Sergio Corduas: docente di
lingua e letteratura ceca all'universitá Ca' Foscari di Venezia. Laureato
in lingua e letteratura ceca e russa, con Angelo Maria Ripellino. É stato
lettore di lingua italiana all'universitá Carlo di Praga dall'anno 1967 al
1971. Traduttore di alcuni poeti, scrittori e saggisti:
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SEIFERT (nobel 1984)
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HRABAL
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HAŠEK
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LAD. KLIMA
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MUKAROVSKY
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TEIGE
per Einaudi ed e/o.
L'ironia praghese
intervista a Bohumit Hrabal
Secondo lei, che cos'è l'ironia?
L'ironia è un certo tipo di incomprensione che provoca il sorriso, è un
certo tipo di ingenuità, così testarda che non solo è incapace di scoprire
la propria stessa devianza, ma persiste nella stessa direzione, sicché
introduce nella vita - e attraverso la proiezione della vita anche
nell'artefatto - quello scherzo e quel sorriso deformanti che sono anche
l'essenza del grottesco.
Questo significa che Chaplin
per esempio è ironico?
Sì. Il suo sottotesto è sempre il contrario della vita biologica e
sociale, che intende decomporre.
L'ironia di Chaplin abbandona sempre, senza motivo alcuno, tutti i
fondamenti psicologici e sociologici del proprio essere, e viene così a
trovarsi inconsapevolmente in una situazione conflittuale. Questa
non-coscienza della situazione porta in gioco il riso da parte
dell'osservatore. Nell'intimo del soggetto che agisce si tratta sempre di
una tragedia, che può anche nascere dal mero fatto di esistere.
In più di un incontro, lei ha
parlato di "ironia praghese". Può definirla?
L'ironia prettamente praghese è una tipica espressione della mentalità di
Praga, considerando Praga la capitale della provincia centroeuropea nella
quale convivono da alcuni secoli l'una accanto all'altra tre nazionalità,
Cechi, Tedeschi e Ebrei, i quali hanno i propri centri, milieux, teatri,
giornali, e quindi una propria coscienza. Da un punto di vista sociologico
è un trauma, ma dal punto di vista dell'arte nasce da questo incrocio un
clima, un terreno favorevole alla letteratura. Dopo il 1945, questo
incrocio è stato abolito, quindi si può parlare di ironia praghese
soltanto come storia. I suoi due interpreti sono Jaroslav Hašek e Franz
Kafka. Emanuel Fynta ha mostrato che la grande letteratura è sempre nata
là dove si incrociavano almeno due coscienze linguistiche, Odessa,
Leningrado, Praga, Trieste, Zurigo, Parigi. Ma restiamo a Praga...
Si. Qual è allora l'essenza
di questa ironia praghese?
Frynta ha scritto un libro su Hašek e Kafka e ha documentato il testo con
alcune decine di fotografie tratte dalle strade e dalla vita di Praga,
cioè della città dove poterono farsi valere questi due geni. Scelse il
metodo del confronto fotografico, contrapponendo sempre due foto della
stessa città, ma di ambienti diversi, così di fronte alle catapecchie
della periferia praghese e alla gente che abitava lì, c'è il corso
Ferdinando; di fronte alle stradine del ghetto, la pompa del Corpus Domini
cattolico; di fronte al mercato delle pulci, la Borsa; di fronte
all'Istituto per le giovani nobili, la mensa del "cuore ceco", e così via.
Frynta usò il metodo del confronto al quale lavorò per anni la famosa
rivista americana " Life "...
Questa però non è ironia...
Non è ironia, però è l'inizio, un'indagine sociologica, una prova di come
sotto l'immenso coperchio della monarchia asburgica tutte le classi e gli
strati poterono pienamente vivere e anche miseramente vegetare finché a un
certo momento non interviene la storia, l'epoca. Ed è qui che trae la
propria origine la visione del proletario Hašek e dell'intellettuale Kafka,
qui incominciò un certo modo di vivere e un certo senso dell'esistenza:
Hašek e il suo Švéjk, che non ha nulla da perdere, non ha famiglia né
proprietà, e si trova quindi alle prese con situazioni in cui a chiunque
altro gelerebbe il sangue; mentre Josef K. cioè Franz Kafka, sebbene
innocente vede aumentare di pagina in pagina il proprio senso di colpa
senza esserne cosciente. La posizione di Josef K. quindi è trascendentale,
il senso di colpa si confonde ormai, alla maniera di Kierkegaard, con
l'esistenza, come nei primi romantici; mentre Švéjk invece contrappone a
tutte le forme della monarchia asburgica l'ingenuità della sua semplice e
intenzionalmente sempliciotta esistenza. Ambedue i romanzi si basano
sull'autobiografia, gli autori sono ambedue nati a Praga lo stesso anno e
morti lo stesso anno, e probabilmente non si incontrarono nemmeno una
volta nella Praga relativamente piccola di allora oppure non ebbero
motivo, o possibilità di incontrarsi. L'eroe kafkiano segua la via della
grande esistenza, la via dei valori in tempo di pace, l'eroe haskiano è
portato in guerra contro la sua volontà, come Ulisse, tuttavia partecipa
alla guerra e scopre così l'insensatezza non soltanto della guerra, ma
anche della monarchia absburgica. Il romanzo di Kafka è scritto in uno
splendido tedesco, con grande cura stilistica, è un romanzo in forma di
goccia; il romanzo di Hašek è scritto alla maniera picaresca, in forma di
treno accelerato locale. Ambedue i romanzi sembrano commissionati dallo
spirito stesso dei tempi, nascono quando sono maturate trasformazioni
trascendentali, e sembrano ricopiati. Sono una sorta di mistica negativa
dell'epoca senza dio, per citare Lukàcs.
Hašek, quando perse nell'ubriachezza alcune decine di pagine, si sedette e
le riscrisse, e prima che fossero ritrovate le pagine perdute il testo era
già pronto o identico. Franz Kafka pregò il suo amico di distruggere dopo
la sua morte tutti i suoi testi. Da dove viene questa indifferenza verso
opere che sono geniali, che costituiscono non soltanto il fondamento
dell'ironia praghese, ma anche dell'espressione c'è qualcosa di divino in
questi due scribi e scrivani. E' bello che anche Salda, il quale conosceva
tutti gli scrittori, compresi quelli secondari, non si accorse quasi di
quei due contemporanei della sua gioventù, non dedicò loro attenzione,
perché ambedue sfuggivano alla contemporaneità, erano geniali, scandalosi
nella loro semplicità, che è inafferrabile. Ambedue infatti erano doctores
ignorantiae. E' difficile discuterne oggi, ma sia Hašek che Kafka erano
non soltanto colti, ma grandi voyeur, osservatori di Praga, dottori di
grandi rapidi giudizi sintetici, ambedue erano dottori di cattiveria e di
bontà, ambedue profondamente ancorati alla certezza che soltanto scrivendo
si poteva afferrare quanto era maturato sulle lancette del tempo, per
questo furono anche grandi descrittori dei cambiamenti sopraggiunti, nei
luoghi trascendentali, anzi l'apparentemente semplice Hašek registrò tale
trasformazione più dell'intellettuale Kafka. Kafka, doctor ignorantiae,
maestro del non saper vedere; Hašek, dottore dell'apparente non volontà di
vedere. Ambedue però scrissero testi il cui contenuto interiore rende va
conto dello stato della coscienza in uno dei centri dell'Europa centrale,
a Praga, all'incrocio ceco-tedesco-ebreo di tre coscienze linguistiche,
col metodo che Frynta ha chiamato dell'ironia praghese...
Per me queste parole, specie
su Hašek, sono musica attesa da anni... Ma insisto: che cos'è allora
"l'ironia praghese "?
E' la malinconia di una costruzione eterna, è un gioco apparentemente
infantile, folle e stupido in senso superiore, è la vana lotta per l'uomo
e per la sua visione del mondo che lo circonda, è la lotta dell'hominismo
contro l'umanesimo formale e convenzionale, una battaglia contro una
felicitante teoria dello stato e contro l'apparato burocratico.
Naturalmente è anche coscienza della vanità di tale lotta. Perciò quel
sorriso storto e il grottesco, che con una profonda sonda verticale tocca
la musica delle sfere e quasi la santa beatitudine. Hašek e Kafka fanno
l'effetto di due filosofi zen-buddisti, il loro sorriso amaro marcia anche
all'indietro fino al sorriso degli Apolli greci, che Leonardo portò nel
sorriso di Monna Lisa e da Leonardo passò nei quadri semplici e puliti di
Jan Zrzavy... Di ironia praghese parlano anche i primi teorici del
romanzo. L'autoconoscenza con la quale la soggettività supera se stessa è
ironia. L'ironia come constituens formale del romanzo significa la
divisione interiore del soggetto poetico normativo in due soggettività, in
soggettività come interiorità che si contrappone alle formazioni di un
potere estraneo e cerca di imprimere su un mondo estraneo il contenuto del
proprio desiderio... così l'estraneità e l'inimicizia del mondo interno ed
esterno non viene abolita, ma conosciuta come necessaria: essa costringe
il soggetto che osserva e crea ad applicare la conoscenza del mondo a se
stesso e a prendere se stesso e le proprie creazioni come un libero
oggetto di una libera ironia... L'ironia come abolizione di una
soggettività che è giunta fino in fondo è la più alta libertà possibile
nel mondo senza dio...
Chaplin entra anche qui?
Sì, l'ironia praghese riguarda anche Chaplin. Fra centinaia di comiche
Chaplin ha girato anche alcuni film nei quali abolisce la propria
soggettività e si colloca con la massima libertà nell'ironia che
contrappone l'hominismo all'umanesimo convenzionale, come disse nella sua
conferenza praghese Tristan Tzara un paio d'anni dopo la fine della
seconda guerra.
Va bene. Torniamo a Praga e a
Švéjk. Di lui io penso che sia una specie di Golem del ventesimo secolo, e
m'è capitato di scrivere che è l'Ulisse praghese, citando Joyce. Lei che
ne pensa?
Ho sentito molte opinioni. Josef Švéjk è Sancho Panza, il tenente Lukàs,
Don Quijote. E quindi penso che anche l'idea di un rapporto tra Švéjk e
Leopold Bloom può avere senso. In fondo anche quell'Ulisse dublinese ha
origini centroeuropee se non sbaglio suo padre è un ebreo ungherese. E poi
sia Švéjk che Mister Bloom percorrono topologicamente le proprie città in
modo tale che i loro spostamenti si possono ricostruire attraverso vie,
viuzze, osteriole e piazzette. Hanno qualcosa in comune nel fatto che
l'Austria s'è comportata con Praga da matrigna proprio come Londra con
Dublino. Ambedue portano ad ogni ora la pelle al mercato, ambedue sono
circondati dal vuoto dell'uomo che non è inserito e quindi è sradicato
dalla grande storia, ma che tuttavia non già "ha bisogno" di vivere, bensì
"deve" vivere. E ognuno a modo suo. Mister Leopold Bloom come Ulisse e
piccolo borghese a Dublino, Švéjk come uomo qualunque, proletario. Ma
certo! La costruzione dei due romanzi, è ben diversa. L'epopea picaresca
di Hašek è tenuta insieme dalla catena dell'aneddoto d'osteria, il corso
della narrazione è sempre lo stesso dalla prima all'ultima pagina, mentre
in Joyce ogni capitolo corrisponde a uno di Omero e ha uno stile, un
colore, un simbolo diverso. Tuttavia ciò nonostante si può dire davvero
che Švéjk è l'Ulisse praghese.., sì. Josef Kroutvor aggiungerebbe che
Švéjk non è né una metafora né un simbolo, ma un geroglifico
dell'esistenza.
Grazie per la citazione
dell'uomo qualunque. Ci vorrebbe uno studio comparato del qualunquismo
italiano e dello Svejkismo ceco: equivoci e verità. E il Golem?
Lo studioso di estetica Josef Kroutvor adesso parlerà per me, dice che il
Golem compare nel ghetto nelle ore di depressione, il Golem praghese è una
manifestazione schizofrenica della fantasia collettiva in altri testi,
Kroutvor scrive... Švéjk non è un carattere ma il tipo della psicologia di
massa. Hašek non ci ha descritto i processi psichici di un singolo, ma uno
schema di coscienza collettiva: senza un'analisi delle condizioni
centroeuropee Švéjk è un vano clown, una comparsa infilata in un grande
ruolo... Da questo punto di vista, col quale mi identifico, si può in più
vedere Švéjk come il Golem praghese del ventesimo secolo, quel Golem che
tanto tempo fa impastò, servendosi di paure e sciagure e argilla, il Rabbi
Löw praghese.
Che cosa pensa, Josef Švéjk
sarebbe potuto vivere e sopravvivere, con la sua ironia, alla seconda
guerra mondiale?
Kroutvor risponde meglio di me... Nella seconda guerra mondiale, Švéjk non
è più possibile, é un'individualità troppo grande...
Praga, 1982
Intervista di Sergio Corduas, tratta da Treni strettamente sorvegliati,
Edizioni e/o, Roma 1982, tr. it. di Sergio Corduas.
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