RELAZIONE

L’immigrazione nella Germania

dalla fine della 2° guerra mondiale ad oggi.

Don Luigi Betelli

della Missione Cattolica Italiana in Germania

 

Gentili signore e signori,

Ringrazio le ACLI per avermi invitato a questo convegno. Spero di poter dare un contributo utile alla discussione. In relazione alla mia persona: sono un sacerdote italiano, in Germania da 30, al 18 novembre di quest’anno. Mi pare di avere una certa conoscenza dei problemi dell’immigrazione in questa nazione, anche per il fatto di essere stato otto anni Delegato della Conferenza Episcopale Tedesca per le Missioni Italiane.

Riflettere sull’immigrazione in Europa è un dovere, il giorno d’oggi. Tutti i paesi europei sono confrontati con l’immigrazione, anche quelli che tradizionalmente erano colpiti dall’emigrazione, si pensi, per esempio all’Italia ed alla Spagna. I governi e la società civile sono chiamati ad intervenire con lettura seria della situazione, con iniziative e proposte. L’immigrazione e le problematiche ad essa legate, economiche, sociali, giuridiche, culturali e tanta sofferenza umana, procurata anche da manifestazioni d’intolleranza xenofoba- razzista, costituiscono una sfida per la società europea.

Questo convegno europeo-ecumenico delle Acli ha un’importante funzione sia nell’informare, sia nel coinvolgere direttamente con la presenza e le testimonianze, sia nel mettere a confronto le situazioni di alcuni paesi europei ed extra.

Inoltre è importante che siano dei credenti coloro che s’incontrano qui per riflettere. L’esperienza dell’esodo e dell’accoglienza dello straniero nella Bibbia sono sempre paradigmi importanti, per il cristiano, nella lettura sia dell’emigrazione sia dei gravi problemi di sradicamento e di inserimento ad essa collegati.

Per il cristiano resta sempre fondamentale l’affermazione di Cristo: "ero straniero e mi avete ospitato" Mt 25,35

Non è un caso che le Chiese siano molto impegnate su questo fronte e lo stesso fanno molte associazioni. E il lavoro delle ACLI, con la sua struttura internazionale, è di notevole importanza, in questo campo.

La mia relazione, suddivisa in quattro periodi, darr una panoramica storica dell’immigrazione in Germania dal secondo dopoguerra ad oggi, e alla fine l’indicazione di alcune proposte.

1 – Primo periodo: dal dopoguerra al 1961

La Germania era distrutta, dopo la seconda guerra mondiale. Milioni di giovani tedeschi erano morti in guerra, sacrificati ai piani espansionistici del nazionalsocialismo. Al fronte erano andati i tedeschi, e durante la guerra, nelle fabbriche e nelle campagne era stata impiegata manodopera straniera forzata: 12 milioni. Nel 1944 lavoravano ancora circa otto milioni di stranieri in Germania. Tra i lavoratori nell’agricoltura uno su due era straniero. Quasi tutti lasciarono la Germania al termine della guerra.

La manodopera non venne però a mancare. Dall’est, soprattutto dai Sudeti e dalla Polonia, dalle terre occupate dai russi ed appartenenti al Terzo Reich si rifugiarono all’ovest, in Germania, ben 12 milioni di profughi tedeschi (Heimatvertribene und Flüchtinge) che risolsero, a breve termine, il fabbisogno di manodopera. Con la divisione formale, nel 1949, della Germania tra BRD e DDR altri 3,1 milioni di tedeschi lasciarono la zona est per l’ovest e contribuirono al rilancio dell’economia nella Germania ovest, ancorata all’occidente sia col piano Marschall sia con i primi passi della futura Unione Europea, mediante la CECA.

Con la costruzione del muro di Berlino, nel 1961, e l’introduzione di rigidi controlli nella DDR, si bloccarono le fughe, e si chiuse il rubinetto della manodopera tedesca dall’est. Allora si cercò intensamente altrove.

2 – Secondo periodo: dal 1955 al 1973

Immigrazione voluta e programmata come provvisoria

Già a metà degli anni cinquanta, la Germania aveva incominciato a programmare l’importazione di manodopera non perché le mancasse, ma come Ersatzfunktion (manodopera sostitutrice). In alcune regioni della Germania, escluso il periodo estivo, la disoccupazione toccava la quota del 10%. Malgrado ciò, si cercò manodopera all’estero e non fu un caso che fosse la Bauerverband (Associazione dei contadini) del Baden-Württemberg la prima a mettere in moto questa ricerca. I tedeschi abbandonavano le campagne: lavoro duro e non ben pagato. Ma gli stranieri avrebbero accettato queste condizioni.

E il 22 dicembre del 1955, con la firma del trattato italo-tedesco per il reclutamento di manodopera italiana iniziò formalmente l’immigrazione dei così detti Gastarbeiter (lavoratori ospiti). Questo termine s’impose presto nelle discussioni pubbliche di allora. Mentre ai tempi dell’impero Germanico, a fine ‘800 si parlava di "Ausländischen Wanderarbeitern" cioè "lavoratori stranieri in trasferta". Sotto il nazionalsocialismo furono chiamati "Fremdarbeitern", "lavoratori forestieri".

Fino al 1961 non furono però moltissimi gli italiani che partirono per la Germania. Dopo il 1961 il flusso aumentò fortemente. Nel reclutare manodopera non ci si fermò agli italiani. Infatti, nel 1960 fu firmato un accordo bilaterale, con la Spagna; poi nel 1961 con la Turchia, nel 1963 con il Marocco, nel 1964 con il Portogallo, nel 65 con la Tunisina e nel 68 con la Jugoslavia. Gli accordi con il Marocco, la Turchia e la Tunisia riguardavano una permanenza limitata: lavoratori ospiti, nel vero senso della parola, presenti per poco tempo, tanto che il governo pensò di introdurre l’obbligo di rotazione per tutti i lavoratori ospiti, ma, di fatto, non lo realizzò mai.

Gli accordi con la Turchia e la Tunisia prevedevano che i lavoratori fossero assolutamente in buona salute, per evitare che importassero malattie contagiose. Però anche agli italiani, nei centri principali di reclutamento, come Napoli e Verona non furono risparmiate visite mediche accurate: dovevano essere robusti e sani, altrimenti niente lavoro in Germania. Le visite mediche nei paesi d’origine furono organizzate insieme ai funzionari dell’Ufficio per il lavoro di Norimberga (Bundesanstalt für Arbeit). Alcune volte erano visite allucinanti. In Turchia, riferisce un giornalista di quei tempi, si segnavano con numeri scritti sul corpo i lavoratori scelti. Era anche una preselezione, in vista dello smistamento nelle varie regioni della Germania. L’azione organizzativa perfezionista tedesca, con quei numeri, senza volerlo, rievocava le tragiche cifre tatuate sui deportati, del periodo nazista.

Quasi tutti gli stranieri arrivavano per treno, a Monaco, al famoso binario 11 e poi smistati in tutta la Germania secondo il luogo e tipo di lavoro loro assegnato. Il lavoro c’era ed era garantito da un contratto, anche se a tempo. Presso la Volfkswagen il contratto era di un anno. Anche l’alloggio, in generale, era garantito dalla ditta. Di solito erano baracche situate in una zona recintata a rete. Mi ricordo ancora bene l’impressione pesante che provavo quando dal 1971 andavo a Untertürkhein, zona di Stoccarda, per far visita agli italiani della Mercedes. Si entrava nella zona delle baracche, passando per un cancello controllato giorno e notte a vista. Stanze da letto mai singole, ma con letti a castello e cucina in comune. Vita dura, isolata e difficile. Si capisce che molti italiani non ce la facevano. Dalla Volkswagen, per esempio, nel 1963 ben il 65% degli italiani lasciarono la fabbrica e rientrarono in Italia prima della fine del loro anno di contratto lavorativo.

Attraverso i centri di reclutamento arrivarono in Germania non solo maschi, ma anche ragazze e donne sole, soprattutto dalla Grecia, dalla Turchia e dalla Jugoslavia. Nel 1964 rappresentavano il 23% della manodopera straniera. È importante richiamare questo fatto per conoscere il peso portato dalla donna immigrata in Germania. L’immigrazione non fu solo un fatto di maschi, ma anche di donne coraggiose. Erano richieste nel settore tessile, dell’abbigliamento e dell’alimentazione e non poche erano pure le italiane. La nostra Teresa Baronchelli potrebbe raccontare molto a questo riguardo.

C’era bisogno di lavoratori stranieri, in Germania. Erano attesi. Non poche volte furono organizzate feste per il loro arrivo alla stazione ferroviaria di molte città. Qualche volta c’era anche la banda musicale e dopo il lungo viaggio grande era l’eccitazione, insieme alla nostalgia per il paese lasciato. Si scaricavano dal treno valigie, pacchi tenuti insieme da spago con dentro roba nostrana da mangiare e in fila si attendeva che arrivasse il padrone con la lista dei nomi di quelli destinati alla sua ditta.

Erano lavoratori a tempo, ospiti come si diceva. Dovevano andarsene dalla Germania, una volta scaduto il loro contratto-permesso di lavoro-soggiorno. Tuttavia si festeggiò il 10 settembre del 1964 alla stazione di Colonia quando giunse il carpentiere portoghese Amando Sa Rodrigues. Ebbe una motoretta in regalo. Era arrivato il milionesimo Gastarbeiter.

Il festeggiare l’arrivo del milionesimo lavoratore straniero, non nascondeva il fatto che nell’opinione pubblica incominciava a svilupparsi una discussione contraria alla presenza degli stranieri. Stavano diventando troppi, pensavano molti tedeschi. Il vantaggio economico portato dai Gastarbeiter era ben visibile, ma a livello sociale c’era un sacco di problemi. Si era cercata forza lavoro, ma erano arrivati uomini. Le loro condizioni di isolamento e di provvisorietà, la non conoscenza della lingua e i problemi connessi non erano presi in mano dai politici. Si creava malumore tra i tedeschi verso questi stranieri che volevano di più che non il solo lavoro e il partito di estrema destra NDP ne approfittava.

Con la crisi economica del 1966 ebbero di fatto fine le discussioni antistranieri. La manodopera straniera scese da 1.313.491 a 991255., nel giro di un anno. Dimostrò di essere stata programmata e usata oltre che come manodopera di riserva per settori difficili e non ben pagati, anche come valvola di sfogo per la recessione.

Riprese però subito dal 1968 a crescere rapidamente con il rilancio dell’economia tedesca.

Tra il 1968 ed il 1971 giunsero in Germania piu lavoratori stranieri di quanti fossero venuti dal 1955 al 1966, messi insieme. Con la situazione economica favorevole, anche i contratti di lavoro erano garantiti e, con essi, il permesso di soggiorno. Chi era licenziato o si licenziava da una ditta, subito trovava lavoro altrove. Non correva pericolo di essere espulso. Aumentava il numero dei ricongiungimenti familiari, e dal 1971 gli italiani furono superati dai turchi e poi dagli jugoslavi, come numero di presenza. Dal 1972, per la prima volta, quanti erano in Germania da cinque anni con permessi annuali, ottennero il permesso speciale di residenza, per cinque anni (Sonderaufenthalterlaubnis). Ne approfittarono in 400.000 e questa decisione fu loro molto utile, poco piu tardi. Gli italiani, gir dal 1969 erano in una situazione favorevole, perché godevano della libera circolazione, quali cittadini CEE.

Nel 1973 i lavoratori stranieri nella BRD erano 2,6 milioni, con una presenza totale, compresi i familiari, di quasi quattro milioni (3.966.200). Il 6,4 della popolazione.

La crisi del petrolio rese definitivo il progetto, gir pensato da qualche tempo dal governo socialista, di bloccare questo afflusso enorme: si introdusse nel 1973 l’Anwerbestopp (proibizione di portare manodopera straniera in Germania). Simile iniziativa era gir stata presa: nel ’70 dalla Svizzera e nel ’72 dalla Svezia; seguirr la Francia nel ’74.

La legge colpiva quei gruppi di lavoratori i cui paesi non facevano parte della Comunitr Economica Europea. Per esempio i Turchi che erano 910.525. Tuttavia la legge age come un segnale negativo sugli italiani e parecchi ritornarono in Italia. A fine 1973 c’erano ben 630.735 italiani in Germania. Calarono costantemente fino al 1979 toccando la quota di 594.424 persone. Dal 1980 inizin la ripresa, ma negli anni successivi, fino a tutt’oggi non si arrivn piu alla cifra del 1973. All’inizio dello scorso anno, eravamo 615.900.

Al contrario, la presenza dei Turchi che erano 910.525, contro i quali si dirigeva in particolare l’Anwerbestopp del 1973, crebbe in continuazione, per via dei ricongiungimenti familiari e delle nascite. Nel ’79 salirono a 1.268.307 ed oggi sono piu di due milioni. Tuttavia molti se ne sono andati sia dopo il 73 sia negli anni ’80. Lo stesso fecero molti greci.

La legge del ’73 non solo falle, ma ottenne l’effetto contrario. J. Hollifield parla di "paradosso liberale" a questo proposito. Il liberalismo economico richiese la chiusura delle frontiere, ma la sua dimensione etica gli imponeva di riconoscere il diritto ai ricongiungimenti familiari: il che agì contro l’interesse economico.

2 – Terzo periodo: 1980-1990

Gli anni ’80 sono segnati dall’assestarsi della generazione dei Gastarbeiter. Si sviluppa la loro coscienza di essere gruppo permanente in Germania, contro una politica che, al contrario, programma sempre varie forme di incentivi al rientro. L’associazionismo è ancora vivace. Le prime chiare forme di imprenditoria si manifestano. I risparmi non sono più spediti, con la stessa intensità di una volta, nel paese d’origine. Si investe in Germania, comperando appartamento o casa vecchia, lasciati dai tedeschi. Il permesso di soggiorno, in linea generale diventa più sicuro, ma i politici si muovono in modo contraddittorio. Il famoso memorandum Kühn del ‘79 progettava iniziative che favorissero il rimpatrio volontario e le iniziative sociali di integrazione erano concepite entro l’ottica di un’integrazione provvisoria. La Germania, contro quanto sociologicamente stava realizzandosi, dichiarava ancora apertamente di non essere terra d’immigrazione. E con l’andata al potere della CDU/CSU-FDP furono introdotti gli incentivi per il rimpatrio, accettati soprattutto dai turchi impiegati nel settore metallurgico. Contemporaneamente si acuì il problema di una presenza straniera che usufruiva, avendo pagato le tasse, degli aspetti positivi dello stato sociale tedesco quali il buon sistema sanitario, il sussidio di disoccupazione non certamente basso rispetto ad altri stati dell’Europa e il contributo di assistenza sociale, ma che era completamente tagliata fuori della partecipazione politica e da una seria possibilità di ascesa sociale. Dagli anni ’80 tra certi gruppi di stranieri diventa evidente e stabile una situazione di sottoproletariato, si sarebbe detto 30 anni fa, con il marchio dell’insuccesso scolastico, della scarsa presenza nell’apprendistato e della percentuale più alta nelle statistiche di disoccupazione. I numeri aumentarono ogni anno, in particolare per i turchi e gli italiani.

Gli anni ’80 sono caratterizzati anche dalla discussione del pericolo turco-islamico. Certi stranieri si, altri no. Nel 1980, sulla Die Zeit, settimanale liberale, Jürgen Schilling, segretario generale della Rote Kreuz tedesca, propone la linea della "consonanza naturale" "natülichen Affinität", come metro di soluzione per il problema della presenza degli stranieri e la possibilità della loro assimilazione. Pare di sentire il pensiero di certe persone eminenti italiane d’oggi. Un anno dopo, con il "manifesto di Heidelberg" un gruppo di intellettuali lanciò l’allarme contro il pericolo di inquinamento della cultura, della lingua e delle tradizioni tedesche.

Dal punto di vista socio-culturale quest’atmosfera costringeva gli stranieri a chiudersi. Anche le discussioni, poi diventate leggi che avrebbero introdotto il diritto di voto comunale ed europeo per gli immigrati degli stati membri dell’Europa, spaccavano in due non tanto una solidarietà tra i lavoratori stranieri che non è mai esistita, ma il loro esistere, le loro possibilità di crescita sociale, politica.

La seconda generazione piu che incipiente si c trovata a fare i conti con questa situazione. Molti adolescenti tirarono una croce sull’obiettivo dell’inserimento. Anche il loro insuccesso scolastico lo dimostra. Quasi un terzo degli alunni stranieri, ancora a metr degli anni ’80 lasciava la scuola dell’obbligo senza il diploma di promozione. C significativo il fatto che la presenza dei giovani nelle nostre Missioni italiane si accentun negli anni ’80. Anche tra i turchi ed altri gruppi l’associazionismo era un luogo di rifugio. Non si tornava piu in patria e non c’era volontr politica tedesca di integrare in modo partecipato ed attivo. Coloro che non erano piu Gastarbeiter, ma nemmeno cittadini crearono una zona franca nel proprio gruppo etnico. Questa tendenza non fu del tutto negativa. Questo serrar le fila permise di conservare la memoria sia delle proprie origini sia delle sofferenze e lotte per la casa, la scuola, la formazione professionale e la partecipazione degli anni settanta. In alcuni gruppi, quali i greci e gli spagnoli si intensificn la volontr di successo scolastico. Ma, considerando il tutto nella prospettiva degli anni ’90, si misero le radici per la crescita di un certo fondamentalismo islamico tra i turchi e si confermn l’abitudine alla rotazione tra gli italiani che in 40 anni sono arrivati in quattro milioni in Germania e 3,5 se ne sono andati e si ottenne il distacco dell’interesse degli stranieri verso altri gruppi di stranieri che arrivavano in Germania, non secondo la tradizione dei Gastarbeiter, ma in cerca di asilo politico, di rifugio.

La seconda metr degli anni ’80 c caratterizzata soprattutto dall’immigrazione dei richiedenti asilo.

La Convenzione di Ginevra del 1951, concepita soprattutto a protezione di quanti fuggivano dalle zone sotto la dominazione russa, ed il Protocollo aggiuntivo del 1967 che toglieva quella limitazione geografica, allargando la protezione ad ogni persona del mondo perseguitata per motivi di razza, religione, nazionalitr, appartenenza a particolari gruppi sociali, o per la propria posizione politica, costituiscono la base giuridica dell’accoglienza che c espressione di grande senso umanitario e civile, ma che, di fatto, in Germania, ha trovato mille opposizioni concrete pronte a bloccare i flussi dei rifugiati, nella misura in cui hanno incominciato a superare un certo livello.

I Padri della Costituzione della BRD, nel ’49, in memoria di quanti dovettero fuggire dalla Germania nazista, con l’Art. 16 posero le basi per una buona accoglienza di quanti fossero stati nella necessitr di chiedere asilo.

Ma dal 1983 al 1990 l’Europa e la Germania in particolare dovettero confrontarsi con un numero elevato di richiedenti asilo: 1,7 milioni di persone. Di queste ben 703.318 si rivolsero alla BRD, 277.474 alla Francia, 100.330 all’Austria, Inghilterra 86.972 ecc. In Italia presentarono domanda di asilo 37 510 persone. Concretamente in Germania, nel 1985, il numero era nove volte piu alto di quello dell’Inghilterra.

Pern se si fa il confronto tra tutta la popolazione di un paese di accoglienza ed il numero dei richiedenti asilo in quel paese, il quadro cambia. Per esempio, nel 1985, sono la Svezia e la Svizzera i paesi con piu domande di richiesta di asilo. E muta pure il giudizio se si confrontano, dei vari paesi d’Europa, le percentuali dei riconoscimenti d’asilo, rispetto alle domande presentate. Nel 1988 c’c, in Inghilterra una quota del 23%, in Francia del 35% in Germania dell’8,6% che scende, negli anni del 1989/90 al sei e poi 5%.

Contro il crescere continuo dei richiedenti asilo, a metr degli anni ‘80 in Germania, si riprendono slogan della campagna lanciata negli anni ’70 dalla CDU/CSU che accusava di terrorismo i cileni fuggiti alla dittatura di Pinochet, pur di non accoglierli. Si avvia un’azione tendente a smontare il richiedente asilo quale persona in reale bisogno. Si parla di “Asylanten” “Esilianti”, invece che di “Asylsuchenden” “richiedenti asilo”, cioc, in altre parole, di gente che con la scusa di persecuzione politica vuol essere accolta per godere dei vantaggi economico-sociali della Germania. Se si tiene presente che l’economia era in una fase difficile ed aumentavano il numero dei disoccupati, si comprende il fatto del diffondersi veloce di un’atmosfera xenofoba, anche tra gli stessi stranieri della Gastarbeitergeneration, dei lavoratori migranti, anche italiani.

Lo stato sociale tedesco, con i circa quattro miliardi di marchi, circa quattro mila milioni di lire italiane, che spendeva per sostenere i richiedenti asilo, nel 1989 e 1990 si sentiva sotto pressione. E un’assurda campagna politica giocn gli stranieri ed i disoccupati contro i richiedenti asilo.

Contro di loro specialmente se provenienti dall’Africa e dall’Asia c’era stata un giro di vite restrittivo dal 1987, ma proprio nel periodo della caduta del muro di Berlino il numero sale fortemente. Nel 1989 chiesero asilo 120.000 persone; nell’anno successivo 190.000, nel 1991 ben 260.000 e nel ’92 quasi 400.000. La Germania andn come in fiamme, per un’esplosione di xenofobia che colpe sia richiedenti asilo sia stranieri della prima generazione, turchi specialmente. Hoyerswerda nel settembre del ’91: cacciati dagli alloggi, assaliti, e presi a sassate interi gruppi di profughi. Hünxe: ottobre dello stesso anno; un incendio ustiona gravemente due bambini di profughi. Rostock-Lichtenhagen: agosto del’92: per giorni la gente applaude chi assale gli alloggi dei profughi e la polizia non interviene. E poi i gravissimi fatti di Mölln, nel novembre del’92 e di Solingen nel maggio del ’93: furono incendiate case di turchi, morirono anche bambini, gente nata e cresciuta in Germania. Nel luglio del 1993 l’art. 16a della Costituzione fu allora modificato, per restringere la base legale ai richiedenti asilo. Da allora chi entra in Germania da Stati terzi sicuri, c espulso. Con l’applicazione degli accordi di Schengen e intensi controlli, dal ’96 il numero dei richiedenti asilo c sceso sul 100.000 l’anno, restando costante.

Quarto periodo: gli anni ’90: le molte facce della presenza di stranieri in Germania.

Gli anni ’90, in Germania sono caratterizzati da un’immigrazione di gruppi che va sotto varie denominazioni per la loro specifica situazione. Li elenchiamo:

Immigrati proveniente dai paesi membri dell’Unione europea.

Immigrati per ricongiungimenti familiari.

Rifugiati a causa della guerra nell’ex Jugoslavia e nel Kosovo.

Immigrati d’origine tedesca (Aussiedler) provenienti soprattutto dalla Russia e dalla Romania.

Richiedenti asilo da vari stati del mondo.

Immigrati ebrei provenienti soprattutto dalla Russia.

Immigrati stagionali ed operai in trasferta.

Nel primo gruppo sono da segnalare gli italiani e poi i portoghesi. Dal 1993 al 1998 sono giunti 365.000 nuovi italiani in Germania, però quasi altrettanti sono tornati in Italia. È importante tener presente questa emigrazione attuale di italiani della quale quasi nessuno parla e che pure comporta enormi problemi e sofferenze. Gli italiani all’estero costituiscono certamente una risorsa per il paese d’origine, ma una nostrana e facilona politica tende a non vedere i problemi gravi ancora esistenti.

Durante la guerra nelle terre dell’ex Jugoslavia, la Germania accolse moltissimi rifugiati, la cui presenza fu sempre considerata provvisoria. Ebbero alloggio e sussidio, ma divieto di lavorare. Ora rimpatriano o sono costretti al ritorno.

In relazione agli Aussiedler, che sono di origine tedesca, anche di 4a o 5a generazione, il numero è stato contingentato dal 93 a 225.000 l’anno.

Il numero dei richiedenti asilo si riduce sempre più, sia per la legge sia è divenuta più restrittiva, sia per i tempi lunghi dei procedimenti di riconoscimento durante i quali non è dato il permesso di lavorare e si riceve un sussidio. Gli alloggi messi a disposizione creano spesso situazioni di ghetto.

Gli ebrei arrivati in Germania dal 1990 al 1998 sono circa 102.331. Hanno diritto ad un corso di tedesco ed al mantenimento per i primi sei mesi. Molti di loro lasciano la Germania per l’America o Israele.

La manodopera stagionale è elevata, specialmente da parte di polacchi e lavoratori provenienti dall’est dell’Europa. Le paghe sono basse e gli illegali molti. C’è anche un forte gruppo italiano. Nel 1997 un’inchiesta della CGIL parlava di 27 000 italiani, occupati sui cantieri di Berlino e nell’est della Germania, in condizioni di caporalato e di enorme precarietà con contratti d’appalto a volte da sfruttamento.

Per concludere

Già ho fatto cenno, nel corso dell’esposizione ad alcune decisioni legislative. Seguire tutta la casistica legislativa legata ai vari gruppi, nel giro di 40 anni di immigrazione in Germania, non è lo scopo di questo incontro. Tuttavia è importante rilevare che la Germania abbia cercato tre volte di regolare la presenza degli stranieri con leggi complessive, "Ausländergesetzt": nel 1965, poi nel 1990 ed infine nel 1999. Il principio base delle prime due leggi è la provvisorietà della presenza degli stranieri e l’affermazione che il diritto di essere tedeschi non è acquisito con il fatto di nascere in Germania, ma solo se si discende da genitori dei quali almeno uno è tedesco: è il diritto del sangue. Inoltre ancora nel 1990 si afferma chiaramente che la Germania non è terra d’immigrazione.

Con il governo attuale dei socialisti e dei verdi, la nuova legge ha eliminato il diritto del sangue. Chi nasce in Germania dal 1.1.2000, anche se da genitori stranieri, è tedesco e straniero contemporaneamente. Da maggiorenne deciderà quale nazionalità scegliere. La cittadinanza tedesca si ottiene con più facilità, però bisogna dimostrare di sapere ad un certo livello la lingua tedesca.

Questa legge ha rappresentato un certo passo in avanti, ma non in modo soddisfacente, neanche per gli immigrati dei paesi dell’EU. Pochi richiedono passaporto tedesco, specialmente tra gli italiani.

 

Che fare oggi?

Mi riferisco esplicitamente all’importante documento elaborato dalle Chiese Cristiane di Germania, sulle sfide poste dall’immigrazione a questo paese: " … und der Fremdling der in deinen Toren ist" – "…e lo straniero che è alle tue porte", pubblicato nel 1996. Ho fatto parte, su incarico della Conferenza Episcopale Tedesca, del gruppo che lo ha elaborato.

Questo documento è stato tradotto in italiano dalla Delegazione delle Missioni Cattoliche Italiane di Francoforte (v. Quaderno UDEP – Nr. 1 1998).

Dagli inizi degli anni ’70 le chiese hanno chiesto una politica sociale che partisse dai problemi reali dell’immigrazione. La chiesa cattolica, nel suo Sinodo vi dedicò un documento importante, anche se lesse, lei pure, in quegli anni, il fenomeno come provvisorio.

Le chiese conoscevano bene la situazione. Hanno svolto un’enorme funzione sociale, anche a garanzia di una convivenza pacifica con la loro azione socio-caritativa: la Caritas per parte cattolica e la Diakonisches Werk da parte evangelica e l’AVO. Tutto ciò fin dai primissimi anni 50. Lo stesso dicasi, rispetto alla chiesa cattolica, per la funzione svolta dalle Missioni cattoliche.

Una politica sociale di integrazione richiede un atteggiamento di dialogo e deve basarsi su un ampio consenso di base. L’opinione pubblica va coinvolta, deve partecipare positivamente. Bisogna aprire ad una visione positiva della presenza multiculturale di fatto. Ogni discorso, come quello della Leitkultur (cultura predominante) degli ultimi mesi influisce negativamente. Bisogna trovare un equilibrio tra la cultura e tradizione locale e quelle degli immigrati, come invoca il Papa nel suo discorso sulla pace di inizio anno 2001.

Nella società bisogna sviluppare incontri e discussioni per la conoscenza concreta dei fatti, uscire dagli slogan della stampa e vedere la presenza degli stranieri per quella che è, senza chiudere gli occhi di fronte ai problemi. È importante basarsi sul senso etico e della solidarietà della tradizione sociale delle chiese, bilanciando il bisogno del singolo con il bene comune, entro una visione globale dei bisogni e della realtà economica.

Guai a dimenticare in economia che la richiesta di forza lavoro è sempre richiesta di persone, con creazione di nuove relazioni sociali, anche con i problemi connessi.

La buona volontà e le discussioni devono poi confermarsi in leggi chiare che tocchino in modo complessivo i problemi dell’immigrazione in un paese. È assurdo procedere a strattoni e con pezze di soluzioni provvisorie.

Inoltre bisogna distinguere tra i vari tipi di presenza immigrata: un conto è parlare di immigrati per lavoro che vivono da 40 anni in Germania e dei loro figli ed un'altra è la situazione dei rifugiati per guerra, o richiedenti asilo politico.

Una politica sociale d’inserimento attivo dei migranti deve andare di pari passo con iniziative di economia politica a livello mondiale, capaci di affrontare i problemi della povertà là dove sorgono. Alla new economy mondiale, si deve contrapporre una concertazione politica a livello globale che non dimentichi la tradizione europea dello stato sociale.

Una nuova mentalità di rispetto della natura e delle sue risorse va diffusa, creando prospettive di speranza nei paesi poveri, non spogliandoli dei loro beni a vantaggio dei paesi sviluppati economicamente.

La scuola, la formazione professionale, la partecipazione a livello politico e civile sul posto ed a livello federale devono essere luoghi ed obiettivi di una politica dell’accoglienza, della tolleranza, del confronto positivo tra le diversità.

Il confronto tra le culture e le religioni, il dialogo tra loro hanno una dimensione importante in questa visione. Non basta affermare che tutti devono accettare i principi democratici e di convivenza stabiliti dalla Costituzione degli stati moderni.

E le chiese, nel loro dialogo ecumenico, devono vedere nella presenza immigrata un’espressione della pentecoste, ma nello stesso tempo dare dimensione politica alle proprie affermazioni ed azione concreta di dialogo, accoglienza ed aiuto.

La situazione, in Germania non è semplice. Lo scorso anno gli attentati contro ebrei e stranieri sono aumentati del 50% in certe regioni. Furono ben 14.000, come ha denunciato il presidente del parlamento Wolfgang Thierse nel suo discorso rivolto ai giovani in occasione del 27 gennaio, giorno della memoria di Auschwitz e di tutte le atrocità naziste.

40 anni di politica mancata per un’integrazione positiva, la situazione economica difficile nella zona dell’ex DDR e un certo rigurgito nazionalista, anche nel ceto medio, dopo la riunificazione possono aiutare a capire in parte questi fatti, non certamente a giustificarli. Soprattutto è necessario ricuperare il tempo perso con chiare azioni a livello politico e sociale per un’integrazione positiva rispettosa dei valori d’origine degli immigrati.

Non bisogna però dimenticare che i tedeschi dell’ex DDR, fino alla riunificazione della Germania, hanno vissuto un rapporto completamente diverso con gli immigrati provenienti soprattutto dai paesi comunisti dell’Africa e dal Vietnam. Questi emigranti potevano stare nella Germania comunista per un periodo limitato, segregati socialmente e costretti ad inviare una parte del loro stipendio ai rispettivi governi di origine. Molti vietnamiti sono rimasti in Germania, dopo la caduta del muro. Inoltre nell’ex DDR furono smistati molti richiedenti asilo politico. Nella difficile situazione di ricostruzione e di rilancio economico di tipo liberale che ha comportato un altissimo numero di disoccupati, la presenza degli stranieri è sentita come particolare difficoltà. Una mancata storia di confronto con lo straniero è oggi sfruttata in modo particolare dall’estrema destra.

Decisiva sarà però la coscienza e l’azione degli Anständigen, di "chi ha consapevolezza della propria responsabilità" perché cittadino, perché capace di programmare e condurre dibattiti, sviluppare iniziative concrete interculturali ed indicare strade che rendono la presenza dell’immigrato normale nella società, con reali possibilità di successo e di partecipazione per la costruzione del bene comune.

Le ACLI in Europa sono parte attiva di questa azione e questo incontro lo dimostra. Mi auguro un forte dibattito di approfondimento.

Grazie per l’ascolto.