Chi ti ha fatto senza di te

Non ti salva senza di te

Primo incontro

 

Mercoledì 15 marzo ore 21

Videbam Ecclesiam plenam

S. Em. Card. Giacomo Biffi

 

 

SINTESI DELLA CONFERENZA

(a cura di Eros Stivani)

Indice 

Osservazioni preliminari

 

I. Un incontro mancato?

Primo contatto

L’uditore esterno di Ambrogio

Gli impegni del vescovo

Lontananza psicologica

La mediazione di Monica

Evasività di Ambrogio

Il giudizio di Agostino

Conciliabilità delle prospettive

 

II. Una Chiesa "piena"

Un popolo radunato da Cristo

Colonna e fondamento della verità

Madre di ogni virtù

Rapporto con la cultura

 

Osservazioni conclusive

 

 

SINTESI DELLA CONFERENZA DEL CARD. GIACOMO BIFFI

Osservazioni preliminari

Agostino arriva a Milano alla fine dell’estate del 384 e ne riparte per sempre nel maggio del 387. In questo spazio di neppur tre anni si colloca la sua conversione, uno degli eventi più decisivi e ricchi di implicazioni nella storia del pensiero filosofico e teologico e nella stessa evoluzione culturale e sociale che ha dato vita all’Europa.

...

Certo di tali avventure dell’anima Dio è il primo protagonista. Nessuno l’ha avvertito e dichiarato con la lucidità e il vigore del "Dottore della Grazia": "È lui che converte gli sviati, insegue i fuggitivi, ritrova i perduti, umilia i superbi, pasce gli affamati, libera i prigionieri, illumina i ciechi, purifica gli immondi, rinvigorisce gli affaticati, ridà la vita ai morti e sottrae agli spiriti maligni quelli che ne erano posseduti e schiavi" (Sermo 216, 11).

Ma la conversione è anche un travaglio penoso dell’uomo, che strappandosi al vizio ormai connaturato, deve, per così dire, riscolpirsi un altro volto interiore: "Quando ci convertiamo, ossia quando nella trasformazione della vecchia vita rimodelliamo il nostro spirito ("resculpimus spiritum nostrum"), sperimentiamo quanto è duro e faticoso rivolgersi dalla caligine delle passioni terrene alla serenità e alla tranquillità della luce divina" (Enarrationes in Psalmos, 6, 5).

...

Mi limiterò a richiamare, perché non sfugga nel lussureggiare delle più rilevanti analisi, l’elemento in qualche modo più esterno del dramma, e cioè l’influsso, sulla determinazione esistenziale di Agostino, dell’ambiente ecclesiale in cui qui da noi egli si è venuto a trovare.

I

Un incontro mancato?

 

È un’angolazione prospettica che, come si intuisce, evoca immediatamente un notissimo problema storico: quello di appurare quale sia stato nella vicenda il reale apporto di Ambrogio e quale la consistenza delle effettive relazioni tra i due personaggi.

Sarà allora opportuno passare in rassegna, in modo succinto ma abbastanza esauriente, gli incontri del giovane professore africano col già famoso vescovo milanese.

Primo contatto

 

Il primo contatto avviene subito. Agostino giunge a Milano da Roma, viaggiando sulle vetture di stato ("evectione publica"). Come professore di retorica è, nel campo dell’organizzazione scolastica, un’autorità. È naturale perciò che si faccia un dovere di andare dal vescovo per una visita di cortesia.

Ambrogio lo accoglie con affettuosa gentilezza e si dimostra lieto della sua venuta; così dicono le Confessioni(Conf. 5, 13, 23).

C’è nel racconto un cenno meritevole di attenzione: Agostino ricorda che Ambrogio si dimostra molto affabile e gli dà il benvenuto "satis episcopaliter". Anche a non tradurre: "in modo abbastanza episcopale" (che sarebbe forse più limitativo del giusto), ma piuttosto: "da perfetto vescovo", la sottolineatura ci incuriosisce. Aveva qualche ragione il pastore di Milano di comportarsi diversamente col nuovo venuto?

Siamo sufficientemente informati dei fatti per formulare qualche plausibile congettura (cfr. A. Paredi, Sant’Ambrogio, Milano, 1985). Ad Agostino la cattedra milanese è conferita dal prefetto dell’Urbe Simmaco, su raccomandazione della setta dei manichei cui il giovane insegnante ancora apparteneva, sia pure già con molte perplessità. Ora, proprio in quei mesi tra Ambrogio e Simmaco (che appartenevano ambedue al grande patriziato romano e si trovavano a essere anche un po’ parenti) era in corso un’ostilità violentissima, che aveva come posta in gioco addirittura una qualche restaurazione ufficiale del paganesimo. La disputa finirà di lì a poche settimane con la vittoria del vescovo; ma al prefetto di Roma non sarà parso vero in quei giorni di poter fare un dispetto al suo lontano e così diverso cugino, assegnando la cattedra prestigiosa di Milano a quell’africano eretico e anticlericale, che viveva in una situazione domestica notoriamente irregolare.

Ambrogio – da quel fine politico che era – se ne sarà reso conto benissimo; ma, nonostante tutto, sfoggia intera la sua amabilità, come in molte simili occasioni capita ai vescovi di dover fare ("satis episcopaliter").

 

L’uditore "esterno" di Ambrogio

 

Dopo quel primo incontro, i rapporti tra il nuovo arrivato e il vescovo non si faranno troppo più stretti. Come professore di lettere, Agostino è ammaliato dalla mirabile eloquenza di Ambrogio e diventa ben presto uno dei suoi più assidui ascoltatori. Almeno dopo l’arrivo di Monica, è presente in chiesa ogni domenica. E, incantato dalla forma, è a poco a poco colpito dalla sostanza di quell’insegnamento, e vede progressivamente cadere i suoi pregiudizi nei confronti della dottrina cattolica. Ma non si arriva mai tra i due a un vero e decisivo contatto ravvicinato. Agostino è un personaggio di spicco: il 1° gennaio 385 tocca a lui pronunciare a corte il discorso di circostanza per l’inizio del consolato del generale Bautone(Adversus litteras Petiliani III, 25); e sarà ancora lui il 22 novembre 385 a essere incaricato del panegirico aulico nel decimo anniversario di regno di Valentiniano II (Conf. 6, 6, 9). Ambrogio non lo può ignorare. Tuttavia pare non avere né tempo ne voglia di occuparsi da vicino dei grovigli interiori e delle ansie sempre inconcluse di questo rètore forestiero.

 

Gli impegni del vescovo

 

Non ha tempo. La sua azione pastorale lo assorbe totalmente in quegli anni, che sono tra i più densi del suo episcopato.

Poco dopo l’incontro con Agostino, parte per Treviri, in missione presso l’imperatore Massimo....

Il 23 gennaio 386 viene pubblicato un decreto imperiale a favore dei seguaci della "fede di Rimini", cui Ambrogio risponde convocando un concilio di vescovi suffraganei, che appoggiano la sua ferma condotta. La crisi arriva all’apice nella Settimana Santa del 386, con la permanente occupazione della basilica contesa da parte di cattolici, che così riescono a impedire l’ingresso dei soldati e il sequestro. Il vescovo incoraggia e sostiene nell’entusiasmo il suo popolo introducendo in quell’occasione un nuovo modo di cantare i salmi e quegli inni liturgici che avranno così tanta fortuna in tutto l’Occidente.

In quegli anni Ambrogio è anche impegnato nella costruzione di grandi edifici sacri: la così detta "basilica ambrosiana" che fu eretta in sette anni tra il 379 e il 386; la "basilica apostolorum"; il grande battistero a otto absidi nel quale Agostino sarà battezzato.

A quel tempo risalgono alcune importanti produzioni letterarie del vescovo di Milano, quali il De Iacob et vita beata, il De bono mortis, l’Exaemeron, oltre gli inni già ricordati e alcune lunghe lettere come la 17a e la 18a a Valentiniano II (a proposito della polemica con Simmaco), la 19a a Vigilio di Trento (sulla questione dei matrimoni misti), la 20a a Marcellina (sul primo incidente delle basiliche), la 21a a Valentiniano II (sempre sulla questione delle basiliche), la 22a a Marcellina (con la narrazione del ritrovamento dei santi Protaso e Gervaso), la 23a ai vescovi dell’Emilia (sulla data della Pasqua); alle quali si deve anche aggiungere il lungo discorso Contra Auxentium de basilicis tradendis. Per non parlare della normale e quotidiana attività di pastore. Agostino stesso ne rende testimonianza quando dice: "Non mi era possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo. Caterve di gente indaffarata, che egli soccorreva nell’angustia, si frapponevano tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca" (Conf. 6, 5, 3).

 

Lontananza psicologica

 

Ambrogio dunque non aveva tempo, ma forse non aveva neppure molta voglia di occuparsi degli intrighi speculativi e degli arruffamenti spirituali di questo complicato intellettuale, capace delle più sottili acrobazie dialettiche e incapace di mettersi finalmente a vivere in modo giusto e degno.

Solo pochi anni prima, in una delle sue opere più celebri (il De fide) il vescovo aveva scritto ciò che pensava della dialettica: essa, secondo quel che dicono gli stessi filosofi, "non ha la capacità di costruire, ma la volontà di demolire. Non con la dialettica Dio si è compiaciuto di salvare il suo popolo, perché il regno di Dio sta nella semplicità della fede e non nella violenza della discussione" (De fide I, 5, 42).

Un uomo come Agostino avrebbe preteso per sé intere giornate di pazienti confronti concettuali e di analisi filosofiche minuziose, e un uomo col temperamento di Ambrogio non aveva certo né il modo né il gusto di imbarcarsi in questa impresa. Così, credo si possa capire meglio lo strano racconto di Agostino che riesce sì a entrare nello studio di Ambrogio, senza però riuscire a farsi notare da lui, che è immerso nella lettura. Non vorrei pensar male, ma, secondo me, non è che il vescovo non si accorgesse del visitatore; è che non voleva dargli corda. Del resto, Agostino stesso nota: "Mi allontanavo, supponendo che avesse piacere di non essere distratto" (Conf. 6, 5, 3).

 

La mediazione di Monica

 

Dopo la venuta a Milano di Monica (che arriva nell’estate del 385), si istituisce tra i due uomini, così diversi e lontani, come una tenacissima mediazione. Monica ha un solo pensiero: il ritorno del figlio alla fede cattolica; e ha un solo confidente e un solo motivo di speranza: il vescovo Ambrogio, che ella "amava come un angelo di Dio" (Conf. 6, 1, 1) "a causa della mia salvezza" (Conf. 6, 2, 2), scriverà Agostino.

Ella è assidua a tutti i riti e a tutte le adunanze, e partecipa attivamente a tutte le vicende della Chiesa di Milano.

Non si fatica quindi a immaginare che, per mezzo di questa santa donna, Agostino sia stato quotidianamente informato di tutto ciò che faceva e diceva il vescovo; e il vescovo chissà quante volte sarà stato intrattenuto da Monica sulla lunga crisi del figlio e sul succedersi delle diverse fasi.

Si illude dunque Agostino quando si dimostra convinto che il vescovo non conosca il suo sbandamento e la sua miseria (Conf. 6, 2, 2) ("ignorava quale figlio avesse lei"). Ambrogio verosimilmente conosce il suo dramma interiore ma si guarda bene dall’affrontare direttamente l’argomento.

 

Evasività di Ambrogio

 

Perciò quando per le vie di Milano gli capitava di incontrare l’illustre professore, Ambrogio tirava il discorso su Monica e sulle sue virtù ("spesso, incontrandomi, non si tratteneva dal tesserne l’elogio e dal felicitarsi con me, che avevo tal madre") (Conf. 6, 2, 2).

Faceva cioè quello che facciamo tutti quando, dovendo scambiare qualche chiacchiera con un pubblico personaggio dichiaratamente miscredente, gli parliamo – a scanso di argomenti più imbarazzanti – della religiosità di sua madre e della sua prozia morta in concetto di santità. Di altri contatti a tu per tu non abbiamo notizia, se si eccettua l’episodio di una questione rivolta ad Ambrogio a proposito del digiuno in giorno di sabato (ricordato dal vescovo di Ippona in due sue lettere); ma l’indole del problema ci fa capire che questo colloquio deve aver avuto luogo poco prima o poco dopo il battesimo di Agostino (Ep. 34, 14, 32; 54, 2, 3).

C’è per la verità anche un rapporto epistolare: da Cassiciaco il convertito informa il vescovo della sua decisione e gli chiede un parere sui libri che più gli conveniva di leggere per ben disporsi al battesimo. Gli viene suggerito il profeta Isaia; era un consiglio per la verità poco attento e maldestro, che l’interessato difatti non segue, trovando incomprensibili e quindi poco adatte a lui quelle pagine (Conf. 9, 5, 13).

 

Il giudizio di Agostino

 

A questo punto dovremmo ritenere accertato, contro la persuasione di tutta la tradizione ecclesiale, che l’apporto personale di Ambrogio alla conversione di Agostino è secondario e di scarso rilievo. Ma sarebbe conclusione affrettata e, per così dire, epidermica, alla quale si oppone Agostino stesso, che non esita ad attribuire al vescovo di Milano un’azione decisiva nell’opera della sua salvezza.

Una decina d’anni dopo i fatti, ripensando con calma e alla luce di Dio tutta la sua spirituale vicenda, egli ritiene di essere stato portato di peso da una mano provvidenziale a incontrare l’uomo che l’avrebbe saputo avviare a Dio: "Da te a lui ero condotto ignaro, perché da lui fossi condotto consapevole a te" (Conf. 5, 13, 23). Egli non dimenticherà più il vescovo del suo battesimo e lo considererà sempre il padre della sua nuova vita. Ne ricercherà le pubblicazioni, lo citerà centinaia di volte nei suoi scritti, ne ricorderà i saggi consigli pastorali e, giunto quasi al termine della sua missione episcopale, persuaderà Paolino a scriverne la vita. Il suo biografo Possidio, facendosi eco della convinzione ripetutamente espressa dal suo protagonista, scrive che "per tramite di un vescovo grande e virtuoso quale Ambrogio egli ricevette l’insegnamento salvifico della Chiesa Cattolica e i sacramenti divini" (Vita Augustini I, 6).

 

Conciliabilità delle prospettive

 

Pare a me che le due diverse visuali non siano inconciliabili e che proprio il tema di questa prolusione – come è stato formulato dalla perspicacia e dalla competenza degli organizzatori – ci offra il più plausibile scioglimento alla difficoltà delle testimonianze apparentemente discordi (che, tra l’altro, provengono tutte, direttamente o indirettamente, dallo stesso Agostino).

Conversione e immagine di Chiesa. Di veramente decisivo c’è stato l’incontro con una Chiesa così come era illuminata, animata, guidata da un pastore quale Ambrogio, che appunto da vescovo preoccupato di tutto il suo gregge, più che da direttore di spirito o da pedagogo individuale o da amico del cuore, è entrato fortemente ad avviare la rinascita del grande africano.

Perciò la nostra ricerca deve orientarsi adesso a porre in luce quale sia il tipo di Chiesa che colpì l’anima di Agostino e l’indusse finalmente a entrare senza riserve nella famiglia di Dio.

II

Una Chiesa "piena"

Secondo una sua forte e significante parola, Agostino a Milano si imbatte in una Chiesa "piena", che, all’interno di questa sua "pienezza", consentiva ai suoi membri itinerari diversi, ciascuno secondo il suo dono: "Videbam plenam Ecclesiam, et alius sic ibat, alius autem sic" (Conf. 8, 1, 2).

Da questa "pienezza" egli è stato a poco a poco affascinato e persuaso; a contatto con questa "pienezza" egli ha sentito a poco a poco svanire ogni difficoltà e sgrovigliarsi ogni complicazione interiore.

Possiamo allora tentare di renderci conto meglio di questa decisiva esperienza, sulla scorta degli avvenimenti ecclesiali del tempo, delle omelie pronunciate in quegli anni da Ambrogio (De Iacob et vita beata, De bono mortis e probabilmente Exaemeron), degli stessi ricordi personali di Agostino.

 

Un popolo radunato da Cristo

 

Il giovane e inquieto professore ha trovato una Chiesa nel significato più intenso del termine: non un circolo di intellettuali, non una setta di pochi e raffinati iniziati, non una consorteria di uomini abili e astuti, ben introdotti a corte e influenti sugli organi di governo, ma una Chiesa di popolo; un popolo vario, di grandi e di umili, di lavoratori e di commercianti, di semplici e di dotti, radunato e ravvivato dall’accoglimento cordiale dell’unico Signore Gesù Cristo.

Era certo un popolo che aveva un capo dalle qualità eccezionali; ma anche che corrispondeva in modo eccezionale alla guida di questo capo e si manteneva con lui in perfetta comunione di convinzioni e di sentimenti.

Sia nei primi mesi del 385 sia nella primavera del 386 il vescovo vince la sua ardimentosa battaglia contro l’autorità imperiale proprio perché nell’una e nell’altra occasione tutta la popolazione milanese è solidale con lui: nel 385 la gente non esita ad affollarsi minacciosamente davanti alla residenza dei sovrani, nel 386 occupa addirittura per diversi giorni la basilica contestata. In quest’ultima fase appare risolutiva la presa di posizione dei "mercatores", che potevano controllare i rifornimenti della città. Davvero Agostino poteva vedere in atto quanto ascoltava in quel tempo nella predicazione episcopale: "Da ogni valle è raccolto il popolo cattolico. Ormai non ci sono più molte aggregazioni, ma una è l’aggregazione, una la Chiesa" (Exaemeron III, 1, 3. 21).

Era una Chiesa capace di cantare le lodi di Dio anche nelle ore più difficili, che proprio dalla fede e dalla preghiera alimenta la consapevolezza della sua dignità e della sua spirituale ricchezza. Come non ammirare "questo popolo, strumento per l’armonia dell’opera divina, nel quale riecheggia la musica della divina rivelazione e opera intimamente lo Spirito di Dio, questo tempio, santuario della Trinità, dimora della santità?" (Exaemeron III, 1, 5).

L’anima di Agostino, nativamente aperta a ogni bellezza, non può non essere stata colpita dallo spettacolo delle assemblee liturgiche, quando, al dire di Ambrogio, l’immagine che più opportunamente soccorreva era quella del mare. "Il popolo entra in folla: dapprima ne riversa le ondate da tutti gli ingressi; poi, mentre i fedeli pregano in coro, scroscia come per il fluire dei flutti, allorché il canto degli uomini, delle donne, dei fanciulli, a guisa di risonante fragore d’onda, fa eco nei responsori dei salmi" (Exaemeron III, 5, 24).

 

Colonna e fondamento della verità

 

Era un popolo certo e grato di essere "la Chiesa di Dio, in cui Dio si mostra e parla con i suoi piccoli servi", "la Chiesa colonna e sostegno della verità" (De Iacob et vita beata II, 7, 33).

La verità è vita, salvezza, letizia per l’uomo: quando c’è in gioco la verità è in gioco la nostra sorte, perciò non si può venire a nessun compromesso. "Nella Chiesa – insegnava in quei giorni Ambrogio – c’è gioia, nella eresia e nel paganesimo ci sono pianto e tristezza" (Exaemeron III, 1, 3).

Per questo, perché non sia messa in pericolo la salvezza e la gioia degli uomini, la Chiesa di Ambrogio non ha nessuna indulgenza verso l’elegante relativismo di Simmaco e le sue insinuanti argomentazioni di intellettuale acido e senza certezze esistenziali.

"Ciascuno ha le sue abitudini, – scriveva l’ultimo difensore del paganesimo, e i suoi ragionamenti potrebbero ritrovarsi su molti dei nostri quotidiani e dei nostri settimanali – ciascuno le sue forme di culto. L’intelligenza divina ha assegnato alle città diversi protettori, diverse religioni. Come a ogni bimbo viene data un’anima propria, così a ogni popolo tocca il Genio del suo destino... È anzi da presumere che sia l’identica realtà a venire adorata da tutti. Noi contempliamo le stesse stelle, abbiamo un unico cielo, il medesimo universo ci racchiude. Che importa con quale personale criterio ciascuno ricerchi la verità? Non si può arrivare tutti su una sola strada a un così grande mistero. Sono beghe da sfaccendati: noi adesso vogliamo offrire preghiere, non ragioni di rissa" (Relatio Symmachi 8, 10).

Ma i cattolici – impersonati dal vescovo – non si lasciano incantare da questa apparente larghezza di idee. Essi sanno che la verità, non lo scetticismo, costituisce il necessario nutrimento dell’uomo; perciò la verità deve prevalere e ispirare anche gli atti e le decisioni dell’imperatore cristiano.

Allo stesso modo la Chiesa di Ambrogio sa che non si può arrivare a nessun compromesso con chi scorona Cristo dell’aureola della divinità. Se Gesù di Nazaret non è Dio, allora anche il suo Vangelo diventa adattabile a tutte le umane pretese e non può essere davvero difeso dalle arroganze dei potenti che, più o meno tutti, vogliono piegarlo ai loro calcoli e ai loro interessati progetti. Di qui la lotta senza quartiere con tutti i rigurgiti ariani.

Non sono oziose questioni teologiche o dispute per il primato tra autorità civili e religiose: è in gioco la nostra salvezza e, in ultima analisi, la stessa libertà della Chiesa e dell’uomo.

 

Madre di ogni virtù

 

Dalla sua fede, irrorata dal sacrificio di Cristo e dei martiri, fioriscono nella Chiesa tutte le virtù.

In quegli anni Ambrogio, da poeta, aveva usato il paragone del frutto del melograno, che ha tanti chicchi vermigli raccolti da un’unica scorza: "La Chiesa, abbellita dal sangue di tanti martiri e, ciò che più conta, arricchita dal sangue di Cristo, mostra il luminoso splendore della sua fede e della sua testimonianza, conservando nello stesso tempo dentro di sé sotto un unico riparo, a somiglianza della melagrana, numerosissimi frutti e abbracciando la molteplice operosità delle virtù" (Exaemeron III, 13, 56).

È una Chiesa serena e certa della sua fede, che non ha complessi di matrice ideologica: vive intensamente la carità e si preoccupa di tutti i poveri, ma non ha alcun dubbio sulla opportunità di costruire grandi basiliche, a gloria di Dio per l’utilità dei suoi figli.

È una Chiesa che adopera per il culto divino suppellettili preziose, ma non aveva esitato qualche anno prima a infrangere i vasi sacri e a venderne il materiale, per riuscire a pagare il riscatto dei prigionieri. "Ho preferito consegnarvi degli uomini liberi, piuttosto che conservare il vostro oro" (De officiis II, 139), aveva detto il vescovo in quell’occasione.

Quando arriva Agostino, già da molti anni Ambrogio aveva opposto alle sfrenate aberrazioni sessuali dell’epoca la proposta incredibile della verginità consacrata e stava avviando proprio in quel tempo le prime esperienze di monachesimo (Cfr. Conf. 8, 6, 15).

Agostino trova dunque a Milano una Chiesa che non è tentata di rincorrere il mondo sulla strada delle dissoluzioni né di attenuare il suo rigore morale, mediandolo con le abitudini viziose della romanità decadente, ma, al contrario, è così fortemente persuasa della verità, della bellezza, della grandezza del Vangelo di Cristo da non esitare a lanciare la sfida di una fede che diventa un modo nuovo e diverso di vivere.

 

Rapporto con la cultura

 

Il cristianesimo all’epoca dei Padri non fioriva in un deserto culturale. Aveva di fronte la produzione dei filosofi, dei poeti, dei tragici, dei prosatori; insomma tutto il grande patrimonio letterario del mondo greco-romano.

Già conosciamo la sfiducia di Ambrogio verso gli autori pagani. Eppure, con nostra meraviglia, vediamo che egli, più di altri, nei suoi scritti con grande libertà di spirito si fa abbondantemente eco dell’opera speculativa e poetica dell’antichità.

Gli studi più recenti hanno messo nella giusta luce l’attiva presenza a Milano di un cenacolo di cultori cristiani del pensiero neo-platonico; cenacolo animato da Simpliciano, alle cui fonti anche Ambrogio dovette copiosamente abbeverarsi e che ha avuto una parte importante nel recupero di Agostino alla fede.

Era dunque una Chiesa aperta ai più vivi fermenti speculativi e letterari, ma sempre nella perfetta coscienza della identità culturale cristiana.

Nella predicazione di quegli anni Agostino dovette ascoltare più volte dalle labbra del vescovo la curiosa e inverosimile "teoria del plagio": Platone – secondo Ambrogio – si è ispirato al Cantico dei cantici (De bono mortis 5, 19), Pitagora ha imitato Daniele, in Sofocle c’è l’influsso di Giobbe (Paredi, o.c., p. 211). "Sono dunque nostre quelle dottrine che eccellono negli scritti dei filosofi" (*De bono mortis 11, 51).

Noi possiamo anche sorridere di questa concezione; ma proprio in grazia della "teoria del plagio" Ambrogio riesce a comporre armoniosamente il principio che la verità è solo "di Cristo" con la più larga possibilità di avvalersi di quanto di positivo era stato prodotto dalla straordinaria esplosione di intelligenza del mondo ellenico e, in grado minore, del mondo romano.

Per un professore di lettere e un innamorato della filosofia come Agostino (Cfr. Conf. 3, 4, 8), che però non apprezzava fino in fondo uno scritto se non vi trovava il nome di Cristo (Cfr. Conf. 3, 4, 8), questa linea di "pastorale della cultura" della Chiesa ambrosiana deve essere stata percepita come eccezionalmente feconda e liberante.

 

Osservazioni conclusive

Un’analisi di questo tipo potrebbe ancora a lungo continuare. Suppongo però che quanto si è detto basti a delineare a grandi tratti la verità della nostra ipotesi: è stato decisivo l’influsso che l’esperienza di una Chiesa viva e spiritualmente forte ha avuto sull’esito positivo del lungo travaglio di Agostino.

Perciò, quando egli si arrende alla verità non ha nessun dubbio a chiedere di far parte della comunità cristiana e a domandare il battesimo. Il dramma si è sviluppato per larga parte nel segreto della coscienza, ma non ha avuto un esito individualistico. La Chiesa è stata una delle più rilevanti ispiratrici ed è perciò l’approdo naturale di questa interiore avventura.

Questa esperienza ecclesiale è in parte da lui compiuta direttamente, specialmente attraverso l’assiduità alla predicazione di Ambrogio e i rapporti culturali con Simpliciano; in parte anche maggiore è mediata da Monica, che così appare veramente l’immagine stessa della Chiesa madre, che nel dolore e nella speranza arriva finalmente a generare alla vita di grazia questo grande e difficile figlio.

Un pastore non può però concludere questa piccola indagine senza l’invito ad attualizzare una così tipica lezione della storia.

Qualcuno ha notato che la Chiesa di quest’ultima parte del secolo non registra molti casi di grandi conversioni, a differenza della Chiesa – che pur sembrerebbe tanto più chiusa e incomprensiva – del secolo XIX e della prima metà del secolo XX.

Forse può essere utile una verifica sullo stato del cristianesimo odierno, paragonato a quella "pienezza" che ha impressionato il cuore di Agostino, avido di autenticità, e lo ha sospinto verso le acque della rigenerazione.

Forse è auspicabile che risulti più nitida agli occhi di tutti la figura di un popolo cristiano che sappia rallegrarsi con quelli che sono nella gioia e piangere con quelli che sono nel pianto (cfr. Rm 12,15), senza dubitare con quelli che dubitano né sbandarsi con quelli che si sbandano. Forse, perché ci sia un efficace impulso a convertirsi, occorre che risalti meglio la distinzione irriducibile tra la luce e le tenebre, e si dica con più chiarezza che l’uomo sulla terra è venuto a scegliere, non a mediare, tra il Signore vero dell’universo e l’apparente Principe di questo mondo.

Forse è buona cosa interrogarsi se, nella giusta e doverosa attenzione a tanti doveri particolari della comunità dei credenti verso il mondo, non sia andata un po’ sbiadendosi in questi ultimi tempi la consapevolezza dei compiti che la parola di Dio presenta come essenziali: l’annuncio chiaro e certo della verità che salva, la lotta contro l’errore e contro ogni forma di male, l’impegno perché dal nostro essere in Cristo nasca davvero una "nuova creazione" (cfr. 2 Cor 5,17).