui non se ne può servire per fini
eminentemente politici, rifiutati da coloro che si sentono inquietati e
minacciati da questa povertà.
Sono proprio
tali soggetti gli esclusi per eccellenza da tutto ciò che il mondo
quirite rappresenta, i reietti, i mendicanti che,
secondo Giovenale,
si affollano in migliaia sotto gli archi del viadotto che attraversa
la vallis di Ariccia a 24 chilometri da
Roma.
Da un epigramma,
in cui Marziale augura le peggiori sfortune ai poeti irrispettosi ed incapaci,
ci possiamo fare un'idea di quali
fossero le
condizioni economiche e sociali dei più poveri: "...erret per urbem
pontis exul et clivi, / interque raucos ultimus
rogatores
/ oret caninas panis inprobi buccas. / Illi December longus et madens bruma
/ clususque fornix triste frigus extendat: /
vocet beatos
clamitetque felices / Orciniana qui feruntur in sponda. / At cum supremae
fila venerint horae / diesque tardus,
sentiat canum
litem / abigatque moto noxias aves panno.".
La morte,
per queste persone, è una realtà quotidiana con cui
convivere, così come la fame, il freddo, le infezioni e le malattie:
i malati vengono lasciati morire all'aperto, e i cadaveri dei poveri
vengono spesso gettati o abbandonati nelle strade, e
sbranati da
cani e altri animali selvatici per nutrirsi.
Svetonio,
così, parlando del futuro imperatore Vespasiano, afferma che
"prandente eo quondam canis extrarius e trivio manum humanam intulit mensaeque
subiecit", a dimostrare come è facile per gli animali di Roma trovare
il cibo fra i cadaveri nelle strade.
Nessun ricordo
rimane, dunque, del passaggio sulla terra di questi sfortunati: infatti,
dopo essere stati raccolti dalle strade dagli
schiavi pubblici,
i loro corpi vengono gettati nelle fosse comuni, come quella di età
repubblicana ritrovata sull'Esquilino, dentro
la quale si
trovano ammassati cadaveri umani, carcasse di animali, rifiuti ed escrementi:
"huc prius angustis eiecta cadavera cellis conservus vili portanda locabat
in arca;... Nunc licet Esquiliis habitare salubribus atque aggere in aprico
spatiari, quo modo tristes albis informem spectabant ossibus agrum,...".
Per chi muore
in queste condizioni squallide, per i liberi di umili condizioni
che affollano le maleodoranti e fatiscenti insulae - la cui situazione,
a volte, è anche peggiore di quella degli schiavi (cfr. infra paragrafo
3 D) - non ci sono le raffinate vesti funebri
tanto decantate
da Trimalchione, che distinguono i rappresentanti dei ceti superiori
(cfr. infra paragrafo 1).
I poveri muoiono
nella stessa tunica che usano tutti i giorni (e tutte le notti come coperta)
e, se l'indigenza non consente loro
nemmeno questo,
vengono avvolti dagli schiavi in un pezzo di stoffa nera (il cosiddetto
sudarium).
Il marinaio,
il mercante, il viaggiatore.
Spesso accade
che sia la violenza del mare a strappare gli uomini alla vita e proprio
tale evenienza è una delle più temute nel
mondo romano.
Come abbiamo
precedentemente sottolineato, morire senza sepoltura è uno dei drammi
più sentiti nella coscienza antica e senza dubbio la morte per annegamento
durante un naufragio porta spesso, come naturale conseguenza, l'irrecuperabilità
del
cadavere e
dunque l'impossibilità di eseguire per esso i tradizionali riti
funebri.
Un tale atteggiamento
mentale è eloquentemente testimoniato da Virgilio nel VI libro
dell'Eneide, quando narra la vicenda di
Palinuro,
nocchiero di Enea, caduto in mare e rimasto perciò insepultus: le
parole rivolte da Palinuro ad Enea sono disperate:
"quod te per
caeli iucundum lumen et auras / per genitorem oro, per spes surgentis Iuli
/ eripe me his, invicte, malis: aut tu mihi
terram / inice
(namque potes)".
Il protagonista
del Satyricon di Petronio ha per Lica, un personaggio morto annegato durante
un naufragio, parole di sincera
commozione
e compiange lo sventurato defunto che, morto lontano dalla sua terra e
dalla sua gente, non rivedrà mai la sua casa e i suoi cari.
Ma è
altresì interessante notare come ancora una volta riappare, riportato
come una credenza diffusa, il terrore della morte in
mare e della
conseguente impossibilità della sepoltura: "at enim fluctibus obruto
non contingit sepultura".
E senza dubbio
una delle categorie che più avverte il pericolo di morire in mare
è quella dei mercanti, che trascorrono la
maggior parte
del loro tempo solcando il mare Mediterraneo per trasportare le loro merci.
Ognuno di
loro mette in preventivo la possibilità di un naufragio in cui potrebbe
perdere tutto il carico e la vita, ma nonostante
questo, subordinando
evidentemente le valutazioni di ordine strettamente privato a quelle economiche,
continuano nella propria pericolosa attività.
Un altro
tema che ricorre spesso - sia in ambito letterario che epigrafico - è
quello della morte lontano da casa durante un
viaggio all'estero.
Numerosi,
infatti, sono i reperti epigrafici in cui incontriamo le parole di
rammarico e di dolore di viaggiatori, di mercanti, di
soldati, che,
per diversi motivi, hanno perso la vita in una terra lontana "Baetica me
genuit tel(l)us, cupidus / libuae cognoscere /
fines Caesar(e)ae
/ veni cupidus. Fata me rapuere mea / et me iacio eidus ignotis" afferma
il giovane figlio di un veterano della
Mauretania
in un epitaffio del II secolo d.C., e una giovane ragazza, anch'essa della
Mauretania, dice, in un'iscrizione del III
secolo d.C.:
"... hic iacet adsiduo rapta puella loco, / quam genuit tellus Maurusia
quamque coercens / detinet ignoto tristis
harena solo".
Lo stesso
sentimento di dolore viene espresso anche nel famoso carme 101 di
Catullo per la morte del fratello avvenuta in un
luogo molto
distante da casa, in Bitinia.
Il poeta,
già nel primo verso - "multas per gentes et multa per aequora vectus"
- esprime molto delicatamente l'idea della
lontananza,
della distanza materiale fra la terra natale ed il luogo della morte: un
elemento che, come leggiamo nei versi
successivi,
nega al morente il conforto dell'affetto dei familiari, i quali provvedono
solo quando possibile, cioè parecchio tempo
dopo, ai tradizionali
riti funebri.
L'esiliato.
Il tema della
morte in esilio (situazione già, di per sé, assai temuta
e temibile sul piano giuridico-sociale) trova senza dubbio la
sua migliore
espressione nelle accorate parole di Ovidio nella produzione letteraria
dell'ultimo periodo: quando cioè, già
relegato
sul Mar Nero, descrive l'amarezza della sua vita tomitana e chiede ai suoi
amici di Roma che intercedano presso
l'imperatore,
affinché gli venga concesso di rientrare in patria.
La poesia
ovidiana di questo periodo è molto interessante ai nostri fini poiché
è tutta incentrata sull'amarezza per la triste
condizione
di isolamento che l'esule intuisce essere ormai definitiva: e perciò
è spesso attraversata dall'angoscia che origina
dall'idea
della morte in terra straniera.
Questi fattori
rendono, dunque, i Tristia e le Epistulae ex Ponto molto più ricche
di tracce e di spunti di lavoro, almeno per
quello che
ci riguarda, rispetto alle opere di altri esiliati famosi, quali Cicerone
o Cesare, i cui scritti hanno carattere
eminentemente
politico.
Il poeta infatti,
rivolgendosi alla moglie, oltre a lamentarsi della durezza delle condizioni
di vita e dello squallore sociale in cui è
costretto
a trascorrere il suo tempo, appare molto preoccupato di ottenere, almeno
da morto, il ritorno a Roma: "...inter
Sarmaticas
Romana vagabitur umbras / perque feros Manes hospita semper erit; / Ossa
tamen facito parva referantur in urna: /
sic ego non
etiam mortuus exul ero!".
Ma, soprattutto,
Ovidio non vuole morire solo ed abbandonato da tutti,
perché proprio questa è la sorte più infelice che
può
attendere
un uomo: "tam procul ignotis igitur moriemur in oris, / ... nec mea consueto
languescent corpora lecto, / depositum
nec, me qui
fleat, ullus erit; / nec dominae lacrimis in nostra cadentibus ora / accedent
animae tempora parva meae; / ...nec cum clamore supremo / labentes oculos
condet amica manus, / sed sine funeribus caput hoc, sine honore sepulcri
/ indeploratum barbara terra teget!".
Lo schiavo.
Per quanto
riguarda, infine, gli schiavi che vivono nelle domus e nelle villae, sappiamo
molto poco su come muoiano o su quali
riti vengano
celebrati in tale occasione.
Una tale scarsità
di dati, innanzitutto, non fa che confermare il ruolo di emarginazione
e di subalternità cui, nella società
romana, è
condannato il ceto schiavile, raramente oggetto di interesse da parte degli
autori se non per motivazioni
eminentemente
economiche.
In secondo
luogo, la mancanza di informazioni precise ed attendibili lascia spazio
a semplici supposizioni ed ipotesi che, per
quanto accurate
e plausibili, possono solo fornire spunti interessanti e tracce di lavoro,
ma non conclusioni certe e di carattere
generale.
Se, come abbiamo
già avuto modo di vedere, molti schiavi periscono giustiziati su
ordine del padrone o dell'autorità
magistratuale,
d'altra parte è molto alta anche la percentuale dei servi
di una domus o dei latifondi di una villa che, al pari dei
liberi, muore
invece per cause naturali.
E' necessaria,
però, una distinzione fra schiavi appartenenti alla familia urbana,
residenti cioè nelle domus cittadine, e schiavi
della familia
rustica, che invece lavorano nelle villae di campagna: coloro, infatti,
che vivono in città vengono impiegati in attività
domestiche
o di "concetto" più leggere e sopportabili rispetto a quelle assegnate
agli schiavi della campagna, i quali, invece,
sono sottoposti
a fatiche e a ritmi di lavoro insostenibili e proprio per questo
più esposti a pericolo di morte.
L'unico vantaggio
che forse può avere uno schiavo, rispetto ad un libero di umile
estrazione sociale, risiede nel fatto che il
servus rappresenta
un bene economico per il suo padrone: e questi, generalmente, si preoccupa
di mantenere in buona salute
ed efficienza
fisica la sua fonte di reddito.
E' noto infatti
il precetto di Varrone secondo cui un accorto dominus per coltivare un
terreno particolarmente insalubre non
utilizza i
suoi servi rustici, ma dei liberi salariati, perché come acutamente
sostiene lo studioso francese Dumont: "La mort de
l'homme libre,
employè à gages, ne concerne que lui; la mort de l'esclave
serait une perte d'argent pour son maître: c'est sa
valeur marchande
qui protège l'esclave".
Il dominus,
dunque, per salvaguardare il suo investimento, garantisce, a quegli stessi
schiavi che sottopone a turni di lavoro
massacranti,
un alloggio ed un pasto, privilegi spesso irraggiungibili per il sottoproletariato
urbano di condizione libera.
Non sono pochi
poi, soprattutto fra i servi urbani, quelli che, perchè particolarmente
fedeli o attaccati al dominus, riescono,
una volta
morti, a trovare posto nella tomba di famiglia del loro padrone -
ad esempio, in età repubblicana, il columbarium
degli Scipioni
ospita anche le urne con le ceneri degli schiavi - oppure sono ricordati
sulla tomba dei loro padroni.
Sappiamo,
d'altro canto, da Orazio che molti servi, alcuni
dei quali - particolarmente i rustici - abbandonati dai
loro
padroni perchè
malati o morenti, dopo esequie sommarie, vengono inumati, insieme ai liberi
più poveri, nella fossa comune
dell'Esquilino.
La paura
di rimanere insepolti: i Collegia "funeraticia" (plebei, liberti,
schiavi, soldati).
L'interesse
maggiore per chi ha qualche disponibilità economica, è di
assicurarsi un funerale ed una tomba per lasciare almeno
una traccia
del suo passaggio su questa terra.
Abbiamo già
ampiamente avuto occasione di notare in precedenza come presso i Romani,
di qualsiasi estrazione sociale, è
molto sentito
il problema di non morire insepolti, per cui in un modo o nell'altro tutti
cercano di garantirsi una cerimonia funebre
ed un sepolcro.
Coloro che
appartengono ai ceti dominanti, e dispongono dunque di ingenti patrimoni,
non hanno nessuna difficoltà a farsi
costruire,
spesso per disposizione testamentaria, un sepolcro ampio e decorato,
ma per chi quotidianamente si affanna a
procurarsi
il minimo indispensabile per sopravvivere, trovare o acquistare un luogo
dove essere seppelliti non è una questione
semplice da
risolvere.
Proprio a
questo scopo sorgono numerose a Roma e nelle province, soprattutto in età
imperiale, le associazioni funerarie: i
collegia o
sodalicia cosiddetti funeraticia.
Bisogna precisare
innanzitutto che l'appellativo funeraticia riferito ai collegia è
sconosciuto ai Romani: esso, infatti, coniato dal
Mommsen,
per analogia con funeraticium, è utilizzato dagli studiosi
per distinguere questo tipo di associazioni da quelle a
carattere
corporativo, che reclutano cioè i propri membri fra appartenenti
alla medesima categoria lavorativa.
Come vedremo,
tuttavia, non ci sono poi grosse differenze, poiché anche i collegia
a carattere professionale molto spesso
hanno come
fine principale quello di garantire un funerale ed una sepoltura ai propri
soci (fratres).
Le associazioni
di carattere funerario sono accettate e controllate dallo stato,
hanno finalità religiose e, generalmente, prendono il nome di collegium
o sodalicium seguito dal nome di una divinità cui i soci consacrano
il culto: come ad esempio il celebre collegio di Diana e Antinoo a Lanuvio,
o quello di Esculapio e Igea ad Apulum in Dacia.
A queste associazioni
aderiscono generalmente i rappresentanti dei ceti socialmente meno rilevanti,
come schiavi, liberti, poveri, tanto è vero che vengono chiamate
collegia tenuiorum, da tenuiores, il termine con cui vengono designati
a Roma quelli di condizione più misera: il Waltzing, autore
dello studio pionieristico e tuttora fondamentale sui collegi, si spinge
ancora oltre e
afferma che
tutti i collegia tenuiorum hanno carattere funerario.
Per avere
la certezza di un funerale e di una tomba ogni socio versa mensilmente
nella cassa dell'associazione una quota in
denaro che
serve per coprire totalmente o in parte, a seconda dello statuto del collegium,
le spese per le esequie e la sepoltura.
E a proposito
di ciò, dallo statuto del collegio di Diana ed Antinoo di Lanuvio,
del 136 d.C., apprendiamo che se un frater
sospende i
versamenti mensili per più di sei mesi, non ha più diritto
a ricevere funerale e sepoltura a spese del collegium,
nemmeno se
ha disposto per testamento il pagamento degli arretrati: allo stesso modo,
deve essere escluso anche colui che si è
suicidato.
Non tutti
i sodalicia, comunque, seguono le stesse regole: alcuni, ad esempio, versano
ad ogni decesso un contributo fisso, il
cosiddetto
funeraticium - è questo il caso dei cornicines (suonatori di corno)
di Lambesi in Africa alla fine del II secolo d.C. -,
altri invece
si assumono per intero l'onere delle spese funebri (come vediamo, invece,
per il collegio di Lanuvio).
Altre volte,
se l'iscritto muore lontano dalla sede del collegium, più di venti
miglia ad esempio secondo lo statuto del collegio di
Diana e Antinoo,
i presidenti dell'associazione nominano dei commissari che si occupano
di organizzare il funerale sul luogo
della morte.
Se il frater
muore intestato ha il funerale pagato direttamente dal collegio, ma se
ha fatto testamento, allora il funeraticium
viene affidato
all'erede che provvede alle spese di sepoltura.
Non abbiamo
alcuna notizia circa la presenza di donne in questi collegi, e siamo dunque
portati a supporre che ne siano
escluse, anche
se conosciamo casi in cui l'associazione si assume le spese per assicurare
una tomba a personaggi di sesso
femminile:
si tratta delle mogli dei fratres, le quali, insieme ai bambini, a volte,
vengono ammesse alle sepolture comuni.
L'associazione,
oltre a corrispondere una quota per coprire le spese per il
funerale e la tomba, partecipa direttamente alle
liturgie funebri
con i suoi fratres, i quali, sotto pena di una multa, hanno l'obbligo di
partecipare alle esequie del socio defunto.
Il sodalicium
spesso è proprietario esso stesso di un appezzamento di terreno,
talora molto esteso, nel quale vengono inumati i
soci, altre
volte, invece, fa costruire dei monumenti funebri collettivi, in
genere dei columbaria, camere sepolcrali dotate di
parecchi loculi,
dove vengono conservate le urne cinerarie che contengono
i resti dei fratres.
In altri casi
ancora il collegium riesce ad ottenere per disposizione testamentaria
un certo numero di posti nel monumento (un
columbarium,
in genere) di un'altra associazione o di una ricca gens.
Questi collegia,
dunque, sono per la grande maggioranza delle persone l'unico modo per non
morire abbandonati e per
lasciare una
seppur minima traccia del passaggio su questa terra: non dobbiamo perciò
stupirci se i collegia funeraticia civili e
pure
militari (cui si è accennato nel secondo capitolo), hanno, particolarmente
in età imperiale, una notevole diffusione.
L'"hora mortis": i riti e gli atteggiamenti della gens.
L'abbigliamento
del morente.
Come abbiamo
già osservato sopra, le fonti letterarie ed epigrafiche sono molto
parche per quello che concerne gli aspetti
concreti della
morte, e quelle poche che, spesso incidentalmente, ne parlano, si riferiscono
sempre a personaggi appartenenti ai ceti dominanti fornendoci, dunque,
un quadro parziale e non certo generalizzabile.
In precedenza
ci siamo occupati di quale è l'atteggiamento del morente e, nel
caso sia presente, del gruppo familiare o sociale
nei giorni
e nelle ore precedenti il tragico evento, ora invece intendiamo trattare,
per quanto possibile, di come la società quirite affronti
il momento estremo, l'hora mortis e gli istanti immediatamente successivi.
Come abbiamo
già messo in rilievo sopra, una grande importanza viene
attribuita all'abbigliamento, vestiti ed ornamenti
particolari,
che vengono scelti e preparati con la massima cura.
Sappiamo,
infatti, dalle fonti antiche che colui che si sente ormai prossimo alla
morte o comunque teme di morire dedica,
quando ne
ha le possibilità materiali ed economiche, molta attenzione
all'aspetto esteriore dei suoi vestiti.
Apprendiamo,
per esempio, da Livio che, quando i Galli stanno per invadere Roma nel
387 a.C., gli ex-magistrati, fermamente convinti che verranno massacrati,
"ut in fortunae pristinae honorumque ac virtutis insignibus morerentur,
quae augustissima vestis et tensas ducentibus triumphatibusve, ea vestiti
medio aedium eburneis sellis sedere".
Coloro dunque
che esercitano delle cariche pubbliche di un certo rilievo,
tengono particolarmente, anche nel momento della
morte, a sottolineare
l'honos ed il prestigio sociale che deriva loro dal fatto di appartenere
al ceto dominante che ha governato la città e ne ha retto
le sorti.
Questa volontà
di auto-affermazione, di mostrare per l'ultima volta l'importanza della
propria condizione, deve infatti essere
molto radicata
nella mentalità dei Romani perché vediamo che alcuni secoli
dopo, nel 48 a.C., il pompeiano Quintilio Varo,
all'indomani
della sconfitta di Farsalo, si fa uccidere da un suo liberto dopo
essersi rivestito delle insegne e dei simboli del suo potere magistratuale.
Come abbiamo
potuto notare anche in precedenza, dunque, l'esteriorità,
la volontà di apparire ed essere ricordati con tutti gli
attributi
e le caratteristiche della condizione sociale cui si appartiene, è
una costante, nell'atteggiamento di fronte alla morte, di
coloro che
fanno parte dei ceti dominanti.
Il pudore
davanti alla morte.
Negli animi
di coloro che sentono di essere giunti alla fine prevale, a volte, un certo
senso di riservatezza, per cui, a volte, può
succedere
che chi si sente vicino alla morte, dopo aver trascorso le ultime ore insieme
agli amici ed ai parenti che lui stesso ha
fatto convocare,
decida di rimanere da solo.
Il morente,
dunque, si sottrae agli sguardi dei presenti, quasi a sottolineare che
il conforto e l'assistenza che ha ricevuto dai suoi
cari gli sono
valsi per affrontare quest'ultima prova, ma che il definitivo incontro
con la mors è una questione assolutamente
intima e privata.
Questo almeno
sembra si possa desumere dall'atteggiamento di alcuni personaggi di età
imperiale fra cui Tullio Marcellino,
contemporaneo
ed amico di Seneca, il quale, dopo essere rimasto a lungo con i suoi amici
e gli schiavi della sua casa, fa
installare
nella sua camera una specie di baldacchino (tabernaculum), all'interno
del quale muore al riparo dagli sguardi altrui;
uguale determinazione
pare mostrare Seneca che, alla fine della sua lunga agonia, si fa portare
dentro un bagno caldo, il cui
vapore lo
uccide, probabilmente lontano dagli occhi di coloro che avevano assistito
al suo straziante suicidio.
Questo atteggiamento,
ovviamente, non è generalizzabile, tanto è vero che in molti
casi, colui che sta per morire preferisce
invece affrontare
la fine insieme ad un gruppo ristretto e fidato di parenti ed amici.
Ma il pudore
di non mostrare agli altri lo spettacolo della propria morte si può
manifestare anche in altri modi diversi
dall'isolamento
fisico.
Marco Aurelio
infatti, una volta congedato suo figlio, si vela il capo ed accoglie così
la morte: la copertura del capo, del resto,
nei sacrifici
romani è uno dei segni della consacrazione della vittima agli dei.
Non solo:
coprirsi il capo è anche espressione della volontà di preservare,
isolandosi dall'ambiente circostante, la propria
condizione
socio-personale e la propria riservatezza, così come vediamo ad
esempio per le virgines e le nubendae o
nell'episodio
del Satyricon in cui Encolpio, capitato per errore in un lupanare, dichiara:
"...operui caput et per medium lupanar
fugere coepi
in alteram partem...".
E' possibile,
poi, approfondire ulteriormente il significato di questo gesto: esso, infatti,
manifesta la volontà di isolarsi dal
mondo, di
chiudersi in un raccoglimento interiore che rifiuta qualsiasi contatto
con la realtà esterna.
E' forse l'espressione
della nuova consapevolezza di non appartenere ormai più al mondo
dei viventi e di essere sul punto di
entrare, invece,
in una nuova e diversa dimensione, che esige appunto il distacco da questa
terra.
Per certi
aspetti è un comportamento molto simile nelle valenze sacrali a
quello ebraico, per cui il moribondo sul suo giaciglio di morte si
gira verso il muro e interrompe in questo modo qualsiasi contatto con il
mondo dei viventi.
Il bacio
al morente.
Svetonio,
parlando della morte di Augusto - "repente in osculis Liviae... defecit"
- ci rende testimonianza di un uso molto diffuso nel mondo romano: quello
di raccogliere in un bacio l'ultimo respiro del morente.
Questo gesto
ha un profondo valore sacrale, dal momento che è legato ad antichissime
credenze di origine mediterranea,
secondo cui
l'anima al momento della morte abbandona il corpo uscendo dalla bocca.
In questo
modo, (con un bacio sulla bocca) si manifesta, da parte di colui che compie
tale atto, la volontà di conservare per
sempre racchiuso
in sé lo spirito vitale di colui che è morto.
In genere
è la moglie (più difficilmente il marito), ma può
anche essere un altro membro della famiglia che si incarica di questo
compito.
Catullo, ad
esempio, nel carme 101 ci dice: "...advenio has miseras, frater, ad inferias,
/ ut te postremo donarem munere
mortis...
/ Nunc tamen interea haec prisco quae more parentum / tradita sunt tristi
munere ad inferias...".
"Oculos
condere".
Subito dopo
la morte, alla cerchia dei parenti più stretti, generalmente
al/alla coniuge o ai figli (in caso di vedovanza o
mancanza di
figli tocca ai congiunti più prossimi), spetta un altro gesto di
fondamentale importanza: chiudere gli occhi al defunto. Di questa pietosa
ed universale usanza abbiamo numerose testimonianze sia in iscrizioni,
che da parte degli autori antichi: Ovidio, ad esempio, simulando
un colloquio fra Penelope e Ulisse, afferma "ille (Telemaco) meos oculos
comprimat, ille tuos".
Lucano, invece,
a proposito di una battaglia navale fra sostenitori di Cesare e pompeiani,
scrive "tacito tantum petit oscula
vultu / invitatque
patris claudenda ad lumina dextram", confermando che, in caso di morti
premature, sono i genitori a compiere tale atto "contra votum": cioè
contro il loro desiderio, che era ovviamente quello di ricevere gli onori
funebri dai figli secondo l'ordine naturale delle cose.
Altre volte
ancora, può essere la madre, come ci dicono Ovidio:
"hinc certe madidos fugientis pressit ocellis / mater et in
cineres ultima
dona tulit" e Virgilio a proposito della morte di Eurialo, "Alitibusque
iaces, nec te tua funera mater / Produxi
pressive oculos
aut volnera lavi".
Ma solitamente,
come abbiamo già sottolineato, è il/la coniuge sopravvissuto/a:
"supremoque die notum spectantia caelum /
texissent
digiti lumina nostri tua" scrive di nuovo Ovidio rivolgendosi alla moglie.
Una spiegazione
del significato di questo gesto ci viene fornita da Plinio il Vecchio,
il quale sostiene che: "morientibus illos
operire rursusque
in rogo patefacere Quiritium magno ritu sacrum est, ita more condito, ut
neque ab homine supremum eos
spectari fas
sit et caelo non ostendi nefas".
L'interpretazione
fornitaci da Plinio è, come possiamo notare, legata a vecchi
schemi mentali in cui le credenze tradizionali
giocano un
ruolo fondamentale.
E' molto probabile,
invece, che i Romani chiudano gli occhi ai loro morti per lo stesso motivo
per cui lo fanno anche i moderni:
c'è
qualcosa di innaturale in un defunto che tiene gli occhi aperti.
Colui, infatti,
che ha abbandonato questo mondo, ora si trova proiettato in una dimensione
nuova e altra da quella terrena, per
cui è
necessario sancire definitivamente, anche materialmente, un tale passaggio.
Si impone,
insomma, la rinuncia, da parte di colui che è scomparso, di tutti
quegli attributi che caratterizzano invece la vita
terrena: uno
di questi, se non il più importante, è la luce (come si è
già visto nel primo capitolo).
Chiudere gli
occhi al morto, secondo quanto sostiene Rohde, può anche rappresentare
una liberazione dell'anima, non più
legata
all'universo della vita, oppure può essere una precauzione affinché
il defunto non possa più vedere nè tormentare nessun vivente.
Ma, fondamentalmente,
significa privarlo del tutto di un elemento essenziale dell'esistenza materiale,
isolarlo completamente dal mondo dei vivi.
La conclamatio.
Una volta
che gli occhi del defunto sono stati chiusi inizia la conclamatio.
I parenti
e gli amici chiamano per nome il morto ad alta voce e a più riprese,
secondo una tradizione antica e molto diffusa di cui ci offre testimonianza
Ovidio.
Anche ai nostri
giorni comunque, con valori e significati diversi, persiste in alcuni
ambienti tale usanza: è noto infatti che, in
occasione
della morte di un papa, i presenti invocano per tre volte il pontefice
defunto con il suo nome di battesimo per
accertarsi
che il decesso sia effettivo e non apparente.
La conclamatio
è una ritualità collettiva, un pianto ad alta voce per la
morte dei propri cari, come ci testimonia Livio: "et ex
maestis paulo
ante domibus, quae conclamaverunt suos,".
Diverse sono
le interpretazioni intorno al significato del rito della conclamatio, che
si ritiene sia rivolto principalmente all'anima
del morto,
la quale viene così rassicurata sul fatto di non essere stata abbandonata,
ma che ben presto verranno celebrati i
tradizionali
riti funebri che le consentiranno di essere pienamente accettata
nel regno dell'Ade.
Questo atteggiamento
è plausibile se teniamo conto del terrore dei Romani nei confronti
della morte e del suo universo, ma è
molto probabile
che le motivazioni fondamentali della conclamatio abbiano radici più
semplici e pratiche.
I presenti
infatti chiamano per nome il morto anche durante i successivi riti
funebri, fino a quando il cadavere non viene cremato o inumato.
Questo dato,
dunque, induce a ritenere che lo scopo fondamentale di tutto risieda nel
conseguimento della certezza che il
defunto sia
veramente tale, e che non si tratti di un caso di morte apparente: in questa
eventualità le grida dei parenti e degli
amici dovrebbero
riuscire a risvegliarlo dal suo stato di torpore.
In effetti,
le fonti antiche, ad esempio Plinio il Vecchio e Apuleio, narrano diversi
episodi di persone ritenute morte che si
risvegliano
a causa del clamore suscitato dalle invocazioni dei presenti.
Contro una
tale incresciosa eventualità (cremare una persona ancora viva),
vengono prese anche altre cautele: il cadavere
infatti, per
quanto riguarda i ceti superiori, viene mostrato agli occhi di tutti nell'atrium
della domus su di un letto funebre, con i piedi rivolti verso la porta
d'entrata.
E tocca
ai parenti più prossimi occuparsi di tale delicata incombenza.
Il corpo,
lavato, profumato, vestito e sistemato dal pollinctor e dagli altri operai
delle pompe funebri, chiamate subito dopo la conclamatio, rimane esposto
per un lasso di tempo variabile a seconda della condizione sociale del
morto: i poveri vengono
sepolti in
tutta fretta il giorno stesso del decesso, ma un imperatore può
dover attendere anche per una settimana.
Tutto questo
tempo, dunque, in cui la salma rimane sotto gli occhi di tutti, dovrebbe
consentire di stabilire con assoluta
certezza
se la morte sia effettiva oppure apparente.
Tornando,
comunque, alle ritualità dell'immediato post mortem, possiamo affermare
che il rito collettivo della conclamatio ha una valenza sacrale
ben specifica: se ufficialmente è necessario che il medico espleti
le formalità burocratiche per dichiarare
defunta una
persona, nell'uso e nella sensibilità comune la conclamatio sancisce
definitivamente il decesso.
Per traslato,
poi, espressioni come iam conclamatumst, registrata in Terenzio,
esprimono l'idea di fine e di irrecuperabilità.
Una volta
compiuta la conclamatio inizia il pianto di amici e parenti, che
esprimono così il loro dolore attraverso una ritualità
collettiva,
che permette di controllare la sofferenza per la morte di un membro
del gruppo.
Il compianto
funebre per il defunto, infatti, segue generalmente delle regole ben precise
e stabilite, frutto dell'adesione ad una
tradizione
cui, nel corso dei secoli, i Romani sono rimasti fedeli.
Una manifestazione
palese e smodata del dolore per la perdita di una persona cara nell'ottica
quirite viene ritenuta sconveniente
e disdicevole,
soprattutto per gli uomini, i quali, inseriti in una struttura sociale
in cui l'attività pubblica gioca un ruolo
fondamentale,
trattengono e moderano le esternazioni del lutto, per ritornare ad occuparsi
degli importanti compiti politici e
amministrativi
che la città ha loro affidato e mostrare così, almeno
esteriormente, la loro piena adesione agli austeri dettami del
mos maiorum.
Seneca, infatti,
critica coloro che si abbandonano a scene di dolore e di disperazione plateali
e dunque consiglia ad un suo
amico "plus
tamen aequo dolere te nolo".
C'è
dunque una misura per la sofferenza e la sua esternazione pubblica oltre
la quale, per un civis Romanus, ma anche per la
matrona, sostiene
Seneca, è sconveniente spingersi.
E' ancora
Seneca che ci offre una norma di comportamento conforme alla gravitas del
mos maiorum: "nobis autem ignosci
potest prolapsis
ad lacrimas, si non nimiae decucurrerunt, si ipsi illas repressimus. Nec
sicci sint oculi amisso amico nec fluant:
lacrimandum
est, non plorandum".
C'è
infatti una notevole differenza fra il pianto, visto come una sobria espressione
del dolore ed il ploratus, che è invece un
gridare
e gemere, quasi ululare, caratteristica tipica delle donne e dei bambini.
Ed è
proprio il pianto disperato, le grida strazianti per un dolore ritenuto
insostenibile, quelli che vediamo nel Satyricon, nel
celebre episodio
della matrona d'Efeso: la giovane donna, infatti, appena rimasta vedova,
"non contenta vulgari more funus
passis prosequi
crinibus aut nudatum pectus in conspectu frequentiae plangere..."
arriva poi addirittura ad accompagnare il
cadavere del
marito nel monumento funebre, dove si trattiene anch'essa rifiutando qualsiasi
cibo e continuando a flere,
(l'espressione
verbale muta perchè l'atto adesso non è più pubblico
ma privato).
Questo racconto
è molto utile, ai nostri fini, come testimonianza del comportamento,
pare di capire usuale e diffuso (vulgari
more), nel
mondo femminile mediterraneo di epoca classica, tenuto in occasione
della morte di una persona cara: la vedova
che segue
il funerale del marito con i capelli sciolti, percuotendosi il petto denudato,
urlando e piangendo disperatamente,
sembra, dunque,
essere la norma.
Accanto alle
mogli o alle parenti più strette, madri, sorelle o figlie, troviamo
delle altre figure femminili che partecipano al pianto
funebre: sono
le praeficae, donne pagate per intonare il lamento e per compiere
alcuni gesti tradizionali del lutto, come quello di strapparsi i capelli
o di battersi il petto urlando.
L'impiego
di "professioniste" prezzolate come le praeficae si può spiegare
fondamentalmente con la funzione di coordinatrici e
di guida che
esse svolgono nel rito della lamentazione.
Queste donne,
infatti, dotate di una optuma vox, una voce stentorea dunque, hanno
il compito di dare alle altre donne presenti
il "modus
plangendi": si tratta, come sostiene Servio, di un responsorio di discorso
individuale e di planctus collettivo, in cui la
praefica si
qualifica come princeps planctus, la guida degli atti esterni del dolore.
Queste scene
devono comunque essere molto plateali, perché vediamo che anche
Luciano, nel II secolo d.C., le critica
aspramente:
"dopo di che, gemiti e grida di donne e pianto generale e petti battuti
e capelli strappati e guance graffiate a sangue. Talvolta addirittura si
fa a brandelli il vestito e ci si cosparge il capo di cenere, e i vivi
fanno ben più pena del morto: mentre quelli infatti si rotolano
su e giù per terra e battono la testa sul pavimento...".
Siamo dunque
in presenza, soprattutto per quanto riguarda gli strati superiori della
società quirite, di un sostanziale allineamento all'austero ideale
del mos maiorum che, come possiamo notare nelle Consolationes di
Seneca o nella Consolazione alla moglie, scritta da Plutarco, in
occasione della morte della figlia, tende a ridurre al minimo le manifestazioni
esteriori del lutto e del dolore, ritenute spesso frutto dell'emotività
e dell'irrazionalità, per lasciare spazio invece ad una lucida,
quasi fredda, valutazione delle circostanze.
Questo comunque
non esclude che spesso la disperazione e la sofferenza per la morte
di una persona cara siano vere e
sentite: coloro
che vengono così duramente colpiti avvertono allora il vuoto
e l'inadeguatezza delle convenzioni imposte dal mos maiorum e difficilmente
riescono a trovare conforto nei consigli filosofici di matrice stoica e
neppure nelle consolationes.
Queste opere,
infatti, rappresentano un vero e proprio genere letterario, e seguono,
in linea di massima, dei canoni prestabiliti,
codificati
in alcuni loci communes, che a volte assumono contorni cinici nel loro
esasperato razionalismo "intellettuale": ad
esempio, la
morte onnipotente ed ineluttabile, l'importanza di una vita virtuosa
piuttosto che lunga, la necessità di prendere
piena coscienza
del fatto che tutti siamo mortali o del tempo che guarisce tutte le ferite.
Gli addobbi
funebri della casa.
Se i riti
che abbiamo sopra ricordato vengono celebrati immediatamente a ridosso
della morte, in un secondo momento, invece, si compie un altro gesto: la
domus (per le insulae non abbiamo notizie) in cui si trova un defunto
viene segnalata appendendo alla porta d'entrata dei rami di cipresso o
di pino, in modo da avvertire i passanti che nella casa c'è un morto.
Il valore
sacrale di tali piante, cui, a volte, viene affiancato anche il platano,
è assai noto: Orazio e Virgilio, tra gli altri, ne
parlano e
sostengono che sono gli alberi dei morti che crescono nei regni inferi.
E' Plinio
il Vecchio che ci spiega con chiarezza le ragioni del carattere funerario
unanimemente attribuito dagli antichi al
cipresso:
"...satu morosa, fructu supervacua, bacis torva, folio amara, odore violenta
ac ne umbra quidem gratiosa, materie
rara, ut paene
fruticosi generis, Diti sacra et ideo funebri signo ad domos posita".
Lo stesso
autore attribuisce, poi, simili caratteristiche anche al pino: "...feralis
arbor et funebri indicio ad fores posita ac rogis
virens...".
La dichiarazione
di morte secondo la medicina e secondo il diritto.
La dichiarazione
di morte da parte del medico non pare rivestire grande importanza nel mondo
romano: le fonti, infatti,
generalmente
sorvolano su tale questione, ritenendola evidentemente di scarso interesse.
Al momento
della morte del paziente, il medico - sia esso liberto o di condizione
schiavile (solo una estrema minoranza di
privilegiati
può, tuttavia, permettersi un medico "di casa", come si è
già visto) - viene chiamato dai familiari, sempre che non
sia già al capezzale, per constatare l'avvenuto
decesso.
Costui non
è, come pare di capire, uno specialista: per spiegarci meglio, il
mondo romano non conosce la figura del medico
legale così
come la intendiamo noi oggi; colui che espleta le pratiche riguardanti
la morte è insomma un medico comune.
Generalmente
tale pratica non comporta molte difficoltà giacché, nella
maggioranza dei casi, le caratteristiche della morte sono evidenti ed inequivocabili,
per cui il riconoscimento ufficiale da parte del medico non suscita perplessità:
per la grande
maggioranza
dei Romani, del resto, sono proprio i "segni" usuali della morte a determinare
il trapasso senza altre
preoccupazioni.
Anche il diritto
romano non dedica grande attenzione alla dichiarazione di morte.
La scomparsa
di un soggetto giuridico, organicamente inserito in una società
regolata da leggi e vincoli economici, interessa
certamente
il legislatore: ma solo perché deve disciplinare in modo certo e
preciso tutte le materie di diritto riguardo la
successione
e l'eredità, dunque deve agire in un secondo tempo successivo
a quello della scomparsa.
L'unico motivo
di interesse del diritto per quanto riguarda la determinazione esatta del
momento del trapasso si ha nei rari casi di commorienza, per cui, ai fini
testamentari, è necessario stabilire con precisione le dinamiche
successorie, per dirimere le
inevitabili
controversie che sorgono intorno all'acquisto dell'eredità.
La casistica
risulta (piuttosto) interessante.
In un'occasione,
ad esempio, "cum bello pater cum filio perisset materque filii quasi postea
mortui vindicaret, adgnati vero
patris, quasi
filius ante perisset, divus Hadrianus credidit patrem prius mortuum".
In questa
evenienza la questione è stata risolta con un rescritto dell'imperatore
Adriano che, sulla base di valutazioni puramente soggettive (credidit),
dà ragione alla madre che può così entrare in possesso
dell'eredità.
Esistono poi
altri casi del genere, come quello di un liberto senza testamento e di
suo figlio morti contemporaneamente, per cui sorge una controversia fra
il patronus e gli eredi del figlio del liberto, che viene risolta dalla
giurisprudenza nel modo seguente: "si cum filio suo libertus simul perierit
intestato, patrono legitima defertur hereditas, si non probatur supervixisse
patri filius: hoc enim reverentia patronatus suggerente dicimus".
Questi casi,
significativi, ma plausibilmente abbastanza rari, sono i soli, dunque,
a risvegliare l'interesse della giurisprudenza nei
confronti
della precisa determinazione del momento della morte.
Comunque,
come possiamo notare, la dichiarazione di morte non viene mai
menzionata nei documenti sopra citati: al
contrario,
le controversie vengono risolte o in modo unilaterale e soggettivo
(il rescritto di Adriano), o con soluzioni legislative
legate al
rispetto del mos maiorum (hoc enim reverentia patronatus suggerente dicimus).
Anche il diritto
romano, del resto, come già la medicina, non si occupa di
stabilire che cosa sia la morte o quali siano i segni
che la rendono
evidente: per la legge il decesso è un fatto palese e facilmente
rilevabile (dal medico o da altri testimoni) con un
semplice sguardo
al cadavere.
Quello che
interessa al giurista, infatti, non è scoprire la causa o
determinare il momento del decesso - tranne nei casi di
commorienza
ricordati sopra o quelli in cui la morte sia avvenuta lontano da casa (caso
questo che può dare luogo a dispute
legali) -,
ma regolamentare le questioni testamentarie ed economiche una volta che
la scomparsa è stata accertata ed i riti
funebri sono
stati eseguiti.
Quello che
qui conta sottolineare è come nell'area italica, sia
in ambito epigrafico (nel periodo precedente al cristianesimo)
che letterario,
il giorno esatto della morte, il dies mortis, non viene indicato
per ragioni di carattere giuridico o legale, ma per
motivi di
ordine storiografico o, nel caso delle iscrizioni sepolcrali, per la volontà
di lasciare pubblicamente memoria di sé.
Materiale
relativo alle dichiarazioni di morte invece, per motivi eminentemente burocratici,
è più abbondante in Egitto, anche se in questo caso
si parla di documenti redatti non da medici o giuristi, ma dai familiari:
dobbiamo utilizzarli con le dovute cautele, per farci un'idea di come sia
strutturata una denuncia di morte.
Bisogna infatti
premettere che tali atti giuridici non hanno lo scopo di stabilire
e certificare l'età del defunto o la causa della
morte, ma
hanno un fine puramente fiscale: accertare il numero esatto e l'identità
di coloro che devono pagare annualmente la
"laographia",
una tassa pro capite imposta dal governo centrale.
In tali documenti,
generalmente, viene indicata la paternità, la maternità e
il luogo di origine o il domicilio del defunto, mentre la data della morte
si limita solitamente all'indicazione generica del mese e dell'anno ed
assai raramente vengono riportate la
condizione
sociale, la professione e l'età.
Nella maggioranza
dei casi, poi, la denuncia viene presentata ai funzionari degli uffici
amministrativi alcuni giorni dopo il
decesso da
un parente stretto del morto: un marito, un padre, un figlio, una moglie.
Conclusione
Una volta
che il medico ha espletato le brevi, e non necessarie, formalità
dell'accertamento della morte (là dove la condizione
sociale ed
il censo lo permettono), il corpo, ormai cadavere, inizia ad essere
preparato per la sua ultima apparizione pubblica: il funerale.
Se è
ricco verrà lavato, profumato, "ritoccato", vestito, e messo
nelle migliori condizioni possibili per essere presentato alla
vasta platea
della città, che lo attende per tributargli gli estremi onori: se
è un miserabile, abbruttito dalla fame e dalla povertà, o
uno schiavo,
verrà per lo più avvolto in un pezzo di stoffa e gettato
in una fossa comune.
Sarà,
comunque, l'ultima partecipazione "corporea" pubblica di colui
che una volta è stato un uomo e che ora entra
definitivamente
in un mondo che non è più quello dei vivi.
Per informazioni e collaborazioni scrivere
a: adolfocatelli@tiscalinet.it
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