Bacheca (Racconti)

 

Roberto Miele

 

scheda biografica

poesie

Racconto in cui nessuno si chiosa

La sindrome di qui quo qua

Racconto in cui nessuno ricompare

Racconto in cui nessuno è deponente

 

 

- Racconto in cui nessuno si chiosa -

 

Una lumaca potrebbe capolinarsi di qua del muretto, quale ennesima eccezione alla regola, se pur trade quasi meno del dovuto il vischio controlucente.

Sin che nausei di tanto guscio, per la parte che l’occhio capriccia, varrà pure ostentare un falso honoriis causa, se colta asinesca in tetralogie di carote (la memoria).

Fra varie e infondanti perimesi, che tutto sommato non auspicano niente di simile al dopo babelico riavvicinamento di una lumaca che sprofonda pari all’altra lazzariana, a dispetto di quante riemergono schiuse le labbra, poi fuse dall’ombra del padreterno, conviene si agucchi una altrettanta dispettosa nella forma e onesta.

Nuoce gravemente alla salute il bene: ovvero, conformi al t’on apameibòmenos, dell’assenza nessun dado ondisono.

 

 

- La sindrome di qui quo qua -

 

Quella domenica fu tale, in modo irrisorio. Sull’autostrada qualche piccola coda si ebbe intorno alle otto e mezza nove, poi:
una macchina,

                                                                                   un’altra,

                                                                                                                                                   un furgone,
così.

Le campane, per fortuna attruppate da un pezzo, e chioccolanti, fatto molto diffuso allora, e per strada di tanto un buongiorno, buongiorno a lei.

Nel filatterio della quiete insomma nessuna pena, se mai fosse stato possibile dire mi è successo questo o mi è successo quello, perché nel caso in cui qualcosa fosse davvero accaduto, nessuno, dico nessuno, si sarebbe chiesto cos’è stato?

Questo è certo: che si trattò di una domenica in cui, pur non accadendo nulla, non ci si sarebbe aspettati che accadesse qualcosa.

Difatti calò sulla responsabilità sociale –mi si perdoni questa vaghezza, è che con le definizioni ho poca… come dire…-, come se si trattasse di un dono del cielo, cioè di uno di quei doni che non possono non venire dall’alto, quale merda di colombo e tegola, qualcosa di simile ad un canto, né gregoriano tanto meno pluteo.

L’intensità dell’eufonia meriterebbe un’attenzione particolare che francamente non credo sia il caso di attribuirle -e lo so che lo scrittore non sarebbe d’accordo con una formula del genere, ma che volete che gli dica, condivido.

 

 

- Racconto in cui nessuno ricompare -

 

Qualcuno mi osserva. Non lo so per certo, ma qualcuno mi osserva. Potrebbe essere ovunque. Una mano, di là dello specchio, nella libreria. Potrebbe persino pretendere qualcosa. Oso immaginarlo. Due enormi baffi arrugginiti, a fare da sponda tra la bocca e l’occhio. Probabilmente ozioso, posto che non sia questo il suo compito. Non quello di osservare, come solo potrebbero gli assenti, bensì di relegarmi al centro dell’attenzione. Un esercizio insostenibile, e tanto più rovinoso quanto meno astrale. Posso esorcizzarlo? Posso? Lascio il letto sfatto tutto il giorno. Risultato, quei lombi.

Niente. Provo a tirare fuori i libri dagli scaffali. Uno ad uno. A pile. Sul pavimento. Tridimensiono le piastrelle. Poi, per un equivoco, deduco diverso da questo il modo di inventarsi lo spazio, di ipotizzarne la presenza.

Tiro calci. Lievi, di piatto. La caduta è sabbiosa. Tonfi inclusi. Sparpaglio. Mentre alcuni sfuggono alla presa, si ritraggono. Riprovo. Non vengono via. Un segno. Solo potessi sfogliarli… ne basterebbe uno.

Negli scaffali il vuoto. Color color color… ciliegio. Lascio per un po’ così. A parte qualche testo preventivamente sepolto, non si può mai sapere, la curiosità o la mancanza, né la mancanza di curiosità, tra le lenzuola.

Antennine. Antennine. Da brave. Ma che! Entra una donna. Sdentata. Affascinante. Cosa? Cosa? Ha ciangottato… cosa? Il dito osculatore verso il letto, i libri. Devo ordinare? Impossibile. E se fosse davvero impossibile?
Forse, qualche motivo valido per farlo.

Sarò rinchiuso qua dentro dal principio. Fui un emblema. Da che incarno il destino della bottiglia. Onde. Onde. Terra? Onde. E mai nessuno che passi. Mai un saluto. Se pure qualcuno mi osserva lo fa per distrarsi. Pensa tu!

Basta! Adesso basta! Io ti invidio, Andrea. Ti invidio. Capisci? Guarda! Guarda bene. Hai un cannocchiale? Deve trattarsi di un cannocchiale. Di un binocolo, tutt’al più. Come sono grande, eh? mi si vedono persino i punti neri. E tu? tu? piiiiccolo. Che quasi non hai sonno. Dove ti nascondi? E dimmelo! Sei qui? Cucù?! No. Allora, sei qui! Nemmeno. E pensare che potremmo, prima o poi, cambiare lente. Basta un colpo di palpebre. Un... voilà!

Oh, mi scusi. Ha visto passare Andrea?

 

 

- Racconto in cui nessuno è deponente -

 

Un curiosare ventoso. È pressappoco simile. Cing! cing! kumf! Bisogna che controlli. Di questi tempi. Pollicina, chi ti ha chiuso fuori? Un sobbalzo, e subito dietrofront, richiusa la porta ad annusare lo scampato pericolo. Quella fottuta prestaservizi. È un simbolo, nient’altro. Così fan tutte: iniziano bene e razzolano male. Poi, appurata l’esternità dell’esterno, via, zompettante, in camera da letto. Il panzuto pelame qua e la, a tempo. Me la prendo? E con chi, con lei con mia madre? Quasi quasi telefono, frataglia da consiglio, ma no. La parte dell’idiota riesce meglio dal vivo. Pa pam! Signori e signore, buonasera. E le mani ellittiche nel vuoto: è uno scandalo, volete rovinarmi del tutto? Appena un po’ di attenzione, e di rimorso, pari a me bastardo, ed eccovi il tono pacato, riflettente. Chiedo solo una minima attenzione. Tutto qua. vi costa? Su ditemi quant’è. Voglio pagarlo tutto quanto il debito. Pure in cucina, se ne vale la pena. Pure in cucina. Mi sta bene. Tanto i libri me li porto. Sempre un paio. Qualora non riuscissi a smarrirmi. Smarrirmi? Che dico. Sparirmi…puf!

 

 

 

  

 

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