Risposta a Gad Lerner... noto personaggio televisivo e da sempre autodefinitosi un ebreo di sinistra. Ha scritto a "il manifesto" quotidiano comunista rimproverandolo di tacere sul terrorismo e sulla paura che vive il popolo di Israele... (sintetizzando).

 

 

PALESTINA: caro Gad Lerner ti ricordi?

 

Non basta parlare di pace. Non è più sufficiente. Non è la fine della guerra: non lo è per la Palestina e in tutto il Medio Oriente. Non lo è per i curdi dimenticati e vittime dell’oblio. Non lo è in Colombia e in Africa e in Asia e nella civilissima Europa. Non lo è in America. I protagonisti dell’organizzazione mondiale delle disuguaglianze hanno ormai gettato la loro maschera e stanno sferrando un attacco senza precedenti a popoli interi attraverso le armi, il fondamentalismo di mercato alimentato da quelli religiosi e da un terrorismo che non appartiene alla politica, da ipocrisie e falsità che navigano per il pianeta utilizzando un’informazione deviata e deviante. Non basta parlare di pace dinanzi a migliaia di morti innocenti condannati a vivere tra incertezze e paura, privi di ogni diritto, della stessa libertà, di cibo, cure, acqua. E il nostro processo di umanizzazione va ad arenarsi su spiagge contaminate da mine che esplodendo o meno rendono tutti menomati. E Gerusalemme non è “città della Pace” (pur interpretando il suo antico nome ebraico) ma “città della guerra”. Quando nel 1947 l’ONU decise la spartizione della Palestina in tre parti (stato ebraico, stato arabo e Gerusalemme internazionalizzata) l’illusione era superare finalmente insanabili contrasti e intanto ci si insediava su territori da sfruttare e occupare per un giovamento, oltre le masse, per pochi, per dominanti cinici. Poi venne il 1967 e poi ancora gli anni ottanta e il novanta e questi giorni. E prima? E intanto quale è la realtà? La Palestina è una regione del mondo cancellata dalle carte geografiche. Violando sistematicamente le risoluzioni dell’ONU pezzo dopo pezzo i suoi territori sono stati militarmente occupati. Resta un popolo a cui è negato il suo diritto all’autodeterminazione sulla sua terra. Palestinesi in Israele, in Cisgiordania, in Giordania, a Gazza, in Libano, in Siria, in Egitto, in Libia, in Iraq, in Kuwayt, in Arabia, negli Emirati, nell’Oman, in Qatar e Bahreyn: milioni: quelli sopravvissuti. E’ la violazione di un legittimo diritto la madre di conflitti che hanno insanguinato questa parte del mondo. Per tredici secoli la Palestina (conquistata dagli arabi contro i bizantini) ha condiviso le sorti del mondo arabo: lingua, tradizioni, storia, cultura e civiltà. Agli inizi del novecento queste immense terre del Vicino Oriente vedono il crollo dell’Impero Ottomano e il miraggio inventato da alcuni stati europei di un grande mondo arabo unito ma nel 1920 il risveglio è amaro e lo smembramento dell’Impero Ottomano sarà la nuova realtà. Alla Palestina tocca una sorte particolare: dover subire gli intrecci tra i progetti del sionismo (con un ruolo influente della comunità degli Stati Uniti) e quelli coloniali dell’Occidente. Settecentomila palestinesi (musulmani, cristiani e anche ebrei provenienti dalla Russia zarista) che avevano convissuto in totale tolleranza vedono minacciato il loro equilibrio da una politica sionista tesa alla totale espulsione dei suoi abitanti. Lo slogan sionista era: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Fino al 1948 tuttavia solo il 6% del territorio palestinese divenne sionista nonostante insediamenti agricoli per attirare altre famiglie. La terra senza popolo era abitata dai palestinesi, da gente in gran parte povera e che subiva il martirio del sottosviluppo e che con difficoltà riusciva a difendersi da chi godeva di protezioni internazionali oltre misura (ieri come oggi). Lotte, proteste, manifestazioni furono il luogo della resistenza e della speranza fino alla grande rivolta del 1936 che durò sei mesi e che doveva fronteggiare bande armate e paramilitari (Haganah, Irgun, Stern) che intendevano, attraverso feroci attentati terroristici, impossessarsi di tutta la nazione. Intanto in Europa, con la stessa complicità del Vaticano capeggiata da un discusso santo di nome Pio XII che continuava la sua secolare battaglia antisemita, gli ebrei vivevano le conseguenze di una delle più feroci dittature capitalistiche: l’hitlerismo. Si domandava Primo Levi (e il sanguinario Sharon dovrebbe leggerlo): “siamo stati capaci noi reduci di comprendere e fare comprendere la nostra esperienza?”. Se ci fermiamo a guardare, solo per un attimo, le immagini tremende dei campi di concentramento, delle camere a gas, delle fosse comuni, di volti spenti e braccia numerate, di morte e violenza non possiamo non provare altrettanta rabbia, smarrimento anche, dolore e desiderio di fermare gli assassini di oggi che colpiscono a morte un bimbo di nome David prima che lanci il suo sasso contro un gigante ipocrita: David non ha una nazione da conquistare ma una terra da difendere. I mandanti ed i complici veri della barbarie terroristica sono coloro che intendono trarne un vantaggio per giustificare ogni loro nefandezza. Per questo noi la condanniamo e per questo la combatteremo seriamente solo fermando la mano di falsi e vili aggressori. Il terrorismo non è mai conseguenza del bisogno di libertà e il suo terreno di coltura è la negazione della stessa. L’antisemitismo fu una vera e propria ideologia quanto lo sterminio di popoli interi in America del Nord, in giro per il pianeta e ora in Medio Oriente. Le persecuzioni, le deportazioni, i terrificanti metodi di occupazione che sono stati consegnati alla storia ritornano (non possiamo dire rivivono perché ne sono protagonisti portatori di morte) nelle pagine buie di questi nostri tempi. Caro Gad Lerner ti ricordi? Ti ricordi Rabin? Quale mano lo ha colpito? Ti ricordi, dopo che l’ONU contraddicendo la sua stessa Carta consegnò il 54% del territorio di altri usurpandolo, le bande sioniste che seminarono la morte ed il terrore in Palestina? Ti ricordi l’episodio di Deyr Yasin e una popolazione di ogni età totalmente trucidata dall’Irgun allora diretto da Begin? Io ricordo anche via Rasella e poi le fosse Ardeatine. La guerra partigiana e la barbarie nazista! E ricordo i miei nonni con un piccolo monumento a memoria assassinati dai nazisti: qualche fiore e ogni 25 aprile un piccolo, sempre più piccolo, corteo di autorità che posa una corona. Ti ricordi trecentomila palestinesi che fuggirono abbandonando le loro case e una vita misera verso un destino ancora più greve per non essere massacrate? Ti ricordi il mediatore dell’ONU, Bernadotte,  assassinato nel 1948 dalla banda Stern che tranquillamente confluirà nell’esercito israeliano? E Israele che poi possiede il 77%  della terra di nessun popolo e scompare la Palestina... ma per far scomparire i palestinesi bisogna massacrarli tutti! E poi bisogna fermare la civile protesta di chi come te, da ragazzo, aveva deciso da ebreo di ricordare le parole di Primo Levi: oggi c’è in Israele chi cerca la pace: una donna, un ragazzo e un soldato. Ti ricordi Jamal Abd en-Naser e l’Egitto che voleva intervenire contro i torti subiti dai palestinesi e nel 1956 con il pretesto della nazionalizzazione della “Compagnie Universelle du Canal de Suez” l’intervento congiunto (a cui si contrappose l’URSS evitando il peggio anche per interessi particolari) di Israele, Francia e Inghilterra per far crollare l’Egitto? E la guerra dei sei giorni? Ricordi? E quella del 1973? E non doveva un popolo organizzarsi attraverso l’OLP “per una società democratica e libera in Palestina per tutti i palestinesi, musulmani, cristiani ed ebrei” come affermerà Arafat: oggi chiamato da una iena vorace di nome Sharon “capo dei terroristi”? Non doveva e non deve un popolo sentirsi accomunato da un identico destino, da un identico sogno di liberazione? Ti ricordi l’invasione del Libano del 1982? E ti ricordi Sabra e Shatila e mani grondanti di sangue che ancora non sono sazie? Libertà per la Palestina, dunque, per porre fine ad ogni terrore: se dieci, cento, mille e poi milioni di israeliani avranno il coraggio di urlarlo allora li avremmo liberati da alcuni mostri nemici dell’umanità partoriti dal ventre sempre fecondo di una barbarie che intendeva sterminarli. Il resto è semplice ambiguità. La terra, ogni terra se non è di Dio è certamente non di un popolo ma di tutti i popoli. Verrà il giorno in cui una madre israeliana camminerà al fianco di una madre palestinese avendo nel cuore una madre argentina, curda o di un qualsiasi luogo dove si è consumata un'ingiustizia per costruire insieme a padri e figli e figlie, sorelle e fratelli un mondo nuovo? Le nostre piazze lottano per questo progetto di liberazione al plurale...

Michele Capuano

 

LA MEMORIA DEL FUTURO 
E L'ANGOSCIA DEL PRESENTE

(IN RISPOSTA AL "TERRORE CHE VOI NON CAPITE" 
DI GAD LERNER, SUL MANIFESTO DEL 4/4)

Ero a Nablus nella prima notte della prima Intifada, quindici anni fa. Fuori dal dedalo della città vecchia, cuore del cuore della Palestina, impazzavano i blindati. Non potevano oltrepassare, oggi come allora, le barricate di rocce accatastate all'imbocco dei vicoli. Un ragazzino indicò lo spicchio di cielo fra le casupole. "Solo da lassù ci possono attaccare" disse, in un inglese stentato e fiero. Ora quel ragazzino è cresciuto e invece dei sassi stringe forse in mano un inutile mitra, mentre da quel cielo lo bombardano gli F-16 e gli Apache.

Ricordi… Vorrei che Gad Lerner avesse conosciuto quella donna che nel campo di Kalandiya, accanto al cadavere del figlio poco più che bambino squarciato da una micidiale pallottola esplosiva "dum-dum", ci disse piangendo e indicando gli altri figli: "Io non odiavo gli israeliani, e nemmeno loro. Non voglio arrivare a odiarli. Non voglio che i miei figli uccidano un giorno i loro figli. Aiutateci voi…" Voi europei, voi mondo, voi altrove.

Il fratello maggiore di quel bambino marciva nella terribile prigione di Ansar, nel deserto del Negev. Pochi mesi dopo, tornati a Kalandiya, la madre ci disse che era morto di stenti e torture. Mi regalò una pietra rotonda incisa dal figlio in chissà quante notti insonni: l'immagine di un veliero, e dietro in arabo la scritta "la nave del ritorno". L'ho conservata per anni come la mia cosa più cara, prima di affidarla a mia volta a un'esule kurda. Era, ancora, un segno di speranza.

Oggi forse uno dei figli di quella donna s'è fatto saltare in aria in una strada affollata di Gerusalemme o di Tel Aviv. Oggi forse gli occhi di quella donna sprizzano odio. Quanto ha sofferto in questi quindici lunghi anni? Quante volte i soldati hanno messo sottosopra la sua baracca all'alba? Da quando sono nati, i suoi figli non hanno conosciuto che guerra e discriminazione e, appena adolescenti, lavoro nero nelle terre dei coloni e nelle città degli alieni.

Anche a me, che iddio mi perdoni, quando varcavo il confine impercettibile fra la Gerusalemme araba immersa nel silenzio buio e teso del coprifuoco e le vetrine allegre e multicolori di Gerusalemme ovest, anche a me veniva voglia di gridare e di spaccare tutto. Di far saltare le vetrine, certo, non la gente innocente che vi passeggiava davanti. Ma io non sono palestinese. Posso solo immaginare come possa crescerti dentro la frustrazione, fino ad esplodere con il mondo intorno.

In quei giorni di fine anni '80 ci trovammo ad inventare, nelle strade e nei campi di Palestina, una modalità di condivisione che poi, dalla Bosnia al Chiapas al Kurdistan, è divenuta patrimonio comune. Ci trovammo a guidare e garantire, noi europei, le prime manifestazioni con bandiere palestinesi per le strade di Gerusalemme e di Ramallah. Più d'una volta sentimmo fischiare i proiettili, ma non è quello il ricordo peggiore. Non dimenticherò mai, invece, lo sputo in pieno viso e la mano alla gola di un Rambo israeliano sceso dalla jeep di cui avevo appena annotato la targa, per denunciare il pestaggio di una scolaresca che manifestava in Salahaddin Street. Con un senso di repulsione fisica avvertii allora il suo potere, quel Potere allo stato puro che ho ritrovato nei bastoni della polizia turca. In quel momento lo odiai con tutte le mie forze. Ed io non sono un palestinese…

Mi sono chiesto spesso, allora, come potevano i palestinesi continuare a battersi solo con parole e pietre. Mi sono chiesto con ammirazione, allora così come in seguito in Kurdistan di fronte a una negazione ancora più radicale e ad un'occupazione ancora più pervasiva, quale forza morale potesse animare il tessuto dei Comitati popolari, la rete di quotidiana resistenza civile dell'Intifada - che in kurdo si traduce Serhildan, e in entrambi i casi significa semplicemente: su la testa!

Hanno continuato così per molti anni, Lerner, senza armi, infine con armi ridicole a fronte della potenza israeliana. Ancora nei primi mesi della seconda Intifada, le vittime civili erano tutte da una parte sola, ad eccezione dei coloni - che sono più armati e militarizzati degli stessi militari. Infine la disperazione, ben più che un calcolo politico, ha spinto decine, centinaia di giovani a scegliere la via dell'attentato suicida. Una scelta atroce, certo, e da respingere. Come dice Brecht, anche l'odio contro l'ingiustizia rende roca la voce e stravolge il viso.

Ma mentre quella disperazione e quell'odio crescevano, noi che abbiamo fatto? Quanti di noi si sono cullati, nell'intervallo fra le due esplosioni, nell'illusione che tutto fosse affidato ormai, nel bene o nel male, alla diplomazia e alla geostrategia? Quanti hanno smesso di chiedersi, se mai s'erano dati la pena di conoscerla, che vita facesse quella donna di Kalandiya e milioni di donne come lei, sotto il tallone dell'occupazione? Quanti hanno coltivato il feticcio consolatorio dell'equidistanza fra oppressori e oppressi?

Ancora ricordi. Una sera d'estate, in casa di giovani israeliani in procinto di partire per il servizio militare. Giovani acculturati e di sinistra, una discussione serrata e appassionata. La conclusione fu che non ci sarebbe stata pace senza il ritorno in tutto o in parte dei profughi del '48 e il ritiro dei coloni, che al contrario crescevano in numero e privilegi mentre i campi profughi nei paesi arabi sprofondavano nella miseria più nera. E che queste due condizioni non potevano realizzarsi se non a prezzo di uno scontro durissimo dentro Israele, al limite della guerra civile. Uno scontro che quei ragazzi non se la sentivano di aprire. Difatti c'è stato, sordo più che aperto, ma per iniziativa della destra. E l'assassinio di Begin ha segnato la sua vittoria, che oggi Sharon celebra nel sangue.


Posso capire il terrore in cui oggi vivono gli israeliani, e capisco che produce nuovi mostri - il consenso crescente intorno alla tragica illusione di soluzione finale di Sharon, così come l'angoscia esistenziale che conduce persino un analista intelligente come Lerner a farneticare di una possibile, anzi imminente distruzione dello stato d'Israele ad opera dei giovani suicidi-omicidi.

Al contrario: la solidarietà con le stesse vittime israeliane ci obbliga a tenere ferma e lucida l'analisi e la scelta di campo. Questo terrorismo disperato non si combatte con strumenti militari, perché non è opera di una falange di cospiratori. Si combatte mettendo fine all'occupazione e consentendo a un popolo compresso fino all'implosione di respirare e progettare liberamente un futuro di convivenza, sulle macerie dell'odio. Questo ripete Arafat, checché ne dica Bush o, 'si parva licet', De Michelis. Questo dicono Ocalan ed i suoi in Kurdistan, Marcos ed i suoi in America Latina.

Che le loro voci si spengano o no, che ai popoli negati nell'epoca della globalizzazione resti o no una scelta diversa dall'estremo sacrificio di sé e degli altri, dipende anche da tutti noi. Incluso Gad Lerner.

Dino Frisullo