ROMAN POLANSKI

 

Monografiche

FILMOGRAFIA

 

Polanski è spinto dallo stalinismo a credere che la Polonia sia soltanto paesaggi malinconici e brulli di un socialismo precocemente autunnale, paesaggi desolati, avvizziti nella morsa di fili spinati. Intorno, a perdita d'occhio, si distende un pantano in cui ogni certezza s'affonda per sempre.
Nei rigido clima dogmatico stalinista il giovane Roman coltiva la sua scettica diffidenza verso ogni forma di fede incrollabile, troppo sbrigativamente assimilata a una sorta di fanatico idealismo. Non sarà quindi per semplice stravaganza d'artista se, nel fuoco della contestazione giovanile del '68, dirà: "Se guardate i movimenti internazionali di giovani a Belgrado, a Varsavia, a Parigi, Mexico, New York vi accorgete che non hanno programmi. Non hanno ideali... ed è molto positivo". Molta strada ha percorso Polanski per giungere a una simile affermazione di anarcoide compiacimento, molta pellicola ha girato per arrivare alla teoria del cinema come perenne ambiguità, verità narrativa beffarda e proteiforme che sfugge alla stretta logica dello spettatore proprio quando egli crede di averla afferrata. Il diavoletto cartesiano, che increspa maliziosamente le chete acque problematiche del cinema polanskiano, è un compagno di strada conosciuto a Cracovia. Graffiante, ironico e impertinente, nella felice stagione giovanile sa corrodere ogni forma di ipocrisia borghese, sgretolare le placide architetture dei luoghi comuni e schernire le tronfie dichiarazioni di valore non suffragate da una prassi conseguente. Spiritello scettico e strafottente, quello che accompagna Polanski dai viottoli di Cracovia alle strade del mondo, spiritello bastardo, nato dall'incrocio del pessimismo polacco, che accetta di giocare il suo destino con i dadi truccati della storia, e dell'humour sarcastico ebraico, che sfiora senza mai raggiungerla la coscienza tragica dell'Assurdo. A proposito del caratteristico humour ebreo-polacco del giovane Polanski osserva acutamente Jean-Marie Drot: "Ciò che colpisce nei suoi film è quella qualità polacca, ebreo-polacca dell'humour, un humour che si prende gioco di tutto, anche dell'umorista.
L'humour è stato per l'ebreo polacco l'ultima risorsa per sopravvivere: un humour di dolore e di ceneri, un humour diabolico. E un tentativo di tornare agli uomini al di là della tragedia. L'humour è ancora un modo di gettare un piccolo, fragile ponte dove ci sono novantotto possibilità su cento di rompere la struttura quando vi si corre sopra per andare altrove.
Ma lo si fa lo stesso e qualche volta si passa. Polanski qualche volta passa" (Téléciné 147, 1968).
Se il suo humour spregiudicato gli permette di sopravvivere nel soffocante ambiente culturale di Cracovia, la fantasia irrequieta del ragazzo randagio lo spinge a Lodz a tentare l'avventura cinematografica. Le esperienze del giovane Roman si possono annodare in un fazzoletto, eppure già in esse si intravedono le tematiche fondamentali e le scelte stilistiche del futuro regista. La violenza dei forti è la legge di gravitazione universale, la storia, inutile dimostrazione per assurdo della sua veridicità. Il reale minato dal surreale, l'amor di patria sconvolto dai sentimenti antisciovinisti del nomade, l'unilateralità dogmatica demistificata al fuoco della derisione anarchica. Con questo bagaglio umano Polanski entra nel 1954 alla Scuola di Cinematografia di Lodz, con l'appoggio del direttore Anton Bohdziewicz. Sul pianeta Cinema Polanski scopre nuovi colori, aurore boreali e arcobaleni dalle infinite iridescenze espressive. In questo microcosmo incantato sceglierà di restare per sempre. Il pensiero, il gesto di rivolta, il mondo intero con i suoi cataclismi sociali, assumono per Polanski senso politico solo all'interno dello chassis della macchina da presa. Non è perciò un caso se il suo più grave atto di ribellione anarchica contro le tradizionali istituzioni della Scuola di Lodz finisce per prendere forma cinematografica e per rappresentare il primo tentativo da lui compiuto onde superare i limiti dell'esercizio di stile I preziosi chiaroscuri espressionisti di marca tedesca che caratterizzano "Omicidio", fredda ricostruzione dell'assassinio di un uomo che dorme nel suo letto, vengono definitivamente seppelliti dalla caotica bagarre d'immagini del documentario "Roviniamo la festa".
"Roviniamo la festa" è una specie di documentario di studio in bianco e nero sugli huligani. È ormai un'abitudine che i teppisti polacchi fomentino violente risse nel corso di feste da ballo. Ogni anno si organizza un ballo nei giardini della Scuola. Questa volta ho domandato l'autorizzazione di filmare la festa, poi ho installato intorno al giardino dei proiettori e due macchine da presa. Senza avvertire compagni e professori, ho chiesto a un gruppo di huligani che conoscevo di venire al ballo per mostrare quello che sapevano fare. C'è stata una rissa formidabile!" ("Positif" 33, 1960).
Il giardino della Scuola di Lodz, monade sociale destinata a soccombere con serena idiozia nella fitta ragnatela di consuetudini ipocrite e di tradizioni sclerotiche, è sconvolto in extremis dal vortice di violenza che sommuove dalle fondamenta l'ordine burocratico e apre in esso profonde crepe di disperata autocoscienza. Dalla convulsa deflagrazione drammatica non sortiranno che ceneri: scarpe, borse, vestiti, segni tangibili di un'allegra quanto ipocrita parata, giacciono in terra abbandonati a ricordare l'avvenuta bagarre. L'ultima inquadratura rivisita mestamente il luogo degli scontri ormai trasformato in un cimitero di oggetti.
"Tutto stava per finire molto male per me, giacché c'è mancato poco che mi facessi espellere dalla Scuola. Per riabilitarmi ho dovuto fare un film supplementare che ho girato durante le vacanze: "Due uomini e un armadio". Due uomini escono dal mare portando con sé un armadio ed entrano in città, vale a dire nella vita. Ma a causa di questo armadio non riescono a profittare della vita. Ho voluto anche mostrare una società che rifiuta l'essere umano non conformista o afflitto ai suoi occhi da una tara morale o fisica. E perciò intorno ai due uomini nella città accadono cose terribili, crudeli, ma nessuno le vede o le vuole vedere. Nessuno presta attenzione che a quei due uomini e al loro armadio. Nessuno tollera il singolare trio che sarà obbligato a scomparire e a tornare al mare donde è uscito" ("Positif", cit). "Quando ho girato "Due uomini e un armadio", mi sforzavo di tenermi all'interno di una certa forma che mi sembrava essere propria del cortometraggio. Essenziale, senza dialogo. Credo che il dialogo non si adatti al cortometraggio. È solo per abitudine che lo si mette. Infatti quando il cortometraggio è parlato il film diviene l'inizio di un lungometraggio e ci si attende che duri più dei venti minuti di norma. Allora mi sono imposto questo: fare un film che sia veramente di breve metraggio, sopprimendo tutto ciò che rimane dello spirito del lungometraggio" 
("Cahiers du cinéma" 175, 1966).
Lo stile narrativo asciutto e rigoroso di "Due uomini e un armadio" richiama alla mente il tratto secco ed essenziale dei disegni polanskiani del periodo cracoviese, in cui appariva contenuta ma non inaridita la vena sentimentale dell'artista. La caduta degli angeli, cortometraggio con cui Polanski si diploma alla Scuola di Lodz, può sembrare in questo senso una brusca virata verso approdi romantici e barocchi a lui del tutto estranei. Il recupero di una problematica più saldamente legata alla storia e ai temi prediletti della cultura polacca impegnata prende spunto dal rifiuto intenzionale dei freni razionali che inibiscono l'uomo al regista, il polacco al cosmopolita, il tragico allo scettico. La caduta degli angeli è lo specchio in cui più nitidamente si riflette l'anima polacca di Polanski, polo ineliminabile della contraddizione umana cui lo inchiodano vicende personali e storiche.
"So che esistono in me due realtà. Da un lato, sono molto sentimentale, barocco e romantico; dall'altro sono molto rigoroso. E quando faccio un film, mi controllo tutto. Ci sono parecchie idee che mi attraversano la mente e che io mi costringo a dimenticare in nome della disciplina. La mia natura profonda, che è barocca, chiede anche che qualche volta lasci ad essa campo libero. La caduta degli angeli corrisponde più alla mia natura che alla mia disciplina. Corrisponde anche più a ciò che amo vedere al cinema piuttosto che a quello che amo fare" ("Cahiers du cinéma" 208, 1969).
Al lineare sviluppo narrativo di "Due uomini e un armadio" Polanski contrappone il convulso alternarsi di memoria e realtà, che si intersecano nella suggestiva riflessione eidetica di un "cinema diretto" vivificato da estri visionari. Il presente vive nella luce sgranata ed incerta di un bagno pubblico sotterraneo, nel rumore ossessivo e roco dell'acqua che scorre nei cessi, nell'andirivieni frenetico e indifferente della gente.
L'immobile figura della vecchia "madame pipi" è metronomo drammatico dell'opera: presente alla storia e ai grigi sotterranei dell'oggi con vigile coscienza di spettatrice negata all'azione, essa è l'anello esistenziale che collega la statica impotenza della vita contemporanea alla dinamica impotenza dei ricordi storici, il dramma dell'inazione attuale alla tragedia della ciclica sconfitta.


(Stefano Rulli, "Polanski", La Nuova Italia, 1975)

 
Home
Presentazione
Indice V-Art
Monografiche
Informazioni
Regolamenti
Iscrizioni
Guestbook
Credits
 

Home | Presentazione | Indice V-Art | Monografiche | Informazioni | Regolamenti | Iscrizioni | Guestbook | Credits