Bacheca (Racconti)

 

 

Raffaele Polo

 

scheda biografica

Una storia leccese

 

 

- Una storia leccese -

 

Eccomi, allora, a considerare quella sensazione di fastidio che mi davano:
le piastrelle del pavimento della stanza da letto, che erano scoppiate, proprio nei punti dove il passaggio era obbligato
lo stare in ufficio con le mani in tasca, a guardare fuori dalla finestra, senza decidermi a far nulla, praticamente senza prospettive anche perché in tasca avevo uneuroecinquantacinquecentesimi
quello che aveva detto lo stronzo che non mi aveva trovato, aveva lasciato un messaggio alla segretaria "poi voglio prendermi un caffè col vostro direttore. Diteglielo" e tutto perché non era andata proprio come voleva lui, mi aveva fatto spendere un sacco di soldi lui e quell’altra troia che parlava in modo affettato, dottore di qua, dottore di là intanto ti sparavano sempre certi prezzi che sembravano fatti apposta per allontanare chi avesse voluto, eventualmente, comprare qualcosa.

Poi l’altro imbecille che non mi aveva voluto cambiare la videocassetta difettosa, mi aveva liquidato con due parole "no, no, non è possibile", come far intendere la ragione a chi sembrava fatto apposta per non capire, per non voler accettare le mie ragioni che
e, da ultimo, c’eri stata tu che mi avevi mandato quella lettera. Io non sapevo che tu potessi, volessi scrivere. Basta telefonare. E invece no, mi mandi una lettera e mi dici, con qualche giro di frase, qualche amarognola pilloletta da ingoiare e a cui non si può replicare, mi dici, va bè, adesso basta, la finiamo di scherzare e facciamo finta che.

Finta che cosa, ma chi, era logico che strappassi la lettera e mi rimettessi a guardare fuori, le macchine che passavano, qualche bella ragazza che si affrettava sotto la pioggia, come sembrava già lontano quel mondo della mia situazione dei punti da 1 a 5, ricordiamola questa cosa; nel futuro, cambiati i punti, potrò esclamare: come sembra vicino quel mondo eppur così distante. Capito il meccanismo? Prima lontano poi vicino, vabbè, vabbè, lasciamo andare.

È allora che si apre la porta ed entra l’usciere.
Anzi, entra Franco, che non sembra proprio un usciere, io non mi abituerò mai a chiamare e pensare nei termini di "usciere, applicato, coadiutore, commesso"; Franco è Franco, lui dice: "Nà, vedi, c’è questa lettera per te, e poi hanno detto se notifichi quest’atto". Io m’incazzo subito, non mi tocca notificare, e poi fuori piove, ho da leggere questa lettera, lo so che è tua, chi può mai scrivermi in ufficio, "vai, vai che serve subito" mi dice Franco, io metto il cappotto, prendo la tua lettera, la metto in tasca e guardo la notifica. Devo andare in vico Storto Carità Vecchia o vico Vecchio Carità Storta, possibile, possibile che nella nostra città esista tale nome? Esiste, è proprio in centro, in Piazza Sant'Oronzo, a quattro passi, prendo l’ombrello e m’incammino, la vittima è Greco Annalisa, anni 38, che avrà fatto mai? Leggerò lungo la strada.

Passo affianco all’Arco di Porta Napoli, una sbirciata ai giornali che stanno in esposizione, di fronte all’edicola, c’è la Gazzetta, il Quotidiano, Corriere dello Sport, La Repubblica, ma piove, hanno messo un po’ di plastica trasparente sui fogli, non si vede bene, appaiono frammenti di notizie tipo "l’Inter s’interroga", "Al Senato la Finanziaria", "Caos nel traffico". Ho l’ombrello, la notifica arrotolata in mano, cerco di aprirla, tenendo in bilico il parapioggia, ci riesco, dunque l’Annalisa, anni 38, gestisce un distributore di carburanti. Recita allora l’atto che io sono curioso di leggere perché mi affascina quel linguaggio stantio e burocratico, pare di vedere l’impiegato con gli occhiali a stringinaso e le mezze maniche, che stende una serie di frasi già collaudate e stereotipe che hanno la funzione principale di intimorire e far preoccupare, per la loro misteriosa oscurità chi, a digiuno completo di leggi e cavilli, magari ancora pensa che sia facile giustificare una richiesta di esorbitante pagamento ope legis. Piove un po’ meno, ma le auto inzaccherano e costringono ad uno stare all’erta continuo: allora, io devo contemporaneamente tenere l’ombrello, sbirciare l’atto da notificare, cercare di ripararmi dall’assalto delle auto fangose, ricordare che devo percorrere tutta via Palmieri e, di sfuggita, pensare anche ai casi miei (vi ricordate i punti dall’uno al cinque? lo stronzo, la tua lettera, la sensazione ricorrente di fastidio), ma scusa, mi dico, perché perdi tempo con questa cazzata di pappardella burocratica e non leggi la lettera, certo più interessante di questo che scrive, ad esempio: "avendo la prefata ditta disatteso in toto a quanto richiesto", e più avanti "dal riscontro dei dati contabili con le reali rimanzenze (sic!) di carburanti, effettuato dai procedenti alla verifica è emersa una deicienza di litri 909 di benzina..." Le parole ‘prefata’ e ‘deicienza’ sono vere perle che meritavano una sosta. Mi sono fermato, infatti, in Piazza Panzera, dove c’è l’anagrafe; poi ho ripreso il cammino, vado verso il Corso, l’ombrello in mano, il rotolo umidiccio, sguardo alla Perry Mason, l’impermeabile tipo Colombo, in realtà un poverocristo alla ricerca di Greco Annalisa, anni 38, titolare dell’omonima ditta corrente in Lecce, in atti rappresentata da: Greco Annalisa, anni 38, residente a Lecce, al vico Storto Carità Vecchia nella sua qualità di: titolare.

È un cerchio vizioso, dice e non dice, però questo fatto che si tratti di una donna mi ha incuriosito, vedere e sapere chi è, come è, magari è simpatica magari….si, lo so è la solita filosofia del maschio stupido, però bisogna aggrapparsi a queste cose, a questi aspetti di sorpresa e di piacevole attesa, sennò va a finire tutto così, un grigio costante che ti affossa, poi magari la Greco è una virago scostante e antipatica oppure non c’è neanche e bisogna notificare alla sorella, alla madre, al marito, al figlio maggiorenne capace e convivente, incaricato e

Ho terminato di percorrere via Palmieri, ho girato a sinistra, mi sono fermato davanti alla vetrina della gioielleria Vitti, scegliendo mentalmente i regali: questo per la tale, questo piacerebbe a te, no, quest’altro è meglio. Poi ho guardato la vetrina di fronte, quel negozio di abbigliamento che ti piaceva tanto, non hai detto l’ultima volta, se potessi comprerei da questo negozio e io ti ho presa in giro, fingendo di non capire:

"Come, compreresti il negozio?"

"Eh, magari", hai risposto tu.

Mi sono accorto, allora, che stavo pensando a te.

Non dovevo farlo, mi ero riproposto di cancellarti e, invece, quanto era durato il (buon) proponimento? Poco, troppo poco. Mi era completamente passata di mente la tua lettera che avevo in tasca e, ancora intonsa, chissà che notizia aspettava di darmi.
No, diciamola questa verità: io avevo deciso di finirla, con te, che non riuscivo ancora a decifrare, a comprendere, mi sembrava che, comunque, mi avresti creato un sacco di difficoltà, di casini. E se pure mi attirava l’idea di essere più coinvolto in questa storia, temevo e non sapevo.
Ecco, ero proprio raffigurato nel migliore dei modi, adesso che stavo lì, impalato con l’ombrello in mano, a guardare un manichino esposto in una vetrina del centro, senza saper cosa fare.

La notifica, quella era l’importante, adesso, l’unica prospettiva, altri obiettivi non ce n’erano, sembra strano anche a me, ma quell’atto con le deicienze e con "ampie riserve di rimuovere ulteriori rilievi" (ma i rilievi si muovono o si rimuovono? mah!) finiva per essere l’unica cosa importante, fondamentale del momentaneo mio procedere in una direzione. Dal corso, ho girato in via Arcivescovo Petronelli; non pioveva più, l’ombrello l’ho chiuso e adesso mi dava più fastidio di prima: come lo porto, appeso al braccio ripiegato, tenuto per il collo, a bilanciarm? Insomma, il problema non era da poco. E poi, cadevano ancora goccioloni, certo dai balconi della città vecchia più che dal cielo salentino rasserenatosi un tantino, ed era una tradizione inspiegabile che detti goccioloni finissero tra collo e colletto ovvero in bilico sulla parte superiore degli occhiali, pronti a scivolare mollemente nell’interno della lente.

Nei punti più fastidiosi, insomma, ci siamo capiti. La notifica l’avevo messa in tasca, perché non si bagnasse e l’ho tirata fuori per leggere di nuovo quello strano indirizzo: mi serviva il numero, un Vico Storto avrà più case, a che civico sarà la Greco Annalisa? Ve l’ho detta la storia dei goccioloni, non mi meraviglio più della protervia e della programmata perfidia di queste bombe d’acqua dotate di sesto senso. E infatti non ne sono finiti due - proprio due, uno affianco all’altro - sulla notifica, a coprire, stingere, occultare, cancellare il numero che m’interessava? Ora, il danno non era poi molto, l’avrei comunque trovata questa persona, ma il problema era che la Greco Annalisa sarà stata sicuramente sposata: e, come buona norma delle famiglie leccesi, propriamente residenti nel centro storico, sull’uscio di casa vi sarà il solito cartoncino stinto col cognome del solo marito. Illusorio aspettarsi qualcosa d’altro.

Ho riposto la notifica in tasca, adesso basta, inutile tirarla fuori con i goccioloni appostati, e ho deciso per l’ombrello: l’ho impugnato per il manico e ho iniziato a giocare, mirando alle pietroline, ai ferri che, ancora, proteggono i palazzi signorili dalle carrozze, mirando al centro dei tombini, insomma mi son dato un atteggiamento e ho svoltato a sinistra, all’altezza di Andretta; ho quasi sbattuto con una che aveva un profumo diverso dai soliti, probabilmente Samsara o qualcosa di simile, no, non era il tuo profumo, era diverso ma c’eravamo ancora, pensavo a te, al tuo profumo, avevo la tua lettera in tasca, e meno male che avevo deciso di non pensarti più, di cancellarti dalla mia vita, dopo la precedente missiva in cui mi dicevi, va bene, adesso basta, facciamo finta che. Tu dicevi a me adesso basta. E poi, come se non bastasse, mi facevi avere quest’altra lettera, se sono un uomo adesso la strappo in mille pezzi, proprio qui, in mezzo alla strada. Dopo, va bene, la strappo dopo, prima la notifica e poi la strappo senza aprirla.

Mi sono fermato in vico dei Marescialli, davanti all’inferriata che dà sul Teatro Romano, ho appoggiato l’ombrello ai ferri arrugginiti e ho tirato fuori la busta di tasca. Incollata, senza particolari segni di distinzione, ma dentro c’eri tu, chissà cosa volevi dirmi, altre insulsaggini, certamente, rigirare il coltello nella piaga non era la tua specialità? Meno male che ho deciso di strappare la lettera senza leggerla e di buttarne i frammenti giù, nell’antico teatro, completamente in rovina, non ci sono più neppure i gatti, eppure mi pare di risentire le tue parole, il tuo accento ironico e sprezzante: "tanto non lo faresti mai, la curiosità sarebbe troppo forte per te", è proprio così, non sarei capace di un gesto così lontano da come sono io, e allora cosa ci faccio davanti a questa inferriata, l’ombrello in bilico che sta per cadere giù, una lettera senza mittente in mano, una notifica in tasca, sempre così la mia vita indecisione voglia di fuggire di abbandonare tutto e tutti, incapacità di fare qualcosa senza pentirsi. Ho ripreso l’ombrello, ho rimesso la tua lettera in tasca e mi sono avviato verso il vico Storto, è qui a due passi, Annalisa a noi due.

Ho trovato subito un portone con la saracinesca abbassata. Una bella saracinesca verde, dipinta da poco, che contrastava con i muri sporchi e consumati, tutt’intorno. Qui non è, non può essere, mi sono detto e ho varcato il primo portone, un andito buio con scale a destra e sinistra. C’erano delle buche per le lettere, una diversa dall’altra, attaccate al muro in maniera precaria. Che dicevo? i cognomi illeggibili, sulle buche, fogliettini di carta scoloriti e ragnatele, polvere, l’idea che la corrispondenza non fosse poi molta, in quello stabile. Non si sentivano rumori, anche il traffico sembrava irreale, la presenza, là fuori, di una piazza centrale e popolosa era addirittura inconcepibile, un po’ di puzza di gatto, questo si, e quell’atmosfera di voluto nobile abbandono che fa così belli i palazzi della vecchia Lecce. Ho detto nobile, c’era qualcosa di nobile in queste scale che salivano senza sforzo, allargandosi in curve ampie che parevano destinate ad una sosta, più che ad una rapida ascesa. Ho visto due porte, sul pianerottolo, una lontana dall’altra, ai due estremi del ballatoio, proprio dove finiva la scala. Cenni di vita evidenti non ce n’erano: però l’occhio osservatore di Sherlock Holmes avrebbe notato: niente polvere sui pomi o battenti della porta; serratura lisa e consunta, lucida; una piantina in buone condizioni vicino alla porta; un niente, un bagliore, un attimo di biancheggiamento sotto lo stesso uscio, vicino al tappetino. Targa col cognome, neanche a pensarci, ho suonato ma non mi ha aperto nessuno. Allora mi sono abbassato e ho tirato fuori il foglietto bianco che occhieggiava da sotto l’ingresso. Non c’era l’indirizzo, niente di niente: avrei potuto sapere chi abitava là e comunque adesso sapevo che, sicuramente, in quell’appartamento abitava qualcuno. La curiosità di sapere cosa c’era scritto in quel bigliettino era, però, troppo forte. E allora io, persona fondamentalmente onesta e timida, ho fatto una cosa che non so spiegarmi: ho preso il bigliettino e l’ho messo in tasca. Poi, sono andato alla porta di fronte e ho suonato a lungo. È venuta ad aprirmi subito una che mi sembrava di avere già visto.

- Ciao, mi ha detto subito sorridendomi, vieni, entra, cosa è successo?

Io ero stato già in quella casa o no? Possibile che non riuscissi assolutamente a ricordare neppure lei, non era male adesso che mi precedeva e ancheggiava un pochino, vieni siediti e raccontami, posso offrirti un cioccolatino.
La sala era grande, c’era un divano chiaro al centro e mobili tutt’intorno. Lei si è seduta al divano, dovevo per forza sedermi accanto, ha notato la mia esitazione io cercavo un altro posto dove sedere, come, non vuoi sedere più affianco a me, dai stupido, non avere paura, non c’è nessuno, stai tranquillo.

Sono andato automaticamente alla sua mano sinistra, l’anello c’era, era sposata allora; ma chi…

- Lo sai, ti trovo cambiato, non molto, ma in maniera sostanziale.

Tu no, sei sempre la stessa, ho azzardato.

Si è messa a ridere, ha accavallato le gambe, ha fatto due o tre smorfiette. Poi mi ha chiesto: ma tu, allora, non sei venuto a trovare me.

No, si, cioè, veramente cerco una persona che abita qua vicino e allora ho pensato che

Già, già, interessato come al solito: e chi è questa persona?

Greco Annalisa, anni 38, ho risposto automaticamente.

E lei è impallidita.

Quella puttana – ha detto – la conosci anche tu.

- No, proprio perché non la conosco chiedevo se tu

- Abita di fronte, ma non c’è mai. Se la vedi capirai perché.

- Va bene, ma tu adesso che fai

- Cosa vuoi, niente, mi sono sposata, sto qua, mi annoio, ogni tanto capita che

Mi ha guardato, tacendo

Io ho finto imbarazzo, ho abbassato gli occhi, mi sono guardato le mani, i pollici martoriati perché spesso intervengo sulle pellicine laterali, fino ad insanguinarmi e non riuscire a tamponare l’insistente uscita del liquido rosso.

E ho riaperto una recente, piccola ferita, riportando il dito alla bocca e guardandola con gli occhi spenti.

- Scusa, hai dell’alcool – le ho chiesto – sai, vorrei disinfettarmi

- Ma certo, aspetta, vado a prendertelo, ha detto lei e si è allontanata veloce.

Che faccio, vado via, è stato il mio primo, unico impulso e mi sono alzato in piedi, mettendo le mani in tasca. Ho ritirato subito fuori la mano col sangue, l’ho riportata alla bocca e ho fatto un passo verso la porta, proprio mentre rientrava lei. Me la sono ritrovata tra le braccia, calda, invitante, lei ha detto solo: Vieni, stronzo e mi ha portato di là.

(Un’interruzione: Ma non si era stabilito, non si era detto che questo andava evitato, per carità, neanche a pensarci, la vicenda si snocciola linda e sicura per le strade di Lecce, io vado a fare questa notifica, i pensieri, le congetture, qualche incontro, nulla di più, un po’ di attesa per due argomenti: la lettera e la Greco Annalisa, cioè cosa c’è scritto nella lettera e, quindi, cosa sarà di questo strano rapporto che non si è capito bene cosa sia, e poi com’è questa che scrive le lettere e com’è che vi siete conosciuti, cosa è successo fra voi due, insomma, tutto questo è storia da raccontare, il lettore è curioso, vuole un intreccio, dei personaggi, e noi dobbiamo darglieli.

E poi questa Annalisa che abita in pieno centro storico, una posizione invidiabile, pensate, a due passi da Piazza S. Oronzo, a contatto di tutta la città vecchia e, soprattutto, la possibilità, dalla terrazza o da una finestra interna, al primo piano alto, di veder svettare il campanile del Duomo, circondato dalla casbah delle costruzioni in pietra leccese, un alternarsi di colori cangianti, a secondo di come vengono illuminate dal sole, la Greco Annalisa avrà guardato questo campanile e cosa avrà sentito, commozione, speranza, indifferenza, ci serve per capire com’è questa donna di cui conosciamo i dati ufficiali ma non sappiamo nulla di ciò che veramente importa.

Eppure le interruzioni, le postille, i rimandi, le annotazioni servono. Chiedetelo ai registi, ai romanzieri, ai compositori, sono tanti i marchingegni utilizzati per prendere fiato, ma la realtà è che bisogna, ogni tanto, fermarsi a pensare, prima di riprendere, prima di ricominciare da dove ci eravamo fermati).

Lei adesso stava su di me, aveva gli occhi socchiusi, un ansito che si trasmetteva, come un tremolio, per tutto il corpo. Io sentivo che stava per esplodere, era proprio sulla soglia di un piacere che avevamo preparato ed evocato assieme. Insomma, le stava piacendo, ed io avevo volutamente smesso di toccarla, di eccitarla, perché si concentrasse ancora di più sull’approssimarsi di quel momento che l’avrebbe fatta gemere e che sarebbe stato completato dal suo stringermi e mordicchiarmi l’orecchio. Il fatto è che io stavo pensando alla lettera, che era nel cappotto, vicino all’ombrello. Possibile che, proprio in certi momenti, si possa pensare ad altro, la mente pare proprio distaccarsi dal corpo, lei stava miagolando tutto il suo piacere e io pensavo ad una insulsa, ridicola busta bianca che, probabilmente, non mi avrebbe detto proprio nulla di interessante, una volta aperta.

E allora, apriamola questa lettera, adesso, subito, senza aspettare ancora, diventa una necessità impellente che va soddisfatta subito, questa si sta già soddisfacendo per fatti suoi, beata lei, riuscirò a divincolarmi senza parere, senza destare sospetti, vado al bagno, no? e mi porto la lettera, la apro, la leggo, la posso anche buttare via, con calma, hai aspettato tanto, potrai adesso attendere qualche minuto, che questa si calmi, macché, pare proprio non avere alcuna intenzione, anzi

Ma io come sono capitato qui, e chi è, come si chiama l’agitatrice, finalmente si sta calmando, e come faccio a sapere che adesso mi stringerà e mi mordicchierà l’orecchio, in effetti lo sta facendo, ma allora ti conosco mascherina, mi ricordassi almeno il nome, come si chiama, chi è, l’unica cosa che mi interessa adesso è la tua lettera, ti piacerebbe sapere che sto pensando alla tua lettera mentre sto con, con, con questa che

La verità è che io non sapevo cosa fare: avevo problemi in tutto e nessuno che mi aiutasse, nessuno che mi prendesse e mi dicesse, allora adesso tu fai così e così. Io, si, sapevo che bisogna decidere da soli, almeno si sbaglia e s’impara per la prossima volta, infonde fiducia decidere comunque, credere in qualche cosa, seguire la propria indole e il proprio sentimento. Ma come si fa: quando, ad esempio, ci sono fatti non sempre chiari e che non paiono poter essere risolti se non a costo di rinunce sempre più gravi. Allora, che si fa? Ditemelo voi che sapete, dimmelo tu che hai le idee chiare, sai sempre cosa dire, non pare proprio che ti vengano dubbi, perplessità e comunque se le hai le nascondi, fai il cipiglio e la smorfietta da dura e mi fai sentire uno stronzo, con i miei problemi eterni, i tentennamenti e gli alti e bassi che caratterizzano la mia attuale esistenza. Un periodo, no, un’era mi sembra questa che non fa altro che pesare e richiedere sempre maggiori impegni, decisioni, compromessi, come si fa a essere un pochino sereni se c’è questa che si sta sconvolgendo sopra di me, il tuo pensiero che non so più cosa decidere, la lettera la leggo, cosa faccio, so che se apro la busta poi aggiungo altri problemi ai miei e quell’altra busta che ho preso, perché l’ho presa, cosa dirà quella, la debbo leggere, no?

Non ho detto: scusa cara, vado nel bagno, vengo subito e ricominciamo

Forse ho detto: aspettami, non abbiamo finito

Ma delle lettere, del vero motivo che mi ha fatto alzare e mi ha fatto rovistare nel cappotto, a cercare le due buste, non ti ho fatto cenno.

Non potevo non volevo, ci mancherebbe.

E cosa diceva il biglietto, che ho aperto subito?

Diceva:
Se vuoi vediamoci a mezzogiorno
vico dietro lo spedale dei Pellegrini
Suona tre volte.
……….

Era una porta abbastanza rovinata, a vetri, col cancelletto davanti. Non emergeva tra le altre, tutte altrettanto rovinate e cadenti, solo quella aveva il campanello e ho suonato.

Mi ha aperto subito uno con la barba, gli occhi sfuggenti, abbassati, senti, mi raccomando, ha detto subito, lei è di là, non dire nulla, discrezione e tieni presente che è la prima volta.

Nella stanza c’era solo la luce che veniva dai vetri della porta, coperti da tendine sporche.

C’era un tavolo, un mobile addossato al muro, pieno di polvere, si vedeva che era una specie di deposito di mobili vecchi, passati di moda, non utilizzabili e perciò messi là a riempire, a coprire i muri rovinati e colpiti da umido e salnitro.

Io non sapevo cosa fare: dire tutto, spiegare, oppure cercare di andare a fondo, era un’avventura partita da un misterioso bigliettino che avevo preso da sotto una porta…Insomma, gli elementi del mistero c’erano tutti, ma non mi sentivo per nulla emozionato. Solo curioso, ecco. Senti, lei è molto sensibile a un complimento: dille che è bellissima lì, che ha un vello molto folto, morbido, insomma hai capito, no?

Io non avevo propriamente capito, intuivo qualcosa, quando mi ha fatto entrare, era tutto al buio, solo un po’ di luce che filtrava da uno spiraglio, c’era un letto al centro della stanza, però senza lenzuola, solo i materassi con la plastica ancora attorno, quello con la barba aveva la faccia bonaria, buona, buona, diceva, adesso stai calma.

E questa che si stringeva a lui, aveva una maschera nera sul volto, si capiva che stava già sbirciandomi, dai vieni, mi ha detto la barba, mettiamola a suo agio. Ora, che dovevo fare io, le decisioni si prendono su due piedi, così, seguendo l’intuito, l’istinto, magari viene deciso tutto da un nulla, da un profumo, da una parola, io non volevo essere lì, anche se quella situazione da filmino porno da quattro soldi l’avevo vista immaginata magari sognata ma poi la realtà è diversa, molto diversa, soprattutto io cosa dovevo decidere, continuare questa avventura partita dal fogliettino trovato sotto la porta o lasciar perdere tutto, abbandonare, fuggire via, come sempre ho fatto in vita mia?

E poi, diciamocelo francamente: era la prima volta, sarei stato, eventualmente, all’altezza?

Quell’altro, intanto, armeggiava e stimolava la donna, le sussurrava dai dai vedrai che ti piacerà, lo volevi no, non avevamo detto che

Io ho fatto un passo indietro, in silenzio, ho approfittato dell’oscurità, me ne sono andato pensando a te, alla tua lettera, lo sai che il bigliettino con l’indirizzo ce l’avevo ancora in tasca, l’ho appallottolato, ho preso la mira e ho centrato una pozzanghera. Si, mi sono fermato un attimo a guardare il piccolo involto di carta assorbire l’acqua sporca, lievitare e gonfiarsi. La pozzanghera rifletteva il cielo nuvoloso e carico di pioggia.
………….

Beh, si, ero ancora lì, davanti al portone di Vico Storto, ho salito le scale, lo sapevo che il portone di destra era quello della Greco Annalisa, non ci sarà nessuno, e se succedesse qualcosa, e se apre la porta quell’altra di fronte, una sensazione di disagio mi ha fatto abbassare la testa, ho suonato il campanello, ho aspettato che qualcuno aprisse, non c’è nessuno, e invece sento dei rumori e una faccia conosciuta, con la barba, mi dice si, oh, è lei, prego si accomodi.

Sono entrato e l’ho guardato, lui ha fatto finta di nulla, ha preso la carta della Greco Annalisa, si, si, va bene, posso firmarla io, vero, sono capace e convivente, ha firmato, possibile che non tradisse un’emozione, una occhiata in tralice poteva pure farla, macché, neppure un ammiccamento, non era lui che poco fa, sul letto con la plastica, e quell’altra, dai vedrai che ti piacerà e via di seguito.
Insomma, ricapitoliamo:
mattina, sto in ufficio e viene quello, dice: nà, notifica; esco, piove, trovo la casa, non c’è nessuno, di fronte c’è l’altra che non ricordo come si chiami, ho fatto quello che ho fatto, poi sono andato in bagno per leggere e ho trovato il bigliettino che diceva di andare lì.
Ho trovato una scusa, ero in orario, la destinazione era a due passi, ci sono andato, ho visto quello con la barba e sono fuggito. Sono tornato, la Greco Annalisa, la notifica, mi apre la porta quello con la barba, cioè quello che avevo lasciato con una donna che forse era lei la Greco e il bigliettino? E poi non una parola, niente di niente, insomma a che gioco giochiamo.

Va bene, stavolta l’ho detto io; buongiorno.

Buongiorno, arrivederci ha detto lui ed è stato – forse – l’unico accenno ad una complicità, ad un invito molto cauto, volessi casomai, l’indirizzo lo sapevo.

Mi sono trovato sul pianerottolo, l’ombrello in mano, le idee confuse, si va bene, è ora di leggere questa lettera qui, sulle scale, per strada, dove capita, mi accompagna da stamattina, ho aperto la busta e ho letto.

La lettera

Ricordo quando, da ragazzina, mi capitava di passeggiare la sera e, guardando le finestre illuminate delle case, ne ricavavo un senso di felicità che quasi invidiavo, non riuscivo a immaginare che dietro quelle luci ammiccanti ci potesse essere gente infelice ecc.;
sono poi ancora in grado di ricordare quel senso di insopprimibile necessità che ti invade allorquando un desiderio ti prende in maniera tale il cuore e la mente da farti pensare che esaurendo quello null’altro potrai desiderare con la stessa intensità e pertanto il "cielo potrebbe anche esaudirti"! Ma ora sono grande: le finestre illuminate non mi suggeriscono più illusioni di felicità e soprattutto so che un desiderio soddisfatto apre la strada ad altri ugualmente intensi e apparentemente improrogabili.

Tutte queste premesse per riprendere il nostro discorso interrotto circa il dove va il ns rapporto e come "gestire" le mie voglie; ho riflettuto intanto sulla vera natura di queste ultime e penso che non siano in realtà soli e semplici desideri di maggiore intimità fisica ma piuttosto voglia di "amoreggiare" in senso più lato: voglia di telefonarti e chiederti se mi pensi ( se lo faccio ora, dopo ne ricavo una sensazione quasi di ridicolo) voglia di andare a passeggio con te, voglia anche di stare sola con te senza patemi d’animo e senza sensi di colpa (non te l’ho mai detto? Una delle cose che m’incanta di te e mi fa tenerezza è questa tua capacità di parlare di tutto senza pudore, senza dare nulla per scontato, sia per quanto riguarda me e noi sia soprattutto per quanto riguarda te stesso).

Ora dimmi tu: tutto questo è mai possibile? Non è dunque il problema di trovare una tantum l’occasione di stare più tempo insieme, ma che non voglio ora fare di una eventuale esigenza sessuale la giustificazione e la chiave di volta di una vera e propria relazione (parola abbastanza disgustosa).

Cos’è successo, all’improvviso. Che questo mi chiama e mi dice siediti, senti dobbiamo parlare. E io ho capito subito ahi ahi guai in vista, che è successo, cosa ho fatto, ho chiesto subito

No, no niente, tu non hai fatto niente, ha detto lui

E’ questa la colpa, allora? ho chiesto io sicuro che avrebbe chiesto: cosa?

Cosa? ha domandato subito.

Cristo, mai un avversario degno di tal nome, tutti uguali, eppure proprio a questi è demandato il compito di decidere, di giudicare, di chiamarmi e dirmi vieni, vieni dobbiamo parlare.

Io lo sapevo cosa voleva: cose stupidissime, ragionamenti scontati, sciocchezze che non valeva neppure la pena di affrontare; fastidi, però. Momenti di sofferenza reciproca, lui che mi diceva, io che ascoltavo, lui sapeva che io non avrei potuto risolvere i suoi problemi, chi avrebbe, del resto, potuto risolvere i miei? Nessuno, anche perché io non volevo che fossero risolti. Non me ne fregava nulla: volevo solo stare lì, a sentirlo, e giocare con lui, dialetticamente, non avevo nulla da perdere anzi, si, lui mi aveva chiamato per dirmi che me ne sarei dovuto andare, cosa me ne fregava se io ero arrivato alla stessa decisione, già da tempo, e aspettavo solo che fosse lui a dirmi "parliamone". Allora, i fatti erano andati così:
che avevo letto la tua lettera e avevo cominciato a pensare, come sempre indeciso sul da farsi, risponderti, lasciar perdere, buttare via tutto e far finta di niente. Poi, ero arrivato in ufficio e mi avevano detto subito: vai, vai, il direttore vuole parlarti. Cioè, guai: perché quando mai un direttore vuole parlarti per dirti qualcosa di buono?

Ecco cosa c’era: e io che pensavo sempre a cosa avrei dovuto fare per questa tua lettera: rispondere?

E lui parlava, parlava, va bene, me ne vado, non ti preoccupare, cosa vuoi che me ne freghi delle tue ragioni, dei tuoi palesi tentativi di indorare la pillola, di accontentare altri sulle mie spalle

- Va bene, allora, ci vediamo
mi sono alzato, gli ho dato la mano, lui è rimasto a bocca aperta, la frase a metà, non saprò mai di cosa stava parlando, però è bello così, l’avrà capito che non me ne fregava nulla di nulla, che avevo altro per la testa, avrà mai risposto a una lettera che
Greco Annalisa, aveva nominato la Greco Annalisa, fu come un attimo ma mi parve proprio di sentire

- Che è successo alla Greco Annalisa? ho chiesto

- Ti sei svegliato, allora, ti decidi ad ascoltarmi, ritorni tra noi mortali?

- Che è successo con la Greco Annalisa? ho ripetuto

- La tua notifica, a chi l’hai notificata quella carta?

- Alla barba, l’ho notificata a uno con la barba

- E non hai chiesto chi era

- Non precisamente, è un incaricato, facciamo così, no, quando non vogliamo entrare troppo nel merito. Come si fa a dire che uno è l’amante, un amico, si scrive ‘incaricato’ e lui firma, nome e cognome

- Va bene, e poi

- E poi niente, sono tornato, la notifica ce l’ho ancora in tasca, tieni, guarda
Ho tirato fuori il foglio, un po’ spiegazzato, e glie l’ho dato.

- Appunto, come sospettavo, leggi tu stesso

Mi ha restituito la notifica notificata e ho riletto quello che c’era scritto, l’avevo scritto io, c’era poco da fare: l’anno ecc. ecc., addì in, io sottoscritto ho notificato il presente avviso a – chiaramente – Greco Annalisa nelle mani di Quarta Mario nella sua qualità di incaricato che ha sottoscritto. Aveva, infatti, sottoscritto, firma leggibile, cos’è che non andava?
Allora, poteva essere che quella persona che aveva firmato non c’entrava niente e avesse dato un nome fittizio, io non avevo controllato, non avevo chiesto un documento, ero in un casino che non potevo spiegare perché non avevo chiesto niente, per ovvie ragioni, dovevo raccontare i fatti occorsi con il bigliettino e la barba che ci fosse qualche altro fatto che adesso mi stava sfuggendo ma sicuramente grave, sennò come avrebbero fatto ad accorgersi che che, per qualche via traversa a me completamente sconosciuta, il direttore sapesse tutto e volesse chiedermi non è che era proprio lui direttamente coinvolto, coinvolto in cosa, poi?

Insomma, l’ho guardato con la faccia da pesce, ovvero, mi dici dove vuoi arrivare, e ho atteso.

- L’avvocato, l’avvocato Quarta Mario, la barba, come dici tu, mi ha telefonato poco fa. Forse non lo sai, ma quello è uno di quei deus ex machina sempre vicini a giudici, politici, insomma uno importante, molto importante. E mi ha detto che tu non ti sei comportato bene con lui. Non solo, ma che vuole impugnare la validità di un atto notificato in questa barbara maniera da un – scusa, eh, ma sono parole sue – incapace maleducato. Insomma, sono riuscito a blandirlo, adesso dipende da te, ti aspetta subito, questo è l’indirizzo, mi raccomando, non fare lo stronzo, vai subito e risolvi ‘sta benedetta faccenda.

E mi ha passato un bigliettino, un appunto su un pezzo di carta.

Scommettiamo che c’era scritto: Vico dietro lo spedale dei Pellegrini. Infatti, c’era scritto.

Dunque, adesso dovevo fare "il mio dovere". Ovvero tornare sui miei passi e riprendere tutto da dove avevamo interrotto. Oppure, oppure non so cosa si poteva fare: parlare con la barba, fuggire, sempre fuggire, e poi affrontare le conseguenze con giudici, avvocati, magari dover spiegare davanti a un magistrato tutta la storia del bigliettino sotto la porta, della notifica, un casino terribile che nessuno avrebbe compreso. E la tua lettera, poteva finire agli atti, a mio carico come elemento della difesa, mah! a questo punto meglio, molto meglio affrontare il toro per le corna, cosa ci avrei perso, c’era quella con la mascherina nera, dovevo dirle che mi piaceva com’era fatta lì, un’oretta, anche meno, tutti soddisfatti, magari ci saremmo anche rivisti dopo.

Mi sono avviato, ancora una volta, stesso itinerario, stesse vie, pensieri simili ma, predominante, l’idea di cosa avrei trovato quando avessi suonato (tre volte) all’indirizzo conosciuto.

Era ormai pomeriggio inoltrato, diciamo sera. Una serata bellissima, l’odore della pioggia era dappertutto, le luci si riflettevano nelle pozzanghere, la conoscete, insomma, Lecce di sera, quando ha finito di piovere, passata è la tempesta, riprendono i ritmi normali, non c’è qualcosa che ispira gaiezza, felicità, voglia di fare, in serate così? Io avevo da risolvere questo fatto, in se non particolarmente grave. O sì. A questo punto, tanto per cambiare, non sapevo cosa pensare. È stato allora che mi è venuto in mente di telefonarti.

Senza sapere neppure cosa dirti, così, per sentire la tua voce, per dirti cosa non lo so, fatto sta che l’odore della pioggia, probabilmente, ha acuito il desiderio di sentire la tua voce. O, meglio ancora e più probabilmente, volevo un segno, un’indicazione per quello che doveva succedere, e mi sembrava che solo tu potessi darmelo, questo segno.

Allora, ho fatto il numero, e ho aspettato.

Ma tu c’eri, non c’eri, avresti riattaccato, avresti
C’eri.

- Ciao, ti ho detto subito, fingendo indifferenza, lo sai che ho appena finito di leggere la tua lettera?
- Ah, adesso l’hai letta?
Mi sono accorto di aver fatto una gaffe e ho corretto subito

- L’avevo letta stamattina, adesso l’ho letta ancora. Ho passato la giornata a leggere la tua lettera, va bene

- Si, si, scherza, hai ragione di scherzare, tu

- Senti, volevo dirti una cosa

- Che cosa, dimmi

Ecco adesso veniva il bello, che cosa le avrei dovuto dire, come coinvolgerla, come farle capire che dovevo andare (dovevo? dovevo, si) a suonare tre volte e mi avrebbe aperto quello con gli occhietti furbetti, mi raccomando, avrebbe detto, dille che è fatta molto bene lì, potevo dirti tutte queste cose per telefono, avresti capito?

- Sei libera stasera, voglio dire, ci vediamo più tardi?

C’è stato un silenzio, insolitamente lungo, ho temuto/sperato che tu avessi riattaccato.

- Va bene, hai detto in un soffio, e non hai aggiunto altro.

Come volevasi dimostrare: il segno l’avevo avuto, adesso ero io che dovevo interpretarlo.
Sono arrivato alla stazione: oh questo posto sempre presente, sempre legato a qualsiasi episodio che inizi e che termini, presente anche in sogno con le sue simbologie, la valigia, l’odore del treno, gli incontri casuali, una parte di noi che è lì, sempre presente, ma che ci coinvolge soltanto ogni tanto, quando finisce per diventare momento fondamentale della nostra vita. però, stavolta, ci sono arrivato a piedi, vicina abbastanza com’era da dove stavo io.

Da Piazza Sant’Oronzo, mi sono addentrato nei vicoletti del centro, percorrendo a ritroso (simbologia? no, soltanto necessità di raggiungere un punto percorrendo un tragitto logico) le vie frequentate la mattina. Sono passato davanti al Vico Storto, ho girato a destra, ho percorso tutta la via degli Ammirati, sono tornato a rivedere i ferri arrugginiti che danno sul Teatro Romano, dove volevo strappare la tua lettera.

Ho girato a sinistra, ho percorso tutta via Paladini e via Cairoli.

Sono sbucato sul viale Gallipoli, ho attraversato ed ecco qua, di fronte, la stazione.

Prima di decidere gli ultimi particolari, ho fatto un’altra telefonata. Anzi, diciamo la verità: ho infilato il gettone nell’apposita fessura, ho composto il numero, ho atteso che la voce dicesse "pronto" e poi ho riattaccato. Nient’altro.

Poi ho fatto il biglietto, mi sono avviato al binario numero 3 e sono salito sul vagone, ho trovato il posto che cercavo, verso il centro, e mi sono seduto.

Adesso, iniziava un’altra storia.

 

 

  

 

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