Dai Saraceni ai Normanni di Simone Ronsisvalle

   Adarna dei Saraceni (950-1070 d.C).

   La più antica Adranon siciliota, l'Hadranum romana, e l'Adranion o l'Adrianon bizantina, era arrivata all'alba del X secolo quasi sotto l'aspetto di un misero villaggio di capanne (casotte e pagliai) sparse per quasi tutta la parte alta del territorio, con maggiore accentramento in due nuclei: uno nelle contrade della Pulica e della Grazia Vecchia o Minà e uno attorno alla massiccia collina della Cuba, in corrispondenza della parte N-E della siciliota Adranon.

   Verso l'anno 950 i saraceni dell'emiro Musa, occuparono il territorio di Adranion investendolo dalla parte occidentale.

   Gli «arconti» o capi di Adrianon, si arresero e si ritirarono coi loro am­ministrati verso est, lasciando ai saraceni il luogo accanto alla Cuba, che dalla residenza del capo o Caid, prese il nome di «quartiere di Gaiti», oggi detto di S. Nicolò l'Eremita, e prima di S, Agata.

   I saraceni chiamarono il loro casale Adarnu o Adarna e vi eressero una fortezza detta «Salem» (che in arabo vuoi dire luogo di delizie), forse nei pressi di una cappelletta bizantina chiamata «Cuba» per la sua piccola cupola.

   Nel castello, che doveva essere una specie di caravanserraglio con cor­tile recintato e torre di residenza, si stanziò il Caid, che era nello stesso tem­po capo militare, giudice percettore di imposte e sacerdote.

   Così per lungo tempo coesistettero un quartiere cristiano con molti ebrei a est della Cuba, e un quartiere saraceno presso il castello verso occidente, fino alle contrade di Gioppo, degli Zaccani e della Mola.

Inoltre i saraceni fondarono o ripopolarono, presso il fiume Simeto, nelle odierne contrade di Santa Domenica, Policello e Mendolito, il casale «Bulichiel», al centro di fiorenti giardini, terre di seminerio e vigne.

   I saraceni, dopo il momento dell'occupazione, furono tolleranti ed economicamente assai attivi.

   Si contentarono di imporre una tassa del culto cristiano, detta Gìzya, che era proporzionale alle condizioni economiche dei contribuenti, ne erano esenti gli inabili, gli schiavi e i mendichi.

   La conversione all'Islam esentava dal pagamento della tassa del culto, e pare che molti abbiano beneficiato ditale esenzione, passando all'islamismo.

   Un'altra tassa, detta l'harag, era una sorta di censo o decima e gravava sul prodotto della terra.

   I cristiani non schiavi, detti Dsimmi o sudditi, erano liberi di godere dei loro beni e di celebrare i loro riti all'interno delle loro case, senza strepito.

   Non potevano cavalcare cavalli, ma solo asini o muli e senza staffe e al la «femminina», cioè non cavalcioni.

   Gli schiavi, detti Raqiq (minuti) e Mamluk (posseduti), vivevano in non gravissime condizioni.

   I saraceni erano attivi artigiani e agricoltori.

   Usarono su larga scala le acque, di cui il territorio abbondava, sia per mulini da macinare, cheper gualebiere e tintorie, sia per l'irrigazione delle culture cerealicole e arboricole, come gli ortilizi, i fichi, i mandorli e soprattutto i sicomori o gelsi neri per «nutricare» il verme o baco da seta; si coltiva­va pure il lino e la canapa.

   Inoltre i saraceni per primi misero sul Simeto, nei pressi della contrada di Mandarano, una zattera o giarretta per il traghetto, in tempo di pjena, di persone e di animali, dietro un compenso in natura.

   Le feroci guerre tra i capi saraceni, l'insofferenza dei capi cristiani, la volontà di riconquista da parte dei bizantini (vedi la spedizione del generale Giorgio Maniace (1030-1040), che aveva tra i suoi soldati avidi e valorosi normanni), spinsero quest'ultimi, sotto la guida di Roberto il Guiscardo e di Ruggero d'Altavilla a tentare la conquista dell'isola, che si protrasse dal 1060 al 1091.

   La conquista di Adarnu o Adarna (1075), iniziò con l'assedio, del casale Bulichiel, da parte di un drappello di cavalieri guidati da Ugo di Yersey.

   Nonostante l'eroica resistenza e morte del Caid Albucazar, il casale venne occupato e ciò segnò anche la resa per la vicina Adarna da dove i cristiani erano corsi verso i Normanni, come verso angeli liberatori, come qualche decennio prima era avvenuto a Troina.

   Dopo l'incontro tra il conte Ruggero e il papa Urbano Il a Troina nel 1088, il capo normanno procedette alla istituzione delle diocesi in Sicilia e il 26- 4-1091 istituì quella di Catania, affidandola al monaco Ansgerio, suo parente.

   Nella diocesi catanese erano comprese gli abitati e i territori di «Catania... Iachium... Paternionem... Adernionem... Sancta Anastasiam... Centorbam... Castrum Ioannis... usque ad finem Traginensis civitatis...».

   Il territorio di Adernio, faceva parte del patrimonio regio, di cui i re­gnanti normanni disponevano, assegnandolo «pro tempore» e «ad libitum» ai membri della famiglia reale colla condizione della fedeltà adamantina e con l'obbligo per le femmine e per i maschi, assegnatari di terre, di richiedere il consenso del re sia per sposarsi, che per i problemi di gestione e successione.

   Questo fatto, per Adernio, fu causa di incertezza amministrativa e di frequente cambiamento di padrone.

   Secondo il Padre Aprile, Ruggero donò il grosso casale al figlio Goffredo, signore anche di Ragusa. A lui successe Silvestro (1140) conte di Marsico, cui successe Guglielmo, cui successe Goffredo, tra l'altro signore di Noto, di Sclafani e di Caltanissetta. 

   Costui lasciò i suoi beni alla figlia Desiderata, che sposò (1193) il conte Bartolomeo de Lucy di stirpe o di fazione sveva, portandogli in dote tra l'altro la contea di Paternò e di Adernò.

   Questo Bartolomeo de Lucy avrebbe regalato al priorato di S. Giovanni di Adernò un feudo di un cavaliere, cioè del reddito di 20 onze, nella città di Mineo. Bartolomeo e Desiderata ebbero una figlia ed erede di nome Margherita, con cui si estinse la famiglia.

   Secondo un'altra versione, sostenuta dal Pirro, Adernò insieme con Paternò e altre terre come Cefalù, Collesano e Caltanissetta, costituì la dote di Adelicia, figlia di Matilde e di Rodolfo Macabeo di Monte Cavernoso ed Avellino e moglie del nipote Rinaldo d'Avellino o d'Aquila, che giovanissi­mo (1126) premorì alla zia-moglie.

   Questa passò il  resto della vita difendendo i suoi discendenti ribelli dagli at­tacchi reali e fondando chiese e monasteri tra cui: la chiesa e monastero di S. Maria «de Robore Grosso» (1134) in territorio di Adernio (oggi in quello di Biancavilla), la chiesa di S. Pietro a Collesano, la chiesa di Sant'Elia presso Adernio (1140), il monastero benedettino di S. Lucia fuori le mura di Adernio (1150).

   Adelicia sopravvisse molti anni, circa 40, al marito e morta a Caltanissetta verso il 1175.

   Ad Adelicia successe il figlio Adamo, che sposò Costanza, figlia di Ruggero lI e di Albira.

   Da loro nacque Ruggero di Avellino o di Acquila. 

  Questi senza il consenso del cugino, re Guglielmo 4(1154-1166), sposò la sorella di Guglielmo di S. Severino, che finì in carcere insieme alla madre Fenice, mentre Ruggero riusciva a rifugiarsi nel Lazio, dove prendeva il nome di conte di Fondi. 

  Tornato in Sicilia aderì alla congiura contro Majone, ministro di Guglielmo I, e poi tornò per sempre nel continente.

   Da Ruggero nacque forse un Lucio, ricordato come conte di Fondi.

   A questo punto, per il Pirro, si interrompe la linea Altavilla-Avenello e signore di Adernio, maritali nomine, si ritrova il parente dell'imperatore Enrici VI di Hoheustaufen, un certo Bartolomeo de Lucy, di cui si è detto.

   Il territorio di Adernio1 chiunque fosse il suo signore in testa, era retto da un Vicecomes o governatore o amministratore e da uno stratigoto o capitano o giudice criminale, che nello stesso tempo era castellano della fortezza, che i normanni avevano eretto sul caravanserraglio saraceno.

   Da un diploma greco, della Cattedrale di Messina, del 30-3-1142, in cui si parla di una causa per confini  tra. Filippo di Argirò e Regalbuto fra i testimoni e i periti convocati dal giustiziere Roberto Avenello fratello di Adelicia di Adernò e giustiziere di Castrogiovanni, degli abitanti di Adrano ri­troviamo un Guglielmo Carbone, un Giovanni Calabro, un Filippo Siniscalco, un Niceforo notaio e il Caid saraceno Cete Bulcassen, che ricompaiono in un'altra successiva carta greca per una causa di confini tra le diocesi di Catania e Messina.

   Questi diplomi gettano luce sulla società di Adernio, costituita da indi­geni «greci», da schiavi e signori saraceni e da signori normanni e italici.

   Dalle carte di fondazione della chiesa e monastero di 8. Lucia (1158), conosciamo i nomi, dì un Roberto di Cremona, di un Oddo Frassino, di un Mauro Visconte, di un Marino di Amalfi, di un Guglielmo Berlinghieri «mi­lite», di un Eleazar «milite», di un Guarino di Fuldo «milite», di un Giovanni di Brucato, di un Oraldo milite, di un Alibrandus, di un Petrus notaio, di Goffredo, Bartolomeo, Pandolfo preti e cappellani, di tre frati, forse del monastero di S. Michele di Troina, Anselmo, Bobo e Giuliano, di un curatolo Bulea o Bulla. Essi formavano gli esponenti della classe dominante di Adernio, col cui territorio confinava quello del Casale Policello, donatò da Adelicia coi suoi servi, la sua chiesa e le sue terre al monastero di S. Lucia, con la solita promessa, a chi si offrisse al monastero di sganciarsi dal potere laico e di sottostare solo al potere della badessa e del vescovo di Catania.

   Nel periodo normanno Adernio, continuò il suo progresso che aveva iniziato coi saraceni, che anche da servi o da padroni di terre furono tollerati, costituendo una fonte di prosperità, poiché erano abili agricoltori e artigiani esperti, specie in quell'arte della seta, che in Adernò ebbe un centro di produzione, data l'abbondanza di terre irrigue, piantate a sicomori o gelsi neri, e con la presenza anche di estesi campi di lino, di canapa e di sommacco, utile quest'ultimo per la concia delle pelli.

   La sorte dell'agricoltura di Adernò seguirà, come vedremo, la sorte dei saraceni, che con fanatica violenza verranno strappati da Federico Il di Svevia alle terre, che da fiorenti cominciarono a divenire squallide e non più abitate e i loro casali rimasero deserti.