Globalizzazione, Lavoro e Immigrazione

 

Mercoledì 9 Febbraio

aumento della produttività e diminuzione dell’occupazione

aumento della disuguaglianza tra Nord e Sud

povertà ed immigrazione .....

relatrice: Renata Livraghi

Università di Parma

 

 

 

 

 

1. Introduzione

La popolazione nel mondo sta continuando a crescere seppure a ritmi alquanto rallentati, relativamente al recente passato. Sta anche mutando nella sua struttura a causa dei variati flussi demografici: stanno, infatti, diminuendo in tutto il mondo le nascite e sta invece crescendo la speranza della vita delle persone. A causa delle decisioni intraprese nel passato, per la prima volta, si ha contemporaneamente una crescita rilevante delle generazioni giovani che stanno entrando nella vita riproduttiva e nei mercati del lavoro e nello stesso tempo, la percentuale delle persone anziane sta aumentando a un tasso mai visto sinora.

La struttura della popolazione è alquanto diversa nei paesi ricchi e nei paesi poveri. Nei paesi poveri vi sono molti giovani mentre nei paesi ricchi vi sono molti anziani. La crescita della popolazione inattiva, giovani e anziani che non possono partecipare ai mercati del lavoro per vincoli d’età, comporta una crescita del tasso di dipendenza dalla società. Le società, così caratterizzate, hanno risorse meno ampie da impiegare nei processi produttivi (forza lavoro) e pertanto capacità minori di crescita economica mentre aumentano i bisogni e cresce la domanda di beni di consumo. La capacità di creare nuovi posti di lavoro e i fenomeni migratori potrebbero correggere in maniera strutturale i problemi generati dagli squilibri demografici. Il processo di globalizzazione in atto che persegue una continua e maggiore integrazione economica tra le varie aree territoriali potrebbe contribuire a favorire questi processi di mobilità strutturali continuamente richiesti dai mercati.

L’evidenza empirica mostra la crescita dei flussi migratori dai paesi poveri verso i paesi ricchi eppure contemporaneamente crescono anche squilibri distributivi e territoriali (Frey, 1998). Nei paesi ricchi si è, infatti, registrato un peggioramento rilevante nella distribuzione personale del reddito: sono cresciuti i poveri e sono aumentati i ricchi (Livraghi, 1998). Coesistono situazioni di "carenze relative di lavoro" e di disoccupazione. Stanno sorgendo possibili conflitti tra lavoratori nazionali e lavoratori stranieri.

 

2. Dinamiche demografiche e struttura della popolazione nei paesi ricchi e nei paesi poveri

Nel corso degli ultimi trent’anni, la crescita demografica nel mondo si è rallentata, sta rallentando e potrebbe ulteriormente rallentare nei prossimi decenni. Contemporaneamente, però la popolazione mondiale sta tuttavia crescendo ancora, al ritmo di oltre 80 milioni d’individui l’anno e quindi, il rallentamento rispetto a questi livelli, non potrà che essere graduale. Nel 1990, la popolazione mondiale aveva superato i 5 miliardi di persone e nel 2000 supererà i 6 miliardi (cfr. tab. 1) e continuerà a crescere almeno fino alla metà del prossimo secolo.

 

Tab. 1 – Popolazione del mondo, dei paesi ricchi (Europa, Nordamerica, Australia, Nuova Zelanda, Giappone) e di quelli poveri

Anni

Popolazione (milioni)

Incremento % annuo

Ripartizione %

 

ricchi

poveri

mondo

ricchi

poveri

mondo

ricchi

poveri

mondo

1900

563

1.071

1.634

34,5

65,5

100

1920

654

1.203

1.857

0,76

0,58

0,64

35,2

64,8

100

1930

727

1.309

2.036

1,06

0,84

0,92

35,7

64,3

100

1940

794

1.473

2.267

0,88

1,18

1,07

35,0

65,0

100

1950

809

1.711

2.520

0,19

1,50

1,06

32,1

67,9

100

1960

911

2.110

3.021

1,19

2,10

1,81

30,2

69,8

100

1970

1.003

2.695

3.698

0,96

2,46

2,02

27,1

72,9

100

1980

1.080

3.364

4.444

0,74

2,22

1,84

24,3

75,7

100

1990

1.143

4.141

5.285

0,67

2,08

1,73

21,6

78,4

100

2000

1.186

4.972

6.158

0,37

1,83

1,53

19,3

80,7

100

Fonte: Onu.

 

Grafico n. 1

 

La popolazione di un’area territoriale è il risultato dell’andamento nel corso del tempo dei saldi demografici e di quelli migratori. Questi saldi possono essere positivi o negativi. Il risultato dipende dall’ammontare dei flussi delle nascite e dei morti e da quello delle immigrazioni e delle emigrazioni.

I fattori determinanti le nascite e le morti sono numerosi e complessi; non sempre coincidono con quelli che inducono le persone ad attuare processi di mobilità territoriale, di natura temporanea o permanente.

L'andamento dei tassi di fertilità è anche correlato al valore dei figli; valore che è attribuito ai figli dalle famiglie e dalla società, in un dato periodo e in una particolare area territoriale. Non esiste un metodo semplice e standard per misurare il valore dei figli per le famiglie e per la società. In ogni caso, in termini puramente economici, i figli sono un investimento costoso e questa consapevolezza fa desiderare una famiglia meno numerosa. Un altro elemento è costituito dal costo opportunità dei figli, vale a dire il valore delle attività cui si rinuncia per dedicare il tempo alla loro cura e alla loro educazione; valore che aumenta via via che accrescono le opzioni economiche e sociali delle donne. Quanto al calcolo dei benefici, i cambiamenti sociali ed economici degli ultimi trent’anni lo vanno modificando continuamente.

L'andamento dei tassi di fertilità è anche correlato agli stili di vita e alle aspettative delle persone. Gli stili di vita e le aspettative stanno subendo un rapido mutamento anche per effetto del processo di globalizzazione che implica una maggiore integrazione economica tra le diverse aree territoriali del mondo. Lavoro e famiglia sono gli elementi essenziali nel determinare gli stili di vita.

La speranza di vita è invece correlata positivamente allo sviluppo umano degli individui. Le persone vivono più a lungo quando riescono a soddisfare i bisogni essenziali degli esseri umani (alimentazione, salute, abitazione, istruzione, esercizio della libertà in senso positivo, partecipazione attiva). Una probabilità di vita elevata è pertanto un indicatore di sviluppo economico di un paese o di un’area territoriale.

Negli ultimi trent’anni, i paesi in via di sviluppo hanno compiuto progressi d’importanza rilevante per quanto riguarda la salute, in particolare di quella dei neonati e dei bambini: la durata della vita si è allungata e le persone scelgono, sempre più liberamente, d’avere figli e soprattutto di decidere la distanza tra una nascita e un'altra. Anche la maggioranza dei paesi in via di sviluppo ha scelto d’avere meno figli, riducendo non soltanto la propria fecondità, ma anche i tassi complessivi di crescita demografica. Tuttavia, l’eredità dell’elevata fecondità del passato determina il rapido incremento attuale della popolazione e il fatto che, tranne in Europa, si abbia la più numerosa generazione di giovani che non si sia mai vista. Questa generazione di giovani e i loro figli garantiranno l’incremento della popolazione mondiale ancora per molti anni.

Nel mondo vi sono ancora circa 71 paesi e territori dove oltre il 40% della popolazione ha meno di 15 anni: 44 si trovano in Africa, 12 in Asia, 8 negli Stati Arabi e 7 in America Latina.

Nei paesi ad elevato tasso di crescita economica, la quota di popolazione, al di sotto di 15 anni d’età, ha invece raggiunto un massimo intorno al 1960, cioè molto tempo prima e con valori minori di quelli riscontrabili nei paesi in via di sviluppo.

Al tempo stesso, le popolazioni più anziane sono in aumento sia nei paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo. In alcune regioni dell’Europa, del Nord America e del Giappone la percentuale degli anziani sta crescendo più rapidamente di quella di qualsiasi altro gruppo d’età. L’invecchiamento della popolazione è pertanto una caratteristica delle aree territoriali dove la "normalità" è data da un basso tasso di fecondità e da una probabilità elevata di avere una vita lunga. Nei paesi industrializzati, la quota di popolazione che ha più di 65 anni è passata dal 7,9% del 1950 al 13,5% attuale e si prevede che entro il 2050 raggiungerà il 24,7%. In tutti i paesi con tassi di fecondità più bassi (Europa, Nord America, Giappone e Australia), le persone con più di 65 anni sono ormai il 10-15% della popolazione totale e si prevede che entro i prossimi 30-35 anni raddoppieranno. I paesi che stanno invecchiando più rapidamente sono il Giappone, la Germania e l’Italia; quasi metà della popolazione totale sarà classificabile come anziana (40% e più). In alcuni paesi cresceranno in maniera rilevante le persone con più di 85 anni d’età ovvero le persone indicate come i "grandi vecchi". Questi cambiamenti demografici non hanno precedenti per dimensioni e rapidità.

In sintesi, un numero sempre maggiore di giovani sta entrando nell’età riproduttiva e nei mercati del lavoro e, al tempo stesso, il numero e la percentuale di persone con più di 65 anni d’età aumenta a un tasso di velocità sinora mai osservato. I giovani risiedono prevalentemente nei paesi poveri mentre gli anziani risiedono, per la maggior parte, nei paesi ricchi.

La diminuzione dei tassi di fertilità, prevista dopo il 2000, in alcuni paesi dell’Unione Europea (cfr. la tab. 2), i bassi indici di mortalità neonatale e la continua crescita della speranza di vita degli uomini e delle donne (cfr. la tab. 3) dovrebbero portare a una diminuzione dei tassi di variazione della popolazione attiva (cfr. la tab.4 ) e quindi dell’offerta di lavoro, in assenza di efficaci politiche attive del lavoro e di politiche sociali incisive, volte a creare migliori opportunità di partecipazione attiva per ciascuna persona e a combattere le cause che determinano esclusione sociale.

 

Tab. 2 - Popolazione totale nei paesi dell’Unione Europea dal 1960 al 2030 (migliaia di unità)

Paesi

1960

1990

2000

2010

2020

2030

Austria

7.048

7.712

8.138

8.180

8.169

8.093

Belgio

9.154

9.967

10.126

10.055

9.944

9.800

Danimarca

4.581

5.140

5.267

5.277

5.261

5.213

Finlandia

4.430

4.986

5.183

5.272

5.322

5.318

Francia

45.684

56.735

59.425

60.993

62.121

62.661

Germania

55.433

79.452

81.097

78.867

76.393

73.495

Grecia

8.327

10.089

10.692

10.748

10.616

10.442

Irlanda

2.834

3.503

3.723

4.019

4.262

4.460

Italia

48.967

57.661

57.930

56.824

55.139

53.172

Lussem-burgo

315

382

420

422

422

418

Paesi Bassi

11.486

14.952

15.794

15.999

16.064

15.912

Portogallo

8.865

9.868

9.875

9.861

9.839

9.792

Regno Unito

52.599

57.411

58.882

59.568

60.315

60.570

Spagna

30.303

38.959

39.237

39.058

38.543

37.753

Svezia

7.480

8.559

8.947

9.117

9.287

9.397

             

Totale Unione Europea

300.340

365.376

374.736

374.260

371.697

366.496

Totale nel mondo

3.019.000

5.266.007

6.113.680

6.944.433

7.742.124

8.474.017

Fonte: Oecd.

Tab. 3 - Indicatori mortalità dei paesi dell’Unione Europea nel 1996

Paesi

Mortalità neonatale Totale

Speranza di vita

Maschi

Speranza di vita

Femmine

Indice di mortalità materna

Austria

6

73,7

80,1

10

Belgio

7

73,9

80,6

10

Danimarca

7

73,0

78,3

9

Finlandia

5

73,0

80,1

11

Francia

7

74,6

82,9

15

Germania

6

73,4

79,9

22

Grecia

8

75,5

80,6

10

Irlanda

6

74,0

79,4

10

Italia

7

75,1

81,4

12

Paesi Bassi

6

75,0

80,6

12

Portogallo

8

71,8

78,9

15

Regno Unito

6

74,5

79,8

9

Spagna

7

74,5

81,5

7

Svezia

5

76,2

79,8

7

         

Media Unione Europea

6,5

74,2

80,3

11,4

Aree più sviluppate

9

70,6

78,4

 
Aree meno sviluppate

62

62,1

65,2

 
Aree sottosviluppate

100

50,9

53,0

 
Totale nel mondo

57

63,4

67,7

 

Fonte: United Nations Population Division, World Population Prospects: The 1996 Revision, New York. La mortalità neonatale misura i livelli di mortalità nel primo anno di vita per 1.000 nati vivi.

L’indice di mortalità materna indica il numero di decessi della madre per 100.000 nati vivi, dovuti a patologie connesse con la gravidanza, il parto e le relative complicazioni (Fonte: Unicef, World Health Organization, 1996).

 

Tab. 4 - Tassi di variazione della popolazione attiva (15-64 anni) nei paesi dell’Unione Europea dal 1960 al 2030 (variazioni percentuali)

Paesi

1960-1990

1990-2000

2000-2010

2010-2020

2020-2030

Austria

0,4

0,5

-0,1

-0,4

-1,0

Belgio

0,4

0,0

0,0

-0,6

-0,9

Danimarca

0,6

0,2

-0,1

-0,5

-0,7

Finlandia

0,7

0,3

0,1

-0,7

-0,5

Francia

0,9

0,4

0,4

-0,4

-0,4

Germania

1,3

0,1

-0,5

-0,8

-1,5

Grecia

0,7

0,6

-0,1

-0,5

-0,7

Irlanda

0,9

1,4

0,7

0,5

0,3

Italia

0,6

-0,1

-0,4

-0,8

-1,2

Lussem-burgo

0,7

0,8

0,0

-0,6

-0,9

Paesi Bassi

1,3

0,3

0,1

-0,7

-1,0

Portogallo

0,5

0,3

0,0

-0,2

-0,7

Regno Unito

0,3

0,2

0,2

-0,3

-0,6

Spagna

1,0

0,3

-0,2

-0,5

-1,0

Svezia

0,4

0,3

0,1

-0,2

-0,2

           

Totale Unione Europea

0,5

0,3

0,0

-0,0

-0,0

Totale nel mondo

1,7

1,6

1,2

0,8

Fonte: Oecd.

 

La diminuzione della popolazione attiva, ovvero delle persone con una età compresa tra i 15 e i 64 anni, determina una crescita del rapporto di dipendenza dalla società (Livraghi, 1996). Questa misura rispecchia l'esigenza che la società nel suo complesso provveda alla popolazione giovane e anziana. Occorre però precisare che per prendere delle serie decisioni di politica economica occorre tenere conto delle tendenze del tasso di disoccupazione, di quelle del tasso di occupazione, dell'età media pensionabile, delle politiche pensionistiche e di quelle di assistenza e di invalidità. Come si può osservare dalla tab. 5, il rapporto di dipendenza dalla società era nei paesi dell'Unione Europea pari al 55,6% nel 1960; questo rapporto è diminuito al 49,6% nel corso degli anni '90 e si prevede una crescita sino al 68,24% nel 2030. Il rapporto di dipendenza dalla società nel 2030 sarà maggiore, rispetto alla media dei paesi dell'Unione Europea, nei seguenti paesi: Germania (75,1%); Paesi Bassi (73,2%); Italia e Lussemburgo (72,7%); Austria (71,4%); Finlandia (70,9%); Svezia (70,4%).

 

Tab. 5 - Rapporti di dipendenza dalla società nei paesi dell’Unione Europea dal 1960 al 2030 (in percentuale)

Paesi

1960

1990

2000

2010

2020

2030

Austria

52,1

48,2

49,3

51,3

56,7

71,4

Belgio

55,0

49,2

50,9

49,3

57,0

68,9

Danimarca

55,8

47,9

49,1

51,3

57,9

67,0

Finlandia

60,6

48,4

49,2

50,4

62,7

70,9

Francia

61,3

51,1

52,8

51,2

59,6

67,9

Germania

47,4

45,3

46,7

50,0

57,3

75,1

Grecia

52,0

49,6

48,8

51,7

57,1

66,3

Irlanda

70,6

61,4

49,8

51,3

52,6

54,5

Italia

47,9

45,5

47,8

51,5

58,8

72,7

Lussem-burgo

47,4

44,8

48,4

50,0

58,5

72,7

Paesi Bassi

63,9

44,5

47,7

47,5

58,1

73,2

Portogallo

59,1

50,7

46,4

46,6

50,0

59,8

Regno Unito

53,7

52,9

54,0

52,3

58,3

68,0

Spagna

55,1

49,3

45,3

46,9

52,7

64,8

Svezia

51,8

55,3

57,9

58,5

65,1

70,4

             

Totale Unione Europea

55,6

49,6

49,6

50,6

57,5

68,24

Fonte: Oecd:

I tassi di dipendenza dalla società potrebbero diminuire, se si fosse in grado di attuare una reale integrazione tra le diverse aree territoriali del mondo. In altri termini, il processo di globalizzazione in atto dovrebbe comportare convergenza economica e coesione sociale. Su questo punto gli economisti sono molto divisi.

 

3. Il processo di globalizzazione e la mobilità della forza lavoro

La globalizzazione è il prodotto di molte forze, tecnologia, imprese multinazionali, nuovi spazi di comunicazione (Frey, 1998), così come sostiene la tradizionale concorrenza perfetta di tipo neoclassico, ognuna delle quali porta all’esistenza del mercato globale ossia a una economia concepita come essenzialmente la medesima in tutte le sue parti. Scrive Ohmae che:

"sta emergendo un’isola più grande di un continente, la Interlinked Economy (Ile) della Triade (Stati Uniti, Europa e Giappone) con l’aggiunta di economie aggressive come Taiwan, Hong-Kong e Singapore. Sta diventando così potente che ha ingoiato la maggior parte dei consumatori e delle società, ha fatto sparire i confini tradizionali e ha conferito a burocrati, politici e apparati militari lo status di industrie in declino. L’emergere della Ile ha creato molta confusione, in particolare per coloro i quali erano abituati ad avere a che fare con politiche economiche basate sulla statistica macroeconomica e convenzionale che confronta una nazione con l’altra. Le loro teorie non funzionano più. Mentre gli economisti keynesiani si aspetterebbero di vedere un aumento degli occupati durante una ripresa economica, le economie della Ile spesso deludono. I posti di lavoro potrebbero invece crearsi all’estero. Se il governo restringe l’offerta di moneta, i prestiti potrebbero riversarsi all’estero e rendere la politica monetaria nazionale quasi insignificante. Se la banca centrale prova ad aumentare i tassi di interesse, fondi meno onerosi entrano da qualche altra direzione nell’ambito della Ile. Per tutti gli aspetti pratici, la Ile ha reso obsoleti i tradizionali strumenti delle banche centrali, tassi di interesse e offerta di moneta" (Ohmae, 1997).

Il dibattito sulla globalizzazione ha pertanto riacceso, tra gli economisti, le discussioni sulla crescente interdipendenza economica e, quindi anche, sulla possibilità per le società nazionali di mantenere i tratti specifici delle loro organizzazioni sociali, politiche, culturali ed economiche. Le conoscenze disponibili sembrano suggerire che le imprese adottino tecnologie simili, che gli stili di vita si stiano omologando in tutti i paesi industrializzati, che la globalizzazione e la sofisticazione dei mercati finanziari stiano portando a un allineamento delle economie nazionali. Tra l’altro, molti autori prevedono che lo stato nazionale sarà presto obsoleto e che gli spazi di manovra dei governi divengano sempre più limitati (Strange, 1998). Inoltre, se:

"la produzione snella è destinata a sostituire la vecchia produzione fordista di massa, allora la maggior parte delle organizzazioni economiche e sociali dovrà essere ridisegnata per renderla conforme alle organizzazioni più efficienti in ogni settore" (Wade, 1998).

Queste affermazioni sono linee di tendenza che sembrerebbero indicare che il processo di globalizzazione stia davvero generando automaticamente un processo di convergenza economica e sociale. Di fatto, il processo di convergenza è lento e incerto. Passando in rassegna le ricerche sulle economie industriali nell’arco del secolo passato si deve concludere che si può trovare convergenza o divergenza in base a come si selezionano i paesi e il periodo in cui si è condotta la verifica empirica.

"Quando si osservano i differenziali fra i paesi avanzati e quelli in via di sviluppo, diventa chiaro che non c’è alcuna convergenza: piuttosto il contrario. Tra i paesi più avanzati, comunque, i risultati sono abbastanza eterogenei" (Berger, 1998).

Tuttavia, Baumol e altri economisti sostengono che c’è convergenza, ma solo:

"nel piccolo club di nazioni che sono state capaci di investire a sufficienza in produttività, infrastrutture e istruzione" (Baumol, Blackman, Wolff, 1991).

Boyer sostiene poi che se c’è una tendenza di lungo periodo verso la convergenza delle misure dei risultati macroeconomici tra i paesi ad elevato tasso di sviluppo economico è tuttavia a un ritmo lento (circa il 2% l’anno) e, perfino dopo un quarto di secolo, il divario iniziale di produttività sarà ridotto solo di metà (Boyer, 1998).

Il processo di globalizzazione è il riflesso di un’enorme mobilità delle finanze, dei capitali fisici e del lavoro in tutte le parti del mondo (Frey, 1998) per questo i tassi di dipendenza economica dei paesi ricchi potrebbero diminuire se si favorisse il processo d’immigrazione dei giovani dai paesi poveri verso i paesi ricchi. In altri termini, il processo di mobilità strutturale dovrebbe assicurare crescita economica e una riduzione degli squilibri distributivi e territoriali. Di fatto, invece, emerge che:

"I movimenti migratori avrebbero avuto, in base agli insegnamenti provenienti da ricerche effettuate (Aa. Vv., 1992; Frey, Chilosi, Malle, 1992; Frey, Livraghi, 1996) e in corso, effetti rilevanti sui mercati del lavoro dei paesi di arrivo e più in generale sugli squilibri in termini di sviluppo umano all'interno di essi. Per quanto concerne gli effetti sul mercato del lavoro, si può con fondamento ritenere che i flussi di immigrazione abbiano favorito il permanere o addirittura la crescita di livelli elevati di disoccupazione, nonché l'aumento degli squilibri nella struttura dei redditi da lavoro, nei paesi con livello di sviluppo elevato." (Frey, 1998).

Perché nella realtà non accade quanto è stato previsto nei modelli di crescita economica dove il trasferimento di lavoratori da un’area a un’altra produce un equilibrio economico generale?

 

4. Costi e benefici delle migrazioni nelle diverse aree territoriali

Nell’ormai noto modello di Lewis (Lewis, 1954), il trasferimento dei lavoratori da un settore arretrato (in quel caso il settore agricolo) caratterizzato da una produttività alquanto bassa e da salari di sussistenza verso un settore capitalistico (in quel caso il settore industriale) favorisce la crescita economica e l’equilibrio tra i due settori. Questo risultato è però ottenuto solo se si verificano due ipotesi: costanza della tecnologia e il reinvestimento dei profitti che permette l’assorbimento della forza lavoro in eccesso, presente nel mercato del lavoro del settore arretrato, sino a quando si realizzi l’uguaglianza delle produttività e dei salari nei due settori ovvero la convergenza nel sistema economico. Se si verificano le due ipotesi del modello, la mobilità dei lavoratori da un settore a un altro o da un’area territoriale a un’altra sostiene e favorisce la crescita e lo sviluppo economico.

Il modello di Harris e Todaro raggiunge risultati diversi poiché introduce ipotesi più complesse e più realistiche (Harris e Todaro, 1970). In questo caso, i processi di mobilità dovrebbero alimentare gli effetti squilibranti nei mercati del lavoro nelle aree di arrivo, già esistenti (situazioni di disoccupazione), indipendentemente dai flussi di immigrazione. In altri modelli, si tiene poi conto di alcune caratteristiche qualitative della forza lavoro disponibile ai processi di mobilità territoriale come la temporaneità, la sua non perfetta sostituibilità con la forza lavoro nazionale, la maggiore disponibilità ad accettare variazioni salariali e condizioni di lavoro peggiori di quelle normalmente presenti nei mercati del lavoro locali (Eithier, 1985).

Le migrazioni producono effetti nei mercati del lavoro locali sia nelle aree di arrivo sia nelle aree di partenza. In particolare, un processo migratorio produce effetti sull’occupazione e sui saggi di salario quindi un’analisi dei costi e dei benefici nelle diverse aree (di partenza e di arrivo) s’impone. Se si effettua un’analisi macroeconomica si tende a trascurare ciò che succede a livello di singolo individuo. La letteratura economica suggerisce che si possono avere molto spesso effetti positivi (diminuzione dello stock di disoccupazione) nelle aree di partenza con il trasferimento in altre aree di lavoratori che in precedenza erano disoccupati o in cerca di prima occupazione. Questo flusso di lavoratori in uscita favorisce la crescita della produttività marginale del lavoro nelle aree di partenza ossia nei paesi poveri. I modelli indicano che il fenomeno migratorio dovrebbe determinare in quei paesi una crescita economica più elevata e quindi un aumento del reddito pro-capite. Quest’effetto dovrebbe essere accelerato dalle rimesse che i lavoratori emigrati inviano ai familiari che sono rimasti nei paesi di partenza. Il beneficio per i paesi poveri è inversamente correlato all’accumulazione del capitale umano dei lavoratori emigranti e all’impiego delle rimesse degli emigranti. L’effetto dell’emigrazione non sarà pertanto positivo per i paesi poveri se gli individui che emigrano sono lavoratori qualificati e se le rimesse sono impiegate in beni di consumo.

Gli effetti del processo migratorio, nelle aree di destinazione sembra essere positivo poiché i benefici sembrano essere maggiori dei costi da sostenere. Da un lato, si creano le condizioni per produrre con un costo del lavoro minore mentre dall’altro lato, la spesa sociale non dovrebbe superare gli oneri sociali pagati poiché la un numero rilevante di persone presenta frequenti ritorni nei paesi di origine e molti immigrati sono uomini giovani che vivono da soli e ciò dovrebbe comportare un utilizzo dei servizi sociali inferiore alla media.

Gli effetti dell’immigrazione nei mercati del lavoro costituiscono un’altra importante area d’analisi e di riflessione. Il primo effetto che si cerca di indagare è se i lavoratori immigrati sono complementari o sostitutivi dei lavoratori nazionali. Per cercare di stimare gli effetti del processo migratorio nei paesi d’arrivo ovvero in quelli ricchi è necessario conoscere innanzitutto l’effetto dell’immigrazione sui salari sia dei lavoratori stranieri sia dei lavoratori nazionali. L’evidenza empirica mostra che l’immigrazione di lavoratori poco qualificati non ha effetto sulle retribuzioni dei lavoratori nazionali qualificati ma sui salari dei lavoratori nazionali non qualificati e stranieri immigrati di prima generazione (Borjas, 1985). Il lavoratore straniero raggiunge la stessa capacità di guadagno del lavoratore nazionale in un periodo di tempo che varia in base alla coorte di entrata e al paese di origine. In altri termini, la parità dipende in larga misura dall’indice di sviluppo umano dei vari gruppi nazionali.

Gli effetti dei lavoratori immigrati nei mercati del lavoro di arrivo dipendono soprattutto dalla "carenza relativa di lavoro" (relative labour shortage). Questo concetto sta a indicare la mancanza d’offerta di lavoro in certi settori o con determinate caratteristiche professionali anche in presenza di una sufficiente quantità di lavoro, complessivamente disposta a lavorare in un dato sistema economico (Frey, Livraghi, 1996). Tale definizione fa riferimento ad un dato sistema economico nazionale in cui si assume l'esistenza di un insieme di mercati del lavoro differenziati (dal lato della domanda di lavoro) per settore e professione e in cui lo stock di offerta di lavoro disponibile a livello di sistema, per quanto rilevante su piano quantitativo, può non rispondere su piano qualitativo alle esigenze di domanda su ciascun mercato.

 

5. La complessità dei mercati del lavoro nelle aree di arrivo dei processi migratori

Volendo precisare tale definizione in termini quantitativi, si possono valorizzare i suggerimenti provenienti dalle analisi e dalle discussioni sui cosiddetti mismatches sui mercati del lavoro. Il mismatch, che ha attratto l'attenzione degli economisti nell'ambito delle spiegazioni della disoccupazione (Padoa Schioppa, 1991), è definito come una mancata corrispondenza tra domanda e offerta di un certo tipo di lavoro in modo tale che ne risultino contemporaneamente disoccupazione e posti di lavoro vacanti (Layard, Nickell, Jackman, 1991). L'applicazione empirica del concetto di mismatch presuppone che i lavoratori e i posti di lavoro siano differenziabili secondo specifiche caratteristiche, in particolare con riguardo alla capacità professionale ed alla localizzazione geografica. Il mismatch geografico è identificato in presenza di limitata mobilità dei lavoratori. In presenza di movimenti migratori, quindi di mobilità (sia pure parziale) dei lavoratori, assume particolare rilievo lo skill mismatch che emergerebbe quando determinati posti di lavoro non possono essere coperti da persone prive di una specifica capacità professionale, quando i lavoratori non siano in grado di acquisire prontamente nuove capacità, quando i lavoratori siano riluttanti ad accettare posti di lavoro per i quali siano richieste capacità diverse da quelle che dispongono. Identificare e misurare lo skill mismatch non è semplice. Occorrerebbe individuare specifici "micromercati" in cui il lavoro si possa considerare omogeneo dal punto di vista delle capacità professionali richieste dalla domanda di lavoro e a cui si rivolgono lavoratori con date caratteristiche qualitative. Tra l'altro, non è facile riferire i lavoratori disponibili a un dato posto di lavoro, poiché ogni individuo può essere in grado di svolgere mansioni diverse e quindi di offrire lavoro su vari "micromercati".

Il job mismatch può essere comunque individuato in particolare quando appare a posteriori, in un determinato "micromercato", una carenza di offerta di lavoratori con le richieste della domanda di lavoro. In tale mercato emergerebbe un’eccedenza di disponibilità dello specifico posto di lavoro.

Per spiegare l'esistenza di "carenza relativa di lavoro", bisogna anzitutto assumere che vi sia differenziazione tra diversi mercati del lavoro per professione e per regione. Tale differenziazione potrebbe in prima approssimazione essere ricondotta ad imperfezioni dei mercati del lavoro che ostacolino la mobilità del lavoro (rendendola difficile e costosa) o comunque riducano sensibilmente il funzionamento dei meccanismi di mercato, così come era stato già ipotizzato ampiamente da economisti pre-keynesiani (Casson, 1983); oppure potrebbe essere ricondotta, sempre in una logica neo-classica, a differenze qualitative che rendono il lavoro eterogeneo: una spiegazione aggiornata di tali differenze potrebbe fare riferimento ad ipotesi di teoria del capitale umano (Rosen, 1989) che facciano dipendere le differenze qualitative dei lavoratori, dal punto di vista della domanda di lavoro, dal livello di formazione ed esperienza operativa professionalizzante conseguito da essi.

Nei limiti in cui però si assume, come nel caso delle contraddizioni ipotizzate, con riguardo ai mercati del lavoro in Italia, che la "carenza relativa di lavoro" riguardi buona parte o addirittura tutti i tipi di mercati del lavoro in considerazione, diviene necessario scostarsi decisamente dagli schemi tradizionali neoclassici di equilibrio economico generale. Una via aperta è quella di ipotesi che siano in grado di spiegare la consistenza di posti di lavoro vacanti e di disoccupazione facendo uso delle cosiddette "curve di Beveridge", che sono state perfezionate sia in una prospettiva neo-keynesiana che ha introdotto una famiglia di "curve di Beveridge", con riferimento alla diversa incidenza di fattori strutturali che ostacolerebbero il funzionamento dei mercati del lavoro, sia in una prospettiva di teoria neo-classica riveduta con l’introduzione di matching functions e di informazioni disaggregate sui posti vacanti/disoccupazione. Tuttavia, anche se tale via si è rilevata interessante e tra l'altro utile per analizzare come le diverse probabilità d’immigrazione di lavoratori esteri possano incidere sulle "curve di Beveridge" (Hansen, 1993), possono emergere perplessità dal punto di vista della capacità esplicativa di tali ipotesi nei confronti dell'esistenza e di eventuali modifiche di "carenza relativa di lavoro". Infatti, nell'insieme, le spiegazioni della consistenza di posti di lavoro vacanti con disoccupazione assumono che entrambi siano eterogenei per fattori esogeni (che non sono approfonditi) e che sia gli imprenditori che i lavoratori siano coinvolti in "processi di ricerca di una contropartita sufficientemente simile da rendere il relativo contratto di impiego profittevole per entrambi le parti", in cui avrebbero un ruolo importante variabili come i salari, i prezzi, la produttività. Ora, per quanto queste variabili siano apparse rilevanti per spiegare importanti mutamenti nella mobilità territoriale dei lavoratori in Germania e in Italia (Franz, 1991, Attanasio e Padoa-Schioppa, 1991), le verifiche empiriche sulle "curve di Beveridge" e sui fattori che possono avere influito (in base alle ipotesi suggerite dalle analisi dinamiche dei mercati del lavoro) sulla durata e sui flussi di entrata nei posti di lavoro vacanti e nella disoccupazione negli Stati Uniti e in Germania (Schettkat, 1992) avrebbero mostrato che, da un lato è possibile ricondurre genericamente gli spostamenti delle "curve di Beveridge" a fattori strutturali esogeni senza però chiarire quali, dall'altro lato dei problemi più rilevanti si incontrano quando si vogliono spiegare i mutamenti riguardanti i posti di lavoro vacanti.

Le teorie della segmentazione dei mercati del lavoro hanno distinto due mercati del lavoro all'interno di un sistema economico: l'uno primario, con livelli di salari e produttività più elevati; l'altro secondario, con livelli di salari e produttività più bassi. La crescita economica e il conseguente miglioramento delle condizioni di vita condurrebbe a concentrare la domanda e l'offerta di lavoro nel primo settore, procurando una "carenza relativa di lavoro" nel secondo settore, nei limiti in cui la struttura salariale (e dei prezzi) permanga squilibrata rispetto alle condizioni di equilibrio proposte dal "lato dell’offerta" dei mercati del lavoro.

Più convincenti appaiono le spiegazioni della segmentazione dei mercati del lavoro che valorizzano le ipotesi sul "mercato del lavoro interno". L’immigrazione in Italia è stata analizzata utilizzando tali schemi teorici. Il mercato del lavoro è stato disaggregato in tre mercati distinti l’uno dall’altro: un mercato primario interno alle imprese (lavoro professionalizzato che rimane stabilmente occupato); un mercato secondario interno (lavoro con professionalità generica, con scarse possibilità di carriera ed instabilità del posto di lavoro) e un mercato secondario, esterno al sistema delle imprese. Sarebbero le strategie delle imprese (in termini salariali e di altre condizioni di lavoro che tendono ad attrarre e mantenere stabilmente l'impiego di lavoro "pregiato" dal punto di vista delle strategie produttive e di mercato) a determinare l'esistenza di un mercato del lavoro primario in date imprese, mentre le tecnologie, l'organizzazione del lavoro e la domanda dei prodotti determinerebbero la separazione di tale mercato primario dal mercato secondario nello stesso sistema delle imprese (con riguardo ad imprese meno innovative, organizzate prevalentemente secondo un modello fordista, collocate in mercati dei prodotti meno dinamici) e dal mercato secondario esterno a tale sistema (caratterizzato dall'impiego in attività produttive, in parte notevole classificabili nella cosiddetta "economia sommersa", con tecnologie e schemi organizzativi poco efficienti, limitato accesso ai mercati dei prodotti, condizioni di lavoro particolarmente sfavorevoli). Le tecnologie e l'organizzazione del lavoro, e il cambiamento di essi, possono influire in modo molto importante sulla domanda di lavoro presente sui mercati del lavoro nei paesi tecnologicamente avanzati. In particolare, possono contribuire a spiegare la formazione di "carenza di lavoro" con elevato livello di capacità professionale, specialmente nei mercati primari, con effetti di "carenza relativa di lavoro" almeno a livello di sistema economico nazionale e di attrazione di immigrati con tali caratteristiche qualitative da altri sistemi.

Soltanto altre ipotesi riguardanti il comportamento dei lavoratori non disposti ad offrire lavoro sui mercati secondari possono consentire passi in avanti al riguardo.

Secondo la teoria neoclassica, l'offerta di lavoro dipenderebbe (almeno entro certi limiti e con date cautele) dal salario. Alcuni perfezionamenti dell'ultimo quarto di secolo nelle teorie dinamiche del mercato del lavoro, fondati su condizioni di mercato imperfette e sull'impiego di schemi probabilistici, hanno introdotto il concetto di "salario minimo d’accettazione" (reservation wage), al di sotto del quale il lavoratore non sarebbe disposto ad offrire lavoro anche se disoccupato. In base a queste ipotesi, la "carenza di lavoro" su un determinato mercato del lavoro deriverebbe o genericamente da un livello salariale troppo basso rispetto al reddito da lavoro desiderato dai lavoratori in cambio della rinuncia all'utilizzo diretto del tempo libero, o meglio da un livello salariale troppo basso per incentivare il lavoratore ad accettare il posto disponibile.

Gli sviluppi dell'economia del lavoro (Pencavel, 1986) hanno sottolineato che le decisioni in merito all'offerta di lavoro tendono a coinvolgere la famiglia piuttosto che l'individuo e sono dipendenti solo in misura molto limitata dal livello e dalle variazioni del salario. I sempre più connessi sviluppi dell'economia della famiglia (Livraghi, 1994) hanno d'altronde condotto a porre l'accento sul ruolo che possono avere, nel determinare il comportamento dei vari membri della famiglia, oltre al reddito familiare, anche vari altri aspetti delle condizioni di vita dei membri della famiglia.

Proprio partendo da tali sviluppi, si può ipotizzare che il comportamento dei lavoratori, oltre a riferirsi alla quantità di tempo di lavoro da offrire con riguardo ad uno specifico posto, possa condurre a scegliere o non scegliere (pertanto rifiutare) un posto a cui siano associati condizioni di lavoro (monetarie e non monetarie) che sono considerate non soddisfacenti dai lavoratori che effettuano la scelta.

I bad jobs sono quei posti di lavoro che la maggior parte dei lavoratori dei mercati locali non considera soddisfacenti e quindi, per esclusione, gli altri sono considerati good jobs. Alcuni economisti tradizionali definiscono un "posto di lavoro cattivo" come quello disponibile a un saggio salariale tale che la maggior parte dei lavoratori, presenti in dati mercati del lavoro locali, non accetterebbe.

Anzitutto, occorre osservare che la definizione di posto è stata formulata con maggiore precisione da discipline sociali che hanno approfondito la problematica dell'organizzazione del lavoro. In tale luce, i posti risultano collocati in un sistema organizzativo con riferimento ad una serie di compiti che i lavoratori devono svolgere, ottenendo in cambio specifiche condizioni monetarie e non monetarie di lavoro. Ora, i "bad jobs" comporterebbero una valutazione dell'insieme delle condizioni di lavoro che li colloca al di sotto di una certa soglia, nella valutazione prevalente presso i lavoratori. Tra le condizioni di lavoro rilevanti, vi possono essere le prospettive di carriera (che tra l'altro incidono sulle aspettative dei salari futuri dei lavoratori), il trattamento pensionistico (che incide sul cosiddetto "salario differito"), la sicurezza e la stabilità nel tempo del rapporto di lavoro, la possibilità di acquisire conoscenze ed esperienza che diano forza contrattuale sui mercati del lavoro, la nocività del lavoro, i rapporti con i capi e con gli altri lavoratori, il grado di autonomia nel lavoro, ecc. Le ricerche sociologiche e di psicologia sociale insegnano anche che, tra le condizioni di lavoro, assume notevole rilievo il grado di prestigio connesso ad un determinato posto; su tale prestigio avrebbero un'importanza decisiva l'ambiente sociale in cui il lavoro è svolto e le circostanze culturali e storico/istituzionali che condizionano tale ambiente. Le medesime ricerche insegnano però anche che la misurazione delle "qualità" del lavoro, al di là dei dati quantitativi sulle condizioni monetarie del lavoro, è tutt’altro che facile; ancor più difficile è giungere alla misurazione di specifiche "qualità" e di valutare il significato di mutamenti di esse dal punto di vista della comparazione dei posti di lavoro nel tempo.

Nella letteratura sui movimenti migratori (Böhning, Abella e Park, 1995), sono state definite tre caratteristiche qualitative che iniziano con la lettera D (dirty, dangerous, demanded too much). Una versione giapponese ha trasformato le tre D in tre K (kitanai, kiken, kitsui). In ogni modo, l'attenta considerazione della gamma di condizioni di lavoro accennata in precedenza pone seri dubbi che la sola considerazione delle tre D possa essere sufficiente per definire i posti che attraggono immigrati perché rifiutati dai lavoratori presenti in dati mercati del lavoro locali. Soprattutto se si tiene conto che i processi di terziarizzazione avvenuti nei paesi tecnologicamente avanzati (sia pure con modalità e tempi diversi) negli ultimi trenta anni ed i profondi mutamenti tecnologici ed organizzativi hanno profondamente cambiato molte caratteristiche qualitative dei posti di lavoro, senza però evitare che si sia avuta disoccupazione in specifiche regioni accompagnata da una gamma crescente di posti di lavoro vacanti, con particolare riguardo a posti con condizioni di lavoro relativamente peggiori di altri, appare opportuno fare riferimento a una gamma di condizioni di lavoro più ampia e flessibile che non i 3D/3K.

Dunque, a questo punto, si ritiene di ipotizzare che il comportamento dei lavoratori da tempo presenti in dati mercati del lavoro locali, con particolare riguardo al rifiuto di specifici posti a causa delle ritenute insoddisfacenti condizioni di lavoro connesse a tali posti, ha influito e tende ad influire sulle "carenze relative di lavoro" riscontrabili in Italia come in altri paesi avanzati, contribuendo così ad attivare, dal lato della domanda di lavoro, i flussi d’immigrazione.

La problematica del rifiuto del lavoro è emersa in Italia nel corso degli anni '70 in connessione alla problematica di disoccupazione/sottoccupazione giovanile.

Il rifiuto del lavoro da parte dei giovani avrebbe assunto due forme. La prima sarebbe consistita nell'accettazione di un posto di lavoro qualsiasi, ma in modo occasionale e discontinuo e senza coinvolgimento personale, nella convinzione che i posti accessibili non consentissero di trovare identità nel lavoro, contrariamente a ciò che era ritenuto dagli adulti anche operai. Secondo alcuni però in questo caso non si tratterebbe di rifiuto al lavoro, ma piuttosto di mancanza di attaccamento al lavoro come valore. La seconda forma sarebbe derivata dalla preferenza di molti giovani, di entrambi i sessi, specialmente di quelli che avevano avuto modo di beneficiare dell'elevazione dei livelli di istruzione avvenuta a partire dall'inizio degli anni '60, per il lavoro non manuale e per i posti prevalentemente classificati nell'ambito dei servizi. Il lavoro manuale, oltre ad essere normalmente peggio retribuito di quello intellettuale, avrebbe in particolare presentato una molto limitata possibilità di autorealizzazione.

Tra i posti rifiutati da buona parte dei giovani, ed in particolare dalle giovani donne, assumono, speciale rilievo, quelli riguardanti il lavoro domestico, in un contesto di crescita dell’offerta di lavoro delle donne residenti.

Tali giovani donne potrebbero essere considerate come un segmento marginale dell'offerta di lavoro giovanile femminile; il resto di offerta di lavoro giovanile femminile italiana ignorerebbe tali posti, volgendosi invece verso altri posti, con condizioni di lavoro e status sociali diversi. Il dibattito sulla distinzione tra "good" e "bad" jobs condurrebbe a classificare i posti disponibili per tale segmento marginale come "bad". Analogamente, si possono riscontrare altri segmenti marginali di offerta di lavoro, non soltanto riferibili a giovani bensì anche ad adulti (specialmente con livello di istruzione molto basso), che riescono a trovare occupazione solo in dati posti, in cui è presente una rilevante (e spesso crescente) quota di immigrati. Si può pertanto utilizzare anche per l'Italia la quota di immigrati (o meglio la concentrazione di essi) sulla specifica professione complessiva come indicatore indiretto di "bad jobs".

Ora, le ricerche sull'immigrazione in Italia consentono anzitutto di rilevare, a parte il peso notevole dei collaboratori domestici e talune peculiarità derivanti da profonde differenze territoriali che si riflettono tra l'altro sul peso dei braccianti agricoli, una concentrazione settoriale degli immigrati, non molto diversa da quella riscontrabile in altri paesi europei. Le ricerche confermano però che esistono diverse Italie. Occorre in particolare distinguere il Nord dal Sud Italia. Un'altra distinzione s’impone tra le aree metropolitane e le aree rurali. Nel Nord, la situazione appare più simile a quella tedesca: vi è una concentrazione rilevante d’immigrati nelle attività manifatturiere, con particolare riguardo ai lavori poco pagati, con condizioni di lavoro particolarmente sfavorevoli fino al punto da richiamare, come nel caso delle fonderie, di altri comparti delle industrie metalmeccaniche dell'industria delle materie plastiche, di alcuni comparti delle industrie alimentari, delle industrie delle costruzioni, le 3D menzionate sopra. D'altronde, occorre notare che nella specifica realtà settentrionale italiana, si deve aggiungere almeno una quarta caratteristica fondamentale dei posti occupati in misura notevole da immigrati: la flessibilità intesa sia in termini di impiego flessibile del lavoro secondo le esigenze organizzative dell'impresa (orario flessibile, disponibilità a svolgere qualsiasi mansione. ecc.) sia in termini di flessibilità nei rapporti con i mercati locali del lavoro (facilità e rapidità di assunzione e licenziamento, durata temporanea del rapporto di lavoro, facilità di mobilità professionale e territoriale, ecc.). La flessibilità risulterebbe un elemento importante di definizione dei "bad" jobs, unitamente alle 3D, soprattutto nei limiti in cui si trattasse di lavoro irregolare.

Nelle aree metropolitane del Centro-Nord, gli immigrati figurano concentrati anche, oltreché nei servizi domestici, in altri servizi poco qualificati e specialmente in quelli di ristorazione e quelli di pulizia, che riguardano prevalentemente posti di lavoro precari.

Nelle aree metropolitane del Centro-Nord e del Sud, vi è poi un numero notevole di immigrati (in prevalenza con lavoro irregolare ed apparentemente indipendente) occupati, in modo precario/discontinuo nel commercio ambulante. Si tratta di lavoratori decisamente marginali, il cui peso sulla occupazione complessiva degli immigrati è secondo soltanto alle domestiche, i cui posti non possono che essere considerati "cattivi" in relazione alle condizioni di lavoro assicurate da altri posti di lavoro.

La classificazione dei posti di lavoro occupati dagli immigrati come "cattivi" riguarda in modo molto netto quelli in generale riscontrabili nel Sud d'Italia. Le indagini sul Mezzogiorno, con particolare riguardo alla Campania e a Napoli hanno messo in evidenza come l'immigrazione si inserisca in una tradizione di "lavoro nero" (precario, discontinuo, senza tutela normativa e contrattuale) nel settore delle calzature e dell'abbigliamento, in quello delle pelli, nell'edilizia, nel commercio, in agricoltura.

Il "lavoro nero" può essere favorito dal fatto che esiste un rilevante potenziale di lavoro non regolarmente occupato. In particolare, la maggiore presenza in termini relativi di aree rurali ha esposto ed espone il Mezzogiorno al "lavoro nero" o comunque ai lavori marginali in agricoltura.

Appare dunque abbastanza evidente che gli immigrati in Italia, specialmente ma non soltanto nel Sud, hanno occupato prevalentemente "bad jobs". Per cogliere però fino a che punto l'esistenza di "bad jobs" abbia scoraggiato i lavoratori presenti sui mercati locali del lavoro al punto tale da determinare "carenze relative di lavoro" e per tale via incentivare, dal lato della domanda di lavoro, l'immigrazione, occorre identificare l'esistenza o meno di tali "carenze".

In alcune regioni del Nord d'Italia, le Associazioni degli imprenditori manifatturieri effettuano da vari anni indagini sulla domanda di lavoro, nel recente passato e attesa nell'immediato futuro, per profili professionali, onde rendere nota l'eventuale "carenza di lavoro" per specifiche professioni e dare pertanto indicazioni alla formazione professionale. Da tali indagini negli anni recenti sono emersi "carenze" per qualifiche di tecnico della produzione, addetto alle vendite, tecnici di manutenzione, mentre non emergerebbero rilevanti situazioni di carenza di offerta di lavoro non qualificato o a basso livello di qualifica.

Una recente indagine condotta da studiosi in provincia di Bologna ha però messo in evidenza un quadro più complesso. Le imprese che hanno cercato lavoro risulterebbero numerose; in particolare, emergerebbe una quota rilevante di imprese che hanno cercato operai specializzati e non qualificati, con un numero non trascurabile di esse che non sarebbero riuscite ad assumere il personale desiderato (specialmente operai specializzati, ma in misura tutt’altro che irrilevante anche operai non qualificati). Tra l'altro, più della metà delle imprese hanno avuto la possibilità di assumere immigrati extracomunitari, circa la metà in qualità di operai generici e per l'altra metà disponibili per qualsiasi mansione; tra i motivi che hanno indotto a concretizzare l'assunzione emergerebbe nettamente la carenza di offerta di lavoro, seguita dalla disponibilità degli immigrati di accettare condizioni di lavoro rifiutate dai lavoratori locali. Per passare dalle "carenze" alle "carenze relative di lavoro" occorre però individuare la coesistenza di mancanza di offerta di lavoro, in possesso delle qualità richieste dalla domanda di lavoro con eccedenza di offerta di lavoro a livello locale, con particolare riguardo ai gruppi professionali più rilevanti.

 

6. Immigrazioni e problematiche del lavoro e sociali nelle aree di arrivo

Il fatto che lavoratori immigrati siano disposti ad accettare condizioni di lavoro "rifiutate" dai lavoratori residenti nei mercati locali del lavoro può essere considerato positivo dal punto di vista economico, nei limiti in cui è una via per superare le "carenze di lavoro" che ostacolino il pieno utilizzo delle capacità di crescita della capacità produttiva e per contenere l'accentuazione di squilibri strutturali nei sistemi produttivi in cambiamento, nonché nei limiti in cui è una risposta a preferenze che il lavoratore immigrato presenta (in modo differenziale rispetto al lavoratore residente) con riguardo alle condizioni di lavoro. Tuttavia, vi è un'ampia letteratura che ha messo in evidenza come l'immigrazione possa avere effetti di conflitto e di inefficienza sui mercati del lavoro, nonché effetti contradditori sulla crescita economica e sulla problematica economica e sociale.

Dal punto di vista dei possibili effetti di conflitto tra lavoratori immigrati e lavoratori residenti sui mercati locali del lavoro, occorre osservare che non necessariamente gli immigrati occupano posti rifiutati dal secondo gruppo di lavoratori e che l'incessante cambiamento delle strutture produttive, sotto l'influenza delle innovazioni tecnologiche ed organizzative, può mutare le caratteristiche dei posti nonché il comportamento di lavoratori anche in merito ai vari tipi di posti.

Le ricerche empiriche offrono informazioni utili per cogliere le possibili aree di conflitto tra immigrati e lavoratori residenti nei mercati locali in Italia. A parte un conflitto potenziale tra lavoratori locali marginali ed immigrati irregolari e la probabile concorrenza tra disoccupati di entrambi i gruppi, i maggiori conflitti possono emergere tra i disoccupati/sottoccupati residenti e i lavoratori immigrati regolarmente dipendenti nonché tra i lavoratori indipendenti residenti (nel commercio, nell'artigianato, ecc.) e gli immigrati disoccupati o irregolari che possono fare "concorrenza sleale", in qualità di commercianti itineranti/occasionali. Simili conflitti comportano delicati problemi per i sindacati dei lavoratori e per le politiche economiche e sociali.

Tali aree di conflitto possono essere ampliate dal mutamento nel comportamento degli immigrati, presenti da tempo in dati mercati del lavoro locale, tenuto anche conto che molti immigrati in Italia, dato il loro livello di istruzione relativamente elevato, possono mostrarsi solo temporaneamente disposti ad occupare posti rifiutati da lavoratori residenti. Del resto, il mutamento di comportamento degli immigrati può essere favorito da politiche di integrazione volutamente perseguite per contenere/ridurre l'emarginazione di essi sul piano economico-sociale, nel quadro del perseguimento di obiettivi di giustizia ed equità per tutte le persone presenti nei sistemi nazionali e locali.

Le aree di conflitto possono essere ancor più ampliate dagli effetti del cambiamento tecnologico e organizzativo sulla struttura professionale, dell’occupazione e della domanda di lavoro. Le previsioni costruite in vari paesi membri dell'Oecd indicano una tendenza di medio periodo a una rapida crescita dei flussi di domanda di professionisti, tecnici, professioni amministrative e direttive, in relazione a una piuttosto rapida espansione di posti di lavoro "buoni" "..che offrono opportunità di lavoro favorevoli per coloro che possiedono livelli di istruzione molto elevati e rilevanti capacità professionali", con però anche un "…sostanziale contributo della crescita dell’occupazione …" che proverrebbe "…da professioni semi-qualificate, come quella degli assistenti alle vendite…" (Oecd, 1994). Questo tipo di effetti sulla struttura occupazionale dei flussi di domanda e quindi degli stock di occupazione può accentuare, da un lato, le contraddizioni sui mercati del lavoro italiani, soprattutto nei limiti in cui la qualità della formazione non corrisponda alle esigenze di competenza professionale della domanda di lavoro, per guidare e gestire il cambiamento tecnologico ed organizzativo; dall'altro lato, può, accentuare i conflitti sugli spazi occupazionali regolari, per i posti di lavoro a bassa qualificazione del tipo di quelli indicati, tra i lavoratori residenti localmente a livello di istruzione medio-basso e gli immigrati, la cui pressione tributaria dovrebbe continuare, anzi crescere, in futuro.

Comunque, nel lungo periodo, si attende che i posti di lavoro registrino una radicale trasformazione. A parte la "job stability declining" già in atto negli Usa e in altri paesi (Swinnerton, Wial, 1995), e la connessa progressiva espansione di forme atipiche di contratto di lavoro (Frey, Livraghi, 1998), che possono incontrare l'ulteriore diffidenza dei lavoratori localmente residenti favorendo così l'ampliamento degli spazi per l'immigrazione. Vi è qualcuno (Bridges, 1994) che addirittura progetta un futuro di "workplace without jobs", in cui trasformazioni profonde dell'organizzazione produttiva, attraverso il "Second Great Job Shift" conducano a una maggiore presenza di rapporti di lavoro autonomi, a orario ridotto o più in generale a rapporti con la struttura produttiva talmente flessibili da far superare il concetto tradizionale di posto di lavoro, inteso come "quelle collocazioni negli schemi organizzativi con compiti, orari e retribuzioni regolari" per condurre "…a un campo di lavoro che deve essere fatto…".

Vi è da chiedersi allora quali motivazioni ispireranno le scelte e quale ruolo potrà avere (complementare o sostitutivo) l'immigrazione nei paesi tecnologicamente avanzati. Il futuro dei paesi ricchi e di quelli poveri dipenderà, in larga misura, da come le famiglie e le società affronteranno le esigenze di sviluppo umano di "queste nuove generazioni" e dalla capacità di crescita economica delle diverse aree territoriali.

 

Milano, febbraio 2000

 

 

 

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