Pierrette Lavanchy recensisce Insuccessi terapeutici nei disturbi del comportamento alimentare. L’esperienza ci insegna, di Patrizia Todisco, McGraw-Hill, Milano 2003, pp. 293, € 23,00.

 

Il tema degli insuccessi terapeutici pone due problemi a chi intende trattarlo: un problema etico e un problema scientifico. Sul piano etico, richiede l’onestà di esporsi; sul piano scientifico, la chiarezza sul complesso intreccio di fattori che concorrono a determinare il risultato di una terapia e  conducono a valutarlo quale successo o quale fallimento. Patrizia Todisco, iniziatrice del libro Insuccessi terapeutici nei disturbi del comportamento alimentare, mi sembra possedere entrambe le qualità, sia nell’impostazione generale del lavoro, in particolare nell’introduzione e nella conclusione, sia nella parte clinica in cui presenta il racconto di una terapia da lei condotta. Per la costruzione del libro, si è avvalsa della collaborazione di diversi autori, quasi tutti di scuola cognitivo-comportamentale, italiani o stranieri, lasciando loro la scelta di svolgere a loro piacimento l’argomento proposto. Le risposte ricevute le hanno consentito di suddividere il libro in due parti, intitolate rispettivamente, la prima: Il fallimento: una visione d’insieme, preferita (è un caso?) dagli esponenti italiani del campo dei disturbi del comportamento alimentare (sigla:DCA), e la seconda: I casi clinici, scelta dagli studiosi stranieri (da Londra, dal Canada, dall’Australia).

Nell’ambito della visione d’insieme sono raggruppati i contributi della Todisco con Fausto Manara (approccio multidisciplinare, comprendente anche l’indirizzo psicodinamico), che espone il programma di trattamento applicato al Centro Pilota Regionale per lo studio e la Terapia dei DCA di Brescia, e segnala gli errori da evitare in tutte le successive fasi; di Giorgio Rezzonico e Silvia Rinaldi (approccio cognitivo-comportamentale), che descrive l’organizzazione di personalità propria delle persone affette da DAP (disturbo alimentare psicogeno) e indica le possibili strategie per evitare il drop-out; di Fabio Piccini (approccio junghiano), che si sofferma sui problemi del transfert e del contro-transfert nella terapia dei DCA. Senza entrare nel dettaglio mi pare di poter dire che i vari precetti di tecnica sono orientati da due visioni opposte, tra le quali sembrano oscillare, a volte nel medesimo autore: quella secondo cui è “la malattia” che spinge una persona ad agire o reagire in un determinato modo, e quella secondo cui è la persona, malata o no, che agisce o reagisce in una certa maniera. La prima visione giustifica un’adesione ferrea al “contratto”, la seconda giustifica invece la “personalizzazione” degli interventi.

Nell’ambito dei casi clinici, tutti molto istruttivi, Patrizia Todisco racconta una situazione clinica che si è interrotta e analizza i possibili motivi dell’interruzione. Il capitolo, dal titolo Mi sentiva troppo vicina, mette a fuoco un aspetto che viene poi ripreso nel capitolo finale: quello del malinteso fondamentale tra terapeuta e paziente sulle motivazioni per intraprendere la terapia, sulle aspettative verso di essa e sugli scopi che ci si prefigge di raggiungere. La paziente di Patrizia Todisco interrompe al momento in cui sente la distanza relazionale restringersi e la terapia focalizzarsi “su di lei” (come avrà occasione di dire lei stessa alla terapeuta in un incontro successivo). Ora quella “personalizzazione” era proprio ciò che la terapeuta sentiva di dover compiere per <<affrontare il “core belief”>> della paziente, cioè mettere in questione le credenze del tipo: <<io sono “di troppo”, io non sono amabile, io non ho valore>> che guidavano implicitamente l’agire della giovane. Ma, come sottolinea l’autrice, <<sono pazienti che hanno una paura terribile di cambiare perché il significato della patologia e dei sintomi è più ampio di quello di un problema comportamentale relativo a cibo e peso>> (p. 251) ed <<è pericoloso dare per certo che il soggetto malato desideri e accetti gli obiettivi i metodi codificati per la cura dei DCA>>. La conclusione è che il fallimento della terapia è da attribuire in molti casi alla mancata condivisione di aspettative e obiettivi.

Se il terapeuta persiste a credere che il proprio obiettivo coincida con quello del paziente senza accorgersi delle discordanze, è che forse non ascolta, o non recepisce, ciò che il paziente dice. Tale incomprensione ha risvolti diretti sulla formulazione diagnostica e sulla condotta della cura. Gli autori coinvolti nell’elaborazione di questo libro si accordano per riconoscere che le persone incontrate nella realtà non sono riducibili alla relativa semplicità della diagnosi di DCA contemplata nel DSM-IV-TR, ma presentano molti problemi relazionali, familiari, d’identità riconducibili, in termini diagnostici, a una “comorbilità” (cioè a disturbi associati al sintomo alimentare) o, in termini ordinari, a una difficoltà particolare di stare ai giochi del mondo. I pazienti reali sono differenti dai soggetti sui quali sono stati sperimentati i protocolli d’intervento che vanno sotto il nome di CBT (Terapia cognitivo-comportamentale). Senza totalmente ripudiare la codificazione dei metodi e la manualizzazione degli interventi, l’autrice sottolinea la problematicità di adattare i risultati delle ricerche alla pratica clinica e i rischi di un’applicazione meccanica dei modelli standard. In altre parole, preconizza un atteggiamento di “clinico-scienziato”, volto a verificare le indicazioni della ricerca in una continua riflessione sulla propria pratica.