Bohumil Hrabal

 

Monografiche

 

 

Bohumil Hrabal è considerato il maggior scrittore vivente di lingua ceca. Nato a Brno, in Moravia, nel 1914, Hrabal ha fatto cento mestieri: magazziniere, preparatore di malto in una fabbrica di birra, minutante notarile, ferroviere, assicuratore presso la compagnia "Sostegno della vecchiaia", commesso viaggiatore, operaio nelle acciaierie, imballatore di carta da macero, macchinista e comparsa teatrale.
Come scrittore inizia con la poesia, fortemente influenzato dal surrealismo, passa ai racconti ( Inserzioni per una casa in cui non voglio più abitare, Einaudi 1968; Vuol vedere Praga d'oro?, Longanesi 1973 ), e pubblica il suo primo romanzo breve nel 1965: Treni strettamente sorvegliati ( Edizioni e/o 1982 ), reso noto in tutto il mondo dall'Oscar assegnato al film omonimo.
Erede spirituale di altri due grandi praghesi, Kafka e Hascek, Hrabal è uno scrittore dallo stile originale, capace di fondere insieme come un Chaplin letterario un lirismo immaginifico e struggente e un umorismo irresistibile.


Il manuale di un apprendista sbruffone (1970)
Bohumil Hrabal

Sono un estimatore del sole nei ristoranti all'aperto, un bevitore della luna che si specchia nel selciato bagnato, cammino eretto e diritto, mentre mia moglie, a casa, benché sobria, fa atti mancati e barcolla, una descrizione piena di humour dell'eraclitiano panta rei mi scorre alla gola e tutti i ristori del mondo sono come un gruppo di cervi agganciati per le corna dei discordi, la grande scritta Memento mori che alita dalle cose e dai destini umani è un motivo per bere sub specie aeternitatis, il cimitero di Olšny, la prigione di Pankrác e via Bartoloméjská altrettanto, sono perciò un dogmatico dell'allergia allo stato fluido, la teoria del giunco e della quercia per me è una forza motrice, sono un urlo umano atterrito, che si dissolve in un fiocco di neve, vado continuamente in fretta, per poter sognare due o tre ore al giorno inattivamente attivo, perché so bene che la vita umana è breve e passa mentre si mescolano le carte, che forse sarebbe meglio se fossi lavato via, buttato via dentro un fazzolettino, talvolta mi atteggio come se stessi fiutando un milione, anche se so bene che alla fine vincerò una merda che ride, che la festa è cominciata con una stilla di seme e finirà nel crepitio del fuoco, da inizi così belli così belle conclusioni, dietro un visetto grazioso si può amare l'allegra madrina Morte, annaffio le piante quando piove, nel luglio afoso mi tiro dietro lo slittino di dicembre, nei caldi giorni estivi, per rinfrescarmi, mi bevo i soldi destinati al carbone per scaldarti d'inverno, tremo continuamente di paura perché la gente non trema di paura per quanto la vita è breve, è così poco il tempo, finché ce n'è abbastanza, per le follie e l'ubriachezza, vivo i mattutini postumi di sbronze come campioni nient'affatto privi di valore, anzi, come valore assoluto di un trauma poetico con un accenno di insania, che va assaporata come una santa colica epatica, sono un albero frondoso pieno di occhi attenti e sorridenti, occhi sempre in stato di grazia e come assi appaiati di accidenti e incidenti, che gioia, su un vecchio fusto giovani ramoscelli, che godimento il riso delle foglie appena nate sui giovani rami, il mio clima è il tempo variabile di aprile, una tovaglia sbrodolata è la mia bandiera, nella cui ombra ondulata provo non solo allegra euforia, ma anche slittamento e resurrezione, quel dolore sordo alla nuca, quell'orribile tremito della mano, con i denti mi tiro via dalle zampe piccole schegge di vetro e i residui dell'esuberante notte precedente, ogni mattina mi stupisco di non essere ancora morto, sono sempre in una condizione di morosità, potrei crepare prima di aver fatto follie a mio piacimento, non mi considero un rosario, ma un anello della catena spezzata del riso, il più fragile grano determina la forza della mia immaginazione dissipatrice, è qualcosa in me di castrato, qualcosa che è e allo stesso tempo indietreggia verso il passato, per essere catapultato nel futuro compiendo un arco, nel futuro che poi mi distoglie completamente da labbra ed occhi bramosi, tanto che divento strabico, vedo doppio come attraverso la calcite islandese, oggi è ieri e l'altroieri è dopodomani, perciò sono un produttore di affrettati giudizi sintetici, assaggiatore e sommelier di uno spazio adulterato, considero la sclerosi e la demenza e il balbettio infantile come l'inizio di possibili scoperte, con la giocosità e il gioco trasformo la valle di lacrime in riso, scongiuro la realtà e lei non sempre mi dà un segno, sono un timido capriolo nella radura di un'aspettativa sfacciata, sono la solida campana dell'imbecillità incrinata dal fulmine della conoscenza, l'oggettività in me assurge alla soggettività estrema, che considero un'aggiunta alla natura e anche alle scienze sociali, sono un genio negativo, un bracconiere nelle riserve della lingua, sono il guardaboschi dell'ispirazione piena di humour, una guardia giurata sui campi delle barzellette anonime, l'assassino delle buone idee, il guardiano dei dubbi vivai della spontaneità, eterno amatore e dilettante dell'idiozia e della pornografia, eroe dell'insensatezza pensante, precipitoso crocifero di parallele anticipate, che vuol mangiare una fetta di pane spalmata sul burro dell'infinito, che vuol bere da un boccale la panna dell'eternità subito, ora, e ora e mai più, quindi mai, reputo la spiegazione sbagliata delle parole di Cristo il fascino dei testi apostolici, una trina di Bruxelles inzuppata nelle bave di un epilettico, frantumi di ghiaccio sulle sponde di un torrente invernale sono il mio ornamento, contro il quale ci si può ferire, io sono depressione e spleen e prostrazione, i preparativi al salto di testa contro il muro sono la prova, continuamente rimandata, che si può vivere diversamente da come ho vissuto finora, sono un nevrotico che gode di ottima salute, un insonne che si addormenta profondamente solo sui tram e si lascia così portare fino al capolinea, sono una grande presenza di piccole aspettative e di attesi grandi crack e fiaschi, su un orizzonte grottesco vedo altri orizzonti di minuscole provocazioni e di scandali in miniatura, perciò sono un clown, un animatore, un narratore e un istitutore, proprio come un grande detrattore e delatore di me stesso, redattore di lettere minatorie senza firma, considero le notizie prive di valore un possibile preambolo alla mia costituzione, che cambio di continuo, che non posso mai aver finito, nel progetto di un ombra tracciata lievemente scorgo una costruzione gigantesca, anche se è una piccola tomba di bambino sprofondata da tempo, sono un signore incinto di giovinezza che invecchia già, la mimica e la lingua sono la grammatica in movimento di un gergo interiore, una fetta di polpettone caldo e un bicchiere di birra fredda in mezz'ora riescono a transustanziarmi la materia in buon umore, che metamorfosi a buon mercato, e il primo miracolo è venuto al mondo, una mano posata su una spalla amica è per me la maniglia che apre la porta della beatitudine, dove ogni oggetto amato è il centro del paradiso terrestre, il cuore della natura è lo stato accessibile del bodhi, in cui nel pensiero si può amare una vagina riluttante e ostinata, avvolta per di più nelle più belle curve di carne, verbum caro factum est, il cannibalismo raggiunto a secco, senza prete e senza diploma di maturità, tristi occhi di mucca che si sollevano curiosi sopra le sponde dei camion, sono i miei occhi, una giovenca minorenne attesa da macellai con coltelli luccicanti, sono io, una cinciallegra con le ali rovesciate svuotata in una sera gelata in un secchio d'acqua fredda, sono io, la fiamma a cui ritornano vespe fedeli, per morire bruciate insieme alle altre nel nido che arde, questo è l'abbozzo di un'idea abbastanza precisa di favi che bruciano pieni di un miele preparato solo e soltanto per me, sono dunque un membro corrispondente dell'Accademia della sbruffoneria, un allievo della cattedra di euforia, il mio dio è Dioniso, un leggiadro giovane ubriaco, l'allegria che si è fatta uomo, il mio padre della chiesa è l'ironico Socrate, che con pazienza attacca discorso con chiunque, per portarlo con la lingua e per la lingua fino alla soglia stessa del non sapere, il figlio primogenito è Jaroslav Hašek, inventore da storielle da osteria e geniale viveur e scrivano, che con l'afrore dell'uomo ha reso umani i cieli prosaici e ha lasciato la scrittura agli altri, con gli occhi sbarrati fisso le pupille blu di questa Santa Trinità, senza aver raggiunto il culmine del vuoto, l'ebbrezza senza alcol, l'istruzione senza il sapere, inter urinas etfaeces nascimur ed è come se le nostre madri ci avessero partorito a cavalcioni direttamente nei forni crematori, o in tombe ricoperte di erbetta, sono un toro dissanguato dal riso, al quale qualcuno con un cucchiaino mangia il cervello come un gelato.
Cameriere, ci sarebbe un'altra porzioncina di gulasch?

P.S. Quando analizzo questo testo, che dovrebbe fare da postfazione a questo libro, un testo che ho scritto in cinque ore in pause irregolari mentre spaccavo la legna e tagliavo l'erba, un testo che ha il battito rallentato della scure verticale e la melodia della linea orizzontale di una falce austriaca, devo distinguere tra le frasi defluite come somma di esperienza interiore e quella che ho ricavato dalla lettura. Devo elencare le frasi di autori che, dal momento in cui le lessi, mi affascinano al punto che mi dispiace non averle inventate io stesso. "Non mi considero un rosario, ma l'anello di una catena spezzata" è una variazione rovesciata del nietzschiano "non sono l'anello di una catena, ma la catena stessa". "Ogni oggetto amato è il centro del paradiso terrestre" è esattamente Novalis. "Verbum carofactum est" è S. Giovanni, "la Parola fu fatta carne". "Dioniso, l'allegria che si è fatta uomo" è Herder. "Inter urinas et faeces nascimur" dovrebbe essere S. Agostino, "nasciamo tra feci e urine". E malgrado ciò siamo bellissimi. "Le nostre madri ci partoriscono a cavalcioni in tombe aperte" è uno scolastico spagnolo, di cui ho dimenticato il nome. Eppure siamo magnifici e, dunque, qui. Questo è tutto.


Traduzione di Annalisa Cosentino, MicroMega n. 3/95, pp. 95-98


Notizia sull'autopsia del mio stesso cadavere (1981)
Bohumil Hrabal

I miei testi non possono essere definiti manoscritti, ma dattiloscritti. Scrivo soltanto alla macchina da scrivere. Quel miei testi nascono molto tempo prima di passare rumoreggiando nella macchina da scrivere, spesso un certo motivo mi ritorna, quel motivo preferisce venirmi incontro lontano dalla macchina da scrivere, nella solitudine rumorosa dell'osteria, mentre passeggio, di notte mi vengono incontro immagini che si riallacciano a questo motivo; queste immagini non sono a colori, sembrano invece quelle di un film, il motivo principale poi si frantuma e si associa ad altre immagini che sono in relazione causale con il motivo principale, si allineano, in un certo modo si acciuffano perfino e si attraggono come quando salite su per un albero, vi arrampicate verso la cima, una mano alla volta cercate a tastoni il ramo più alto, e così senza fermarvi, fino a raggiungere la corona, oltre cui non si può più andare, fino al punto in cui attraverso gli ultimi rametti domina unicamente la vista. L'arco di tempo in cui le immagini mi investono e vengono a creare quell'organon involontario, quella seconda natura, quello è per me l'arco di tempo più bello. Dura alcuni mesi, talvolta anche anni, non ho mai fretta di riscrivere queste immagini alla macchina da scrivere, in quell'arco di tempo ho solo paura di crepare per qualche sbaglio. In quell'arco di tempo covo sempre l'illusione che quella mia storia è unica e solo e soltanto da me dipende trasferirla dall'aria ai fogli bianchi della carta protocollo. Sì, dall'aria, perché quelle immagini le vedo al di fuori di me, anche se so che non esiste alcun oggetto al di là del soggetto. Quelle mie immagini aleggiano nel cielo, come quando fate volare un aquilone. Sono perfino capace di arrestare queste immagini e farne una rassegna, come una mia galleria privata... Qualcosa come una ripresa televisiva di avvenimenti sportivi, nella quale si possono far tornare indietro più volte le situazioni drammatiche e controverse. Se dovessi paragonare la mia scrittura a uno sfuggente disco d'acqua, definirei lo sport la categoria che mi è più vicina. So che un atleta si prepara per alcuni mesi prima di compiere quella sua unica prestazione che non potrà più essere ripetuta se non in televisione. Tuttavia la letteratura - ad essa dovrebbero alludere le mie parole - ha la propria parabola nel tennis. Questo gioco ha sue determinate regole, games, queste regole però non sono che un trampolino di lancio per generare piacere e voglia di giocare, il gioco, play. Quando effettua la prima battuta, già dagli inizi, a seconda del modo in cui si gioca, in complesso un buon giocatore di tennis doserà le proprie forze nelle braccia e nel corpo in modo da poter giocare tre set oppure cinque, in modo da decidere l'incontro entro mezz'ora o forse anche in quattro ore buone. So anche che il Dukla va a Vonoklasy in ritiro prima di ogni partita e che il tennista fa la stessa cosa. Ho visto a Wimbledon Ash che si concentrava sotto le palpebre chiuse anche durante le pause. E lo stesso faccio anch'io. Quando sono ormai giunto alla fine della concentrazione tra solitudini rumorose e passeggiate, quando queste mie immagini sono oramai giunte a maturazione non diversamente da un bambino nel corpo della madre, sopraggiunge l'attimo mostruoso in cui mi cimento nella mia prestazione sportiva, e trascrivo le immagini pluridimensionali nelle righe monodimensionali della macchina da scrivere. Per quanto ricordo, scrivo esclusivamente di mattina. E la cosa principale è che la sera prima non devo prefiggermi che la mattina dopo mi metterò a scrivere. Sarebbe la fine; e non mi metterei a scrivere ugualmente se dovessi raccontare a qualcuno di cosa sto per scrivere. Mi piace terribilmente raccontare, soltanto immagini però, e per giunta quelle immagini che sono incomplete, quelle che con l'atto di raccontare diventano in qualche modo a tutto tondo, quando queste immagini cominciano esse stesse a tradursi e perfezionarsi indirizzandosi verso la legenda, l'aneddoto, la finzione. Così può ancora andare, non è che un accozzaglia quella, sulla strada di ritorno a casa ci si può ancora riflettere e fissare quelle immagini. Ma la scrittura è tutta un'altra cosa. Qualcosa di molto crittogamico, la scrittura fa andare in estasi, incute un leggero terrore, è qualcosa che al contempo desidero e non desidero, qualcosa di cui provo paura e una sorta di gioiosa malignità al vedermi spaventato a causa di quel che scrivo. Di regola mi devo svegliare impreparato per scrivere, così, piuttosto prostrato, persino con una certa afasia. Lentamente, meccanicamente mi faccio la barba, non rasato non scriverei una sola riga, addirittura mi profumo inconsapevolmente con acqua di betulla e olio, poi immerso nei pensieri metto su il caffè, la mattina bevo volentieri il caffè, e non mangio mai; se dovessi mangiare, allora di scrivere e di pensare non se ne parla più. Dopo nuovamente solo soletto bevo il caffè, smetterei di berlo se mi venisse a trovare qualcuno mentre sto fumando e bevendo il caffè, e deporrei la sigaretta, questi due bei vizi sono solo e soltanto miei, li ripeto ogni giorno, accresco così in certo modo la mia brama, qualcosa di simile fanno i preti, di mattina non possono mangiare, semmai un sorso di vino, e per giunta durante la messa. Bevo quindi il caffè e fumo due sigarette di seguito, guardo fuori dalla finestra, fumo e bevo a sorsi il nescafè e pervengo così allo stadio zero, a quella fase che già i Greci definivano come l'inizio del pensiero mistico. Quel dato giorno poi, mi siedo alla macchina da scrivere, in un certo qual modo alleno la dita e i polsi come gli atleti prima di inginocchiarsi per correre quella loro gara. E dopo comincio a scrivere quella mia storia, sempre restando in quella situazione zero, ma con un unico riflettore puntato che proietto sulle immagini che si acciuffano e si inseguono dietro all'immagine iniziale, come quando al macello i macellai spingono fuori dai vagoni le bestie da macellare, a volte quelle immagini si sovrappongono, saltano via, ma io riesco a trasferirle rumoreggiando nella macchina da scrivere; quando mi accorgo che le mie pagine vanno grossomodo al ritmo di una ogni dieci, a volte ogni cinque minuti, continuo a scrivere; ma non so mai quel che ho scritto, non ho la possibilità di controllare, è qui il bello della macchina da scrivere, il manoscritto non vi scorre dalle dita, ma sono i polpastrelli a trasferirlo ai tasti, e questi poi imbrattano di lettere la superficie bianca del foglio. Non ho la possibilità di controllare per la semplice ragione che scrivo con gli occhiali, e controllo solo i tasti, le lettere, mai le parole. E poiché scrivo dentro a un nugolo, circondato cioè di immagini, in coda alle quali, già scrivendo la prima immagine, sta ad attenderle per completarle una seconda immagine che seguirà, continuo a scrivere finché non mi sento esaurito. Quelle mie immagini vengono nella macchina da scrivere così come viene passato il testimone nella staffetta dei quattrocento metri, come ho detto, mentre la prima finisce la propria corsa, la seconda è già da un attimo in movimento per pigliare più saldamente il proprio testimone. Finisco quindi la prima giornata esaurito, mi vedo davanti un mucchio di scartoffie che ho paura di guardare, perché so, conoscendomi, che la velocità di scrittura comporta grossi errori, un minuto sì e uno no mi si inceppano i tasti e devo disincastrarli svelto col dito. E così scrivo sempre quelle tre, quattro ore, poi vado in giro, visito le solitudini rumorose, la cosa che preferisco è stare in osterie dove nessuno mi conosce, rimango seduto e tiro un respiro, guardandomi nessuno capisce che sono incinto, nessuno riconosce che ho appena finito di scrivere qualcosa di cui ho piacere ma anche timore. E rifletto sulle immagini che mi attendono, rifletto su quei miei vitelli da macello che saranno domani di turno, sto attento a non fare atti sbagliati e a non spaccarmi da qualche parte la testolina in cui stanno i fili che tengono assieme nel cielo tanti begli aquiloni. E il giorno dopo ricomincio ancora dalla situazione zero e dal caffè e dalla sigaretta, mi sono sempre piaciute le sigarette forti, tanto forti che fumate due sigarette mi sento già male, se me ne accendo una di sera, non mi addormento più; Menzel dice di me che assomiglio a un calciatore che ha smesso da poco di giocare, d'accordo, ma essenzialmente io sono uno strumento dei sensi, un sismografo delicatissimo, osservo e ferisco me stesso con cose che gli altri stranamente non vedono. Ecco, scrivo quindi con questo ritmo, il fine settimana mi terrorizza, ma il lunedì per fortuna non mi è successo niente e continuo a scrivere con la macchina da scrivere, come quel tennista, considero la ballata una forma di partita di tennis di tre set, ballata che è liricamente drammatica, così come la partita di tennis nove sette, sette cinque, sei quattro... Solo dopo aver scritto l'ultima riga ho finito con la macchina da scrivere, dopo che con l'ultima immagine si è ormai chiusa questa mia proiezione cinematografica per me e solo per me, soltanto allora mi accarezzo, mi sorrido nello specchio, e mi dico: Sei piccolo, piccolo, così come Toña Páña dopo aver segnato un gol si dice: Sei un cannone... Soltanto dopo sono in grado di guardare, che cosa ho scritto? Quello che rombando tutto il mio corpo e le leve di trasmissione delle mie braccia e delle mie dita hanno trasferito dall'aria ai fogli di formato A4. Così in certo modo a volte mi gusto qualche pagina, con cautela, come quando si gusta una carta nel ferbl o nel ventuno, come quando attraverso le fessure guardo nella cassetta della posta chiusa e vedo dal colore della lettera che sarà un annuncio funebre, a volte preferisco prendere le forbici e tirare su un pochino quella comunicazione, e quando dall'aspetto non mi piace, lascio ricadere la lettera, con le due mani faccio gesti che maledicono, lasciano quella cosa spiacevole a dopo, la rimandano di qualche giorno. E poi gradualmente mi abituo, mi tranquillizzo sul testo giusto, su quel mio dattiloscritto, vedo che non fa che incespicare e balbettare, seguo quel flusso irregolare di periodi e, dopo essermi fatto coraggio, mi siedo, e ogni volta a un tratto vengo catturato dal mio racconto, così come un giudice di linea invece di controllare se la pallina è schizzata al di qua o al di là della linea sta a seguire il gioco, così anch'io come primo controllore mi metto in cerca della storia, dell'avvenimento; se qualcuno mi osservasse mi vedrebbe come sorrido, poi di nuovo corrugo la fronte, mi scendono lacrime dagli occhi persino, tanto mi sono commosso come primo lettore, a causa di quella mia story. Occorre aggiungere che sto parlando del modo in cui ho lavorato alla Solitudine troppo rumorosa e al Re d'Inghilterra. Dico questo perché ho tenuto per sbaglio i testi originali. Le altre volte cancellavo volentieri le orme dietro di me, mi piaceva vedere il marmocchio solo e soltanto bello lavato. Al contrario ora invece mia faceva piacere vedere quel mio marmocchio in fasce, trovavo persino che se avessi avuto i soldi avrei fatto pubblicare quella mia "alla prima", quel mio prémier mouvement, ciò che avevo scritto per primo mi sarebbe piaciuto pubblicarlo assieme alle mie correzioni e agli errori di battitura, non perché quelli che iniziano a scrivere traessero magari insegnamento da quel mio scrivere, ma perché quelle mie prime pagine le considero grafiche nelle quali io e il mio carattere veniamo colti più che sulla mia fotografia. Alla fine ho scoperto quindi che la Solitudine rumorosa è una ballata, che è quella partita in tre duri set, mentre il Re d'Inghilterra è un romanzo, una partita di tennis in cinque set. Forse è andata così perché con il Re ho tenuto di più, forse perché avevo davanti diciotto giorni tutti per me, forse ugualmente perché il Re è in cinque atti come il dramma classico. Non so, perché io ho cominciato a scrivere così, in modo un po' strano, imparando tutto da solo, unicamente attraverso la lettura e scrivendo, scrivendo e ancora scrivendo. Soltanto ora che ho i capelli bianchi comincio a comprendere e provo stupore davanti alla grammatica, soltanto adesso mi metto a guardare come è costruita questa e quest'altra cosa ancora, qual è la sua struttura interna. Ho imparato a scrivere come uno zingaro a suonare il violino, più come vola il passero che non la rondine, ma sempre senza nozioni di aeronautica, sicché a queste forme, la ballata e il romanzo, sono giunto con una riflessione a posteriori, non ho mai incominciato a scrivere con una concezione data. E a proposito della Solitudine rumorosa devo ancor dire che la prima versione l'ho scritta in una sorta di verso alla Apollinaire, forse per non dovermela vedere con le lineette per andare a capo, ma probabilmente anche perché vedevo il racconto unicamente come lirico... Tuttavia dopo aver letto quel testo per la prima volta, mi accorsi che l'avevo scritto nel ceco di Praga, non in slang, ma nella lingua della conversazione. E di colpo mi balenò che quel mio motivo dell'uomo comune che però è istruito contro la propria volontà, difettava di ironia, che l'ironia praghese sarebbe emersa e avrebbe ferito più con l'uso del ceco scritto, della lingua rigorosa. E così, assai eccitato, mi misi nelle condizioni di spirito e ricominciai a scrivere la Solitudine nello stile che mi ero prefisso; seguendo ora l'ispirazione o così come veniva, qui diedi al testo un taglio diverso che a quello recedente, lì lo cambiai leggermente, perché avevo oramai capito che di questo testo non potevo più guastare nulla, perché ne ero spaventato, e quando un testo mi spaventa, vuoi dire che al minimo è buono. E soltanto dopo, letto quel testo in lingua scritta, scoprii che aveva guadagnato in più non mezza, ma una dimensione intera, che soltanto ora quel racconto era in grado di impressionare, perché la sua intelligenza era capace di ferire più della storiella d'osteria. Quindi il Re, come la Solitudine, sono testi scritti "alla prima", sono scritti come quando un treno locale entra di giorno, lentamente, dentro una lunghissima galleria o dentro una notte buia e tenebrosa. Come il Re, così la Solitudine sono testi che ho paura di leggere, ho perfino paura di guardarne una sola pagina. Da un lato mi trovo ormai altrove, e poi, i miei testi passati non che li odi, ma di più, mi sono indifferenti, mi riesce sgradevole non parlarne, ma rispondere a domande di ammirazione. M'infastidisce, provo persino vergogna. Uno scrittore, ed è probabile che io ormai lo sia, deve mostrarsi spietato con i propri testi, infatti davanti a me stanno motivi che hanno più forza di quelli che ho lasciato; uno scrittore deve avere il coraggio di andare là dove prova di nuovo paura, dove non c'è nessuno ad attenderlo, là dove il presente è inesistente, il passato minaccioso e il futuro così ben, oh così ben conosciuto...

Testo inedito. Traduzione italiana di Francesco Brignole

Bibliografia italiana di Bohumil Hrabal

  • Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare , Einaudi, Torino 1968,1997', tr. it. Di Ela Ripellino,cura di Angelo Maria Ripellino.
     

  • Vuol vedere Praga d'oro?, Longanesi, Milano 1973, Guanda, Parma 1987, tr. it. di M. Kubistovà Casadei.
     

  • Treni strettamente sorvegliati Edizioni c/o Roma 1982, tr. in it. e cura di Sergio Corduas.
     

  • Ho servito il re d'Inghilterra, Edizioni e/o, Roma, 1986, tr. it. e cura di Giuseppe Dierna.
     

  • Una solitudine troppo rumorosa , Einaudi Torino 1987, tr. it. e cura di Sergio Corduas.
     

  • La tonsura , Edizioni e/o, Roma 1987, 19932, tr. it. e cura di Giuseppe Dierna.
     

  • II flauto magico , racconto inserito in Dall'est, Edizioni e/ o, Roma 1990, tr. it. di Annalisa Cosentino.
     

  • L'Uragano di Novembre Edizioni e/o, Roma 1991, tr. it. e cura di B.I. Klada.
     

  • Le nozze in casa - Romanzetto femminile , Einaudi, Torino 1992, tr. it. di Alessandra Trevisan, cura di Sergio Corduas.
     

  • La cittadina dove il tempo si è.fermato , Edizioni e/o, Roma 1992, tr. it. e cura di Annalisa Cosentino.
     

  • Bambino di Praga, Edizioni Sapiens, Milano 1992, tr. it. e cura di Maria Gloria Grifoni.
     

  • La stradina perduta, versi 1937 - 1948 , Sapiens editore, Milano 1992, tr. it. e cura di Giuseppe Dierna.
     

  • Dribbling stretti ovvero Nodi al fazzoletto, Romanzo - Intervista , Sapiens edizioni, Milano 1993, tr. it. di Ela Ripellino, a cura di Giuseppe Dierna.
     

  • Un tenero barbaro, Edizioni e/o, Roma 1994, tr. it. a cura di Annalisa Cosentino.
     

  • Paure totali, Edizioni e/o, Roma 1995, tr. it. a cura di Dario Massimi.

 

Filmografia di Bohumil Hrabal

  • (1964) [Un pomeriggio noioso] , prod. Filmovè studio Barrandov, regia di Ivan Passer, sceneggiatura di Ivan Passer e Bohumil Hrabal.
     

  • (1965) [Perline sui fondo], prod. Filmové studio Barrandov, composto da cinque cortometraggi: [La morte del signor Baltazar], regia di Jirí Menzel, sceneggiatura di Bohumil Hrabal e Jirí Menzel; [i truffatori], regia di Jan Némec, sceneggiatura di Bohumil Hrabal e Jan Némec; [La casa della gioia], regia di Ewald Schorm, sceneggiatura di Bohumil Hrabal e Ewald Schorm; [L'automat mondo], regia di Véra Chytilová, sceneggiatura di Bohumil Hrabal e Véra Chytilová; [Romanza], regia di Jaromil Jireš, sceneggiatura di Bohumil Hrabal e Jaromil Jireš.
     

  • (1965) [La raccolta delle crudelta], prod. Filmové studio Barrandov, regia di Juraj Herz, sceneggiatura di Bohumil Hrabal e Juraj Herz.
     

  • (1966) [Treni strettamente sorvegliati], prod. Filmové studio Barrandov, regia Jirí Menzel, sceneggiatura di Bohumil Hrabal e Jirí Menzel.
     

  • (1967) [Sui gatti, i beatnik e varie altre cose], Esercitazione della FAMU, regia di Rudolf RuziCka.
     

  • (1969) [Le allodole appese al filo], prod. Filmové studio Barrandov, regia di Jirí Menzel, sceneggiatura di Bohumil Hrabal e Jirí Menzel.
     

  • (1980) [La tonsura/Ritagli], prod Filmové studio Barrandov, regia di Jirí Menzel, sceneggiatura di Bohumil Hrabal e Jirí Menzel.
     

  • (1981) [La sirena], Esercitazione della FAMU, regia di Magdalena Prihodova.
     

  • (1983) [La festa dei bucaneve], prod. Filmové studio Barrandov, regia di Jirí Menzel, sceneggiatura di Bohumil Hrabal e Jirí Menzel.
     

  • (1989) [Un tenero barbaro], prod. Filmové studio Barrandov, regía di Petr Koliha, sceneggiatura di Bohumil Hrabal e Petr Koliha.
     

  • (1994) [Occhi d'angelo], prod. Ceska televize/ TS Borovan Capek, regia di Dusan Klein, sceneggiatura di Vaclav Nyvlt
     

  • (1995) [Una solitudine troppo rumorosa], prod. ETAMPF Film Praha/Triplan Productions Paris/Road Movie Dritte Produktion Berlin, regia e sceneggiatura di Véra Caisova.
     

 
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