Idea
della morte a Roma
Terminologia funeraria e caratteristiche delle divinità
infere
In ogni cultura l'uomo ha posto come termine
della propria esistenza attiva il momento della morte, un momento che ha
sempre
cercato di rimandare in tutti i modi, ma che
non ha mai potuto evitare. Le civiltà antiche hanno fatto
della vita terrena l'unico
ambito in cui l'uomo poteva muoversi e proprio
questo ha precluso in buona parte diverse e trascendenti dimensioni
oltremondane. La morte, in quest'ottica, viene
ad assumere un carattere tragico poiché priva l'uomo di tutto ciò
che ha un
qualche valore: le conquiste materiali che è
riuscito a realizzare in questa vita, e le gioie di cui gode grazie ad
esse.
L'arrivo del cristianesimo e delle religioni
orientali, prime fra tutti l'ebraismo, il culto di Iside e il mitraismo,
cambia di fatto
questa situazione introducendo l'idea del primato
della vita celeste su quella terrena, offrendo così agli uomini
una dimensione
nuova e ben più ampia
di quella costretta entro gli angusti limiti della vita biologica.
Anche Roma, come tutte le civiltà a lei
precedenti o contemporanee, concepisce
quello terreno come l'unico mondo che abbia un qualche valore
e si affanna nella
ricerca dei beni materiali.
O meglio: crede nell'esistenza di una dimensione
oltremondana ma la immagina così desolante, così grigia,
così monotona da
non poter certo reggere il confronto con le gioie
di questa terra.
La sorte che attende i morti non è, nell'ottica
romana, una delle più invidiabili: ridotti ad umbrae, proiezioni
sbiadite di ciò che
furono in vita, fantasmi di se stessi, conducono
all'interno della loro tomba una vita dimezzata, triste e senza felicità.
Privati della
materialità del corpo, non sono altro
che spettri esausti che la nostalgia della vita precedente spinge talvolta
a ritornare sulla
terra per rivedere i luoghi che li accolsero
prima della morte.
Diventa allora ovvio il terrore cieco, ma anche
l'odio istintivo, che il Romano sviluppa verso la morte, cioè verso
colei che
presto o tardi, improvvisamente o dopo lunga
malattia, gli toglierà il bene più prezioso: la vita.
Nella terminologia che le civiltà classiche
hanno utilizzato per designare la morte e le sue divinità appaiono
evidenti il senso di
una dolorosa impotenza di fronte ad un evento
terribile ed il disperato attaccamento all'esistenza terrena. Scorrendo
rapidamente il lessico della morte si nota immediatamente
come uno dei sentimenti più
diffusi sia il disprezzo, l'odio
per una sorte di cui ci si sente vittime. Gli
aggettivi riferiti alle divinità dell'oltretomba, ed in particolare
alla Mors, malvagia
personificazione antropomorfa partorita dalla
fantasia popolare, sono i più duri ed aggressivi che si possano
immaginare: essa
viene definita turpis, squalida, horrida, lurida;
è come se attraverso questi violenti attacchi verbali l'uomo volesse
rivalersi per
quello che gli è stato sottratto.
Nel processo di antropomorfizzazione i Romani
hanno attribuito alle divinità ctonie tutte le peggiori caratteristiche
umane, prime
fra tutte l'invidia e la violenza, che rappresentano
i loro tratti fondamentali.
Il mondo romano è ricchissimo di attestazioni,
epigrafiche e letterarie, di esecrazione verso queste divinità che
trascinano in
modo crudele gli uomini nel loro triste mondo
sotterraneo. I Carmina Latina Epigraphica offrono moltissimi esempi di
delicata
pietà nei confronti dei propri cari che
sono stati colpiti dall' invidia letale della Mors per la loro bellezza
o per la loro giovane
età, ma presentano altresì delle
invettive durissime contro questa malvagia entità che in alcuni
casi viene accostata ad un
serpente. Gli animi esacerbati dal lutto si lasciano
andare ad attacchi feroci, tanto inutili quanto istintivi, contro un destino
ritenuto ingiusto, come nel caso di Frontone,
solitamente molto pacato, che in una famosa lettera all'imperatore
Antonino Pio
biasima duramente la sorte crudele
che si è accanita sul suo amato nipotino e ha invece
lasciato in vita turpi criminali
meritevoli dei peggiori castighi.
Letteratura e superstizione popolare nel
corso dei secoli attribuiscono sempre nuove caratteristiche alle
varie divinità infere
giungendo così a intrecciarle e a confonderle
fra di loro. Un esempio di questo processo è l'immagine del letum,
di cui è assai
dibattuta l'etimologia, che originariamente definisce
semplicemente l'evento del decesso, come prova l'espressione leto dare,
ben documentata anche in epigrafia, il cui significato
è appunto dare la morte, uccidere.
Dietro l'influsso della mitologia greca si sviluppa,
soprattutto in ambito poetico, la personificazione di Letum come divinità
della
morte, ed in questo senso appunto lo vediamo
collocato da Virgilio all'ingresso dell'Ade.
Il termine subisce un'ulteriore evoluzione -
probabilmente dovuta alla superstizione popolare che tende a concretizzare
ed
individualizzare le personificazioni dei concetti
astratti - per cui, in un'epigrafe urbana, lo troviamo nella forma maschile
di Letus:
("mortis acerbus eripuit letus"), con
il carattere di demone della morte, paragonabile per ciò al greco
Thanatos.
Ma l'esempio più significativo in questo
senso è quello della figura schiettamente popolare dell'Orcus: derivato
probabilmente
da un analogo elemento ctonio etrusco, a Roma finì
per designare indifferentemente la divinità sovrana
delle regioni
infernali (Plutone), in questo assimilato in
tutto e per tutto a Dis (pater), e più tardi lo stesso regno dei
morti.
L'importanza di questa divinità è
comunque molto elevata presso i Romani poiché la vediamo comparire
molto spesso negli
autori con le caratteristiche tipiche della morte:
viene definita pallidus, violenta rapitrice di uomini, dotata di
una forza
straordinaria e irresistibile, incorruttibile
nella sua missione. Inoltre i tratti crudeli e odiosi di questa
divinità trovano conferma
nel fatto che Cicerone, nel suo violentissimo
attacco contro Verre, arrivi a definire il proconsole di Sicilia Orcus
a significare la
connotazione assolutamente negativa del personaggio.
La popolarità di questa figura è
ulteriormente attestata dalla sua diffusione nel lessico corrente e nei
vari ambiti della vita
quotidiana: gli schiavi manomessi per testamento
dopo la morte del padrone vengono, infatti, definiti liberti orcini, a
significare lo stretto legame fra la loro libertà e l'evento del
decesso. Il senso della morte, intesa come entità spietata ed ineluttabile
che
sovrasta e schianta le forze dell'uomo, è
reso molto bene nel mondo romano con la parola fatum: è il
destino, la dolorosa
necessità che presiede alla vita di ogni
uomo e che ne sancisce con fredda determinazione l'inizio e la fine.
Accanto a questo termine - che originariamente
viene usato nella mitologia latina per indicare la sentenza divina,
la volontà
celeste, in particolare quella di Giove - si
sviluppa per naturale conseguenza la sua forma plurale, fata, con cui vengono
definiti
gli oracoli e le predizioni.
Per influsso dei miti greci, cui la cultura latina
attinge a piene mani, questi fata, richiamando l'idea della sorte e quindi
delle sue
divinità, le Moire, divengono delle
entità preposte alla vita ed alla morte di ogni uomo, per
cui in molte fonti li troviamo anche
con il nome di Parcae che è appunto l'esatto
corrispondente romano delle Moire elleniche.
E' contro queste divinità, invida , iniqua
, che si esprime tutta la rabbia di chi non riesce a rassegnarsi
all'ineluttabilità del morire, esse sono le grandi livellatrici:
davanti alla loro forza, alla violenza del loro estremo richiamo, non esistono
più nè ricchi nè poveri, nè re nè schiavi,
tutti subiscono il medesimo destino di morte. Questo tema è molto
ricorrente già nella letteratura greca: per nessuno c'è
scampo, "Muoiono anche i figli degli dei" sentenzia perentorio il coro
dell'Alcesti, e lo vediamo del resto molto presente anche in ambito latino:
"Ille licet ferro cautus se condat et aere,/ mors, tamen inclusum protrahit
inde caput.", scrive Properzio, "Nulla certior tamen / rapacis Orci fine
destinata / aula divitem manet / erum. Quid ultra tendis ? Aequa tellus
/
pauperi recluditur / regumque pueris.", afferma
altrove Orazio. Sono numerosissime le attestazioni epigrafiche che
rendono,
ancora più delle opere poetiche, l'idea
di quale fosse il sentimento comune su questo tema.
Da queste lapidi viene al lettore un messaggio
di dolorosa riflessione sulla condizione umana e sui suoi limiti, ed un
monito
all'umiltà. "Orbem sub leges si habeas
dum vivis, ad Orchum / quid valet? Hic nulla est divitis ambitio" recita
la parte finale di un'epigrafe di Narbonne in Francia.
In una concezione della vita immanente e materialista,
come quella propugnata dall'élite romana, l' unico ceto
che ha qualcosa
da perdere, non è concepibile nei confronti
della morte nessun attributo positivo, giacché essa è
la negazione per eccellenza,
colei che abbatte le aspettative umane, che insomma
distrugge la vita, unica dimensione in cui si giocano tutte le speranze.
In ambito epigrafico ritroviamo ancora una volta
l'espressione più evidente di questo attaccamento esasperato al
quotidiano:
l'epigrafia funeraria, infatti, è una
vera e propria cartina di tornasole della società dominante.
"[ Homo tantum ] in vita possidet quantum utitur",
è questo il messaggio ultimo, amarissimo, che proviene da un sepolcro
veronese.
La paura della
morte e dei morti.
La convivenza con il pensiero della morte dunque
è particolarmente difficile per il mondo romano che, in opposizione
all'ottica
cristiana e misterica, interpreta il momento
del trapasso come l'annientamento più o meno definitivo dell'uomo.
Le grandi tombe, i mausolei che il ceto dominante
si fa costruire con grande dispendio di denaro non sono che la conferma
di
questo terrore di non "essere più" : con
questi monumenti imponenti i dedicatari cercano di riaffermare e
rendere visibile quello
che essi sono stati fra i vivi e in tal modo
lenire l'angoscia del distacco dalla vita.
Ma questo non basta. Ecco allora la necessità
dell'emarginazione, della rimozione sociale e psicologica del problema.
Questo
fenomeno comunque non si verifica soltanto nella
Roma pagana ma in tutte le civiltà classiche, e paradossalmente
esso si è
accentuato, pur con alterne vicende, con il passare
dei secoli. L'attuale società occidentale, sottoposta alle ferree
leggi del
profitto e della produzione, tende a vivere come
un fallimento la morte di un suo membro e per questo cerca di nasconderla,
di
relegarla negli asettici padiglioni per
malati terminali, discrimina ed esclude quelli che vengono colpiti da malattie
"infamanti",
dando così un giudizio morale, prima ancora
che scientifico, sul comportamento di queste persone che vengono viste
con
sospetto per la loro ambigua condotta sociale
e sessuale.
Ed ecco legati in una pericolosa simbiosi
i due grandi tabù di sempre: il sesso e la morte, argomenti di cui
si parla poco,
argomenti di cui non è bene parlare, argomenti
nascosti nell'angolo più buio della nostra cattiva coscienza.
Siamo dunque ben lontani dalla lezione dei primi
cristiani che celebravano le liturgie nelle catacombe anche per essere
vicini ai
loro morti, e che del giorno della morte avevano
fatto il primo giorno della loro nuova vita in Dio.
Questa lezione, in una cultura occidentale che
si dice in larga parte cristiana, si è persa, offuscata e sommersa
dall'individualismo e dal materialismo.
Anche la Roma tardo-repubblicana e proto-imperiale
nei confronti della morte vive tensioni e paure simili alle nostre, ma
, ed è
questo che deve indurci a riflettere sulle contraddizioni
della nostra società, non conosce o minimizza il messaggio catartico
delle religioni orientali e del cristianesimo.
La morte è angoscia, incertezza, fallimento;
rimuoverne l'idea, eliminarne le tracce, diventa una necessità,
se non si vuole cadere in uno schizofrenico conflitto psicologico fra la
certezza di quello che siamo e la percezione di quello che saremo (o potremo
non essere). Il mondo romano tende ad esorcizzare
l'idea della morte perchè essa - con il suo universo di riti magici,
di divinità
crudeli ed inesorabili, di luoghi tetri ed orribili
- rappresenta una realtà altra ed incontrollabile rispetto
ad un mondo ordinato
come quello della res publica: il civis
si muove esclusivamente entro i confini spazio-temporali dell'impero, gli
unici ad essere
reali, difendibili, espandibili.
Tutto ciò che esula da questi limiti è
pericoloso, è una minaccia per l'ordine sociale, e come tale deve
essere eliminato.
Questo tipo di atteggiamento si riscontra agevolmente
nelle prescrizioni legislative che pongono al di fuori della cerchia urbana
i
luoghi destinati ad accogliere le tombe per evitare
contaminazioni, o che stabiliscono dei giorni rituali in cui gli spiriti
dei morti
possono tornare sulla terra per ritrovare i loro
cari, a patto però che non vengano a turbare la tranquillità
dei viventi per tutto il
resto dell'anno.
La stessa idea di separazione di ciò che
è pericoloso e diverso da ciò che invece è puro, dalla
parte sana della città nel nostro
caso, è espressa con molta chiarezza dalla
legislazione penale riguardo al parricida. Colui che si è macchiato
dell'orrendo
crimine dell' assassinio di un familiare viene
espulso dalla comunità in modo definitivo: chiuso in un sacco ben
sigillato ed
impermeabile in compagnia di quattro animali,
il serpente, il gallo, la scimmia ed il cane, ritenuti oscuri ed inquietanti,
viene
gettato nel Tevere o nel mare affinché
l'acqua gli impedisca di tornare nel mondo dei vivi.
Si coglie subito in questa procedura che ciò
che sta più a cuore ai Romani non è la punizione del crimine,
ma l'espulsione di un
monstrum che, con il suo gesto folle, ha reso
impura tutta la comunità, violando i sacri legami della famiglia.
Roma vuole
separare nettamente ed in modo inequivocabile
il mondo dei vivi da quello dei morti, perchè i defunti non hanno
più diritto di
cittadinanza su questa terra.
Anche se un tempo furono cittadini romani
ora essi sono altro: spiriti, "lemures", "larvae", "manes"; appartengono
insomma al
mondo della morte, sono diversi, o meglio, non
sono.
Su questa alterità si gioca tutto,
è questo il nocciolo fondamentale dell'atteggiamento romano nei
confronti della morte.
L'uomo cessa, nell'istante stesso del suo decesso,
di essere tale, perde tutte quelle caratteristiche che nell'ottica classica
fanno
di un insieme di carne e di muscoli un essere
pensante ed intelligente.
La più importante di queste peculiarità
è senza dubbio quella della parola.
La morte è il regno del silenzio, è
il luogo in cui si viene privati della parola, naturale mezzo di
comunicazione fra i vivi, tanto più a Roma dove sappiamo l'importanza
che hanno l'oratoria politica e l'arte retorica.
Il morto stesso in molte epigrafi si definisce
come colui che ora tace.
L'impossibilità di comunicare, dovuta
all'interdizione dalla parola, è uno dei tratti più agghiaccianti
per la cultura romana, poiché
sancisce l'impossibilità di agire e di
essere quindi parte attiva nello svolgimento delle vicende
umane. La negazione della parola fa regredire l'uomo al livello animale
(ricordiamo la distinzione fatta da Varrone, parlando di schiavi, per cui
l'unico elemento che conferiva dignità allo schiavo rispetto al
bue o agli strumenti di lavoro era il fatto di essere un instrumentum vocale,
di avere
cioè la capacità di parlare).
Il tempo stesso della morte viene ad assumere
connotazioni completamente differenti rispetto a quello terreno. Il mondo
romano considera concluso il tempo di un
individuo non nel momento in cui esso muore, ma quando questa morte viene
codificata in modo definitivo ed inequivocabile
nell'incisione della lapide: l'epigrafe rende ufficiale la fine quando
il dedicatario
decide di farsi ricordare, quando si passa dalla
non più vita alla storia e quindi alla memoria di sé.
E' lo sbalzo che proietta il morto in una
dimensione temporale nuova e diversa da quella terrena. A partire dall'età
imperiale,
infatti, sulla lapide viene riportata,
generalmente con grande precisione, la durata della vita di una persona:
con essa la storia di
quella persona nel mondo dei vivi appare finita,
il suo tempo è stato sancito.
Qualunque azione, pensiero, o attività
vitale quest'uomo possa avere avuti essi non sono più di questa
terra e non si verificano
più nel tempo terreno; di conseguenza
non riguardano più la res publica, sono fuori dai suoi confini
spazio-temporali, sono
altro, e come tali vanno emarginati e rimossi.
Il tempo della morte diventa, invece, tempo della
vita nel cristianesimo e in alcuni culti orientali fra
cui il mitraismo ed il culto
di Iside. Tutti i culti misterici di derivazione
orientale si pongono in una posizione nuova e di palese superiorità
escatologica
rispetto alla religione tradizionale di Roma.
Essi infatti offrono ai fedeli, attraverso
la partecipazione ai riti ed alle cerimonie iniziatiche, la promessa della
salvezza nell'aldilà
e la prospettiva di una beata immortalità.
Ecco il motivo per cui il culto di Iside a partire
dal I secolo a.C. ed il mitraismo dal II secolo d.C. incontrano un così
grande
successo fra la popolazione romana: essi vengono
a supplire alle carenze della religione tradizionale incapace di dare una
risposta adeguata alle angosce della gente.
Il culto di Iside proviene dall'Egitto e tramite
le rotte commerciali si propaga in Italia attraverso la Sicilia e le coste
meridionali
intorno al I secolo a.C.
Il carattere "democratico" di tale religione
- essa infatti rivolge la sua predicazione soprattutto verso i ceti inferiori
ed apre i suoi
templi anche alle donne - sconcerta e preoccupa
le autorità romane che alla metà del I secolo a.C. intervengono
pesantemente
distruggendo i luoghi di culto.
I magistrati, molto tradizionalisti,
avversano questo movimento religioso perchè lo ritengono
molle e corruttore dei
costumi, inoltre le riunioni segrete dei fedeli,
la maggioranza dei quali di bassa estrazione sociale, rappresentano agli
occhi del
potere costituito una potenziale ed occulta
minaccia per gli equilibri politici. Tutto ciò comunque non ferma
l'enorme diffusione
di questo culto che si spiega con il fascino
delle sue dottrine escatologiche e delle forme esteriori del rituale.
L'apertura solenne del tempio ogni mattina e
l'altrettanto solenne chiusura ogni sera, la sfarzosa vestizione della
statua della dea, l'ammissione delle donne alle liturgie, sono senza
dubbio elementi capaci di attrarre l'attenzione della società
romana.
Ma ciò che contribuisce maggiormente al
successo di questa religione è la sua capacità di offrire
ai fedeli una luminosa speranza di salvezza ultraterrena. Riprendendo il
mito di Osiride secondo cui la divinità - sconfitta in un
primo tempo dalle forze del male, riesce poi, tramite l'intervento delle
divinità superiori, a riacquistare la vita e a trionfare sulla morte
- il culto di Iside
propone l'identificazione dell'iniziato con la
figura di Osiride, e gli garantisce dunque la resurrezione e la vita eterna.
Di origine indoiranica invece, il mitraismo si
diffonde in tutta l'Asia minore grazie alle conquiste del regno persiano
e viene in
contatto con Roma nel II sec. D.C. Il culto di
Mitra si configura immediatamente come una religione misterica volta a
garantire
agli iniziati - solo maschi - la
salvezza e la felicità dell'anima nel mondo ultraterreno.
Il fedele, tramite la rivelazione dei misteri,
può liberarsi già sulla terra delle
impurità che opprimono la sua anima, ma è soprattutto dopo
la morte che grazie alla sua fede
l'iniziato può, attraverso i sette gradi
progressivi di purificazione, ottenere la vita eterna in comunione con
il suo dio. Ciò
ovviamente è appannaggio dei soli aderenti
a questo culto perchè per coloro che non credono alla parola salvifica
di Mitra
dopo la morte non vi sarà che tristezza
e grigiore.
Il cristianesimo offre a sua volta una risposta
trascendente alle attese più forti degli uomini sostenendo
che, grazie alla fede nella resurrezione in Dio, il giorno del decesso
chiude definitivamente solo la parentesi della vita terrena, ma apre all'uomo
una
dimensione nuova, infinitamente più grande:
la possibilità di vivere finalmente in Dio come una cosa sola.
Questo elemento risulta molto evidente dal confronto
fra l'epigrafia pagana e quella cristiana.
Nelle iscrizioni paleocristiane troviamo infatti,
per la prima volta in modo generalizzato, un dato che nelle epigrafi pagane
era
quasi completamente assente: la data della
morte.
Il mondo romano attraverso l'iscrizione vuol
far sapere al lettore quanto ha vissuto, quanto è stato il tempo
che ha passato su
questa terra, visto che è proprio questo
l'unico elemento che abbia qualche valore: lo spazio fra due limiti precisi,
quello della
nascita e quello della morte, al di là
dei quali c'è il nulla. Il mondo cristiano invece afferma con forza
in tale modo che per
l'uomo, nato alla vera vita con il battesimo,
il giorno della morte, o meglio della depositio, la sepoltura, è
anche il giorno della
rinascita, è il momento in cui il fedele
entra a far parte di un progetto salvifico nuovo e meraviglioso.
Espressione di questa idea è la consuetudine
della chiesa di onorare le feste dei santi nell'anniversario della
morte e non in
quello della nascita.
L'universo della vita, come abbiamo potuto
notare, è in simmetrica antitesi con l'universo della morte poiché
quest'ultima, come afferma Angelo Brelich, è considerata dall'animo
irrazionale come un fenomeno negativo a priori, rappresentando la fine
di ciò che invece è valutato a priori positivo: la vita.
L'antitesi fra giorno e notte, fra luce e oscurità,
illustra bene il contrasto fra la vita e la morte. In moltissime attestazioni
epigrafiche appare, del resto, il tema della
luce come identificazione e rappresentazione della vita: " sit tibi lux
dulcis et mihi terra levis ".
La vita è luce.
Se la luce è dunque la condizione naturale
che sembra esprimere pienamente il senso dell'esistenza, risulta evidente
che la morte ed il suo regno, inesorabili avversari della vita, vengano
caratterizzati dall'oscurità e dalle tenebre. Al momento del decesso
l'umbra abbandona il corpo e raggiunge il regno degli Inferi dove tutto
è tenebra e dove è negato il confortante chiarore della
luce. Il buio genera paura e tensione nell'uomo:
le tenebre si immaginano popolate dai più inquietanti fantasmi.
Anche per questo motivo a Roma esistono degli
schiavi, cosiddetti lanternarii, il cui compito è quello di illuminare
la via davanti
al padrone. Questo costume viene ripreso anche
dall'arte funeraria, per cui è facile trovare, raffigurato sulle
tombe, un
lanternarius che illumina il cammino del defunto
attraverso le tenebre della morte.
La notte e l'oscurità sono poi i naturali
alleati di figure inquietanti come le streghe e i negromanti.
Le pratiche magiche di questi ambigui personaggi
sono condannate e represse nel mondo romano poiché vanno a
toccare uno
dei più grossi tabù di ogni cultura:
la sacralità e l'inviolabilità del riposo dei morti.
Le streghe, infatti, si pongono come inquietante
trait-d'-union fra il mondo della vita e quello della morte attraverso
la pratica
dell'evocazione degli spiriti dei defunti per
negromanzia.
Il morto, una volta concluso il suo tempo sulla
terra, viene posto ai margini della società dei vivi con il rito
della sepoltura;
posando sui resti del suo corpo una pesante pietra
tombale si intende bloccare qualsiasi tentativo del defunto di ritornare
fra i
vivi. La tomba è un luogo sacro;
è un'ara e profanarla è una delle azioni più spregevoli
che un uomo romano possa compiere.
Colui che commette questo grave sacrilegio passa
immediatamente nella categoria dei maledetti, poiché il suo gesto
ha offeso il
culto delle divinità infere cui di norma
la tomba è dedicata.
La grande maggioranza delle tombe romane di età
proto-imperiale reca infatti la formula dedicatoria DM / DMS, Dis Manibus
/ Dis Manibus sacrum, che le consacra al culto di queste potenti entità
ctonie e quindi le pone sotto la loro protezione, al sicuro
dalle ingiurie di potenziali profanatori.
La protezione del sepolcro viene affidata anche
ad un simbolo che, a partire dal I secolo d.C., spesso vi troviamo
raffigurato:
l'ascia.
Il valore sacrale di tale rappresentazione si
esprime pienamente nella volontà del defunto di assicurarsi per
l'eternità
l'intoccabilità e l'inalienabilità
della tomba affermata con forza dalla dedica sub ascia del monumento funerario.
La tomba per il diritto romano è una res
religiosa ed il luogo in cui sorge assume la qualifica di locus religiosus
e perciò stesso
di inviolabile.
In quest'ottica dobbiamo vedere la grande importanza
attribuita alla precisa determinazione degli spazi sepolcrali: essi sono
i
confini invalicabili al vivo, sanciti e consacrati
dalla partecipazione del morto alla natura divina delle entità infere.
Non sempre però questa procedura
è sufficiente per tenere lontane alcune categorie, come le
bustuariae, prostitute che fanno
dei monumenti funebri il luogo di incontro con
i clienti, o altri individui che utilizzano le tombe per espletare
le loro necessità
fisiologiche.
L'epigrafia funeraria romana è ricchissima
di imprecazioni e maledizioni, alcune delle quali molto divertenti, ed
anche di
provvedimenti concreti (uno per tutti quello
che Trimalchione fa addirittura incidere sulla sua tomba: "praeponam
enim unum ex libertis sepulcro meo custodiae causa, ne in monumentum meum
populus cacatum currat"), contro coloro che facevano un uso così
poco nobile dei monumenti funebri.
Il mondo romano è terrorizzato dal fatto
che, evocato con oscure pratiche magiche, lo spirito del morto possa tornare
sulla
terra a perseguitare i vivi.
La grande angoscia è proprio questa: l'irruzione
di una forza sconosciuta ed incontrollabile in un mondo ordinato e codificato.
Nella concezione dell'Urbe, il defunto,
all'interno della tomba, per quanto bella e ricca questa possa essere,
conduce
un'esistenza grigia e triste, priva di qualsiasi
dimensione corporea, tanto è vero che la sua condizione è
spesso assimilata a
quella di un'umbra.
Nella sua incorporeità il morto non può
godere delle gioie materiali, che invece sono appannaggio dei vivi: ciò
suscita la sua
invidia, e spontaneamente, o invocato con pratiche
magiche, può tornare sulla terra, come un fantasma, per perseguitare
i suoi
nemici. L'invidia e la nostalgia della vita sono
dunque i tratti determinanti del mondo oltretombale.
Da ciò deriva dunque un altro dei grandi
tabù legati alla morte: quello della negazione o dell'impossibilità
della sepoltura.
Il morto che non ha un sepolcro o per il quale
non sono stati eseguiti tutti i riti funebri, vaga, potenzialmente minaccioso,
come
un'anima in pena fra il mondo sotterraneo e quello
dei vivi, in attesa che una mano pietosa getti sui suoi resti una manciata
di
terra. E' infatti opinione diffusa fra
gli antichi che lo spirito di un insepolto non possa, nell' Ade, attraversare
il fiume Acheronte
e venga quindi privato del riposo eterno.
La sepoltura è dunque la condizione insostituibile
che permette al defunto di vivere in pace nel mondo infero.
Una morte in queste condizioni è
ritenuta, dunque, una della peggiori, poiché il defunto non riesce
a trovare pace e, allo stesso tempo, è pericolosissimo anche per
i vivi, poiché si aggira come un fantasma a perseguitare coloro
che ritiene responsabili della sua mancata sepoltura.
Per tale motivo è praticamente considerato
un sacrilegio lasciare un cadavere senza sepoltura: una sommaria tumulazione,
un
pugno di terra non si negano a nessuno.
Questo costume viene rispettato anche
sui campi di battaglia dove, alla fine di uno scontro, i caduti vengono
sepolti in fosse
comuni, e anche ai nemici, a determinate condizioni,
non si rifiuta la restituzione dei cadaveri per i pietosi riti della tumulazione.
E' un caso raro e deprecabile quello di Verre
il
quale si rifiuta, nonostante le condanne palesemente arbitrarie, di restituire
ai
familiari i cadaveri dei giustiziati per la sepoltura.
La fede nell'aldilà, pur se temperata
da tanti dubbi e incertezze, il riposo almeno nella morte, dopo che la
vita è passata fra
dolori e stenti: sono appunto queste le motivazioni
che portano uomini, generalmente di condizioni economiche disagiate, ad
aderire ai numerosi collegia "funeraticia", che
assicurano, con modica spesa, un funerale ed una tomba ai propri soci,
scongiurando così la temuta eventualità
di morire insepolti.
Le feste per
i defunti.
Un eminente studioso tedesco, Erwin Rohde, alla
fine dell'Ottocento ha sostenuto, pur con qualche forzatura, una teoria
che
però nelle sue linee generali è
molto plausibile: presso tutte le civiltà antiche il culto
funerario non sarebbe nato dall'affetto per il
morto, ma dal timore che esso incuteva.
Anche a Roma la risposta a questo timore si risolve
nel tentativo di istituzionalizzare e codificare un'attività oscura
e minacciosa come quella oltremondana.
Lo scopo dichiarato delle feste dedicate
ai morti è, dunque, di limitare e racchiudere in uno spazio
temporale ben determinato
il pericoloso influsso di queste umbrae
sul mondo dei vivi.
La sospensione temporanea ed artificiosa dell'ordine
costituito, condizione essenziale, presso qualsiasi cultura, di ogni
periodo
festivo, apre il campo all'attività degli
abitanti del mondo delle tenebre che, nei pochi giorni messi a loro disposizione
dalla res
publica, possono ritornare sulla terra per rivedere
i luoghi che li ospitarono prima della morte.
In occasione di queste feste incontriamo l'elemento
centrale di tutto il culto romano dei morti: gli dei Mani.
L'arcaico significato della parola manes risale
ai primordi della civiltà romana e proprio per questo motivo gli
studiosi di ogni
tempo hanno fornito discordi interpretazioni
riguardo a queste divinità ed al loro culto.
I Mani nella tradizione romana sono le anime
divinizzate dei morti.
Sulle epigrafi della tarda repubblica e soprattutto
del primo impero troviamo numerose le invocazioni rivolte ai Mani
affinché
accolgano con benevolenza il morto, e siano
verso di lui manes, buoni, secondo il significato dell'antica parola latina.
Quest'ultimo, ammesso fra tali entità
soprannaturali, partecipa della stessa natura divina e dunque promuove
un processo di
individualizzazione per cui i Mani,
da folla indeterminata che rappresenta indistintamente tutte le anime dei
morti, acquistano
progressivamente una sempre più precisa
definizione fino a divenire peculiari di una determinata persona.
Il culto dei Mani così individualizzato
è rivolto ai familiari defunti, come provano le numerose attestazioni
epigrafiche d'età
tardo-repubblicana ed imperiale in cui c'è
identificazione fra di Parentes e di Manes; questo mostra come il mondo
romano
stabilisca un legame fra i superstiti ed i defunti
dello stesso nucleo familiare, per i quali si immagina sottoterra una nuova
e
diversa forma di vita.
La fede in questa sopravvivenza ultraterrena
comporta l'idea che queste entità possano ancora influire sulle
vicende umane e
per questo motivo a Roma, al momento della fondazione,
si scava nel Comitium un pozzo, detto mundus, chiuso da una pietra,
il lapis manalis appunto, che ritualmente viene
sollevato e tolto tre giorni all'anno, il 24 agosto, il 25 ottobre, l'8
novembre,
affinché i morti possano uscire dalle
profondità della terra per ritrovarsi fra i vivi ristabilendo così
quella comunione interrotta
dalla morte.
Generalmente benevoli, i Mani possono però
diventare molto pericolosi nel caso che vengano disattesi i sacrifici
rituali o venga
arrecata loro una qualche offesa: in questo caso,
irritati con i colpevoli, possono vendicarsi turbandone i sonni con
inquietanti
apparizioni.
A livello familiare i rituali per conciliarsi
la benevolenza del defunto avvengono il giorno stesso del funerale, alla
fine del quale la famiglia consuma sulla tomba, in ideale comunione
con il morto, il banchetto funebre, silicernium, e quindi nove giorni dopo
la
sepoltura celebra la cosiddetta cena novendialis,
nuovo banchetto in onore del morto, che conclude il periodo del lutto.
Ma è soprattutto sul piano pubblico che
tali liturgie assumono un'importanza assoluta.
Roma celebra il 9, l'11 e il 13 di maggio la
festa dei Lemuria.
Durante la celebrazione, di carattere gentilizio,
il paterfamilias offre agli spiriti per nove volte delle
fave nere, legumi tipici della
morte. Secondo la credenza le umbrae vengono
a raccogliere le offerte, mentre il celebrante pronuncia alcune formule
che
hanno lo scopo di allontanare queste pericolose
entità familiari oltremondane.
Ma le feste più importanti sono quelle
dei Parentalia che vengono celebrate, secondo quello che ci dice Ovidio,
dal 13 al 21
febbraio. In questi giorni i familiari si recano
sulle tombe dei propri cari per compiere le offerte rituali della parentatio.
Questi omaggi sono generalmente molto modesti,
qualche fiore, vino, un po' di sale: "Non avidos Styx habet ima deos" scrive
ancora Ovidio.
La parentatio originariamente viene compiuta
nell'anniversario della morte e ha carattere privato, poi con il passare
dei secoli
assume carattere pubblico e diviene una festa
ufficiale.
Le cerimonie dei Parentalia si chiudono il 21
febbraio con la solennità dei Feralia, giorno in cui la città
compie offerte agli dei
Mani.
Questo è il vero e proprio giorno dei
morti nel mondo romano, simile grosso modo al nostro 2 novembre.
Durante queste feste si paralizza tutta l'attività
dello stato: non è possibile trattare affari, i templi rimangono
chiusi, si
interrompono le operazioni militari e non possono
essere celebrati matrimoni; tutto l'interesse dello stato è rivolto
al
soddisfacimento delle esigenze dei defunti con
l'implicito patto che, placati e soddisfatti, non disturbino più
il mondo dei vivi per
tutto il resto dell'anno.
L'esorcizzazione
della morte.
Quando l'angoscia della morte si fa insostenibile,
quando il senso della sconfitta e del fallimento davanti ad un nemico tanto
potente pervade larga parte della società,
si sente il bisogno di rimedi spirituali codificati ed accessibili a tutti,
rimedi che
rispondano in maniera semplice ed immediata all'inquietante
prospettiva del non-essere.
Tutto si gioca allora nella dimensione materiale,
l'unica comprensibile ed utilizzabile da tutti i viventi.
Il mondo epigrafico ancora una volta ci offre
un'immagine vivida ed umanissima dell'amore per la vita
nei ceti dominanti della
società romana, disperatamente attaccati
ai beni materiali, che rappresentano l'unico vero valore per un mondo che
non ha
prospettive ultraterrene.
Queste iscrizioni sono un continuo invito al
godimento della vita: "vita brevis, spes fragi[lis, ven]ite. Accensust.
Dum lucet,
bibamus, sodales" recita un'iscrizione
incisa su un tazza fittile "; decem et octo annorum vixi
ut potui bene, / gratus parenti atque amicis omnibus.
/ Ioceris, ludas hortor: hic [scil. apud inferos] summa est
severitas" ammonisce un'altra, della prima età imperiale.
Proprio quest'ultimo tema è alla base
della concezione romana della vita: tutto quello che un uomo può
fare, può realizzarlo solo durante la sua esistenza, poiché
dopo nulla è concesso dall'inesorabile Orco.
I Romani sanno bene, inoltre, che non dalla quantità,
ma dalla qualità del tempo trascorso sulla terra si valuta il successo
di una
vita: "vixi Lucrinis, potabi saepe Falernum,
/ balnia vina Venus mecum senuere per annos" afferma orgogliosamente
un'epigrafe
puteolana.
Questo porta inevitabilmente all'accelerazione
del quotidiano , alla sua intensificazione; e allora: "bona
/ vita vive sodalis /
quare post obitum / [n]ec risus, [n]ec lusus
/ nec ulla voluptas / erit. Have maximae menten habae quod legeris quare
vita / morti propior fit cotidie. Vale ", come sostengono, da vivi, due
fratelli.
Si esorcizza la morte attraverso l'esaltazione
della vita e dei suoi simboli: il cibo, il sesso, sono tutti elementi che
nella loro natura concreta si contrappongono alla triste ed evanescente
condizione oltretombale.
Mangiare, saziarsi a volontà è
in molti casi, come viene messo bene in luce nel Satyricon, non un semplice
processo
nutrizionale, ma l'affermazione decisa ed inequivocabile
della propria vitalità.
Insieme al mangiare, è il bere l'elemento
che sottolinea meglio la pienezza della condizione umana e ancora più
numerosi sono
dunque gli inviti rivolti in questo senso nei
reperti epigrafici.
Il vino assume una grande importanza poiché
nella sua stessa essenza di prodotto della terra, inebriante e fortificante,
è il
simbolo, d'antichissima valenza sacrale, della
vitalità e della forza; ciò spiega le prescrizioni
riguardo a tale bevanda che veniva
utilizzata nelle liturgie religiose fin dall'età
arcaica e che, nella sua identificazione con il sangue, altra sede della
forza vitale, viene
preclusa alle donne almeno fino a tutta l'età
repubblicana.
Anche la letteratura, come l'epigrafia, è
ricchissima di richiami all'amore ed al godimento dei piaceri terreni:
da Catullo "vivamus
mea Lesbia atque amemus", che ammonisce l'amante
a vivere pienamente le gioie dell'amore, a Orazio "carpe diem, quam
minimum credula postero", che invita a cogliere
subito le delizie dell'esistenza, perchè dopo non sarà più
possibile, fino agli
analoghi inviti di Tibullo e Properzio.
Il pensiero della morte dunque, come abbiamo
visto, suscita spesso una reazione vitale: si vuole gustare fino in fondo
il privilegio di essere ancora vivi.
L'esaltazione della vita passa allora persino
attraverso il rapporto più disincantato ed immediato con la morte
o con le sue
raffigurazioni.
Anche a Roma infatti sono in uso, fin dalla prima
età imperiale, degli scheletri conviviali che vengono posti sulle
mense durante i
banchetti secondo un'usanza egizia importata nell'Urbe.
Lungi dall'avere un significato macabro - solo
nel tardo medioevo lo scheletro assumerà una valenza macabra - questi
oggetti,
ricordando agli uomini il loro destino mortale
e la loro nullità, rappresentano un forte invito a godere la vita.
Nel Satyricon di Petronio, romanzo illuminante
sull'angoscia della morte nel mondo romano, vediamo come i personaggi della
famosa "cena", e Trimalchione primo fra tutti,
spingano al parossismo il torbido piacere di rapportarsi sempre
più strettamente
alla morte nel tentativo palese di staccarsene
e vincerne la paura.
Durante tutto il banchetto i convitati parlano
di morte e di morti, veri o leggendari, si calano consapevolmente in un
atmosfera
greve e funebre, che però è solamente
verbale: parlano di morte, ma non è la loro, è sempre quella
di un altro, li muove un
morboso compiacimento di sé e della propria
esistenza, una volontà di affermazione della propria vitalità
dinanzi al mondo
oscuro e squallido della morte.
Trimalchione, ricco e volgare liberto campano
- che si fa costruire un orologio per sapere quanto tempo della sua
vita è
passato e si fa predire da un astrologo quanti
anni ancora dovrà vivere, sicuro che in questo modo la morte non
arriverà
inaspettata ma sarà in qualche modo prevedibile
e quindi dominabile - non è che simbolo di una
parte del ceto dominante
romano, preoccupato di dover morire perchè
ha molto da perdere in denaro e privilegi, e che perciò non riesce
a rassegnarsi
all'idea.
La morte nella
speculazione filosofica romana.
Fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. si ha
a Roma una notevole diffusione delle grandi filosofie razionalistiche,
quali
l'epicureismo e lo stoicismo, che raccolgono
entusiastici consensi fra i ceti superiori.
Entrambe queste dottrine si pongono, seppure
con modalità diverse, lo stesso obiettivo: insegnare agli uomini
a vivere e
soprattutto a morire.
Un fine così ambizioso parte però
in entrambi i casi da una medesima premessa: non bisogna temere la morte
giacché essa non
è un male. Questo porta, dunque, tali
filosofie ad una contrapposizione con la concezione elitaria che vede nella
morte il male
per eccellenza, ma presuppone anche una valutazione
diversa della vita: la nostra esistenza non è più
un luogo di delizie, dove
è possibile realizzare ogni nostro desiderio,
ma comincia ad essere vista come un mondo di fatica e
di dolore, in cui solo
pochi possono realizzare le loro aspirazioni
ed i loro desideri a scapito di tanti altri, che sono costretti invece
a vivere in povertà o in schiavitù.La morte appare
allora come una liberazione, la via d'uscita da una vita che non è
nemmeno tale, passata fra miseria e sfruttamento, la fine delle sofferenze
e delle fatiche improbe fra cui i ceti più bassi trascorrono il
loro tempo.
L'epicureismo, nella Grecia del III secolo a.C.,
apre una violenta polemica contro le superstizioni religiose che immaginano
un
aldilà fatto di giudici infernali, di
tormenti, di fiumi e paludi di fuoco; per Epicuro è proprio l'angoscia
dell'aldilà che turba
profondamente la vita degli uomini e impedisce
loro di essere veramente felici, liberi da affanni.
Epicuro riprende il materialismo democriteo
e formula una dottrina estrema sul destino dell'anima: al momento della
morte
anche lo spirito svanisce insieme al corpo poiché
entrambi sono formati da atomi.
Il dissolvimento dell'anima porta, dunque, come
naturale conseguenza, il superamento della paura dell'aldilà, giacché,
anche se
ci fosse una vita dopo la morte noi non potremmo
nemmeno accorgercene dal momento che non esistiamo più.
Il famoso argomento epicureo contro la paura
della morte è tutto qui: la morte è annientamento, dissolvimento
di corpo e
anima, perciò essa non è nulla,
visto che quando c'è non ci siamo più noi e quando noi siamo
in vita essa non c'è.
Lucrezio, il maggiore esponente dell'epicureismo
romano, approfondisce e perfeziona la speculazione del maestro
trasferendola nel mondo latino.
Nell'analisi delle angosce umane, dell'irrequietezza
che tormenta gli spiriti (specialmente nel III libro del suo De rerum natura),
rivela accenti di commossa umanità.
Per il poeta la causa di tutti i mali che affliggono
gli uomini è la follia che nasce dalla paura della morte, una follia
che si è
insinuata nei loro animi perchè non hanno
una esatta percezione della vita e dei veri valori da perseguire.
Gli uomini inseguono i beni materiali, il denaro,
il potere, e una volta che li hanno ottenuti aspirano a nuovi e sempre
più lontani traguardi. Questo proiettare nel futuro i propri desideri
porta evidentemente a considerare la morte come la massima sciagura, visto
che impedisce di realizzare i nuovi progetti e priva l'uomo di tutto quello
che possiede.
L'unico strumento di liberazione da questa schiavitù
morale è la scienza: solo essa può dimostrare come
le vicende terrene
siano semplici e transitorie aggregazioni e dissoluzioni
in cui tutto si riduce al nulla, insegna all'uomo quali siano
i veri beni e dà
un senso profondo alla vita, in ultima analisi
insomma insegna a vivere, ma soprattutto a morire.
L'uomo saggio deve abbandonare questa terra come
un convitato sazio e soddisfatto si allontana da un banchetto e, contento
di quello che la vita gli ha concesso, affrontare con serenità la
morte, sapendo che dopo niente attenderà lui, o la sua
anima, che è mortale anch'essa, se non la notte eterna, poiché
la morte è senza tempo.
Lucrezio formula questa teoria della mors immortalis
in aperta contraddizione con due dottrine rivali: quella aristotelica che
afferma l'immortalità dell'anima dopo
la morte, e quella stoica che sostiene l'idea della vita che secondo cicli
si rinnova
continuamente.
Il poeta romano, invece, è categorico:
la morte sarà eterna, tutti dormiranno per sempre, nessun giudice,
nessuna pena, nessun
castigo, solo il nulla, questa è l'unica
dottrina, secondo Lucrezio, che libera l'uomo dalla paura dell'aldilà.
Non possiamo sostenere con certezza che tutte
le iscrizioni che manifestano seri dubbi sulla vita nell'aldilà
o addirittura
proclamano la non-esistenza della morte siano
sicuramente di stampo epicureo: certo è che la lezione epicurea
lascia un
profondo segno nelle coscienze dei Romani dei
ceti colti, e in qualche caso parrebbe anche fra quelli più bassi.
Pure gli stoici proclamano la necessità
per l'uomo di liberarsi dall'angoscia della morte, ma offrono dei rimedi
assai differenti da
quelli epicurei.
Presupposto fondamentale della speculazione stoica
su questo problema è quello che la morte appartiene all'ordine naturale
delle cose per cui è perfettamente inutile
lamentarsi o ribellarsi giacché la vita ci è stata concessa
solo a condizione della morte.
Il saggio stoico deve dunque uniformarsi alla
legge della natura e deve cercare di dare un senso alla sua esistenza non
in base al
tempo che passa sulla terra, ma alla sua
qualità.
La vita infatti acquista un senso solo se la
si affronta praticando la virtù e accordando ogni azione ai princìpi
della natura, fonte
della ragione, la quale guida l'uomo verso
i più alti traguardi: quando poi non sia più possibile vivere
secondo questi precetti, il
saggio stoico deve essere pronto a rinunciare
volontariamente alla sua esistenza.
E' questo il nodo centrale di un sistema di pensiero
che ha poi portato alla codificazione di un'etica del suicidio già
dalla tarda
repubblica: è evidente, infatti, come
per molti stoici, la morte interessa più come atto,
la pulchra mors, che come fenomeno,
perchè è proprio questo frangente
che dà la misura della statura morale di un uomo.
Questo atteggiamento porta quasi naturalmente
ad una eccessiva teatralità nei suicidi di matrice stoica che tendono
a porsi
come un esempio di condotta giusta e coerente,
contrapponendosi in ciò alla riservatezza e all'austerità
dei suicidi di
rappresentanti dell'epicureismo.
In ogni caso saper morire senza cercare di allungare
artificiosamente il proprio tempo significa per Seneca essere liberi.
Molti uomini invece sono ancora schiavi
dell'angoscia della morte perchè passano il proprio tempo alla ricerca
dei beni
materiali e dei piaceri più bassi, per
cui vedono con terrore l'avvicinarsi della fine che li priverà di
tutto.
Essi si lamentano della brevità della
vita, ma non si accorgono che sono proprio loro a renderla più breve
comportandosi come
se dovessero vivere per sempre, mentre per affrontare
serenamente la morte è necessario, secondo Seneca, comprendere
che: "Sed corpus quoque suum et oculos et manum et quicquid cariorem vitam
facit seque ipsum precarium numerat, vivitque ut
commodatus sibi et reposcentibus sine tristitia
redditurus" .
L' insegnamento di Seneca è allora molto
semplice: "tu autem mortem ut numquam times semper cogita", bisogna dunque
pensare continuamente alla morte, familiarizzare
con essa se non vogliamo esserne sopraffatti, ed è proprio la filosofia
che ci
soccorre in questo compito poiché i grandi
pensatori attraverso le loro opere immortali ci insegneranno a morire.
Seneca, da buon stoico, al contrario degli epicurei,
crede nell'immortalità dell'anima, nell'impossibilità
di perire per un dono
così grande come quello della mente umana,
motivo per cui, riallacciandosi a Platone, sostiene l'idea che il corpo
sia il carcere
dell'anima e che questa dopo la morte raggiunga
gli dei.
Queste teorie hanno certo grande diffusione
se Giovenale ai primi del II secolo d.C. può affermare che: "Esse
aliquos manes et subterranea regna et contum et Stygio ranas in gurgite
nigras atque una transire vadum tot milia cumba nec pueri credunt, nisi
qui quondam aere lavantur", ma l'angoscia della
morte continua comunque a pesare sulla gran parte delle persone comuni
che,
prive di un vero e proprio progetto salvifico
come quello del cristianesimo, o di alcune religioni orientali, continuano
a vedere la morte come il peggiore dei mali.
Tutto ciò è ampiamente dimostrato
dall'evoluzione stessa della filosofia stoica la quale - dopo Epitteto,
vicino alle linee di Seneca, ma più ottimista di lui - presenta
alla fine del II secolo d.C. un personaggio disincantato e pessimista come
Marc'Aurelio, totalmente assorbito dall'idea
della transitorietà e della morte.
Per l'imperatore filosofo la morte è la
legge suprema dell'universo: tutto e tutti sono soggetti ad essa, la meditazione
sulla fine
diventa l'unico metro per interpretare le vicende
umane, la filosofia non è più un processo speculativo ma
il momento privilegiato per un sereno approccio al "non più".
In questa visione pessimistica il pensiero continuo
della morte assume un carattere moralizzatore: bisogna comportarsi come
se
ogni giorno della nostra vita fosse l'ultimo
e quindi agire in maniera buona e saggia.
L'aldilà
e le sue divinità.
La cultura romana, come altre mediterranee più
o meno coeve, pone a fondamento della sua dottrina escatologica l'idea
che il
morto continui a vivere all' interno della tomba.
Queste civiltà, incapaci di immaginare
il negativo assoluto, (questo risultato verrà raggiunto infatti
solo con la filosofia
razionalistica), non si rassegnano a credere
che nella persona che, fino a pochi momenti prima, parlava, vedeva, mangiava,
tutto l'afflato vitale, tutte le percezioni sensoriali svaniscano di colpo:
si cerca insomma di attribuire al cadavere una nuova e diversa
forma di vita.
Consapevole del fatto che il corpo del defunto
con tutta evidenza è comunque passato ad un livello vitale radicalmente
diverso
da quello umano, la cultura romana dominante
immagina per esso un'esistenza inferiore, incorporea, dimezzata rispetto
alla
pienezza della vita materiale, che è
l'unica ad avere qualche valore.
Si suppone dunque che dal corpo si stacchino
delle particelle aeree e sottili dotate di una misteriosa vitalità
che mantengono
esteriormente le caratteristiche fisiognomiche
del defunto e che vanno a soggiornare nella tomba accanto ai resti del
cadavere.
Questa non è nient'altro che la sua umbra.
Che comunque, anche se diversa o inferiore, a
questo spirito resti una qualche forma di sensibilità, sono in molti
a crederlo, e la
loro pietà li porta ad augurare al morto:
Sit tibi terra levis/STTL, come troviamo scritto in numerosissime
attestazioni sia
letterarie che epigrafiche.
Affinché essa possa fruire positivamente
di questa sua nuova esistenza è necessario che riceva continuamente
da parte dei vivi
delle offerte materiali indispensabili per il
suo sostentamento; tale concezione è infatti strettamente connessa
a quella per cui il
morto nel sepolcro conserva le esigenze e i sentimenti
che aveva sulla terra, anche se ora questi vengono contestualizzati in
una
dimensione molto più triste e squallida.
Per ciò vengono sepolti insieme al morto
anche gli oggetti che in vita gli erano più cari e che avevano
contribuito a
caratterizzarne l'esistenza: un guerriero viene
sepolto con le sue armi, un artigiano con i suoi utensili, un bambino con
i suoi
giocattoli, nella convinzione che tutte
queste cose avrebbero potuto allietare la permanenza del defunto nella
tomba.
Altre volte oggetti o animali vengono raffigurati
sul monumento funerario, così sulla stele di un cavaliere viene
scolpito un cavallo o su quello di un fanciullo un cagnolino suo compagno
di giochi.
Il morto, dicevamo, ha soprattutto bisogno
di cibo e bevande per il suo sostentamento fisico e perciò vengono
periodicamente
compiute delle offerte di carattere alimentare
sulle tombe che diventano così delle vere e proprie arae su cui
compiere dei
sacrifici, tanto è vero che molte pietre
tombali sono dotate di una cavità circolare che attraverso un foro
fa passare i liquidi
direttamente all' interno dell'urna, oppure
riproducono sui lati i simboli dei sacrifici come l'urceus
e la patera.
Il morto infatti è spesso ricordato come
un assetato che ha esigenza continua di bevande per spegnere la sete che
lo divora, e a questo fine chiede il vino o il tiepido
sangue delle vittime immolate sulla sua tomba, dando così un'ulteriore
conferma del valore sacrale attribuito da ogni cultura a questi liquidi,
visti, il primo come la sede privilegiata della forza vitale, il secondo
come la più plausibile imitazione del sangue e in grado inoltre
di donare un'ebbrezza vivificante.
Il sepolcro, in conclusione, viene considerato
come l'ultima dimora, la residenza definitiva del morto, e di ciò
abbiamo
numerosissimi esempi sia epigrafici che letterari.
I Romani, secondo una provocatoria osservazione
di Franz Cumont, sono un popolo dotato di scarsa immaginazione, per cui
elaborano una mitologia oltretombale piuttosto
povera ed elementare, fino a quando, tramite le colonie della Magna Grecia,
non entrano in contatto con la più evoluta cultura greca da cui
ereditano la complessa e sofisticata dottrina escatologica.
E' effettivamente difficile non concordare, almeno
nelle grandi linee, con questa tesi, quando possiamo facilmente vedere
come
la grande maggioranza delle divinità romane,
non solo della morte, non sono altro che la trasposizione in ambito latino
delle
analoghe divinità greche.
Ma quello che più interessa in questa
sede è notare come dal mondo ellenistico giunga una serie di nuove
dottrine oltremondane che si vengono a sovrapporre ed integrare con quelle
già esistenti nella civiltà romana.
Alla folla indeterminata dei Mani e dei Lemures
che rappresentano un aldilà vago e fumoso, si vengono a affiancare
le divinità
dei morti di derivazione greca, espressione di
una più avanzata ed organica concezione mitologica.
Queste nuove divinità, Ade/Plutone, Persefone,
Hermes psicopompo, le Furie, Caronte, Minosse, sono i sovrani del regno
dei
morti, il luogo dove soggiornano tutti i defunti.
Ade, definito anche Plutone "il ricco", viene
identificato in ambito latino con la figura di Dis (pater), la cui etimologia
deriva
secondo molti da dives, ricco appunto, a sottolineare
la completa assimilazione fra le due divinità.
Il tema della ricchezza è molto interessante
perchè ci permette di notare come sia diffusa nella cultura romana
un'ambivalenza di fondo riguardo alle divinità infere: se da una
parte esse sono le nere e crudeli entità ostili alla vita e apportatrici
di morte,
dall'altra parte in quanto divinità legate
strettamente alla terra ricevono in ciò valenza positiva come prova
l'assimilazione fatta da più parti tra Persefone, moglie di Dis (pater), e
Cerere, o Tellus mater, che viene invocata perchè
conceda benigna buoni
raccolti e fecondità alla terra.
Ma se è presente questo
aspetto positivo, è comunque il
lato negativo di queste divinità quello più ricorrente e
diffuso.
Gli aggettivi con cui viene definito Dis (pater)
ricordano molto da vicino quelli rivolti alle altre divinità della
morte: anch'egli è
chiamato horridus, invidus, niger, rapax.
Dis (pater), alla cui identificazione con Ade
ed Orcus abbiamo sopra accennato, è anch'esso il rapitore violento
ed inesorabile
degli uomini, così come un tempo
sequestrò Persefone, costretta a vivere nel regno dei morti.
E proprio tale mito del rapimento e delle nozze
di Ade con Persefone, divenuta anch'essa la sovrana delle regioni
infere,
appare spesso nel mondo romano dove in alcune
epigrafi la defunta è detta rapita da Ade per divenire poi
sua sposa.
Secondo Omero l'Ade, la regione stessa prende
il nome dal suo sovrano, sarebbe da collocare all'estremo occidente
del
mondo conosciuto, e sarebbe un'enorme caverna
entro cui dimorano le anime dei morti; nell'opera virgiliana invece il
mondo
infero è immaginato in una località
sotterranea presso il lago Averno, nei Campi Flegrei, dove, secondo la
credenza popolare, si trova la tenebrosa spelonca che introduce all'Ade.
Nell'Ade i morti conducono una semivita triste
e sbiadita: privi di un corpo vero e proprio sono ridotti alla condizione
di ombre. Essi sono esangui, perennemente stanchi, perfino la loro voce
è fioca, il suono fatica ad uscire e si spegne in un brusio
indecifrabile: tutto nella descrizione
della condizione dei morti nell'aldilà contribuisce a dare un'idea
di degradazione e grigiore.
E' la desolante tristezza che permea l'Antinferno
virgiliano, dove vagano angosciate e piangenti le ombre dei bambini
morti
prematuramente, dei condannati a morte per falsa
accusa e dei suicidi per amore, che ora rimpiangono amaramente il loro
gesto disperato. Non c'è gioia in questo mondo, le ombre dei
morti, stanche e indebolite, si trascinano nei luoghi di pianto, lugentes
Campi appunto, in uno stato di semincoscienza.
Il dolore e l'angoscia in cui versano queste
animae innocenti, e che quindi non dovrebbero subire alcun castigo, merita
però nel
caso di Virgilio una spiegazione particolare.
Il poeta mantovano è il portavoce più
sensibile e delicato del desiderio di pace assai diffuso nella sua epoca
e per questo
motivo odia la guerra che provoca morte e sofferenze.
Per Virgilio l'uomo e la sua vita sono un valore assoluto da coltivare
e
rispettare, per cui, tranne alcuni casi
- dettati più dalle esigenze di rispettare i canoni letterari
della poesia epica che non da una vera adesione etica - non si trova nell'opera
virgiliana nessuna esaltazione della morte, ma soltanto pietà e
partecipazione per coloro che ne sono toccati. Si può dunque capire
perchè l'atteggiamento del poeta non sia molto benevolo nei confronti
di
coloro i quali, anche se spinti da gravi motivi,
hanno deciso di rinunciare volontariamente alla vita.
A ciò bisogna poi aggiungere la ferma
adesione, che ritroviamo anche in altri passi dell'opera, alla dottrina
classica per cui le
animae conducono nell'aldilà una vita
grigia e squallida, qualunque sia stato il loro comportamento sulla terra.
La visione omerica non contempla assolutamente
l'idea di sanzione morale, per cui i morti vivono tutti insieme nell'Ade
indipendentemente dalle loro azioni ed
anzi vengono conservate anche nella morte le differenze sociali, per cui
un nobile aveva
un rango molto più elevato di quello dei
suoi servi, anche se, ad ulteriore conferma della tristezza e della monotonia
della vita
d'oltretomba, Achille dice ad Ulisse che preferirebbe
essere un servo sulla terra, piuttosto che re nell'Ade.
Perchè si possa sviluppare l'idea di sanzione
morale, e contestualmente quella di premio, è necessaria nell'individuo
una nuova
consapevolezza di sé e dunque un desiderio
di inscrivere la propria vita in un progetto salvifico più ampio
che coinvolga anche
l'aldilà e che sia in grado di dare una
risposta all'inquietante paura di non essere più.
La dottrina orfica si presenta come una religione
di salvezza ed è la principale artefice del cambiamento che viene
a sconvolgere le teorie della religione greca delle origini.
Nei misteri orfici che iniziano a svilupparsi
dal VII/VI secolo a.C.in Attica e nelle colonie della Magna Grecia, è
da vedere un
movimento di riforma religiosa che
intende superare le concezioni
del culto olimpico introducendo l'idea che non
questa, ma quella oltremondana, sia la vera esistenza, e che non nell'aldilà
ma in questo mondo siano da ricercare la tristezza e le tenebre che opprimono
le anime.
L'iniziato ai misteri orfici, dunque, sa che
non si ferma a questa vita la sua vera essenza, e che anzi inizierà
a vivere veramente
solo dopo la morte quando potrà finalmente
assurgere ad una condizione divina come possiamo leggere su molte laminette,
riportanti le formule da recitare davanti agli
dei inferi, che vengono messe al collo del defunto.
E' dunque l'orfismo ad introdurre la netta
separazione fra il Tartaro, dove soggiorneranno tutti coloro che non conoscono
la
verità redentrice dei misteri, e i Campi
Elisi dove troveranno posto solo gli iniziati.
Il culto orfico-dionisiaco si diffonde anche
in Italia, e raccoglie consensi soprattutto sulle coste meridionali
da sempre in stretto contatto con la cultura greca. Un esempio di ciò
è la Villa dei Misteri a Pompei, del II secolo a.C., dove sono stati
rinvenuti degli affreschi parietali raffiguranti riti di iniziazione ai
misteri dionisiaci.
Se dunque la dottrina omerica non conosce l'idea
di sanzione morale e di premio, al mondo romano invece, grazie anche ai
filtri culturali delle religioni misteriche, questo concetto è ben
noto.
Nella più famosa descrizione
dell'aldilà latino, quella del VI libro dell'Eneide, vengono
infatti presentati una visione del
giudizio d'oltretomba e un concetto di sanzione
morale decisamente innovativi rispetto alla tradizione omerica.
Nell'opera virgiliana la figura di Minosse, il
più famoso dei giudici infernali, è quella di un arbitro
che con la sua infallibile ed
inappellabile sentenza indirizza i morti lungo
due strade: quella di sinistra porta al Tartaro, il luogo in cui per l'eternità
verranno
punite le colpe più orribili, quella di
destra invece ai Campi Elisi dove i beati trascorrono lietamente il loro
tempo fra canti e
danze. E' evidente nella descrizione virgiliana
il richiamo alla consuetudine giuridica romana: Minosse viene infatti definito
quaesitor, cioè colui che presiede alla
quaestio, al processo, e con usanza quirite trae a sorte i
giudici che devono aiutarlo
sorteggiandoli in un'urna.
Le differenze con il Minosse omerico sono notevoli non solo sul piano formale
dunque, ma
soprattutto su quello strutturale: nell'Eneide
infatti la sentenza viene formulata sulla base delle azioni terrene, mentre
nell'Odissea Minosse giudica i morti senza che questa operazione
implichi nessuna condizione di punizione o premio, ma semplicemente perchè
anche da morto continua a fare quello che faceva da vivo, il giudice.
Le lezioni orfica e platonica hanno dunque
lasciato un profondo segno nella coscienza dei Romani che riprendono sì
la
tradizione religiosa omerica, ma
la rielaborano e la sviluppano alla luce delle nuove concezioni
filosofico-cultuali.
L'influsso orfico-platonico che abbiamo notato
sulla questione del giudizio d'oltretomba, si accentua ulteriormente quando
la
letteratura latina si trova a parlare del Tartaro.
Da Properzio a Virgilio ad Ovidio, il Tartaro
è il luogo della pena e della punizione eterna, è la
rappresentazione più chiara ed immediata del dolore e della tristezza
dell'aldilà.
La descrizione più estesa e dettagliata
di questo luogo è ancora una volta nell'Eneide.
L'oscura voragine del Tartaro è circondata
da un fiume di fuoco, il Flegetonte, cinta da tre ordini di mura
e serrata da un
portone con alte colonne d'acciaio, Tisifone,
la vendicatrice dei delitti, e le altre due Furie, le Erinni della tradizione
greca,
sferzano con inesauribile energia coloro che
ivi sono rinchiusi e che si sono macchiati in vita dei più nefandi
delitti.
Le Erinni sono raffigurate nel mondo ellenico
come le spietate persecutrici dei crimini più atroci configurandole
così come
protettrici dell'ordine sociale turbato dalle
insane azioni degli uomini.
E' soprattutto il mondo romano
che le rappresenta come le divinità preposte ai castighi
infernali, infatti, nella tradizione
greca questa caratteristica è secondaria.
Il carattere orribile e ripugnante di queste
divinità è una caratteristica quasi esclusivamente
del mondo romano, influenzato da
quello etrusco, molto propenso a raffigurazioni
fosche ed angosciose.
Parlando dei crimini e dei tormenti merita poi
attenzione il fatto che Virgilio, più che la tradizione
classica, riprende invece la
consuetudine legislativa romana ed in particolar
modo quella delle XII Tavole, quando ascrive fra i crimini più gravi
la violenza
contro i genitori o l'inganno ai danni del cliente.
Anche da questo elemento è evidente dunque
quanto sia grande la distanza che separa la visione virgiliana
dell'aldilà da quella
omerica che presenta il Tartaro semplicemente
come il luogo dove vengono puniti i Titani ribelli a Zeus.
Tutto ciò che è dolore e tristezza
nell'Ade assume invece valenza positiva nel luogo dove sono ricompensate
le anime di coloro
che sulla terra hanno accumulato particolari
meriti : i Campi Elisi.
Questa sede, collocata dai vari autori antichi
talvolta sottoterra, talvolta su di un'isola in mezzo all'Oceano all'estremo
occidente
del mondo abitato (in questo caso assume generalmente
il nome di Isola dei beati) presenta in tutte le descrizioni delle
caratteristiche quasi fisse: non esiste il freddo,
la neve e la pioggia sono sconosciute, i beati non devono affaticarsi a
lavorare la terra perchè essa produce spontaneamente i suoi frutti,
fiori bellissimi rivestono i giardini.
Coloro che, favoriti dagli dei, hanno la
fortuna di essere accolti in questi luoghi conducono una
vita felice e serena
dedicandosi al canto e alla danza.
Nell'antica tradizione greca, incarnata dalle
opere di Omero ed Esiodo, i Campi Elisi non sono, però, il premio
per coloro che ben si sono comportati sulla terra - come abbiamo già
notato, questa idea di sanzione morale e di premio è in essi assente
- ma per coloro che durante la loro vita si sono distinti per le
loro azioni: gli eroi.
Il mondo romano, e Virgilio in particolare, superano,
sotto l'influsso orfico-platonico, tale concezione e attribuiscono alla
sede
dei beati nuove caratteristiche, derivate dalla
filosofia razionalistica.
Nell'Eneide, ma già anche nel Somnium
Scipionis di Cicerone, l'Elisio, che sia posto nelle regioni sotterranee
o nelle regioni
lunari, appare comunque come un luogo di purificazione
dove le anime, dopo essersi liberate dallo scomodo carcere
rappresentato dal corpo, ed essere passate attraverso
vari gradi, possono, finalmente incontaminate, accedere alla beatitudine
eterna.
E' questo, in sostanza, il processo di purificazione
delle anime che Anchise spiega ad Enea alla fine del VI libro dell'Eneide.
In pochi popolano i Campi Elisi, sono pochi quelli
chiamati direttamente a godere della felicità eterna subito dopo
la morte, la
maggior parte delle animae è ancora contaminata
dai vizi del corpo: per questo motivo, attraverso un lungo e faticoso ciclo
di
reincarnazioni, lo spirito può alla fine
dirsi puro, e, bevendo l'acqua del Lete, ritrovare il desiderio di tornare
di nuovo sulla
terra.
La purificazione può avvenire nei modi
più diversi: per metempsicosi - reincarnazioni successive
dell'anima in diversi corpi
affinchè, dopo questo doloroso processo,
essa possa perdere ogni contaminazione terrena, come sostiene Platone -
per
decantazione nel fuoco, come immaginano invece
gli orfici, ma l'importante è che, sovrappostasi in un secondo momento
alla
teoria originaria di un aldilà grigio
e triste, l'idea di una ricompensa ultraterrena può in parte placare
e confortare le ansie di un
popolo che alla morte non riesce a rassegnarsi.
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