Nel centenario di Stéphane Mallarmé

 

Corre il centenario di Stéphane Mallarmé (Paris, 18 marzo 1842 - Valvins, 9 settembre 1898). Quale favore preparino a Stéphane Mallarmé le diverse, e dense, atmosfere dei nostri anni, è da vedere. Da dire, che il rumore non si addice a Mallarmé, il quale merita se mai continuati studi interpretativi o come si usa dire «scientifici», edizioni piú complete e organiche, e starebbe bene anche una ripulitura dalle varie incrostazioni interpretative della sua poesia aventi carattere fantasioso o scolastico, fra le quali le fumisterie psicoanalitiche tengono un buon posto. Come che sia, è certo ormai che la nozione di Mallarmé decadente o squisito ed oscuro simbolista o simbolologo non tiene piú. La sua competenza impeccabile di bulinista del verso e della prosa, le sue innovazioni che hanno impresso una spinta incalcolabile al movimento letterario del ventesimo secolo, la rispondenza che ha trovato in spiriti superiori da Paul Valéry a Giuseppe Ungaretti, sono tutte realtà del massimo pregio, ma alle quali non ci dovremmo limitare se non vogliamo fare di Mallarmé soltanto una specie di squisito esperto in capolavori tecnicamente qualificati.

La sua storia personale è stata poca cosa, quella di un modesto professore di lingua inglese, appassionato di pochi onesti piaceri, il canottaggio, la pipa. Per l'elenco delle sue opere, non tanto numerose né estese, qualsiasi enciclopedia basta a informare chi lo desideri, e per gli informati non è il caso di ripetere ciò che ben sanno. Il punto, a mio parere, centrale, da tenere presente è che Mallarmé con dolorosa acutezza era conscio della casualità che usa travolgere i destini umani, ma altrettanto acutamente era conscio che la casualità non produce alcun senso, e che se qualcuno pretende dall'esistenza casuale non si sa quale libertà, si sbaglia. Assimilando l'esistenza casuale a un gioco d'azzardo, Mallarmé avvertiva che nessuna giocata, anche se fortunata, può abolire il caso da cui scaturisce, e che dunque caso e necessità sono identicamente lo stesso, come non ignorava il Giocatore di Dostoevskij, e come perfettamente sapeva, senza del resto esserne scontento, Federico Nietzsche.

Mallarmé, che non sopportava la mancanza di senso e l'imperio del caso, cercava di liberarsene guardando all'Assoluto. Lo chiamava con diversi nomi, «Ideale», «Azzurro», «Costellazione», certe volte non gli dava alcun nome ma ne ascoltava intento la musica, fosse questa audibile oppure intimamente silenziosa; opponeva il suo mistero alla terrificante chiarezza della piatta esistenza casuale. Egli vale, e vale proprio per il nostro tempo, come uno che ha cantato esperienze essenziali per la condizione umana e propone un messaggio ben oltre la perfetta espressione di sentimenti lirici, dando un esempio di scelta metafisica e morale che lo colloca per sempre nella famiglia dei Dante e degli Hoelderlin.

 

Francesco Piselli

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