Empiria alla rovescia

 

di Pierrette Lavanchy

 

 

In una novella di André Maurois, Le peseur d’âmes, ripresa recentemente dal cinema, era questione di uno scienziato che pretendeva di misurare sulla bilancia, ponendoci i moribondi, il peso dell’anima al momento delle sua dipartita dal corpo. Il Convegno del 17 maggio scorso a Firenze, organizzato con grande successo da Salvatore Cesario nella sala immensa, affollatissima, de’Cinquecento a Palazzo Vecchio, si occupava di quantità quasi altrettanto impalpabili, poiché con il suo titolo “Una svolta nella validazione dei risultati e dei processi delle psicoterapie”, si poneva il problema di  misurare l’effetto delle procedure che vanno sotto la denominazione di psicoterapia, cioè “cura della psiche” o “cura dell’anima”.

Anche se il titolo non era in forma interrogativa, i convenuti (rappresentanti di quasi tutte le impostazioni teoretico-tecniche che fondano le pratiche psicoterapiche) erano stati invitati a pronunciarsi sull’esistenza o sulla possibilità della svolta invocata, date alcune premesse ricordate da Salvatore Cesario. Queste premesse si rifacevano, da una parte, alle meta-analisi di Luborsky sui risultati delle psicoterapie e alla sua conclusione che, nella contesa fra le varie scuole, “tutte hanno vinto e tutte meritano il premio” (formulazione che riprende i termini del cosiddetto “verdetto del dodo”, in un passaggio di Alice nel paese delle meraviglie); d’altra parte, alla diffusione, fra gli operatori psicologici, degli Empirically-Supported Treatments o EST, interventi psicoterapici standardizzati, ispirati al modello medico dell’Evidence-Based Medicine. Ora, stando alla prima premessa, se tutte le psicoterapie danno risultati di uguale valore, allora le tecniche specifiche delle singole teorie ispiratrici ovvero dei singoli  <<approcci>>, come Cesario preferisce chiamarli, non sono determinanti; e i successi ottenuti sono ascrivibili a fattori aspecifici, comuni a tutte le pratiche. Ammesso che questo sia vero, su quale base potrebbe il terapeuta scegliere i propri criteri d’intervento? E come potrebbe la ricerca in psicoterapia sfuggire a un pericoloso qualunquismo o, per usare una prospettiva più sofisticata, evitare i rischi dell’anarchismo metodologico all’insegna dell’anything goes?

A questa domanda i trattamenti EST, basati sull’esecuzione di interventi rigorosi, elencati in appositi manuali, sembrano a prima vista apportare una risposta, qualora con il termine di intervento “supportato empiricamente” s’intenda un intervento che poggia sull’osservazione naturalistica di quanto accade nella conversazione fra un paziente e un terapeuta. Il legame con l’esperienza è infatti alla base delle ricerche condotte da Salvatore Cesario nell’ambito dell’Insegnamento di Psicologia Dinamica all’Università di Firenze, come è alla base dell’elaborazione del Dizionario delle tecniche conversazionali da parte del Conversazionalismo all’interno di questa Rivista. Cesario, per quanto lo riguarda, ha sviluppato considerazioni interessanti sul carattere specifico o aspecifico degli interventi. Sostiene che un intervento aspecifico, una volta individuato e descritto, diventa “specifico”, intendendo con questo che acquisisce una valenza tecnica (per esempio il riferimento del terapeuta a un elemento della propria vita diventa specifico quando viene descritto come una tecnica e battezzato “somministrazione di autobiografia”). Viceversa, un fattore specifico di un dato approccio, come è per esempio il transfert per la psicoanalisi, può essere applicato all’interno di una prospettiva diversa e perde quindi la specificità legata all’approccio in questione. Infine Cesario considera anche la necessità d’includere nelle tecniche formalizzate interventi che chiama sui generis, cioè creativi, inventati estemporaneamente da un terapeuta in una data situazione. Seguendo questa linea di pensiero Salvatore Cesario è approdato a una prospettiva <<anti-approccio>> , dove al posto delle <<stelle fisse>> (cioè degli approcci, rappresentati dalle scuole di pensiero con la loro teoria e la loro teoria della tecnica),  il cielo è abitato da <<costellazioni mobili>>, cioè più prosaicamente di <<pacchetti>> di interventi, di cui la ricerca può approfondire il modus operandi, come il nostro Dizionario ha sempre fatto per le singole tecniche. Considerando che anche i fautori degli EST propongono la combinazione di varie tecniche, egli vede nella promozione degli EST una possibilità di sviluppo verso una ricerca non più limitata alla singola tecnica applicata a una microsequenza, qual è la ricerca del Conversazionalismo, ma estesa a più tecniche applicate a macrosequenze. Questa sarebbe la svolta. Ma gli EST sono veramente in grado di garantirla? E qui, Cesario si ferma davanti al dramma aletico di una <<manualizzazione necessaria ma impossibile>>, di una congiunzione cioè di contrari, come sarebbe ~M~p & ~Mp.

Fra i relatori saranno soprattutto Emilio Fava e Paolo Migone a sottolineare gli enormi limiti dell’impresa, analizzando alcuni parametri legati alla metodologia della ricerca nel campo degli EST. Migone si rifà alla differenza tra gli studi sull’efficacia (efficacy), che misurano il risultato di una terapia sotto condizioni controllate e gli studi sulla efficienza (effectiveness), che misurano il risultato ottenuto nella pratica reale. Nella metodologia degli EST, i pazienti vengono scelti per lo studio allo scopo di massimizzare l’omogeneità e minimizzare la presenza di elementi concomitanti che potrebbero aumentare la variabilità delle risposte; le tecniche terapeutiche vengono disegnate per disturbi clinici (nei termini del DSM, detti dell’Asse I: per esempio la depressione e non il disturbo di personalità); le valutazioni del risultato mettono a fuoco soprattutto il sintomo che è al centro di interesse della rispettiva ricerca; le terapie sono di durata breve e prefissata (15 a 20 sedute); vengono seguiti fedelmente manuali di psicoterapia. In altre parole, dice Migone sintetizzando le analisi di altri studiosi, gli assunti sui quali si fondano gli EST sono falsi: è falso che i processi psichici siano malleabili e possano cambiare in poco tempo; è falso che i pazienti nella realtà siano monosintomatici. E’ vero al contrario che esistono forme miste e che i sintomi psicologici sono collegati alla forma di personalità. Inoltre, i pazienti nell’ambito di un esperimento sono disposti a parlare subito del disturbo principale, mentre nella pratica non è raro che i problemi più disturbanti emergano solo dopo molto tempo.

Anche Emilio Fava sviluppa considerazioni critiche sull’effetto legato alle condizioni in cui si svolge la ricerca sugli EST, molto diverse dal contesto reale di una terapia. Per esempio, l’attribuzione randomica di pazienti a terapeuti danneggia l’alleanza terapeutica (manca la scelta reciproca); la manualizzazione limita la variabilità e la flessibilità degli interventi. Fare una “buona” ricerca equivale a fare una “cattiva” terapia. L’aderenza al modello si sostituisce all’aderenza alla realtà, e c’è rischio di confondere ciò che è vero con ciò che è misurabile. In altre parole l’empirìa degli EST è più vicina all’ “esperimento” che non all’esperienza.

Il suo suggerimento è abbastanza vicino alle pratiche del Conversazionalismo: si tratta di vedere come le terapie funzionano, non se funzionano. E’ suggestivo accorgersi che, nelle misurazioni svolte finora, le dimensioni maggiormente correlate al risultato sono la costruzione dell’alleanza terapeutica e la relazione reale tra terapeuta e paziente.

Il Convegno ha pure fornito, oltre alla pars destruens, relazioni che hanno illustrato modi di ricerca alternativi: Saul Sirigatti ha parlato della metodologia Q (Psychotherapy Process Q-sort) adatta per la misurazione del processo (piuttosto che del risultato) psicoterapico in un singolo paziente; Vittorio Cigoli ha presentato le linee di una ricerca sulla psicoterapia di coppie; Giampaolo Lai ha illustrato con un esempio l’indagine logico-modale sintattica sulle microsequenze. Nel pomeriggio, vi è stato un dibattito coordinato da Piernicola Marasco tra direttori di Scuole di psicoterapia dell’area fiorentina: Corrado Bogliolo e Rodolfo De Bernart (indirizzo sistemico-relazionale); Lorenzo Cionini (scuola cognitivo-comportamentale); Antonio Suman (scuola di psicoterapia a orientamento psicoanalitico).

Da tutti quegli apporti, difficilmente riassumibili, emerge una volta di più il senso di estrema complessità del nostro lavoro, dove le stelle polari più o meno fisse che cerchiamo non sono mai visibili direttamente ma solo come riflessi fluttuanti alla superficie dell’acqua. E mi viene di pensare al motto di Paul Valéry: <<Ce qui est simple est toujours faux. Ce qui est compliqué est inutilisable>>.