Non credo che il cinema vada
giudicato secondo il metodo (o i metodi) con cui giudichiamo le altre arti
che si rivolgono alla percezione. Il cinema deve avere un linguaggio
autonomo, con le sue strutture precise e anche con le sue regole, con
tempi narrativi e compositivi necessariamente diversi da quelli della
pittura, della scultura e dell'architettura, con uno spazio più facilmente
disautorabile, a causa della meccanica della tecnica, dalla dimensione
prospettica tradizionale che le altre espressioni artistiche, invece,
hanno infranto ormai da quasi cento anni. Dunque, se in senso lato
possiamo considerarlo arte figurativa, non è certo arte del disegno.
Inoltre ha finalità didascaliche, ammonitorie e pubblicitarie più dirette,
più immediate per la stessa rapidità delle immagini, per la continua
possibilità di mutamento. Ritengo perciò che, come quando una pittura è
letteraria, così il cinema, quando è esclusivamente pittorico, manchi ai
propri scopi istituzionali e non pro-duca valori. Occorre anche dire,
però, che esistono interferenze, suggestioni e motivi comuni nelle
poetiche di base, una comune (parallela) considerazione della vita e del
proprio rapporto con il mondo. Esiste addirittura un modo di vedere, di
considerare la realtà, che può portare a soluzioni affini perfino per
quello che riguarda certe modulazioni iconografiche. Nessuno negherebbe,
del resto, l'importanza che il cinema ha avuto nella spe-rimentazione
delle avanguardie artistiche, come nessuno potrebbe negare il contributo
portato al cinema dalle rivoluzioni pittoriche del nostro secolo. Ho
sempre pensato che il ritmo, la presentazione delle immagini e delle
stesse didascalie della Corazzata Potemkin non sarebbero nate senza il
contributo della cultura figurativa rivoluzionaria del cubo-futurismo.
L'introduzione è forse ovvia (senz'altro anzi). Mi serviva comunque per
precisare che l'esperienza (tutt'affatto nuova) che Nato Frascà (il
pittore Nato Frascà) ha voluto fare nel cinema è partita sì da necessità e
motivi che sono identici a quelli dai quali ha elaborato la sua visione
pittorica, ma che è stata condotta con il senso della piena autonomia del
linguaggio cinematografico. Ho detto altrove, a proposito della
partecipazione di Frascà alla mostra di pittura di questa manifestazione,
che i suoi quadri mi interessano in quanto, aldilà dell'ottimismo
programmatico del costruttivismo neoplastico di canti anni h, non
pretendono di proporre soluzioni stabili, ma sono piuttosto aleatori,
aperti e ambigui. Dunque, in questo senso della poetica e non del
linguaggio, la storia cinematografica di K è altrettanto indicativa. K si
apre con una sequenza di immagini luce, evidentemente riferi-bili alla
pittura. Ma queste immagini sono un'introduzione, la presentazione direi
di un proprio universo formale dal quale Frascà non vuole e non può
prescindere e che sottolinea con tutta onestà. Con la stessa onestà,
d'altra parte, con la quale non nasconde certi riferimenti alla cultura
cinematografica d'avanguardia. Poi il discorso si snoda, ambiguo (dicevo),
con piani paralleli di realtà, con significati polivalenti, con offerte di
interpretazioni varie. L'ipotesi spaziale, che era propria della pittura e
che ne supera il rigore geometrico, qui si trasforma in ipotesi
esistenziale (in fondo la stessa cosa), ipotesi di morte e di vita, non
più con termini antitetici ma equivalenti. Non più, inoltre, una
pirandelliana verità per ciascuno, ma una non-verità, per una
impossibilità di proposta e di ricezione. Non si tratta di disimpegno,
tutt'altro. La constatazione dell'impossibilità rivela che non ci sono
ricette per superare l'impasse se non attraverso il proprio operare (S'il
se trompe il sera ridicule et voila tout). Perciò l'esperienza
cinematografica, come un tentativo parallelo, come giustificazione in sé,
come sperimentazione non tanto di una tecnica, quanto dei dati di una
coscienza.
Nello Ponente.
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