Grandi tipologie della morte
Mors Acerba:
aborto, infanticidio, morte del bambino.
La società romana è divisa
in categorie giuridiche e sociali ben precise: uomini, donne, liberi,
schiavi, senatori, soldati,
artigiani..., ognuna delle quali deve essere
funzionale al mantenimento dell'equilibrio economico e politico della res
publica.
Alla luce di questa considerazione non dobbiamo
stupirci troppo allora della mancanza di dati o del silenzio che
in molti casi
circonda la morte dei bambini: in una siffatta
società, dove l'unica età che conta è quella della
maturità che permette all'uomo di servire lo stato come cittadino
e come militare, un infante, morto dopo pochi anni o addirittura dopo pochi
mesi, non ha nessun diritto di cittadinanza.
Una tale concezione è resa immediatamente
evidente dal fatto che i neonati morti entro il primo anno di vita
non vengono
considerati membri del gruppo sociale e le poche
tombe, precedenti al periodo cristiano, che sono state rinvenute,
generalmente sono anepigrafe, mancano cioè
dell'elemento onomastico, la componente fondamentale che identifica come
soggetto giuridico ogni essere umano.
Non solo, il nome inciso su una lapide
è spesso l'unico modo per i più poveri di lasciare una traccia
del loro passaggio su
questa terra, di far sapere al mondo che sono
esistiti: al bambino morto dopo pochi mesi di vita viene negato anche questo.
Ad un tale atteggiamento dopo la morte
corrisponde, nella società romana, un comportamento analogo
di disinteresse anche
durante la vita: molto spesso, infatti, al bambino
non viene nemmeno consentito di nascere, dal momento che, insieme
a
numerose pratiche contraccettive, è molto
diffuso l'uso dell'aborto attuato nei più diversi modi, molti dei
quali provocano spesso la morte della madre.
Se il mondo medico si divide e avanza differenti
valutazioni etiche e morali sulla liceità di tali pratiche abortive
in relazione alle
diverse posizioni sulla natura di essere vivente
o meno del feto, è da supporre che le donne dei ceti
subalterni ricorrano
all'aborto spinte dalla disperazione o
da stringenti considerazioni di carattere economico, senza porsi la questione
in chiave
etica o filosofica, come le molte matrone
che abortiscono spesso in conseguenza a valutazioni di carattere estetico.
Se la madre prende invece la decisione
di portare a termine la gravidanza non significa però che per il
bambino sia garantita la sopravvivenza.
Appena nato il bimbo si trova immediatamente
sottoposto all'insindacabile volontà della figura paterna, l'unica
a decidere della
sua sorte.
L'ostetrica depone il neonato a terra, un gesto
di profonda valenza sacrale giacché simboleggia la venerazione per
la madre
Terra che genera tutte le cose e a cui appartiene
dunque anche il bambino appena nato, quindi lo consegna al padre che,
secondo il mos maiorum, in base al suo potere
di pater familias, può decidere di tenere il bambino oppure farlo
uccidere,
esercitando così lo ius vitae ac necis.
Una volta che il padre ha accettato il bimbo
nella sua famiglia, allora lo prende e lo solleva in alto fra le sue braccia
nel caso sia un maschio, oppure lo consegna alla madre perché lo
allatti nel caso di una femmina.
Ma se la scelta è invece il rifiuto del
nuovo nato, allora il pater familias dà ordine all'ostetrica di
tagliare il cordone ombelicale
più del dovuto, provocando un'emorragia
letale oppure fa annegare il neonato.
Altre volte il padre, deciso a disfarsi
del bimbo, ma non volendolo uccidere, almeno non direttamente, ordina che
venga messo fuori dalla porta di casa, lo espone.
Questa crudele consuetudine in molti casi equivale
a una vera e propria condanna a morte se il bambino non viene raccolto
in
tempo breve da qualcuno che, impietosito,
o più spesso mosso da vari e non sempre leciti interessi, lo prende
poi con sé nella
sua casa.
Varie sono le ragioni che spingono il padre a
rifiutare al neonato l'ingresso nella gens ma, soprattutto per i
ceti subalterni, si
tratta di motivazioni eminentemente economiche.
Generalmente il capofamiglia non ha i mezzi materiali
per mantenere un nuovo bambino, mentre, nelle gentes agiate, le ragioni
finanziarie rimangono decisive nella scelta
di abbandonare il piccolo, ma per considerazioni di segno opposto: i ceti
abbienti
preferiscono invece puntare su una buona educazione
di pochi figli maschi in modo da garantire loro più probabilità
di successo
nella vita politica, e intendono evitare difficoltà
in materia di eredità.
Per un bambino, però, molto spesso la
morte non arriva perché decisa dai genitori, ma perché causata
da fattori endogeni ed
esogeni diversi: il mondo romano infatti conosce
una mortalità infantile elevatissima: dal 30 al 40% dei bambini
muoiono entro il primo anno di età, mentre quelli che perdono la
vita entro il decimo anno rappresentano un terzo della popolazione in età
imperiale.
Proprio in considerazione di una mortalità
così alta la società romana pare quasi abituata
alla morte dei suoi membri più
piccoli e quindi, almeno ufficialmente e pubblicamente,
sembra scarsamente incline a piangerne la scomparsa.
Testimonianza di ciò è un passo
di Plutarco, in cui si parla di una legge dell'epoca regia che stabilisce
che per un bambino
morto prima dei tre anni non bisogna portare
il lutto, mentre per uno scomparso dopo questo termine va tenuto
per i mesi
corrispondenti agli anni di vita del bimbo: anche
Cicerone si allinea su tale posizione e sostiene, infatti,
che non è il caso di
piangere la morte di un neonato.
Il bambino, come abbiamo precedentemente sottolineato,
non viene sentito, secondo la mentalità ufficiale, come un membro
integrato nelle dinamiche sociali dello stato,
ma come un esserino da tenere sotto tutela in attesa della maggiore età,
quando può finalmente assurgere ad una sua dignità autonoma
in quanto cittadino a tutti gli effetti, o, nel caso di una bimba, non
diventi una moglie ed una madre, in grado di generare nuovi figli e di
allevarli.
E' tale scarsa considerazione della personalità
dell'infans che porta nel mondo romano all'usanza di celebrare per coloro
che
muoiono in tenera età delle esequie in
tono decisamente minore rispetto a quelle consuete.
Il funerale dei bambini, il funus acerbum, così
come acerba è definita la loro morte, si svolge di notte alla luce
delle torce come
per i funerali dei più poveri.
Gli studiosi hanno avanzato parecchie ipotesi
sul significato di tali cerimonie funebri notturne che, con ogni probabilità,
sarebbe
da ricercarsi nella volontà dei genitori,
colpiti da una tale tragedia, di nascondere al mondo circostante l'anomalia
sociale e
biologica di essere costretti (contra votum)
a seppellire colui che avrebbe invece dovuto essere il loro erede e soprattutto
la
proiezione della loro vita nel futuro. Tutto
ciò viene avvertito come un evento innaturale e perciò da
occultare: il carattere
notturno di tali esequie ha, dunque, lo
scopo di evitare di contaminare la luce del giorno con la manifestazione
di questo
particolare evento luttuoso.
Il mondo romano celebra di giorno e con tutti
gli onori solo i funerali di coloro che all'interno delle dinamiche sociali
dello stato
rivestono un ruolo di una certa importanza, perciò
coloro che invece nella res publica, per un motivo o per l'altro, sono
scarsamente integrati, come ad esempio i poveri
ed i bambini appunto, non sono degni di ricevere le stesse
esequie.
Non dobbiamo poi dimenticare che la notte è
da sempre assimilata alla morte ed al suo regno, così come la luce
invece è
simbolo della vita, per cui un funerale notturno,
soprattutto per un bambino morto anzitempo e quindi oggetto di particolari
paure e ansie, viene a concretizzare ulteriormente
la frattura che si avverte in tutta la società fra il mondo dei
vivi e quello dei
morti. Particolari timori infatti circondano
gli infantes scomparsi prematuramente, che vengono accomunati - anche
nell'Eneide
- ad altre figure particolarmente inquietanti
come i suicidi o gli assassinati.
Il mondo romano è convinto che questi
bimbi rappresentino una minaccia per i parenti perché, sotto forma
di spiriti, possono
facilmente ritornare sulla terra a terrorizzare
i vivi, essendo destinati, come i suicidi, a vagare senza pace nell'oltretomba,
per lo
stesso numero di anni che era stato loro assegnato
alla nascita dal destino.
Perciò i funerali dei bambini, anche appartenenti
a famiglie agiate, si svolgono in tono minore e molto più rapidamente
- non c'è
esposizione del cadavere e le forme di lutto
vengono ridotte al minimo - delle esequie riservate invece agli adulti
dei ceti
superiori.
Agli inizi della storia di Roma i
più piccoli, morti prima del terzo anno di età, addirittura
non hanno diritto ad alcuna "liturgia" e vengono sepolti direttamente
sotto il pavimento dell'abitazione.
In seguito, nonostante una legge delle XII Tavole
impedisca la sepoltura all'interno della cerchia urbana, i cadaveri dei
bambini morti entro quaranta giorni sono tumulati ancora nelle case, sebbene
non più all'interno ma nel subgrundarium, la zona sotto la tettoia.
Se dunque, nonostante una tale prescrizione, i neonati vengono ugualmente
sepolti all'interno delle città, è evidente che
lo stato non li considera soggetti di diritto
sottoposti per questo alle norme giuridiche.
Tale è almeno la posizione ufficiale riguardo
alla morte dei bambini.
Ma dalle testimonianze degli autori e da quelle
epigrafiche deduciamo che, almeno dall'età
imperiale, in cui più ricca è la
documentazione in proposito, gli atteggiamenti
cominciano a subire delle evidenti modifiche, e nel privato si fa sempre
più forte il sentimento di rimpianto e di disperazione per queste
morti.
Il dolore e il pianto che il mos maiorum vorrebbe
destinati solamente agli adulti acquistano invece prepotentemente spazio,
come conferma Marziale, che dedica uno
dei suoi più belli e commoventi epigrammi ad una bimba scomparsa
a sei anni o
Giovenale, quando sostiene che è giusto
piangere davanti al funerale di un bambino troppo giovane per il rogo funebre
o
Frontone che si dispera amaramente per la morte
del suo nipotino.
La sensibilità della maggior parte dei
genitori, insomma, non è per niente allineata a quella dello stato:
il pianto e la disperazione sono l'unico sentimento possibile davanti alla
scomparsa dei figli.
Tutto ciò risulta evidente anche dai reperti
epigrafici in cui i genitori esprimono tutto il loro dolore, ricordando
con grande
precisione sulla lapide del bambino gli
anni, i mesi, i giorni e talvolta anche le ore che questo esserino
ha vissuto con loro,
quasi a voler gustare fino in fondo il breve
periodo che hanno passato insieme.
Questo cambiamento, così evidente nella
mentalità, oltre ad essere il logico frutto del naturale attaccamento
fra genitori e figli è
forse da attribuire anche ai mutamenti politici
che si sviluppano nell'età imperiale, per cui i padri, privati del
loro potere politico,
scoprono le gioie della vita familiare e quindi
costruiscono un legame sempre più forte con i figli.
La scoperta della famiglia e dei suoi valori
corrisponde così alla constatazione dell'inadeguatezza del mos maiorum
di fronte alla
sfera degli affetti più intimi, e porta,
in generale, ad una nuova e più spontanea manifestazione del
dolore soffocata, in
precedenza, in nome di un'etica statale rigida
ed austera.
Mors immatura
e praematura: la morte del giovane.
Nella definizione, molto tarda in realtà
poiché risale ai primi del VII secolo d.C., di Isidoro di Siviglia,
riguardo al rapporto fra
età biologiche dell'uomo e morte è
possibile cogliere però il pensiero di gran parte della società
romana a lui precedente e
contemporanea: "tria sunt autem genera mortis:
acerba, inmatura, naturalis. Acerba infantum, inmatura iuvenum, merita,
id est
naturalis, senum".
La morte dei giovani viene dunque definita intempestiva
e prematura.
Dobbiamo osservare però che esiste nella
mentalità quirite una certa oscillazione nella valutazione dell'immaturitas
o meno di un decesso, tanto è vero che Publilio Siro nel I secolo
a.C. fornisce una tripartizione diversa da quella fornita secoli
dopo da
Isidoro: "mors infanti felix, iuveni acerba,
nimis sera <est> seni ".
In questa circostanza, come possiamo vedere,
l'aggettivo acerba non è più riferito alla morte del bimbo
ma a quella del giovane. In Virgilio addirittura, ad ulteriore testimonianza
di tale fluttuazione semantica, le due aggettivazioni compaiono nell'Eneide
per indicare indifferentemente la morte dei neonati e dei bambini ab ubere
rapti nel VI libro e poi la morte di un giovane eroe come
Pallante nell' XI libro: l'espressione infatti
è la medesima, "abstulit atra dies et funere mersit acerbo".
Una volta chiarita tale questione di carattere
semantico, notiamo come dalle testimonianze degli autori antichi il trattamento
riservato ai giovani morti prematuramente non
sia in molti casi differente da quello dei bambini: per entrambe le categorie
viene
celebrato infatti il funus acerbum.
Così appare infatti chiaramente dalla
narrazione di Tacito, che descrive negli Annali la morte e le esequie del
quattordicenne
Britannico: "nox eadem necem Britannici et rogum
coniunxit, proviso ante funebri paratu, qui modicus fuit... Festinationem
exequiarum edicto Caesar defendit, ita maioribus
institutum referens, subtrahere oculis acerba funera neque laudationibus
aut
pompa detinere". Un trattamento identico, vediamo,
era stato riservato infatti anche a Pallante, e Servio, nel suo commento
all'Eneide, contribuisce con preziose notizie
ad informarci sullo svolgimento del funus acerbum e sulle fasce di età
interessate: "et magis moris Romani ut impuberes noctu efferentur ad faces,
ne funere immaturae subolis domus funestaretur; quod praecipue accidebat
in eorum qui in magistratu erant filiis. Ideo Vergilius Pallantis
corpus facit excipi facibus, quia acerbum funus".
Come abbiamo visto dalle testimonianze, il mondo
romano celebra il funus acerbum indifferentemente per un bambino di pochi
anni come per un giovane che ha ormai superato ampiamente la soglia della
pubertà: questo perché qualsiasi ragazzo muoia prima
dei suoi genitori è ritenuto vittima di una morte prematura indipendentemente
dalla sua età.
E sono numerose infatti le testimonianze epigrafiche
in cui i genitori esprimono sconforto davanti all'anomalia biologica che
li
vede costretti a dare sepoltura a chi invece
avrebbe dovuto seppellirli: "Et quas exsequias debebat nata parenti, /
has pater
adversis casibus ipse dedit", recita un'epigrafe,
di datazione incerta, di Cesarea in Mauretania.
Ben diverso è però l' atteggiamento
di Seneca, portavoce e difensore di un mos maiorum rigido ed austero, il
quale, in una
consolatio inviata a Marcia per la morte del
giovane figlio Metilio, sostiene che "nimis tamen cito periit et immaturus...
Deinde
sibi maturus decessit: vixit enim quantum debuit
vivere; nihil illi iam ultra supererat ". Come sostiene acutamente M. Meslin,
è
da supporre però che un tale tipo di stoicismo
non abbia un efficace potere consolatorio e che difficilmente vi
si possa
serenamente uniformare chi sia stato colpito
negli affetti più cari. Tanto è vero che Ovidio sostiene
"Quis matrem, nisi mentis
inops, in funere nati / flere vetet? Non hoc
monenda loco est; / cum dederit lacrimas animumque expleverit aegrum,
/ ille dolor
verbis emoderandus erit". Nella società
romana, infatti, si fa sempre più spazio l'espressione del
rammarico e dell'anomalia
biologica nel vedere una giovane vita spenta
anzitempo, prima che possa godere delle gioie del mondo.
La disperazione dei genitori che hanno perso
il giovane figlio trova espressione nei numerosi reperti epigrafici che
ci sono
pervenuti.
Spesso è presente il lamento per le grandi
qualità del figlio già sviluppate nonostante la giovane
età: "...mors perfe[cit] tua ut
essent omnia brevia, / honos fama virtusque,
gloria atque ingenium. / Quibus sei in longa licu[i]sset tibi utier vita,
/ facile facteis
superases gloriam maiorum", leggiamo su un'iscrizione
urbana della prima metà del secondo secolo a.C..
O ancora, "...ultra annos sapiens praeceps fata
invida raptum, / de cuius spe promittens sibi plurima mater...", recita
un'epigrafe sabina, forse cristiana, del 359 d.C..
Spesso, poi, è il morto stesso che esprime
rammarico per la vita che gli è stata tolta in così giovane
età: è il caso del
quattordicenne Q. Eronio Firmino che accusa
della sua morte con parole dure l' "invida Parcarum series".
Rabbia e ribellione traspaiono dall'epitaffio
del ventenne Procope che protesta per l'iniquità del suo destino,
"manus lebo
contra / deum", e da quello del ventiduenne C.
Satellio Clemente che si lamenta amaramente di essere vittima di una sorte
ingiusta che lo ha strappato agli affetti della
famiglia, "abrupit dirae sortis iniqua dies".
Il tema dunque più ricorrente nelle epigrafi
che riguardano la scomparsa dei giovani è quello della ribellione
nei confronti della
mors praematura o immatura, soprattutto
perchè i genitori, che generalmente sono coloro che offrono queste
lapidi, ritengono che i loro figli non meritino una simile sorte,
non avendo commesso nulla di male.
La sensibilità romana si rivolge
con rimpianto e tenerezza verso queste esistenze spezzate dalla morte
poiché verso il puer o
la puella morti si manifestano sempre più
evidenti sentimenti di amore e di pietà che contrastano con
l'austerità del mos
maiorum.
Il mondo romano, insomma, non riesce più,
specialmente dall'età imperiale in poi, come abbiamo già
visto, ad adeguarsi
supinamente alle leggi demografiche che
vedono una mortalità infantile e giovanile molto elevata ed una
speranza di vita media che generalmente non supera i trent'anni,e rifiuta
questa logica che avverte sempre più come disumana ed estranea.
La morte violenta.
Le fonti di cui disponiamo sono piuttosto avare
riguardo alle morti violente, soprattutto poi per quelle che riguardano
i
rappresentanti dei ceti inferiori.
I filosofi e i poeti romani non si occupano di
questi casi che sporadicamente e ne fanno accenno solo quando
alcuni episodi,
per la loro singolarità, possono essere
motivo di interesse per i loro lettori.
Così noi abbiamo agevolmente la possibilità
di sapere tutto su come sono stati uccisi Tiberio e Caio Gracco, Cesare
e
Cicerone, quali i loro atteggiamenti
e i loro comportamenti davanti alla morte e agli assassini, ma difficilmente
riusciremo,
perchè raramente ricordato, a sapere come
moriva un uomo dei ceti inferiori sorpreso da un ladro di strada
o ucciso in una lite. Per ricostruire dunque qualcosa della
vita e della morte di coloro che non fanno parte dell'élite
dominante dobbiamo rivolgerci a nuove e differenti fonti: le epigrafi funerarie,
gli unici documenti che possono restituirci, anche se parzialmente e
sommariamente, qualche traccia delle vicende
umane di coloro che sono esclusi dalle dinamiche economiche e culturali
della
società romana.
Molte volte di queste persone non ci resta che
il nome e l'indicazione del modo in cui sono morte come, in area africana,
per il ventenne M. Clodio Macro ("iugulatus"), Lurio Rogato ("occiditur")
o C. Giulio Pontico ("peregre vita privatus").
Altre volte attraverso la lapide riusciamo a
ricostruire qualcosa in più della vita e dell'attività di
uomini di cui altrimenti non
conosceremmo niente: è il caso, proprio
della zona renana, di un "nuntius Augusti", sorpreso ed assassinato dai
briganti che, in
un'epigrafe di Treviri, ci tiene a far sapere
che: "velox pede cursor ut aura" e che fu ucciso ingiustamente senza avere
commesso alcun crimine.
O del liberto Giocondo che si rammarica
con il viandante perchè "vivere non / potui plures XXX per
/ annos", dal momento
che uno schiavo lo uccise e poi a sua volta si
suicidò gettandosi in un fiume.
Piuttosto interessante, perchè è
uno dei pochi casi a noi noti in cui l'assassino è di sesso
femminile, è poi un'epigrafe imperiale
di Aquino in cui L. Manlio Montano ci racconta
di essere stato privato della vita "iniqua / femineaque manu".
Sono tutti questi dei frammenti della vita e
della morte di chi non ha altra possibilità di esprimersi e di lasciare
una traccia della
sua presenza sulla terra, se non tramite la
lapide che racconta la sua storia nello spazio concesso da una lastra di
pietra.
In queste parole, poche e spesso sgrammaticate,
si coglie comunque, nella maggioranza dei casi, rimpianto, rammarico,
rassegnazione e dolore per la vita che è
stata interrotta dalla volontà omicida di un'altra persona, ma soprattutto
è evidente il
desiderio, anche attraverso delle espressioni
forti, ricordiamo il iugulatus sopra citato, di lasciare di sé
un ricordo per non
essere dimenticati e per riaffermare davanti
alla morte la propria identità.
Il suicidio
Parlando del suicidio nella cultura romana è
necessario innanzitutto sgombrare il campo, per quanto possibile, da equivoci
e
contraddizioni: a Roma non esiste un'etica
per così dire "statale" del suicidio, che approvi ed esalti
questo atto senza eccezioni di sorta.
Anche la dottrina neostoica, come vedremo
più avanti, con il suo più illustre rappresentante
romano, Seneca, non è certo
indistintamente favorevole a questo grave gesto,
ma lo codifica in forme ben precise e determinate: la società romana
dominante, quella più sensibile ai richiami
della filosofia stoica ed epicurea, non è assolutamente percorsa
da folli tendenze
suicide.
A livello familiare o pubblico (nelle scuole
di retorica) viene fornita un'educazione che insegna a rispettare i grandi
valori morali, i quali talvolta hanno spinto eminenti uomini del passato
a togliersi la vita: ciò non significa, comunque, che esista nella
cultura romana una formazione filosofica ed etica ciecamente favorevole
al suicidio.
La sociologia ha ampiamente dimostrato
che il suicidio è un fenomeno che riguarda una parte molto ristretta
della società e non può certo essere prerogativa dominante
di tutto un mondo culturale vario come quello romano.
Privarsi volontariamente della vita in una società
come quella quirite, che ha scarsa fiducia nell'aldilà e che gioca
tutte le sue
speranze nell'esistenza terrena, è
un gesto di una gravità enorme, che coinvolge l'essenza più
profonda dell'uomo: nessuno,
dunque, prende una decisione di questa portata
senza aver considerato ogni mezzo per salvaguardare, coerentemente con
i
dettami della coscienza, la propria esistenza.
Questa volontà di rimanere attaccati al
mondo dei vivi a tutti i costi è anzi largamente predominante e
i consigli di Seneca a non aggrapparsi tenacemente agli ultimi scampoli
di un'esistenza ormai vuota e senza significato, ma ad abbandonare serenamente
questo mondo quando non sia più possibile vivere in piena libertà,
non fanno altro che confermare questa idea.
Chiarito questo punto fondamentale, possiamo
notare che l'etica romana nei confronti del suicidio è molto
più complessa e
sfumata di quanto comunemente si ritenga.
Nell'Urbe, infatti, non troviamo nessuna condanna
del suicidio in sé: questo atteggiamento verrà solo più
tardi con la dottrina
cristiana.
Riscontriamo invece un'attenta valutazione delle
circostanze che hanno spinto un uomo a togliersi la vita, e del mezzo scelto
per raggiungere questo scopo.
Torneremo più avanti sul problema dei
diversi modi di darsi la morte: quello che ci preme chiarire ora
è l'atteggiamento
romano riguardo alle circostanze del suicidio.
E' molto interessante notare, anzitutto, che
nel vocabolario romano non esiste un termine univoco e specifico, equivalente,
per
esempio, all'italiano "suicidio", per definire
l'atto di darsi la morte.
Esistono invece numerose espressioni e fraseologie
che sottolineano di volta in volta i diversi aspetti psicologici o concreti
del
suicidio.
Le più diffuse sono "mortem sibi consciscere"
e "mors voluntaria".
In queste definizioni è possibile cogliere
alcuni degli aspetti fondamentali dell'atteggiamento romano nei confronti
del suicidio: da una parte la consapevolezza e la razionalità del
gesto, espressi nel verbo scire, e dall'altra la libertà assoluta
che origina un tale atto, racchiusa nell'aggettivo voluntaria.
La società quirite infatti, in molti casi,
non solo tollera ma esalta il gesto di coloro che vedendo limitata
la loro libertà o per
mantenere intatta la loro dignità si danno
la morte, come la matrona Lucrezia, la quale, violentata dal figlio di
Tarquinio il
Superbo, si uccide, diventando per il mondo romano
uno splendido esempio di purezza e di coraggio.
E' questo il caso limite di Tacito che ha commosse
parole di elogio per il gesto di Epicharis, una liberta coinvolta nella
congiura
dei Pisoni contro Nerone, che stremata dalle
torture si uccide per non rivelare i nomi dei suoi complici.
Seguendo Seneca, il filosofo che nella prima
età imperiale maggiormente influenza le posizioni del ceto dominante
su questa
materia, notiamo come non esista un metro di
valutazione costante riguardo al suicidio, ma si applichino invece a ciascun
caso
specifico dei giudizi che variano in base alle
condizioni e agli uomini.
Secondo Seneca, il saggio deve volontariamente
e di buon grado rinunciare alla propria vita quando un'avversa circostanza
gli impedisca di agire secondo i precetti della ragione e soffochi
la libertà dell'anima rendendo così inutile e priva di significato
la
sua esistenza.
La libertà interiore: è questa,
nella speculazione neostoica, la condizione fondamentale per una vita vera
e costruttiva.
Ecco allora che il filosofo ammette, e a volte
consiglia espressamente, il suicidio in alcune circostanze specifiche,
come ad
esempio nel caso di una lunga e penosa malattia
in cui il dolore annebbia e limita fortemente le facoltà mentali:
lo stesso vale per una vecchiaia invalidante e per una estrema povertà
che mortifica lo spirito sottomettendolo alle necessità del corpo.
Seneca fa una scelta di libertà, il suo
non è un tentativo di elaborare una morale del suicidio che crei
una via di fuga dalla realtà,
ma un'etica della vita che permetta di raggiungere
su questa terra la felicità e la saggezza.
Questo è ampiamente dimostrato dalla violenta
polemica nei confronti di coloro che mossi da un'insana libido moriendi
si
tolgono la vita vanificando in una folle e sterile
azione il profondo significato di questo gesto.
Fra costoro il filosofo include anche quelli
che si danno la morte per l'amore non ricambiato per una donna poiché
compiono un atto inutile e ridicolo.
L'appassionato attacco contro quelli che si
uccidono non per lucida e ponderata scelta, ma solo per immaturità
e per paura di
affrontare la vita, dimostra ancora una volta
come il filosofo non sia ciecamente favorevole al suicidio, ma anzi lo
reputi in ultima analisi una scelta sofferta ed estrema.
Il suicidio è quindi il mezzo estremo
a disposizione del saggio per tutelare la propria libertà interiore
e la propria dignità: e in
questo senso Catone Uticense rappresenta, secondo
Seneca, uno degli esempi più alti per il mondo romano.
Il suicidio di matrice stoica, infatti, tende
sempre a porsi come un modello pubblico di condotta saggia e coerente e
per tale
motivo spesso è caratterizzato da una
teatralità esasperata con cui appare in sottile
polemica Petronio, il cui gesto invece
è venato di austerità
e riservatezza.
L'ironia ed il disincanto dell'estremo gesto
petroniano arrivano fino al punto di trasgredire alle regole che presiedono
alla
maggior parte dei suicidi tragici e spettacolari
di matrice neostoica e non: è consuetudine infatti che colui che
sta per togliersi la
vita intesti parte del suo patrimonio all'imperatore,
che velatamente o meno gli ha imposto di suicidarsi, per salvare così
il
rimanente per i suoi discendenti.
Ebbene, Petronio non solo distrugge la sua preziosa
collezione di "vetri", cui Nerone è molto interessato, ma addirittura
fa
circolare per la città dei libella post
mortem in cui racconta tutti i misfatti più turpi dell'imperatore.
Non è facile ricostruire quale sia l'atteggiamento
di un uomo romano che scelga di togliersi la vita, con quale spirito si
avvicini
alla mors voluntaria e quali considerazioni passino
per la sua mente in un così particolare momento.
Le fonti a nostra disposizione, molto ampie per
quello che riguarda la posizione ufficiale dello stato (mos maiorum) e
delle
diverse scuole filosofiche sul suicidio, sono
invece generalmente reticenti quando si tratta di analizzare i sentimenti
più profondi
dell'uomo: la paura, il dolore, la rassegnazione,
la serenità, l'incoscienza o l'angoscia davanti alla morte.
Inoltre, come sostiene acutamente D. Gourevitch,
nelle fonti che parlano del suicidio assai raramente compaiono personaggi
appartenenti ai ceti inferiori: tutti i soggetti,
infatti, sono generalmente delle categorie sociali privilegiate -
imperatori, senatori,
filosofi o ricchi.
Questo certamente non perchè fra schiavi,
poveri e subalterni, non si verifichino casi di suicidio, ma semplicemente
perchè tali
personaggi rivestono un ruolo complessivamente
secondario e marginale nella società.
L'elemento comune che però si può
cogliere dal confronto delle fonti, anche se, torniamo a ripeterlo, parziali
in quanto si
occupano quasi esclusivamente dei ceti dominanti,
è quello di una diffusa serenità e fermezza d'animo nell'affrontare
la morte.
Attico, con ogni probabilità affetto da
un tumore, resosi conto "...mihi stat alere morbum desinere. Namque his
diebus quidquid cibi sumpsi, ita produxi vitam ut auxerim dolores sine
spe salutis", si astiene volontariamente dal cibo e si lascia morire,
affrontando con calma la morte: "hac oratione habita tanta constantia
vocis atque vultus ut non ex vita, sed ex domo in domum videretur migrare".
Seneca, parlando di Tullio Marcellino gravemente
malato, approva e loda il suo suicidio poiché "mortem sibi consciverit,
tamen mollissime excessit et vita elapsus est ".
Tullio Marcellino infatti - dopo aver interpellato
i suoi amici sull'opportunità o meno di togliersi la vita - prende
molto
serenamente la decisione di digiunare fino alla
morte.
Sono proprio questa tranquillità e coerenza
di colui che tormentato da una lunga e terribile malattia sceglie lucidamente
la
morte, che Seneca apprezza maggiormente.
Petronio, nelle parole di Tacito, non ha paura
di morire ed anzi con molta freddezza e con studiata lentezza esegue
un'operazione raccapricciante e dolorosa come
quella di aprirsi le vene e poi fasciarle per allungare volontariamente
il tempo
della sua agonia, a dimostrazione del fatto che
è sempre l'uomo (epicureo) che decide di sé e del suo tempo,
e non ha paura
della morte.
Lo stesso Seneca, se da una parte indulge
ad una certa spettacolarità per quanto riguarda il suo suicidio,
dall'altra, insieme a
sua moglie Paolina, dimostra un coraggio ed una
serenità notevoli, giacché, non solo si apre le vene dei
polsi ma si fa tagliare
anche quelle delle gambe, e quindi, visto che
la morte tarda ad arrivare, beve prima del veleno, che però non
sortisce l'effetto
desiderato, e poi si fa portare in un bagno dove
il vapore caldo lo uccide.
La cultura quirite considera dunque il
suicidio come un atto essenzialmente libero e ovviamente non lo disapprova
come gesto
in sé, ma lo critica quando riguarda
delle categorie che per motivi diversi libere non sono: gli schiavi, perchè
nel diritto romano
sono delle res di esclusiva proprietà
del padrone, ed i soldati, perchè con il sacramentum si sono indissolubilmente
votati al
servizio dell'Urbe.
Il mondo romano, se da una parte è
rispettoso verso quelle che sono le esigenze più intime dei suoi
cittadini, dall'altra non lo è
per niente invece quando questi principi della
morale vengono a contrastare con quelli economici della gestione dello
stato.
L'autonomia del singolo, la libertà
nel decidere della sua vita, finiscono nel momento in cui, con il suicidio,
il cittadino romano si azzarda, nell'ottica dei legislatori, a sottrarsi
ai suoi doveri nei confronti della res publica.
E' il caso questo di coloro che, inquisiti e
sottoposti a processo per qualche grave reato implicante la confisca dei
beni, si
uccidono prima della condanna per salvaguardare
il patrimonio e per sfuggire alla damnatio memoriae, naturale corredo di
ogni condanna a morte.
Certo non bisogna esagerare, perché in
molti casi la decisione di uccidersi è dettata più dalla
volontà di salvaguardare il proprio honos o quello della gens,
che da considerazioni di ordine economico, ma non bisogna nemmeno
sottovalutare i motivi
finanziari.
Nell'ultimo secolo della repubblica infatti,
come risulta da fonti giuridiche e letterarie, l'accusato che si toglie
la vita nel corso di un processo, morendo così senza una condanna,
estingue automaticamente qualsiasi procedura penale nei suoi confronti,
compresa quella di confisca dei beni, per cui
il patrimonio può passare intatto ai legittimi eredi senza che lo
stato possa
avanzare su di esso nessuna pretesa.
Questo è però anche il secolo delle
guerre civili e delle proscrizioni.
Per chi viene iscritto nelle liste dei proscritti
difficilmente esiste una via di salvezza: anche il suicidio preventivo
non salva la
vittima dalla confisca dei beni e dall'oltraggio
al cadavere.
Corpi trainati con un uncino per le strade della
città, teste mozzate che vengono collocate sui rostri, (come accade
al capo di
Cicerone, che viene esposto insieme alla sua
mano destra) o conficcate su alti pali per essere mostrate nel Foro,
cadaveri
orribilmente mutilati e gettati nel Tevere o
lasciati in pasto agli animali, tutto questo è il frutto di una
feroce volontà di privare il
proscritto di una pulchra mors e della sepoltura
per impedirgli in questo modo la possibilità di trovare pace
almeno nell'aldilà.
Dalle contraddittorie testimonianze della
prima età imperiale non risulta chiaro se questa regola sia ancora
applicata, ma
possiamo presumere che, gravati da sempre più
elevate spese e perennemente alla ricerca di denaro per mantenere il
costosissimo apparato pubblico, gli imperatori
della dinastia giulio-claudia divengano molto più attenti e rigidi
riguardo al
suicidio come strumento estremo per evitare la
confisca dei beni.
L'applicazione di norme più restrittive,
però, concerne generalmente i reati gravi come il crimen maiestatis
o la perduellio, in
epoca imperiale assimilata al crimine di lesa
maestà, perché per tutti quelli di portata inferiore, come
nel caso di Cremuzio
Cordo, nel 25 d.C., vale ancora il principio
per cui l'accusato togliendosi la vita prima della condanna sfugge alla
confisca.
Dalla testimonianza di Dione Cassio, riguardante
un episodio del 31 d.C., apprendiamo infatti che, per salvaguardare
il
patrimonio, non basta più che un indiziato
di gravi reati si tolga la vita prima della sentenza, ma - supponendo gli
imperatori un
intento doloso in tale suicidio, perpetrato non
per salvare l' honos, ma solamente il testamento - è necessario
che per bloccare
qualsiasi azione penale costui si uccida prima
dell'inizio del processo, prima che inizi la procedura tipica della receptio
nominis.
L'aspetto giuridico del suicidio è molto
interessante perché, se da una parte ne mostra l'interpretazione
legislativa, dall'altra è
utilissimo per conoscere la sensibilità
popolare su questa delicata questione.
I motivi infatti per cui un uomo può legalmente
togliersi la vita, senza che il diritto romano lo persegua penalmente,
sono poi gli
stessi che trovano comprensione e benevolenza
anche nell'opinione comune.
Le varie compilazioni giuridiche riportano assai
spesso come causa del suicidio il taedium vitae, un malessere esistenziale
provocato spesso da situazioni fisiche come la
malattia o la povertà, che porta l'uomo ad un sentimento di insofferenza
e
repulsione nei confronti della vita e quindi
all'estrema decisione di abbandonarla spontaneamente.
La società romana mostra poi comprensione
per colui che si è suicidato per debiti: il debitore insolvente,
infatti, nel diritto
antico viene venduto come schiavo trans Tiberim
e in epoca più tarda rinchiuso in carcere, per cui l'unico modo
di sfuggire ad
una condanna umiliante è quello di uccidersi.
Anche il furiosus, colui che in un momento di
follia perde il controllo della sua mente e si uccide, non viene fatto
oggetto,
sempre in caso di gravi crimini, di nessuna iniziativa
legale.
Se questi ed altri motivi secondari sono pienamente
accettati dallo ius legge, nel II secolo d.C., quando le necessità
economiche degli imperatori cominciano a farsi più pressanti, anche
la legislazione si modifica e punisce colui che, accusato di gravi
reati, decide di uccidersi prima della sentenza, interpretando tale gesto
come una palese ammissione di colpevolezza.
La condizione fondamentale perché
si possa attuare la confisca dei beni di colui che si è tolto la
vita prima della sentenza, è
che si possa dimostrare che il suicidio è
stato commesso nell'evidente intento di evitare la misura patrimoniale.
Qualsiasi altro motivo, infatti, fra quelli sopra
citati, come il taedium vitae, un dolore fisico insopportabile
o un accesso di follia, rendono vana qualsiasi azione penale.
Se il suicidio è essenzialmente un gesto
libero, e dunque rientra nel campo d'azione dei cives, esso invece è
precluso a coloro
che per motivi vari e in diversa misura
non possono liberamente disporre della propria vita.
E' questo il caso degli schiavi e, per alcuni
aspetti, dei soldati.
Per quello che riguarda la legislazione militare
sul suicidio, in età repubblicana si conosce ben poco, ma dalle
fonti antiche si può supporre che il miles che si toglie la vita,
o tenta di farlo, non incorre in alcuna sanzione penale, nemmeno postuma.
La situazione muta intorno al II secolo d.C.;
quando il suicidio di un militare viene equiparato ad una diserzione: togliersi
la vita,
o attentare ad essa, significa violare apertamente
quel giuramento sacro che è il sacramentum, che ogni
soldato compie e con il quale pone se stesso con totale devozione al servizio
dello stato.
L'imperatore Adriano, infatti, punisce con grande
severità il tentato suicidio di un militare equiparandolo alla diserzione,
per cui
- se il soldato non prova che il suo gesto è
dettato da un accesso di follia o dal taedium vitae (in questi casi
gli viene fatta salva
la vita, ma viene congedato con la missio ignominiosa)
- il reato prevede la pena di morte.
Quando invece il suicidio viene consumato,
la legislazione militare è pressoché identica a quella civile,
per cui, se il motivo che
origina il gesto è fra quelli classici
che abbiamo sopra ricordato, non viene intrapresa nessuna azione penale:
ma se il soldato si è tolto la vita unicamente per sfuggire ai suoi
gravosi doveri militari, o per sottrarsi ad una condanna, allora i suoi
beni vengono
confiscati e viene decretata nei suoi confronti
la damnatio memoriae, come per tutte le condanne a morte.
Anche in questa situazione
è evidente che non c'è la riprovazione
per il suicidio in sé, ma soltanto la volontà di punire un
gesto che danneggia lo stato.
Per quanto riguarda il suicidio degli schiavi,
i legislatori romani non se ne interessano molto, per un motivo semplicissimo:
non
essendo gli schiavi soggetti di diritto, non
posseggono beni in quantità rilevante da interessare lo stato.
L'interesse verso il suicidio degli schiavi è
legato solamente al danno patrimoniale che essi con tale atto possono arrecare
al
dominus.
Lo schiavo, infatti, è una res, un bene
di proprietà del padrone, e come tale regolarmente acquistato e
pagato, per cui la sua
morte è una perdita economica più
o meno grave per il pater familias.
Per questo motivo, con un editto degli edili
curuli, i venditori di schiavi sono obbligati, dietro minaccia di causa
penale, a
dichiarare al compratore se uno schiavo abbia
già tentato il suicidio, in modo che l'acquirente sia libero di
non procedere
all'acquisto.
Lo schiavo che si uccide o che tenta di farlo
è fatto oggetto di disamine etiche e morali ben differenti da quelle
che riguardano il
suicidio di un uomo libero: se infatti quest'ultimo
può togliersi la vita per un motivo nobile o comunque comprensibile,
come il
taedium vitae , un servus invece, come sostiene
il giurista Paolo ai primi del III secolo d.C., si suicida propter nequitiam,
perchè è moralmente corrotto, per cui non merita nessuna
compassione.
E' ovvio che questo tipo di valutazione nasce
dalla bassissima considerazione che la società quirite nutre per
gli schiavi, ed infatti anche Seneca, non esita a definire ridicole le
cause che portano alcuni servi a togliersi la vita.
Le motivazioni che spingono un servus al suicidio,
e che i padroni non comprendono e non vogliono analizzare, non sono certo
le stesse che portano a tale decisione
in un uomo libero dei ceti superiori: sono piuttosto l'avvilimento
della dignità umana, la
negazione di una personalità autonoma,
la sottomissione fisica e spirituale, la durezza delle condizioni di lavoro,
sono motivi più
che plausibili per decidersi ad un gesto estremo
e risolutore come quello darsi la morte.
La grande paura dei padroni che vivono circondati
da centinaia di schiavi, però, non è forse tanto quella del
danno economico,
valutazione comunque sempre molto presente fra
i ceti dominanti, quanto della possibilità che un uomo privato della
sua libertà,
della sua dignità, di ogni elementare
diritto umano, che ha deciso di uccidersi è un pericolo anche
per il dominus, in quanto è
un uomo che non ha nulla da perdere.
Le leggi emanate in materia sono implacabili:
gli schiavi di una domus in cui il dominus sia morto in modo violento vengono
tutti
messi a morte in virtù del S.C. Silanianum
del 10 d.C..
Tale legge, espressione palese del terror servilis,
tanto diffuso nei primi secoli dell'impero, non serve ovviamente ad impedire
i
suicidi fra il ceto dominante (come abbiamo già
visto più volte la cultura romana lascia molta libertà al
singolo per questo
aspetto), ma ha lo scopo fondamentale di proteggere
i padroni dalle eventuali violenze degli schiavi, i quali potrebbero
compiere un omicidio facendolo passare per un
suicidio.
Il mondo romano concede ai suicidi tutti gli
onori funebri tradizionali - un raro caso contrario parrebbe essere rappresentato
dal decreto del 136 d.C. del collegium funeraticium di Lanuvium, che
nega le esequie ai soci che si sono tolti la vita - ed anzi i
funerali dei grandi uomini morti suicidi hanno
nella folla un riscontro emotivo superiore agli altri.
Altra eccezione a tale atteggiamento riguarda
coloro che si danno la morte impiccandosi: essi, nell'ottica quirite, sono
autori
consapevoli di un gesto dalle profonde valenze
sociali e religiose che viene considerato sacrilego, e che perciò
comporta
l'interdizione dalla sepoltura.
Nonostante tutto, però, le tradizionali
credenze secondo cui lo spirito di una persona morta prematuramente
in modo violento,
e in questa categoria rientrano appunto i suicidi,
diventa nell'aldilà un'entità malvagia e aggressiva, pronta
a ritornare sulla terra
per terrorizzare i suoi nemici, hanno ancora
un'ampia diffusione e non solo nei ceti più bassi.
Questa concezione è così radicata
che in età tardo-repubblicana e proto-imperiale troviamo degli esempi
di persone che si
suicidano o pensano di farlo per gettare con
questo gesto una maledizione sui loro nemici o per meglio perseguitarli.
E' il caso di Cicerone che, nel 43 a.C., pensa
di andarsi ad uccidere sul focolare della domus di Ottaviano, per attirarvi
i terribili demoni della vendetta, o di Giunio Silano che, per suicidarsi,
aspetta il giorno delle nozze dell'imperatore Claudio con
Agrippina, nel 49 d.C., per rendergli funesto
quel giorno.
Queste credenze di carattere popolare, insieme
a quanto abbiamo già fatto notare nel capitolo precedente riguardo
alla
peculiarità di certe posizioni di Virgilio,
possono contribuire a spiegare la sorte che il poeta riserva ai suicidi
nell'aldilà, una
sorte molto triste in rapporto alle colpe commesse.
Abbiamo già detto che un solo tipo di
suicidio è considerato maledetto ed infamante: quello per impiccagione.
Servio sostiene infatti che già il diritto
arcaico prevedeva per colui che si fosse ucciso impiccandosi la privazione
della
sepoltura.
In un'iscrizione sarsinate di età repubblicana
poi, un uomo dona un terreno ai suoi concittadini perché lo
adibiscano a luogo di
sepoltura, e specifica chiaramente che
non vi devono essere sepolti coloro che si sono impiccati e coloro che
hanno esercitato
un'attività infamante (...quaestum spurcum
professi essent).
Varrone scrive che durante i Parentalia, invece
dei riti soliti, bisogna celebrare, per un uomo che si è tolto la
vita impiccandosi,
delle cerimonie di purificazione particolari:
bisogna appendere ad un albero dei dischi votivi chiamati oscilla,
per placare le
anime di questi morti.
Il suicidio per impiccagione viene visto come
uno dei peggiori modi di morire se in un'epigrafe urbana di età
imperiale un marito tradito ed abbandonato dalla moglie le augura:
"clavom et restem sparteam, ut sibi collum alliget...".
Tanta ostilità nei confronti della
morte volontaria per impiccagione necessita, dunque, di una spiegazione
dal momento che
abbiamo potuto constatare che, in un quadro sostanzialmente
tollerante e permissivo riguardo al suicidio, questo è l'unico caso
in cui la condanna del mondo romano è ferma ed inequivocabile.
Gli impiccati da sempre hanno ispirato terrore,
da un lato per il loro terribile aspetto, le membra irrigidite, gli occhi
fissi e fuori
dalle orbite, dall'altro perché la loro
morte, infamante e terribile, è stata ritenuta maledetta,
legata agli antichi rituali di fertilità
tellurica per i quali erano previsti dei
sacrifici umani, e considerata impura.
Della successiva sostituzione, all'interno
di tali celebrazioni, delle vittime in carne ed ossa con pupazzi
dalle sembianze umane
sono testimonianza gli oscilla, che vengono
appesi agli alberi per placare le anime degli impiccati e ricordano il
carattere
maledetto di questa morte.
A questo bisogna poi aggiungere che gli impiccati
morivano sospesi in aria (e suspendium è appunto il termine per
indicare tale
forma di morte volontaria) e questo per il mondo
romano è un fatto straordinario e pericolosissimo, giacché
il morire è ritornare alla Tellus mater e lo si può fare
solo se al momento della morte il corpo è a contatto con tale
elemento, sede naturale delle regioni sotterranee dove si ritiene abitino
i defunti.
I Romani dunque, terrorizzati da una tale morte,
sono molto attenti a separare accuratamente questi spiriti dagli altri
privandoli
della sepoltura, affinché per il loro
carattere maledetto non possano contaminare la società.
Tarquinio il Superbo - quando ordina di crocifiggere
ignominiosamente i cadaveri dei plebei impiccatisi per protestare contro
la monarchia - si pone come scopo di bloccare ogni tentativo
di ritorno da parte di questi spiriti malvagi.
L'avversione nei confronti dell'impiccagione
è, dunque, un atteggiamento di lunga durata nella società
romana, poiché non pare
esservi nessun sensibile mutamento nella
valutazione di tale gesto fra il VI secolo a.C., età cui viene fatto
risalire l'episodio
sopra citato, e l'età traiano-adrianea,
epoca in cui il giurista L. Prisco Nerazio considera l'impiccato impuro
e vile al pari dei
nemici dello stato e dei condannati per alto
tradimento.
La privazione della sepoltura, anche per quanto
riguarda l'impiccagione, non è volta dunque a colpire il gesto
di colui che si è
tolto la vita - abbiamo già notato
infatti che nel mondo romano nessuna pena punisce direttamente il suicidio
-, ma rappresenta una precauzione, come ne abbiamo già viste
molte nel capitolo precedente, per proteggere il mondo dei vivi dall'influsso
malefico che questi spiriti possono esercitare.
La pena di
morte.
Ogni res publica si pone delle regole e delle
leggi che cerca di fare rispettare in tutti i modi ai suoi membri,
ai quali garantisce
protezione e integrazione nelle strutture
sociali almeno fino al momento della trasgressione.
La violazione delle leggi, l'infrazione delle
regole, minacciano l'ordine sociale e mettono in discussione la validità
e la legittimità
del potere centrale, e per questo motivo vanno
punite e represse.
Colui che si pone in aperto contrasto con le
leggi della società viene isolato, sradicato dal tessuto sociale,
sentito e soprattutto
fatto sentire come "altro" al resto della
comunità, perché in questo modo, rimossa qualsiasi possibilità
di identificazione fra il
trasgressore ed il cittadino, essa possa essere
d'accordo con una sua eventuale condanna a morte.
Eseguire una condanna capitale, summum supplicium,
infatti, come giustamente sostiene J. M. David, è una cosa
difficile e
delicata.
E' necessario che il gruppo voglia o accetti
che uno dei suoi membri gli sia strappato e messo a morte.
Un'organizzazione del consenso come questa è
molto faticosa poiché implica delle idee e dei rituali che concentrano
sull'espulsione di uno solo la crisi collettiva
e la sua soluzione.
Nel mondo romano, come in qualsiasi civiltà
antica e moderna, parlando della pena di morte, sono fondamentali due concetti
strettamente interdipendenti: la pubblicità
e l'esemplarità.
Nell'Urbe l'obiettivo di rendere pubblica
una condanna a morte è pienamente raggiunto poiché i
magistrati repubblicani (i
tresviri capitales, che controllano il regolare
svolgimento dell'esecuzione, ma soprattutto i tribuni della plebe)
giudicano e
talvolta eseguono la sentenza direttamente nel
Comitium, ovvero nel centro politico della città.
Da questo punto sono ben visibili
il Mamertino con il sottostante Tullianum, il carcere di Roma, e la rupe
Tarpea, i luoghi che
dal IV secolo a.C. servono per eseguire le esecuzioni
capitali.
L'organizzazione del consenso non si ferma
alla convocazione dell'assemblea nel Foro per assistere all'eliminazione
del
trasgressore, ma si attiva prima fin da quando
i littori, dietro ordine del magistrato, arrestano l'accusato.
Premessa violenta di un rito violento come quello
della pena di morte, l'arresto dell'accusato condannato, manus iniectio,
è una vera e propria aggressione fisica legalizzata.
Come testimonia Plinio il Vecchio, i littori
assalgono l'imputato e lo prendono per la gola, talvolta con una corda,
con una tale
veemenza da far sanguinare la vittima dalla bocca
e dalle orecchie.
A volte perché reo confesso, o più
spesso perché atterrito da questa aggressione e quasi impossibilitato
ad emettere suoni per
la corda che gli stringe la gola, l'inquisito
tace ed accetta con rassegnazione il suo destino.
Un tale spiegamento di forze ed energie, però,
raggiunge generalmente anche un altro e forse più importante obiettivo:
impressiona e spaventa il popolo, che accetta
in silenzio le decisioni punitive del potere costituito.
Nel caso in cui l'accusato sia un personaggio
famoso e influente accade spesso che la folla si opponga all'arresto,
mobilitata e
commossa dalle grida della vittima, che
chiama in suo aiuto i presenti e si vale in questo modo del diritto alla
provocatio.
Parallelamente al corteo dei littori se
ne forma un altro composto dai familiari, dagli amici, dagli alleati politici,
dai clienti
dell'accusato che intendono con tale gesto esprimere
la rabbia e il disappunto per un'azione legale ritenuta ingiusta.
Il diritto alla provocatio rappresenta senza
dubbio una delle più alte garanzie contro gli abusi
di potere dei magistrati: risulta
subito evidente, però, che questo ius
è appannaggio solo di coloro che possono contare su una vasta rete
di solidarietà.
Generalmente è la volontà dei magistrati
che si impone e così, sotto lo sguardo attento, e non di rado compiaciuto,
di centinaia
di cittadini, il trasgressore della legge viene
giustiziato.
Legato ad un palo il condannato viene atrocemente
flagellato, quindi fatto sdraiare a terra viene decapitato con una scure.
E' palese la profonda valenza religiosa di questo
procedimento: il colpevole con il suo gesto ha infranto le leggi sacre
della città e perciò è maledetto, un homo sacer,
e in quanto tale votato ad una divinità (Iuppiter Stygius generalmente
o gli dei inferi).
Questo rituale di esecuzione corrisponde esattamente
al procedimento di immolazione degli animali sacrificali.
Il concetto fondamentale, poi arricchito di valori
religiosi, è semplice: il colpevole, che con il suo crimine ha macchiato
e reso
impura la città, deve essere espulso dalla
comunità alle cui leggi non si è voluto adattare o ha contravvenuto.
Il popolo, chiamato a raccolta intorno
al condannato, partecipa collettivamente a questo rito di purificazione.
La pubblicità delle esecuzioni porta con
sé, come dicevamo, l'idea dell'exemplum; i corpi straziati dal flagello
del carnefice, i
cadaveri dei giustiziati lasciati senza sepoltura,
trasmettono un messaggio perentorio: non è permesso a nessuno di
infrangere
impunemente le leggi della città.
Tutto questo apparato repressivo si perfeziona
sempre più con il passare dei secoli e, in età imperiale,
accentua il suo carattere
di ferocia a causa dell'arbitrio dei sovrani.
E' infatti in questi anni che la brutalità
di alcuni imperatori si manifesta frequentemente, comminando delle pene
terribili, come
quella voluta da Augusto che fa gettare
il paedagogus e i precettori del figlio Gaio in un fiume con una pietra
al collo o da
Costantino che fa versare del piombo fuso nella
bocca di un maldicente, riprendendo un vecchio uso mediterraneo.
Il concetto di pubblicità si sviluppa
sempre di più attraverso la spettacolarizzazione delle esecuzioni,
che avvengono in molti
casi nelle arene.
Sulle gradinate dell'anfiteatro o, nelle
province, anche dei teatri, tutto il popolo assiste a questo crudele rito
di morte: le vittime
muoiono lentamente straziate dalle belve feroci
o dalla ferocia di qualche carnefice: lo spettacolo del corpo che soffre
è per il
potere dell'imperatore una dimostrazione di forza
e di efficienza.
L'assolutismo imperiale non ha così bisogno
di ratifiche da parte del popolo come invece uno stato repubblicano,
e quindi
può modificare sensibilmente il rituale
dell'esecuzione, senza suscitare reazioni di protesta.
Accanto alla spettacolarizzazione delle condanne
a morte nelle arene avviene, per così dire, un'occultazione del
rito
dell'eliminazione.
L'organizzazione del consenso, che in epoca repubblicana
avviene all'arresto e lungo il percorso del condannato verso la
morte, in epoca tardo-repubblicana, travagliata
dalle guerre civili, e in quella imperiale si realizza in un momento
successivo,
dopo che la vittima è stata giustiziata.
Il popolo non ha più nessuna possibilità
di mettere in discussione le decisioni del potere e limita la sua partecipazione
a quel
barbaro rituale che consiste nel mutilare ed
oltraggiare i corpi dei giustiziati, trascinati per le strade della città
(come accadde
nell'87 a.C. al cadavere di Pompeo Strabone)
od esposti alle scalae Gemoniae, per gettare poi quello che
resta nel Tevere.
Bisogna a questo punto ricordare però
che non solo lo stato, tramite i suoi magistrati, è in grado di
decretare ed eseguire
condanne a morte: anche la gens, soprattutto
in età repubblicana, nella figura del pater familias, può
decidere di giustiziare per vari motivi uno dei suoi membri.
Questo può avvenire perchè
il pater familias ha, fra le sue prerogative, il diritto di vita e di morte,
ius vitae ac necis, sui filii e le filiae familias, che sono completamente
sottoposti alla sua volontà.
A questo proposito meritano attenzione alcuni
episodi risalenti all'età monarchica che sono assai
significativi per ricostruire
l'atteggiamento dei Romani per quello
che riguarda la giustizia domestica nei confronti del sesso femminile.
Valerio Massimo racconta che una donna
sorpresa dal marito a bere del vino venne uccisa a frustate,
mentre Plinio il Vecchio narra che per lo stesso motivo un'altra
fu fatta morire con un metodo molto simile a quello impiegato per le Vestali
incestae: venne lasciata morire di inedia.
Questo scelta sembra dettata nel mondo romano
da considerazioni puramente pratiche: la morte per inedia fra le mura della
casa è molto discreta e silenziosa ed
evita quindi che attorno ad essa, al contrario di quello che avveniva per
le esecuzioni
pubbliche, si crei una pubblicità indesiderata.
Invece per un figlio che agli occhi del
padre si sia reso colpevole di gravi delitti la punizione abituale parrebbe
essere proprio la fustigazione a morte (verberatio) come prova la vicenda
di Sp. Cassio.
Costui, console per la terza volta nel 486 a.C.,
è accusato, al momento in cui abbandona la carica, di avere tentato
di instaurare il regnum e per tale motivo suo padre, dopo essersi consigliato
con amici e parenti, lo condanna alla fustigazione ed ordina di ucciderlo.
Ma è soprattutto in ambito pubblico, e
per mano della giustizia ordinaria, che a Roma viene eseguita la maggioranza
delle
condanne a morte.
La più antica forma di esecuzione capitale
è quella per decapitazione tramite la scure (securis), simbolo del
potere del
magistrato.
Principale strumento di epurazione nelle crudeli
proscrizioni ordinate da Silla nell'82 a.C., la durata nei secoli di questo
tipo di
condanna è testimoniato dal fatto che
ancora in epoca imperiale essa viene utilizzata, seppur con l'utilizzo
del gladium al posto
della scure.
Un'altra esecuzione molto ricorrente nella Roma
antica è la precipitazione dalla rupe Tarpea: spinto nel vuoto
da questo dirupo
meridionale del colle Capitolino, il condannato
si sfracella sulle rocce sottostanti.
Questo metodo non è originario di Roma,
ma viene importato dalla Grecia dove già da tempo gli Ateniesi
giustiziavano i
condannati gettandoli in un
baraqron dietro l'Acropoli) e gli Spartani nel kaiadas (burrone).
Secondo la testimonianza di Gellio, la
legge delle XII Tavole prevedeva la pena di morte mediante precipitazione
dalla rupe
Tarpea per gli schiavi accusati di furto e per
i colpevoli di falsa testimonianza (per questi ultimi la pena ha un preciso
significato
simbolico, poiché vengono giustiziati
sulla collina dove ha sede il tempio di Giove Capitolino, garante della
fides che essi hanno
violato).
Risalendo però ai primi anni della repubblica
apprendiamo che questo tipo di esecuzione viene riservato principalmente
a
coloro che attentano alla persona fisica
del tribuno della plebe o contro i diritti della plebe stessa: a quelli
che commettono,
insomma, il reato di perduellio.
Questa interpretazione è ampiamente supportata
dalle numerose testimonianze di autori antichi, come Plutarco che
riporta la
vicenda di Coriolano il quale, avendo nel 491
a.C. rifiutato di obbedire agli ordini dei tribuni della plebe ed avendoli
anzi
aggrediti, fu condannato ad essere gettato dalla
rupe Tarpea e venne salvato solo dall'intervento popolare; o come Livio,
che
ricorda la morte di Manlio Capitolino accusato
di perduellio nel 384 a.C. e gettato dalla stessa roccia da cui aveva respinto
i
Galli.
Questo tipo di esecuzione subisce, comunque,
nel corso dei secoli delle oscillazioni e delle variazioni perché,
come vedremo
anche in seguito, se in età repubblicana
l'ambito principale di applicazione è l'attentato contro i diritti
della plebe, ciò non
esclude che fossero giustiziate allo stesso modo
anche altre categorie, come quella dei disertori e degli ostaggi di guerra
che
erano fuggiti e che quindi avevano tradito la
res publica.
Il quadro storico dell'utilizzo di tale procedura
è, dunque, complesso e vario, ma dalle testimonianze degli autori
emerge,
almeno per l'ultimo secolo della repubblica,
un dato certo riguardo alle categorie sottoposte a questa pena: in
questo modo
vengono giustiziati solo gli uomini liberi.
Plutarco infatti afferma che, nell'88 a.C., Silla
ordinò che lo schiavo condannato venisse manomesso prima di essere
giustiziato,
ed anche Dione Cassio riporta una vicenda
analoga avvenuta nel 39 a.C..
Formidabile arma nelle mani dei tribuni della
plebe, la prospettiva di una condanna tanto orribile viene usata in alcuni
casi come
strumento di lotta politica.
Nel 131 a.C. il tribuno della plebe C. Atinio
Labeone, volendo vendicarsi del censore Q. Cecilio Metello che lo ha escluso
dalle liste dei senatori, muove contro quest'ultimo
l'accusa di perduellio e minaccia perciò di giustiziarlo secondo
la
consuetudine.
Q. Cecilio Metello viene aggredito e trascinato
davanti al popolo con questa accusa infamante e soltanto l'intervento degli
altri
tribuni della plebe gli salva la vita.
In epoca proto-imperiale avviene una profonda
mutazione del quadro storico dell'applicazione di questa esecuzione capitale
che, persi i profondi significati che aveva in
età repubblicana, viene utilizzata fondamentalmente come mezzo di
lotta politica.
La rupe Tarpea, insomma, è ancora usata
per punire il reato di perduellio, ma non perché questa procedura
corrisponda
giuridicamente a quel delitto, ma piuttosto perché,
nel ricordo delle antiche usanze, questa esecuzione richiama un'immagine
nota e quindi legittima la punizione.
Questo progressivo affievolirsi nella tradizione
quirite del significato originario di tale pena provoca delle modifiche
anche nel
campo di applicazione, tanto è vero che
- come testimonia Tacito, parlando del S.C. de mathematicis magisque del
16 d.C. -
L. Pituanius viene gettato
dalla rupe Tarpea per un reato che non ha niente a che vedere con la perduellio,
mentre il suo
complice viene giustiziato more prisco, extra
porta Esquilinam, segno questo della decadenza di una pena di cui ormai
pochi
conoscono il significato e che viene abbandonata
sotto Claudio.
Una morte molto temuta nel mondo romano
è poi quella che attende coloro che vengono giustiziati in carcere.
Costruito nel III secolo a.C. nel suo nucleo
originario ed ampliato nei secoli successivi, il Tullianum è
la più grande prigione
dell'Urbe.
Il suo nome e la sua fama incutono sgomento e
terrore nei Romani, come apprendiamo dalla descrizione che di questo tetro
luogo dà Sallustio: " ... circiter duodecim
pedes humi depressus. Eum muniunt undique parietes atque insuper camera
lapideis
fornicibus iuncta; sed incultu, tenebris, odore
foeda atque terribilis eius facies est".
Ed oltre a ciò l'ambiente è reso
ancora più malsano dal pavimento coperto dall'acqua che sgorga da
una fonte.
La prigione rappresenta l'abbandono, è
l'oscuro recesso dove la società rinchiude ed emargina quelli che
hanno trasgredito alle leggi mettendo così in pericolo l'ordine
sociale e che qui, dimenticati da tutto quel mondo di cui ormai non fanno
più parte,
subiscono il loro destino di morte: una fine
tenuta segreta che si consuma lontano dagli occhi della folla nel
fondo tenebroso e maleodorante del Tullianum.
La morte all'interno del carcere avviene generalmente
senza effusione di sangue, come sembrano confermare, oltre al già
citato
Sallustio, le espressioni verbali degli autori
antichi: expirare in Livio, spiritum extinguere in Valerio Massimo: per
inedia dunque,
per abbandono o, più frequentemente, per
strangolamento.
Inoltre sono noti dalle fonti alcuni casi di
suicidi, tentati o riusciti, di uomini condannati al carcere che,
vista svanire ogni
speranza di salvezza e soprattutto valutando
insostenibile un'esistenza di segregazione, preferiscono togliersi la vita.
Seguiamo Svetonio: "citati ad causam dicendam
partim se domi vulneraverunt certi damnationis et ad vexationem
ignominiamque vitandam, partim in media curia
venenum hauserunt; et tamen conligatis vulneribus ac semianimes palpitantesque
adhuc in carcere rapti".
La descrizione dell'autore latino, pur se a tinte
molto forti, rende comunque con grande efficacia l'angoscia ed il terrore
che
ispira il carcer: gli accusati, convinti ormai
dell'inevitabilità del loro destino, arrivano all'estremo gesto
di attentare alla propria
vita o con la spada o con il veleno, pur di sottrarsi
alla terribile sorte e alle torture che li attendono nel Tullianum.
Il tentato suicidio di questi uomini è
dettato con ogni evidenza da una disperazione indotta da considerazioni
immediate ed
istintive (alcuni si avvelenano addirittura in
piena Curia non vedendo più nessun'altra via d'uscita), fra
cui il rifiuto della morte
civile connessa con l'incarcerazione.
E' necessario sottolineare, infatti, che colui
che viene rinchiuso nel Tullianum nella maggioranza dei casi abbandona
il mondo dei vivi, la sua famiglia, nel momento in cui oltrepassa
la porta del carcere.
Chi non può contare all'esterno su una
rete di solidarietà in grado di fare pressione sui magistrati per
il rilascio, difficilmente può sperare di uscire vivo dal Tullianum:
infatti i diritti dei cittadini non esistono in sé, ma solo nella
legittimazione che ad essi
attribuisce l'Urbs, e non esservi integrati
comporta la negazione dei diritti.
A tutto ciò bisogna aggiungere la paura
del dolore fisico causato dalle torture dei carnefici che dà origine
a reazioni istintive di rifiuto e di repulsione che possono anche condurre
alla decisione drammatica, ma umanissima e comprensibile, del suicidio.
Il processo di emarginazione civile e sociale
colpisce però anche il carnifex, generalmente tuttavia un servus
publicus, che
esegue le sentenze di morte, agli occhi
della comunità un personaggio infame che partecipa, per questa
sua funzione, della
natura "maledetta" delle sue vittime.
Dalle fonti antiche apprendiamo che "...moreretur
prius acerbissima morte miliens C. Gracchus quam in eius contione carnifex
consisteret; quem non modo foro sed etiam caelo
hoc ac spiritu censoriae leges atque urbis domicilio carere voluerunt";
ed
ancora, a proposito del supplizio delle Vestali,
"cumque ei manum carnifex daret, aversata est et resiluit foedumque contactum
quasi labem a casto puroque corpore novissima
sanctitate reiecit".
Il suo corpo inoltre viene trattato come quello
di un suicida per impiccagione, cioè è privato della sepoltura:
" carnificis loco
habebatur is qui se vulnerasset, ut moreretur
" afferma Festo.
Se il fatto di essere uno schiavo comporta già
di per sè una condizione di inferiorità giuridica e sociale,
è innegabile però che il
tipo di funzione svolta caratterizzi, nell'ottica
romana, la figura del carnifex in modo ancor più negativo ed infamante.
Come la precipitazione dalla rupe Tarpea, anche
la procedura di imprigionare qualcuno al Tullianum viene nei vari secoli
utilizzata come formidabile mezzo di lotta politica
dai tribuni della plebe e dal senato, le uniche autorità che possono
ordinare
delle incarcerazioni.
Soprattutto i rappresentanti della plebe si servono
del carcere come efficiente strumento di riaffermazione del
potere tribunizio
sulle altre autorità statali: ed inoltre
- rispetto alla rupe Tarpea - l'incarcerazione offre il vantaggio
che la morte del condannato
non è immediata, e quindi può dar
luogo agli appelli da parte degli amici del recluso, permettendo di valutare
quanto grande sia
la solidarietà di cui esso gode.
Con l'avvento dell'impero anche la morte in carcere
comincia a modificare la sua valenza giuridica.
Se dal punto di vista simbolico la reclusione
mantiene il suo antico valore di punizione per coloro che sono stati dichiarati
nemici di Roma, dal punto di vista del diritto però questa pena
viene utilizzata sempre più spesso per colpire i reati più
svariati.
Questa evoluzione contribuisce a mutare
sostanzialmente il senso di questo tipo di condanna.
Il potere imperiale non ha più bisogno
di legittimazioni e può fare eseguire le sue condanne senza che
il popolo, generalmente
intimorito dall'apparato repressivo dello stato,
possa intervenire.
L'organizzazione del consenso avviene, ancora
una volta, in un secondo momento, dopo l'esecuzione della condanna.
E' necessario infatti che, in un modo o nell'altro,
la città - attraverso un rito collettivo - sia consapevole
e partecipi
all'espulsione di uno dei suoi membri.
E' per questo che il cadavere del giustiziato
viene esposto alle scalae Gemoniae, dove diviene un oggetto di spettacolo
per tutti coloro che, con disumana violenza, lo oltraggiano e mutilano
prima di gettarlo nel Tevere affinchè venga privato della sepoltura.
Questo feroce rituale consente al popolo, ormai
succube dell'assolutismo imperiale, di sentirsi ancora parte in causa,
partecipe delle decisioni che riguardano uno dei suoi membri: attraverso
tale pratica l' Urbs libera tutta la carica di violenza generata da una
morte violenta come quella di un'esecuzione capitale, e così conferisce
il riconoscimento di legittimità all'azione imperiale.
Il mondo romano non considera però una
punizione sufficiente la sola pena di morte e per questo motivo la
inasprisce,
facendo sempre precedere l'esecuzione dalla flagellazione.
La morte infatti, secondo l'ottica quirite, non
è che una liberazione, è un breve momento: per cui, colui
che ha reso impura la
città infrangendone le leggi, deve
essere punito in modo adeguato prima di essere giustiziato.
Il meritato castigo è, dunque, la feroce
flagellazione: Svetonio parlando di Caligola sostiene infatti che "non
temere in quemquam nisi crebris et minutis ictibus animadverti passus est,
perpetuo notoque iam praecepto: <<Ita feri
ut se mori sentiat>>".
Il condannato deve dunque sentire arrivare la
sua morte, soffrendo atrocemente sotto i colpi del carnefice: e con la
sua
sofferenza dare spettacolo e soprattutto essere
di monito per chi assiste a non trasgredire mai le leggi della città.
Il rito della fustigazione, dunque, è,
insieme a tutto lo spettacolo dell'esecuzione, la dimostrazione della forza
e dell'efficacia
repressiva del potere, che invia in questo modo
un messaggio perentorio ed inequivocabile alla società.
Il mondo romano conosce, infatti, come pena di
morte più antica proprio la fustigazione, il supplicium more maiorum.
Il rituale di tale condanna è ben descritto
da Svetonio: "... nudi hominis cervicem inseri furcae, corpus virgis
ad necem caedi".
In questa posizione il suppliziato non può
assolutamente difendersi dai violentissimi colpi di verghe che gli vengono
inflitti dal
carnefice: condotto nudo per le strade della
città, oltraggiato dalla folla che spesso lo prende a sassate,
stremato dal dolore e dalle percosse, trova infine la morte nel Foro.
Questo tipo di esecuzione, molto utilizzato nella
Roma repubblicana nei confronti del complice della Vestale
incesta, lo
stuprator, è ritenuto
una pena terribile (nel 472 a.C., pur di non subire l'orrore della
fustigazione, uno dei complici della
Vestale Opimia si suicida), ma risulta
quasi sconosciuta in età imperiale: al punto che Nerone, quando
gli viene comunicato
che il senato lo vuole giustiziare more maiorum,
ignora che tipo di supplizio sia, come scrive Svetonio nel brano sopra
citato.
La pena che, nella prassi giuridica romana, mostra
maggiormente la volontà di allontanare ed eliminare il colpevole
il quale, con il suo gesto, ha reso impura davanti agli dei tutta la città,
è senza dubbio quella che spetta ai parricidi e prevede che
il
condannato chiuso nel culleus sia gettato
in acqua.
Fra gli studiosi si è discusso a lungo,
e il dibattito non è ancora chiuso, sul significato giuridico della
parola parricidium: la
questione centrale è se questa parola
venga utilizzata dalla dottrina giuridica esclusivamente per designare
l'assassinio di un
familiare, il tradimento del dominus-pater
familias da parte di un servus, come sembra attestare Valerio Massimo,
oppure se
l'area semantica del termine sia più ampia
e comprenda sotto tale dizione anche l'omicidio in genere.
Lungi dall'addentrarci in questa discussione
che ci porterebbe troppo lontano dai nostri effettivi obiettivi, è
preferibile qui rifarsi all'importante saggio sul parricidio di A.
Magdelain, che ci pare sintetizzare bene ed in modo chiaro, anche se
forse non
sempre esaustivo, un dibattito così
articolato e complesso.
Secondo lo studioso francese, in base alla legge
delle XII Tavole per il mondo romano il paricidas è sia colui che
uccide un
consanguineo, sia colui che uccide un uomo non
legato a lui da vincoli di sangue.
Da un esame delle fonti antiche si può
notare, poi, che la pena del culleus viene invece applicata a coloro che
uccidono il padre o la madre, senza che si possa con sicurezza estenderne
l'uso agli assassini di un altro consanguineo.
Ecco dunque spiegato il legame che, nell'immaginario
dell'Urbe, lega la pena del culleus con la nozione di parricidio.
L'utilizzo del culleus per punire il delitto
di parricidio è invenzione tutta romana, come prova in modo inequivocabile
Cicerone
che, paragonando la struttura legislativa quirite
con quella soloniana, afferma: "quanto nostri maiores sapientius! Qui cum
intellegerent nihil esse tam sanctum quod non
aliquando violaret audacia, supplicium in parricidas singulare excogitaverunt...
Insui voluerunt in culleum vivos atque ita in
flumen deici".
Questo tipo di pena, nata a Roma, viene poi esportata
con l'espansione dei confini dell'impero in tutto il mondo conosciuto e
viene utilizzata ampiamente da molti sovrani
inclini a sistemi repressivi crudeli, come Costantino e Giustiniano.
Sappiamo da Plutarco che Romolo non sancì
nessuna punizione per il parricidio, ritenendolo un crimine talmente sconvolgente
da non essere ritenuto nemmeno possibile, e ancora
da Valerio Massimo che l'uso del culleus per i parricidi invalse
molto dopo il regno di Tarquinio il Superbo, quando invece venne impiegato
per punire un duoviro che aveva trasgredito alle prescrizioni religiose.
Per avere quindi dati certi sull'introduzione
di tale pena è necessario pervenire all' inizio del II secolo a.C.,
quando ancora
Plutarco, nel proseguio del brano sopra citato
della Vita di Romolo, ci dice che, dopo la seconda guerra punica,
venne punito
per primo in questo modo L. Ostio.
L'epoca riportata è degna di fede, se
si pensa che proprio questa può essere la generazione
dei nostri maiores di cui parla
Cicerone; e - sulla base di alcuni accenni
plautini - apprendiamo che a questi tempi l'uso del culleus è
un argomento di
attualità.
Il culleus, come testimoniano fonti letterarie
e storiche, è un otre di pelle bovina chiuso con robuste cuciture
ed impermeabile,
che solitamente viene adibito al trasporto di
olio e vino, come pare confermare ancora nel III secolo d.C., anche il
giurista
Ulpiano.
L'elemento dell'impermeabilità - su cui
comunque, come vedremo più avanti, non tutti gli studiosi sono concordi
- è
fondamentale nella scelta di questo metodo, per
eliminare dall'Urbs i parricidi: infatti essi, proprio per tale caratteristica
dell'otre, vengono esclusi da qualsiasi contatto con l'esterno e così
muoiono senza che il loro corpo contamini niente.
La volontà di eliminare colui che, reso
infame dal proprio delitto, potrebbe rendere impura la comunità
sta alla base di tutto il
complesso rituale della pena del parricida.
Il condannato viene incappucciato, perché
la sua vista non contamini i presenti e per isolarlo dal mondo: poi, con
degli zoccoli
di legno ai piedi perché non profani la
terra con il suo contatto e per simboleggiare la partenza per l'ultimo
viaggio, viene
condotto in carcere dove attende che il boia
prepari il culleus.
In seguito, nel Foro, alla presenza generalmente
di un nutrito pubblico, viene flagellato sanguineis virgis, fino a che
cioè le verghe non diventano rosse per il suo sangue, quindi rinchiuso
nel culleus in compagnia di un gallo, un cane, una scimmia e un serpente,
e trasportato su di un carro trainato da buoi neri, fino al luogo
da dove viene gettato nel mare o, se in un luogo all'interno, in un fiume.
Ci sono pareri discordi sulla causa della morte
del condannato: secondo alcuni studiosi infatti muore per annegamento
dopo
breve agonia, se non è già stato
dilaniato dagli animali; secondo altri invece, dal momento che il
culleus è impermeabile e quindi non permette ricambio d'aria, muore
per soffocamento.
Lo scopo di tale rito è evidente: si vuole
espellere l'elemento impuro abbandonandolo in acqua, in modo che non possa
ricevere sepoltura e quindi come insepultus vaghi senza pace nel mondo
dei morti, e allo stesso tempo, poiché il suo spirito non può
attraversare l'acqua, si vuole impedirne il ritorno.
Gli animali che vengono cuciti nel culleus insieme
al condannato hanno, del resto, anch'essi una forte valenza sacrale.
Oltre ad essere infilati nel sacco per rendere
ancora più terribile la morte del parricida, questi animali nell'immaginario
romano
sono in vario modo legati all'oscuro e angosciante
mondo della morte e vengono spesso connotati con caratteristiche negative.
Il cane, ad esempio, è considerato un
animale immondo e viene accomunato alle divinità infere, così
come la scimmia genera
repulsione per la sua umanità deforme:
il serpente poi è da sempre l'animale per eccellenza del regno dei
morti, e il gallo è
associato a sua volta alle regioni sotterranee.
Ci sono poi altre interpretazioni molto suggestive
di questa consuetudine: i quattro animali sono ritenuti persecutori degli
spiriti
malvagi e vengono messi nel sacco perché,
anche dopo la morte del colpevole, ne perseguitino lo spirito, oppure perché,
una
volta rinvenuto da qualcuno il macabro sacco,
sia immediatamente evidente, grazie alla presenza degli animali, di quale
orrendo
crimine si è macchiato colui che vi è
contenuto.
La pena del culleus per i parricidi ha un arco
temporale di utilizzo molto ampio: infatti se il primo caso sembra risalire
presumibilmente all'inizio del II secolo a.C.,
gli ultimi sono invece da datare all'VIII secolo d.C., quando viene sostituito
dall'azione degli animali feroci e dal rogo.
La scelta di quest'ultimo tipo di supplizio,
in sostituzione della pena del culleus, non è casuale.
La vivicombustione infatti, oltre ad essere una
delle pene più antiche nell'ambito della legislazione romana, riveste
una valenza
simbolica e sacrale del tutto simile a quella
del culleus: l'incenerimento nel fuoco rappresenta la distruzione assoluta
del crimine e del colpevole, è il momento più alto, il grado
estremo di purificazione.
In ciò è assimilabile alla funzione
dell'acqua nella pena del parricida: entrambi i supplizi raggiungono il
medesimo scopo di
impedire il ritorno allo spirito malvagio del
colpevole, la vivicombustione cancellando per sempre materialmente ogni
traccia del condannato, il culleus tramite l'acqua.
Antichissima espressione della legge del taglione,
il rogo è previsto dalle XII Tavole per l'incendiario che deve dunque
morire
nel modo stesso in cui ha compiuto il suo crimine,
ma vede la sua utilizzazione più ampia nell' età
repubblicana come punizione
militare per traditori e disertori.
Tale crudele procedura è diffusissima
in età giulio-claudia, e più specificamente sotto Nerone,
il quale aggiunge nuovi e sadici
orrori al supplizio facendo indossare ai condannati
la tunica molesta, una tunica spalmata di pece ed intrisa di liquido
infiammabile, che rende l'uomo una torcia vivente.
Avidio Cassio, un secolo dopo, non è inferiore
a Nerone in quanto a fantasia perversa nei supplizi e uccide le sue vittime
legandole a diverse altezze su di un palo sotto
cui viene acceso un fuoco: il condannato posto più in basso muore
bruciato dalle fiamme, quello a metà altezza asfissiato dal fumo,
l'ultimo per lo sfinimento fisico provocato dalla posizione innaturale.
La vivicombustione è, in ogni epoca, una
delle pene più applicate: essa è, infatti, fra i summa supplicia
uno dei più atroci e
dolorosi, anche perché spesso il fuoco
viene mantenuto basso in modo che la sofferenza del condannato sia prolungata.
Come tutte le condanne a morte, anche la crematio
comporta l'interdizione dalla sepoltura: i resti del cadavere, che
generalmente non viene mai interamente distrutto
dalle fiamme, vengono gettati in fosse fuori dalla città.
La pena del rogo, comunque, conosce il suo periodo
di massima diffusione nel basso impero e soprattutto sotto Costantino,
l'autorità ne fa un uso sistematico.
Lo stesso valore simbolico di espiazione e di
eliminazione di un elemento impuro ed empio, che con il suo gesto ha contaminato
tutta la città, è altresì presente nel rituale di
punizione delle Vestali incestae.
Le sacerdotesse, incaricate di mantenere sempre
acceso il fuoco nell'edificio sacro a Vesta, e depositarie di solenni
riti religiosi tenuti segreti al resto del popolo, al momento della loro
consacrazione fanno voto di castità per almeno trent'anni, il periodo
in cui sono chiamate a servire la dea.
Il contravvenire a tale voto, commettere incestum,
cioè avere rapporti sessuali con un uomo, comporta per la Vestale
l'immediata condizione di impurità e di
empietà che si estende a tutta la città, poiché
la sacerdotessa si accosta ai sacra
contaminandoli, provocando in questo modo la
rottura della pace con gli dei.
Infatti, nella maggioranza dei casi di età
repubblicana citati dalle fonti, le Vestali incestae con il loro
gesto provocano dei
prodigia, in genere violente pestilenze che,
nell'ottica romana, manifestano la collera delle divinità.
Questo induce generalmente il pontefice
massimo, a condurre indagini sull'operato delle sacerdotesse di Vesta per
accertare
che nessuna di esse abbia celebrato in stato
di impurità i sacri riti.
La città identifica, dunque, nella eliminazione
della Vestale incesta, e perciò empia, il primo atto necessario
di purificazione per
la ricostituzione del legame con gli dei.
In un quadro di Plutarco abbiamo una vivida immagine
del rituale che presiede al supplizio della Vestale incesta: essa viene
fatta salire su una lettiga (un vero e proprio letto funebre, secondo Dionigi
d'Alicarnasso) completamente coperta da veli, cosicché
nessuno la possa vedere dall'esterno e viene legata con robuste cinghie
in modo che non possa muoversi.
Dietro alla lettiga, come in un funerale, segue
il corteo dei parenti e degli amici che piangono la Vestale come se fosse
già
morta.
Al passaggio nel Foro la folla ivi radunata
si aggiunge, in agghiacciante silenzio, alla lugubre processione che si
dirige verso la
Porta Collina ove si trova il campus sceleratus.
Qui la condannata viene calata in una piccola
cella sotterranea all'interno della quale sono stati posti un letto, un
vaso d'acqua,
del pane ed una lucerna accesa e quindi,
murata l'apertura della stanza, viene abbandonata a morire.
Dalle fonti apprendiamo che la maggior parte
delle Vestali incestae, sia di età repubblicana che di età
imperiale, pare accettare
con rassegnazione il proprio terribile destino:
ma in alcuni casi notiamo che la prospettiva di spegnersi in una
lenta agonia,
sepolte sottoterra, suscita in queste donne
sentimenti di repulsione e di ribellione.
Sono almeno tre, infatti, le sacerdotesse di
Vesta che, riconosciute colpevoli di incestum, prevengono la condanna a
morte
togliendosi la vita: Caparronia nel 266 a.C.,
Floronia nel 216 a.C. e Cannutia Crescentina che nel 213 d.C. si
getta dal tetto
della casa.
E' da notare che Caparronia, pur di sfuggire
alla sepoltura, non esita ad impiccarsi (suspendio periit), a darsi cioè,
come
abbiamo già visto nel paragrafo precedente,
una morte fra le più terribili e maledette.
E ribellione di fronte ad una condanna a morte
giudicata ingiusta viene espressa anche da Cornelia, virgo Vestalis maxima,
che
nel 91 d.C. viene condannata e giustiziata.
La donna infatti, assolta in un primo momento
e quindi in un secondo e sommario processo riconosciuta colpevole, vuole
sottrarsi alla prospettiva di una morte tanto
orribile e si oppone fermamente alla decisione dell'imperatore Domiziano
proclamando la propria innocenza: "illa nunc
ad Vestam, nunc ad ceteros deos manus tendens, multa sed hoc frequentissime
clamitabat: <<Me Caesar incestam putat,
qua sacra faciente vicit, triumphavit>>".
Fra i supplizi capitali che hanno un arco cronologico
di impiego molto ampio è da annoverare anche la damnatio ad bestias,
che, comminata per la prima volta nel II secolo a.C., viene utilizzata
sempre più frequentemente in età imperiale data la sua
spettacolarità.
Previsto per i non liberi e ovviamente per tutti
gli stranieri passibili di pena di morte, tale supplizio, secondo le testimonianze,
viene usato per la prima volta da L. Emilio
Paolo nel 167 a.C. per punire i disertori macedoni dell'esercito romano,
dopo la
vittoria sul re Perseo: durante gli spettacoli
offerti per celebrare la vittoria il proconsole fa schiacciare i condannati
dagli elefanti.
Nel 146 a.C. poi, per celebrare il suo
trionfo sui Cartaginesi, Scipione Emiliano espone alle belve nel circo
uomini colpevoli
dello stesso reato ed anch'essi stranieri.
Questo tipo di condanna aumenta la sua
diffusione quanto più Roma accresce la sua potenza ed i suoi mezzi.
E' soprattutto l'età imperiale che conosce
un utilizzo molto ampio della damnatio ad bestias, perchè può
avvalersi di un sempre
maggiore apparato scenico derivante dal fatto
che per le esecuzioni vengono impiegati animali feroci importati dagli
angoli più
remoti del Mediterraneo.
Il campo giuridico di applicazione di questa
pena si amplia con i secoli soprattutto sotto la spinta dell'arbitrio imperiale.
Spesso accade infatti che, per offrire alla plebe
romana, sempre avida di tali carneficine, uno spettacolo di alto livello,
i sovrani
condannino all'arena anche colpevoli di reati
per cui non è prevista la pena capitale.
L' imperatore Claudio, ad esempio, dà
in pasto agli animali i colpevoli di frode aggravata, mentre
il crudele Caligola, poiché
lo spettacolo langue e rischia la sospensione
per mancanza di vittime, fa arrestare senza motivo degli spettatori e li
getta in pasto alle belve.
I cristiani, che nei primi tre secoli d.C. furono
duramente perseguitati, ed i prigionieri di guerra hanno un posto
di tutto rispetto
nella graduatoria di coloro che muoiono in tali
spettacoli, anche perché, generalmente durante le celebrazioni dei
trionfi, o nei
momenti di maggiore furore anti - cristiano,
avvengono delle vere e proprie ecatombi.
E' il caso dei prigionieri giudei catturati da
Tito alla fine della guerra in Palestina, che sono deportati nelle province
per essere
uccisi nei teatri dalle belve e nei combattimenti
gladiatori, o dei prigionieri Bructeri che il "cristianissimo" imperatore
Costantino
manda a migliaia in pasto alle fiere.
Il mondo romano - tranne rari casi, ad esempio
Seneca - non si ribella dinanzi a queste aberrazioni come le
stragi di donne ed
adolescenti nelle arene, la sensibilità
degli spettatori di tali orribili massacri non si orienta nè verso
il rifiuto nè verso la
compassione nei confronti di coloro che vengono
trucidati nei teatri.
Ciò avviene anche perchè la maggioranza
di coloro che muoiono in questi sanguinosi spettacoli, compresi
anziani, donne e
bambini, appartengono a categorie sociali emarginate
e reiette come gli schiavi o i prigionieri di guerra, persone abbiette
ed
inferiori, per cui non esiste, e non può
esistere, nessun tipo di pietà.
Ma soprattutto, tanta insensibilità per
la sorte di un altro essere umano nasce dal clima di esaltazione collettiva,
di sfogo brutale
ed incontrollato della violenza e dell'aggressività
che permea la società quirite, che si esprime nella violenza dell'arena.
Nella prima età imperiale l'esecuzione
dei damnati ad bestias assume una parte predominante nello schema ormai
fisso del
munus gladiatorium: nell'arco della giornata
lo spettacolo si suddivide in vari momenti.
Al mattino si svolge la venatio, spettacolo di
caccia in cui dei gladiatori combattono contro animali feroci e che a volte
può
anche essere usata per le esecuzioni capitali:
a mezzogiorno, durante l'intervallo, si eseguono delle condanne a morte,
mentre nel pomeriggio si svolge il vero e proprio combattimento gladiatorio.
La ferocia di alcuni imperatori e la fantasia
dei carnefici - per soddisfare un pubblico in cerca di emozioni sempre
più forti -
danno vita ad una terribile galleria degli orrori
nella descrizione dei modi in cui queste vittime vengono messe a morte.
Uno dei metodi più diffusi è quello
di legare il suppliziato inerme ad un palo, e lasciare che la belva lo
assalga e lo sbrani.
Ma molto in voga sono anche le rappresentazioni
di scene mitologiche in cui la vittima impersona ad esempio Orfeo, che
con il suo canto ammalia gli animali, ma che da essi viene poi divorato.
La condanna a scendere nell'arena non implica
necessariamente che il "colpevole" debba essere dato in pasto ai leoni
o alle
tigri; in molti casi viene infatti mandato a
combattere nei giochi gladiatori contro altri condannati o contro gladiatori
di
professione. Generalmente muore al primo scontro,
ma se è molto abile e fortunato può sperare di salvarsi e
quindi allungare la sua vita almeno fino allo scontro successivo.
Ma, come dice molto giustamente D. Grodzynski
in un suo recente saggio su questo argomento: "cette
peine comporte une
grande part de hasard. Mais le condamné
mourra tôt ou tard dans l'amphithéâtre, aux yeux de
tous".
L'ultimo tipo di supplizio di cui vogliamo qui
rapidamente occuparci è anche uno dei più diffusi in tutto
il mondo romano e dei
più temuti: la crux.
La crocifissione, già conosciuta presso
i Persiani ed i Cartaginesi, viene comunemente definita e ricordata come
la pena
riservata agli schiavi (servile supplicium) e
agli stranieri.
Ciò è vero solo in parte.
Il mondo romano arcaico, infatti, conosce una
punizione molto simile alla crocifissione e che in seguito verrà
assimilata a questa: la sospensione all'arbor infelix, impiegata anche
contro i cittadini di alto rango per sanzionare i reati più
gravi, fra cui in
particolar modo quello di perduellio.
Il significato di questo supplizio è molto
evidente: si appende il criminale ad un albero sterile perché così
si vuole eliminare colui
che ha contaminato la città con
il suo delitto, e impedire, tramite la sospensione, il contatto del corpo
impuro con il suolo, come già abbiamo visto verificarsi nel caso
del parricida che indossa zoccoli di legno per non profanare la terra.
Tale consuetudine deve essere rimasta ben viva
e radicata nella società romana se nel 63 a. C. Cicerone si trova
a difendere, in un memorabile processo, il senatore C. Rabirio accusato
di alto tradimento e deve fare sfoggio di tutta la sua abilità oratoria
per salvarlo da questa terribile condanna.
Nel corso della sua orazione Cicerone fornisce
dettagli molto interessanti circa il rituale della sospensione all'arbor
infelix : il
carnefice lega le mani del condannato dietro
la schiena, gli vela il capo e poi lo appende all'albero.
Riscontriamo anche in tali preliminari
delle analogie con la pena del parricida e delle Vestali: in tutti
questi casi con la
copertura della testa si intende escludere ed
isolare dal mondo il colpevole ancora prima della sua morte.
La legislazione quirite però, come abbiamo
già detto, riserva il supplizio della croce soprattutto per gli
schiavi e per gli stranieri.
Cicerone parla della crux come del
supplizio più atroce e degradante cui un civis Romanus possa essere
sottoposto, e Valerio Massimo afferma: "... et quia Scipionis est et quia
Romano sanguini quamvis merito perpesso servile supplicium insultare non
adtinet..." parlando della crocifissione infamante riservata ai disertori
romani rispetto alla condanna usuale alla decapitazione
inflitta ai disertori latini.
Non sappiamo esattamente quando sia stata introdotta
per la prima volta la pena della crocifissione per gli schiavi, però
dalle
notizie di Plauto, che nelle sue commedie descrive
acutamente il mondo schiavile, ricaviamo che essa deve essere
ben
conosciuta ed applicata in epoca anteriore
alla prima guerra punica, se lo scrittore latino ne parla come
di un supplizio molto
antico di ambiente mediterraneo e da sempre riservato
agli schiavi.
La crocifissione è usata contro
gli schiavi soprattutto per reprimere i loro tentativi di rivolta e di
questo ci fornisce testimonianza già Livio.
Il ceto dominante, nella società romana
tardo-repubblicana e proto-imperiale, vive circondato da una folla sterminata
di schiavi
che non sempre riesce a controllare completamente.
Fra i padroni si sviluppa ben presto il terror
servilis, l'angoscia di venire assassinati dai propri schiavi.
Questo profondo malessere psicologico del ceto
dominante produce allora delle vere e proprie aberrazioni giuridiche, come
la
terribile legge, di origine repubblicana,
reintrodotta all'epoca di Nerone, secondo cui gli schiavi residenti
nella casa dove un
padrone è stato assassinato sono sottoposti
alla pena di morte, quasi fossero in solido responsabili del fatto, per
dissuadere
così questa categoria vessata e disperata
dal tentare gesti inconsulti a danno dei domini.
Il supplizio della crocifissione viene, dunque,
utilizzato con inaudita ferocia nella repressione delle grandi rivolte
schiavili del I
secolo a.C. quando, dopo la definitiva sconfitta
di Spartaco, Crasso fa crocifiggere seimila ribelli sulla via Appia fra
Roma e
Capua.
Molto spesso poi, come riportano vari autori,
l'arbitrio ed il capriccio dei padroni sono l'unico criterio di giudizio
nell'applicazione della pena della crocifissione:
dai paradossi satirici di Orazio e Giovenale apprendiamo infatti
che, talvolta,
anche una piccola mancanza può portare
un servus sulla croce, come testimonia altresì Petronio per il caso
di uno schiavo che
"Gai nostri genio male dixerat".
Sull'esatto funzionamento del supplizio della
croce non c'è assoluta uniformità di vedute da parte degli
studiosi, anche se grazie
alle testimonianze archeologiche e iconografiche
si possono riuscire ad identificare due diversi sistemi di crocifissione.
Un primo metodo di crocifissione, utilizzato
prevalentemente in età imperiale, è quello della furca di
cui abbiamo già accennato
sopra. Questo strumento è
diverso da quello omonimo, in uso nell'età repubblicana, a
forma di V rovesciata che serve solo
per immobilizzare la vittima che viene generalmente
fustigata ma non uccisa.
E' infatti un palo a forma di Y, nella cui biforcazione
il suppliziato mette la testa: quindi il capo viene bloccato con un altro
palo
trasversale e poi issato, per cui il condannato,
sospeso, muore soffocato.
Il secondo metodo, invece, è quello della
crocifissione vera e propria, così come la conosciamo noi, e come
ci è arrivata
dall'iconografia cristiana: il condannato porta
sulle spalle una barra di legno, il patibulum, che lo immobilizza e che
in un primo
momento serve perché tutto il suo corpo
sia offerto alla tremenda flagellazione che precede sempre ogni esecuzione.
In un secondo momento le braccia del suppliziato
vengono fissate tramite dei chiodi a questo palo orizzontale, che
poi viene
issato su di un alto palo verticale per formare
la crux vera e propria, ed i piedi sovrapposti vengono fissati anch'essi
a questo
supporto verticale con un chiodo.
L'agonia del condannato sulla croce può
durare delle ore, per cui, a volte, per abbreviare i tormenti, si spezzano
le gambe del
crocifisso che così, perdendo il sostegno
degli arti inferiori, subisce una brusca diminuzione della capacità
respiratoria data dalla repentina distensione del corpo, e la morte sopravviene
quasi subito per insufficienza respiratoria.
Questo sistema del crurifragium, però,
non ha un utilizzo sistematico, e spesso la vittima muore prima per le
sofferenze causate
dalla posizione innaturale, come apprendiamo
dal Vangelo di Giovanni.
Come il condannato alle belve non ottiene sepoltura
perché i suoi miseri resti scompaiono nella gola degli animali,
così, in molti
casi, anche il crocifisso muore appeso alla croce
ed il suo cadavere viene lasciato in pasto agli uccelli da preda: e
spesso
vengono messi dei soldati di guardia sul luogo
dell'esecuzione perché i parenti non sottraggano il corpo per dargli
sepoltura.
La crux viene dunque reputata la più infamante
fra le condanne a morte, poichè è il castigo tipicamente
riservato agli schiavi, per cui morire crocifisso è indice di un
profondo declassamento sociale.
Soltanto con la diffusione del cristianesimo,
e con la conseguente adozione della simbologia della croce, sulla quale
morì Cristo, questo strumento perde la sua connotazione negativa,
per acquisire valori nuovi di sacrificio e redenzione.
La morte del
gladiatore.
La società romana, percorsa da forti tensioni
politiche e sociali, animata da una smisurata volontà
di potenza che la porta alla
conquista ed alla sottomissione del mondo intero,
conosce come valvola di sfogo la crudeltà legalizzata dei giochi
gladiatori.
Davanti al pubblico, diviso per fasce sociali
sui gradini di un anfiteatro, si sviluppa uno spettacolo brutale e sanguinario,
il cui
valore catartico e liberatorio è indubbio:
il popolo scarica in questo contesto ritualizzato e controllato la sua
rabbia e la sua
aggressività, stemperando quindi le pulsioni
più pericolose per l'ordine sociale.
I giochi gladiatori derivano dalla civiltà
etrusca, in cui tali manifestazioni hanno carattere funebre; essi vengono
importati a
Roma nel 264 a.C..
Anche in ambiente quirite inizialmente
sono ancora delle commemorazioni funerarie, ma già
nel I secolo a.C. assumono una
importanza grandissima sia dal punto di vista
sociale sia economico, che rapidamente ne snatura la connotazione iniziale.
L'organizzazione di spettacoli gladiatori diventa
nella Roma della tarda repubblica e soprattutto in quella imperiale del
I secolo
d.C., uno strumento di lotta politica: e così,
chiunque abbia aspirazioni di carriera nei ranghi dell'amministrazione
dello stato non bada a spese ed offre manifestazioni sempre più
grandi e sfarzose per accattivarsi il favore della plebe.
Dalle testimonianze degli autori apprendiamo,
infatti, che il pubblico diventa sempre più esigente e che assai
spesso protesta e
rumoreggia quando lo spettacolo, per la scarsa
abilità dei gladiatori o per la povertà dei mezzi, non soddisfa
le aspettative.
Tutto ciò costringe molti funzionari pubblici
d'età imperiale ad impegni economici spesso insostenibili,
con il risultato che nel
mondo della politica viene privilegiato colui
che dispone di più mezzi.
I giochi gladiatori si svolgono in tutte le arene
delle città provinciali, ma i più grandiosi sono quelli che
vengono celebrati a Roma per volontà dell'imperatore.
Queste manifestazioni, in grado di attirare una
notevole massa di persone, hanno bisogno di strutture adeguate, per cui,
nell'ultimo secolo della repubblica, vengono
approntati anfiteatri provvisori in legno che, dal 29 a.C., lasciano il
posto ai primi
anfiteatri permanenti la cui tipologia architettonica
trova l'espressione più alta nel Colosseo, edificato nell'80 d.C.,
e capace di
contenere 45000 spettatori, una costruzione destinata
a divenire in breve tempo il simbolo di Roma.
I giochi gladiatori, nella loro continua ricerca
della spettacolarità e della grandiosità, sono, fin dalla
tarda repubblica, al centro di una vasta e fiorente attività economica,
quale quella del commercio dei gladiatori controllato dai lanistae, in
genere ex-gladiatori anch'essi, che sono i proprietari delle "scuole" dove
vengono addestrati i combattenti destinati alle arene.
In tali "scuole", sotto l'inflessibile guida
del lanista e di altri istruttori, uomini dalle più diverse provenienze
e vicende personali
imparano fra violenze e brutalità di ogni
genere l'arte del combattimento ed in ultima analisi l'arte del morire
in maniera
coraggiosa nell'arena.
L'enorme richiesta di gladiatori viene soddisfatta
da alcune categorie ben determinate: gli schiavi, i condannati
a morte, gli
uomini liberi.
La maggior parte dei gladiatori è
di origine schiavile: generalmente sono prigionieri di guerra catturati
durante le diverse
campagne di conquista nelle terre lontane della
Germania o della Britannia e comprati dai lanistae che dopo l'addestramento
li rivendono ai munerarii.
Spesso però vengono consegnati agli allenatori
anche quegli schiavi che, per il loro comportamento indisponente o pericoloso
(fuggitivi ripresi o ladri), il padrone non desidera più tenere
nella sua domus: senza dimenticare che vendere uno schiavo ad un lanista
è per il dominus un vantaggioso affare economico (Attico,
ad
esempio, l'amico di Cicerone, possedeva un gruppo di
schiavi a tale scopo).
Dato il continuo bisogno di materiale umano,
anche i condannati a morte spesso vengono impiegati nelle arene in combattimenti
ferocissimi, molto graditi al pubblico romano,
come riporta Seneca, il più delle volte nudi o senza protezioni,
così che ogni
colpo può essere quello mortale.
Ma se questi sfortunati damnati ad gladium sono
destinati a morire in un breve lasso di tempo, diversa è la sorte
di coloro che,
per le capacità tecniche o per la straordinaria
forza fisica, vengono affidati ai lanistae perché ne facciano dei
veri e propri
gladiatori: questi sono i damnati ad ludum, che,
grazie all'addestramento ricevuto, hanno la possibilità di uscire
vivi dall'anfiteatro e se, con le loro imprese, acquistano grande fama,
possono sperare dopo alcuni anni di essere graziati.
Le esigenze di una spettacolarizzazione esasperata
spingono gli imperatori alla ricerca di novità in grado di soddisfare
le
richieste di un pubblico desideroso di forti
emozioni: è il caso di Nerone che nel 63 d.C. fa combattere delle
donne di
condizione libera e nel 66 d.C. a Pozzuoli fa
scendere nell'arena delle donne etiopi o di Domiziano che nell'89
d.C. fa lottare
fra loro dei nani.
Nella mentalità romana, quelle che a noi
oggi paiono delle vere e proprie aberrazioni, non sono considerate tali:
anzi, gli
spettatori mostrano di gradire molto questo tipo
di attrazioni, tanto è vero che anche Svetonio, pare apprezzare
lo sfarzo dei
giochi offerti da Domiziano.
Nei confronti di coloro che scendono nell'arena
non c'è compassione, nella maggioranza dei casi sono condannati
a morte,
schiavi e prigionieri di guerra, rappresentanti
di categorie sociali infime e reiette, per i quali la società quirite,
soprattutto in un
contesto estremo ed esasperato come quello dell'anfiteatro,
non nutre nessun sentimento di pietà.
Nei combattimenti gladiatori si sublima in un
processo catartico la violenza latente nel tessuto sociale, per cui non
dobbiamo
stupirci se essa si scatena in tutta la sua brutalità
in un ambito circoscritto e ritualizzato come quello dell'arena.
L'ultima categoria sociale, assolutamente
minoritaria, quella dei gladiatori per libera scelta, è la preferita
dal pubblico.
E' difficile credere che qualcuno voglia volontariamente
sottoporsi ad una vita di brutalità e sevizie nelle caserme di
addestramento, al rischio continuo di venire
ucciso in combattimento: eppure, nel mondo romano una parte dei gladiatori
che si affrontano negli anfiteatri sono dei professionisti che intraprendono
spontaneamente questa pericolosa carriera.
Bisogna supporre infatti che tali personaggi
abbiano una scarsa considerazione di sè, dal momento che accettano
consapevolmente di legarsi al lanista con un
giuramento, l'auctoramentum gladiatorium, che prevede delle condizioni
disumane come ci testimonia Petronio: "itaque... sacramentum iuravimus:
uri, vinciri, verberari ferroque necari,... Tanquam legitimi gladiatores
domino corpora animasque religiosissime addicimus".
Tali uomini sono fondamentalmente spinti da una
forte fame di denaro: i ricchi premi riservati ai vincitori li attirano
irresistibilmente nella speranza, in alcuni
casi realizzata, di accumulare una vera e propria fortuna e quindi dopo
qualche anno di ritirarsi.
Ma la ricerca del denaro facile è solo
l'aspetto superficiale di questa professione: ciò che veramente
spinge un uomo libero ad
uccidere e a essere ucciso in un anfiteatro è
ben altro - la voglia di gloria, il desiderio di avventura,
il gusto di uccidere unito
al disprezzo più profondo della propria
e dell'altrui vita.
La categoria sociale dei gladiatori è
reietta nel mondo romano e tale professione è considerata infamis,
soprattutto perchè,
come abbiamo visto sopra, la maggioranza di questi
personaggi è di origine schiavile o comunque di estrazione
molto umile.
Nell'ottica quirite, quella del gladiatore è
una figura socialmente e moralmente negativa, tanto è vero che in
un episodio del
Satyricon Ascilto insulta pesantemente Encolpio
chiamandolo "gladiator obscene, quem de ruina harena dimisit...".
Non solo, coloro che combattono nelle arene sono
bollati con il marchio dell'infamia e vengono esclusi dall'esercito e non
possono essere testimoni d'accusa ai processi.
Ci sono casi in cui possono essere addirittura
privati della tomba come risulta da un'epigrafe di età repubblicana
proveniente da Sassina, in cui un uomo dona un terreno perchè
venga adibito ad area sepolcrale ed afferma che non vi debbano essere sepolti
coloro che si sono suicidati impiccandosi e coloro che hanno esercitato
un lavoro infamante, come i gladiatori appunto.
Però sono i beniamini del pubblico,
le arene si infiammano per loro, le donne li cercano: è tutto questo
che li spinge a rischiare
la vita in una lotta senza esclusione di colpi.
Le regole di questo gioco raramente lasciano
scampo: se uno cade, si appella al munerarius chiedendo la grazia (missio).
E dipende solo da quest'ultimo, che spesso però
si attiene agli umori del pubblico, salvare o condannare il gladiatore
sconfitto.
Se l'organizzatore dei giochi decide di risparmiare
la vita allo sconfitto esso viene curato per partecipare in futuro
a nuovi
combattimenti, ma se decide per la morte, colui
che ha perso viene ucciso davanti a tutti.
Il pubblico avido di violenze e di sangue incita
i guardiani ad usare la frusta o il ferro rovente per spronare i
più fiacchi al
combattimento, giacché non tutti si comportano
con quel coraggio e quella fermezza che gli spettatori esigono accade infatti
che qualcuno si ritragga terrorizzato all'idea di morire e tenti
di salvarsi la vita.
Non è facile ricostruire con quale spirito
i gladiatori si preparino a scendere nell'anfiteatro per un combattimento
che potrebbe
anche essere l'ultimo: e certo quest'idea di
instabilità e di precarietà deve essere ben presente nelle
loro menti se, come
sappiamo ad esempio da Plutarco, alcuni
di essi, di condizione libertina, manomettono i loro schiavi prima di scendere
nell'arena o se, consapevoli del rischio di essere
uccisi, cercano, formulando dei voti, come un gladiatore di Pompei, l'appoggio
delle divinità.
Il disumano tirocinio cui questi atleti sono
sottoposti dagli allenatori non riesce dunque a cancellare fino in fondo
i primari istinti
di autoconservazione e di paura della morte se
Cicerone disprezza quei gladiatori che perdono ogni dignità pur
di avere salva la vita e Petronio ci racconta di gladiatori che affrontano
timorosi l'avversario e si sottraggono in tutti modi allo scontro diretto.
Generalmente però questi uomini, che
attribuiscono un ben scarso valore alla propria vita, sono disposti decisamente
a
rischiarla in cambio di fama e denaro e accettano
con fermezza le conseguenze di questa loro scelta morendo solitamente
con grande coraggio.
Difficilmente, infatti, un gladiatore, rigidamente
preparato dal lanista, sottrae la gola alla spada dell'avversario vincitore:
coraggiosamente attende che si compia
il destino per cui è stato per tanto tempo preparato.
L'iconografia antica ha conservato alcune di
queste scene in cui il vincitore affonda la spada nella gola dello sconfitto
che,
rassegnato, attende la morte in ginocchio.
Di questa crudele procedura ci danno testimonianza
gli autori antichi.
Cicerone, infatti, afferma nelle Tusculane "quis...,
ferrum recipere iussus, collum contraxit ?" e Seneca
gli fa eco "sic gladiator
tota pugna timidissimus iugulum adversario praestat
et errantem gladium sibi adtemperat": e un'ulteriore conferma viene dal
rilievo di Scauro a Pompei, nel quale viene
rappresentato il vincitore che afferra la testa del vinto e lo sgozza con
la spada.
Il soldato
e la morte in guerra.
Roma, impegnata in un processo di espansione
sempre più serrato ed esteso, si trova , alla fine del II
secolo a.C., a dover
mobilitare un numero maggiore di militari di
quanti non ne abbia effettivamente a disposizione, per cui nel 107 a.C.
Mario,
appena eletto console, mette mano ad una riforma
radicale dell'organico dell'esercito: per diventare soldati non è
più necessario avere un determinato reddito.
In questo modo, e con una tendenza ovviamente
destinata a crescere nei secoli a venire, nell'esercito entra tutto quel
sottoproletariato che vede nel servizio militare
volontario prolungato (la ferma può arrivare anche fino a 20 anni)
l'unico modo
per uscire da una condizione di perenne instabilità
economica o di miseria cronica.
Sempre assorbito in compiti di conquista o di
controllo del territorio, in zone dove le rivolte delle popolazioni sottomesse
sono abituali, è dunque frequente che l'organico militare
debba in molti casi registrare ampie perdite di vite umane.
A parte l'ovvia eventualità di venire
uccisi dal nemico nel corso di un combattimento, per il soldato romano
che durante la
battaglia riporta delle ferite serie il
pericolo si prospetta anche in un secondo momento: non c'è
da dubitare infatti che la
medicina militare e l'assistenza ai feriti, siano
, almeno prima della riforma di Mario, assai approssimative e inadeguate,
per cui,
come sostiene Livio a proposito di questo argomento,
può capitare che siano più quelli che muoiono a causa delle
ferite
riportate che non quelli direttamente uccisi
sul campo di battaglia.
Nella maggioranza dei casi i feriti o i malati
ricevono le cure nella propria tenda e solo per i casi particolarmente
gravi, quando
ce n'è la possibilità, avviene
il trasferimento nella più vicina città amica, dove è
possibile trovare un medico in grado di prestare
un soccorso adeguato.
L'assistenza medica all'interno dell'accampamento
è infatti elementare e piuttosto rozza, tanto è vero che
talvolta sono gli stessi
compagni d'armi a curare il ferito, e più
spesso dei medici girovaghi, la cui competenza medica è perlomeno
dubbia.
La situazione migliora sotto Augusto che,
preoccupato di avere un esercito efficiente, assegna in dotazione fissa
ad ogni legione un determinato numero di medici professionisti e di infermieri
che operano all'interno del valetudinarium, un vero e proprio ospedale
da campo, dove ricevono le cure i malati ed i feriti più gravi.
La dura condizione militare, o la paura del nemico,
provocano, talvolta, nei soggetti più sensibili, momenti di
profonda crisi
depressiva, che non di rado possono sfociare
nella decisione di togliersi la vita.
I suicidi fra i militari non sono infrequenti
e proprio per tale motivo l'autorità centrale cerca di scoraggiare
con severe punizioni
qualunque soldato manifesti questa pericolosa
inclinazione.
Il suicidio, infatti, viene decisamente
condannato e represso nell'esercito.
Nell'ottica militare, colui che con la morte
cerca di sfuggire ai suoi doveri di soldato da una parte compie un vero
e proprio
furto nei confronti dello stato a cui si è
completamente votato con il sacramentum; dall'altra, con il
suo gesto infanga la
rispettabilità dell'esercito.
Per questo motivo un militare che tenta
il suicidio per paura o viltà può essere condannato a morte
e un altro invece, che sia
riuscito nel suo intento suicida sempre per le
stesse ragioni, subisce la confisca del peculium castrense con l'annullamento
immediato del testamento.
La pena di morte per i soldati può essere
comminata, però, assai più spesso in presenza di casi di
diserzione o di grave
insubordinazione per cui il durissimo codice
militare prevede pene terribili come la bastonatura fino alla morte oppure
il brutale
sistema della decimazione.
La prospettiva della morte (si calcola
plausibilmente che solo un soldato su due arrivi vivo al congedo)
contribuisce a creare
un forte spirito di corpo fra militari appartenenti
alla stessa legione.
Per il soldato infatti, più ancora che
per il civile, l'eventualità di morire in un paese lontano e straniero
è molto presente, per cui
nessuno, nemmeno al livello più basso,
vuole abbandonare questa terra in una fossa comune, dimenticato da tutti,
e senza poter
lasciare almeno un minimo segno del suo passaggio
su questo mondo.
Anche nell'esercito, allora, si formano
i collegia funeraticia, che hanno come scopo fondamentale quello di provvedere
che ogni iscritto, dietro versamento di una quota di ammissione, abbia
un funerale ed una tomba (cfr. capitolo III paragrafo 3).
Se questo tipo di associazioni ufficiali diventano
una realtà nel II secolo d.C. per i graduati, ai soldati semplici
non è consentito
di riunirsi in veri e propri collegia: per cui
i militari di una stessa legione mantengono una cassa comune, che viene
utilizzata per
pagare varie spese fra cui le più comuni
sono quelle per i funerali, generalmente molto semplici ed ai quali partecipano
gli stessi
soldati.
Il mondo romano - a parte un caso forse unico,
come quello del monumento eretto a spese pubbliche dai Nursini per
commemorare i concittadini morti nella guerra
fra Antonio ed Ottaviano - non conosce l'uso di monumenti funebri collettivi
per i caduti (probabilmente, come sostiene acutamente Carriè, perché
gli imperatori preferiscono celebrare e ricordare le loro
vittorie invece delle sconfitte), uso invece
ben testimoniato in Grecia: ed anche per tale motivo tutti cercano
di avere una
seppur misera lapide individuale nelle vaste
necropoli collocate intorno all'accampamento.
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