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Indice di Neopsiche Anno 2 / N°3 / Giugno 1984

 
Trascritto dalla Dott.ssa Claudia Carrato

Dinamiche familiari e sofferenza psichica
Un contributo psicoanalitico critico
Carlo Ravasini

RIASSUNTO
Attraverso un rapido esame della letteratura psicoanalitica, l'autore rileva come questa non offra, tranne rare e parziali eccezioni, un modello utile per comprendere le dinamiche psicologiche e psicopatologiche del nucleo familiare. H. E. Richter, psicoanalista tedesco, ha più degli altri cercato di elaborare, per il rapporto figli/genitori, una teoria dei ruoli che inquadra sistematicamente i meccanismi di difesa in funzione dei ruoli stessi. Nell'intento di dare un contributo concreto a questa problematica, vengono riportati succintamente i resoconti di terapie analitiche di quattro pazienti donne. Il materiale clinico viene brevemente commentato sia in relazione alle ipotesi di Richter (che l'autore condivide) sia in un'ottica critica nei confronti di certa letteratura psicoanalitica poco attenta alle peculiarità della situazione psicologica e psicosociale della donna.

ABSTRACT
With a quick survey of psychanalytical literature the author notes that, with rare and partial exceptions, it does not pro vide a useful model for the understanding of the psychological and psychopathologycal dynamics of the family unit. H.E. Richter, a German psychoanalyst, tried more than the others to elaborate a role theory for the parent/child relationship to systematically frame the defence mechanisms related to the roles themselves. Intending to make a concrete contribution to this issue the author reports on analytical therapy with four female patients.
The clinical material is commented on both with regard to Richter's hypothesis which the author agrees with and with criticism of certain psychoanalytical literature which pays scant attention to the particular psychological and psychosocial situation af women.

Il presente lavoro intende essere un contributo preliminare ad una ricerca che, per le sua natura ed il suo interesse, merita una ben più ampia e dettagliata trattazione: quella sui rapporti fra le dinamiche familiari e i disturbi psicogeni.
Nonostante la rapida proliferazione, negli ultimi anni, di pubblicazioni anche psicoanalitiche su questo argomento, non disponiamo ancora di un modello valido, differenziato come quello elaborato da Freud per interpretare i processi intraindividuali. Tutti gli studiosi che si sono posti il problema di capire i processi di rapporto interpersonale nell'ambito familiare e le forme di disturbi che da esse spesso originano, si sono trovati di fronte a notevole imbarazzo, a non indifferenti difficoltà di ordine metodologico e concettuale. Molto spesso essi si sono accontentati di categorie semplicistiche quali quelle di: patti di alleanza o di ostilità fra partners, ambivalenze, inibizioni reciproche. Queste categorie, anche se in certi casi possono essere utili e funzionali, sono però troppo generiche e rappresentano in fondo un regresso al pensiero preanalitico.
Già da qualche tempo, comunque, sono stati elaborati alcuni modelli che permettono di incominciare a mettere meglio a fuoco i rapporti affettivi fra i membri di un nucleo familiare e i conflitti che ne derivano. In quest'ottica si colloca il concetto di
omeostasi della famiglia, proposto da D.D. Jackson (1957). Traendo lo spunto da alcune elaborazioni teoriche degli studiosi del gruppo di Palo Alto (Pragmatica della comunicazione, 1967), ed integrandole con la sua formazione ed esperienza psicoanalitica, R.D. Laing ha verificato la possibilità di applicare i modelli di comunicazione per conflitti di due, tre persone, noti come "doppio legame" e "mistificazione", allo studio clinico di situazioni familiari comprendenti un membro gravemente psicotico (1964, 1969).
Altri studiosi (F.C. Wallace e R.D. Fogelson, 1965) hanno elaborato una teoria interattiva utile per esaminare i conflitti di due persone e da essi denominata
"battaglia di identità" (Identy-Struggle); questa teoria presenta molti punti in comune con quella di L.C. Wynne (1965) del cosiddetto "scambio delle dissociazioni" (Trading of Dissociations).
Con questa formula Wynne sostiene che ognuno dei partners cerca di allontanare dalla coscienza alcune caratteristiche da lui ritenute pericolose, "proiettandole" sull'altro partner grazie a un processo inconscio di dissociazione. Anche Th. Lidz (1965) ha formulato alcune ipotesi dinamiche sui rapporti fra disturbi nella comunicazione e nel pensiero fra adulti e bambini, che si sono dimostrate un utile punto di riferimento per numerose feconde ricerche sperimentali su famiglie di schizofrenici.
Lo psicoanalista tedesco H. E. Richter (1970) ha cercato di elaborare per il rapporto figli - genitori una
teoria dei ruoli, che inquadra sistematicamente i meccanismi dì difesa in funzione dei ruoli stessi. Il ruolo, nella sua accezione sociopsicologica-psicoanalitica viene definito da Richter come "l'insieme strutturato delle aspettative consce ed inconsce che i partners intrecciano reciprocamente. Questi ruoli possono servire prevalentemente o totalmente a processi di difesa". Secondo Richter, "i ruoli attribuiti reciprocamente si identificano con gli aspetti fondamentali della difesa psicosociale. Queste manovre corrispondono nei loro obiettivi ai meccanismi di difesa infraindividuali già noti da tempo: essi devono procurare una via d'uscita alla pressione di conflitti interni insopportabili. Inoltre queste forme di difesa psicosociali nei confronti dei meccanismi di difesa classici descritti da Anna Freud, non hanno un rapporto aggiuntivo complementare, dato che sono completamente ristrutturati. I meccanismi classici hanno sempre una loro partecipazione nelle forme di difesa psicosociali, poiché ne rendono possibile lo sviluppo; ma nel rapporto socialpsicologico acquistano un nuovo significato".
Vale la pena di ricordare succintamente i
cinque principali ruoli che Richter descrive:

  1. Ruolo del partner sostituto. Il soggetto X, inconsciamente, sente il bisogno che Y prenda il posto di un altro partner (Z), e cioè di un partner alternativo, proveniente dall'esperienza infantile di X.
  2. Ruolo di una controfigura. A Y può essere assegnato anche il compito di realizzare la copia esatta dell'ego di X. "In questo caso, X mostra di norma una personalità in sommo grado narcisistica con tratti paranoici che, attraverso la negazione del proprio ideale dell'Io, tende alla perfezione".
  3. Ruolo dell'ego ideale. Con una tattica narcisistica Y viene costretto a soddisfare un ideale che X non è riuscito a realizzare. "Questo ruolo varia a seconda che X imponga a Y l'aspetto positivo dell'Io ideale, oppure l'aspetto negativo, repressivo del super - Io. Nel primo caso a Y si richiedono particolare intelligenza, bellezza, reputazione, prestigio; nel secondo caso, la realizzazione di un ideale di assoluta purezza, astinenza sessuale e simili".
  4. Ruolo dell'ego negativo. Il soggetto X, ancora, può pretendere che Y gli "porti via" i suoi lati negativi. Y deve quindi recitare una parte che X può reprimere e negare soltanto scaricandola su Y, che diventa l'incarnazione dell'identità negativa di X. Se questa assegnazione di ruolo presenta una configurazione spiccatamente sadomasochistica, Y diventa capro espiatorio. Se invece Y deve accollarsi non la parte cattiva, ma quella debole di X, non assume quello del capro espiatorio, ma piuttosto il ruolo della parte debole.
  5. Ruolo del compagno di battaglia. Il soggetto X è continuamente in lotta col mondo esterno e chiede al suo partner Y di essergli alleato. In funzione dell'assunzione di questo ruolo "si può spiegare, per esempio, come compagni di personalità paranoiche finiscano spesso con l'accettare il mondo fasullo dei loro partner e solidarizzare con le loro battaglie paranoiche".

Le ipotesi di Richter mi sembrano utilmente integrate da alcuni concetti molto precisi e suggestivi, elaborati dallo psichiatra di formazione psicoanalitica G. Ammon (1973): si tratta dei concetti di "complesso simbiotico" e di "gruppo primario". Sulla scia degli studi di E. Erikson (1965) e di M. Mahler (1969), Ammon afferma che le situazioni psicotiche "sono l'esito di uno specifico disturbo della interazione tra il bambino che si sta sviluppando e la madre o, eventualmente, il resto del gruppo primario incapaci di sostenere adeguatamente il bambino nello sviluppo delle funzioni del suo Io e nella delimitazione della sua identità personale.
Il
campo patogeno è costituito principalmente da una relazione madre - bambino disturbata nei primi tre anni di vita la quale dà luogo a un conflitto irrisolto che si configura come complesso simbiotico. Quest'ultimo sviluppa le sue dinamiche specifiche, e ha per la reazione psicotica una funzione basilare analoga a quella del conflitto edipico per la nevrosi".
L'aver sottolineato, come hanno fatto anche altri autori, la importanza del ruolo della madre nella patogenesi delle sindromi psicotiche non significa però che essa costituisca un agente patogeno isolato. "Nel suo comportamento nei riguardi del bambino - scrive ancora Ammon - essa rappresenta il gruppo primario nel suo insieme, e ne esprime la dinamica Inconscia".
In altri termini se il gruppo primario (nella nostra società moderna, la famiglia nucleare) non è in grado di sapersi delimitare nel suo insieme, per aiutare ogni suo singolo membro, e soprattutto il bambino, a delimitare se stesso; se cioè non è in grado di comunicare in modo sufficientemente elastico sui propri bisogni, sulle proprie angosce, sui propri desideri, ecc., automaticamente esso diventa un complesso campo di forze patogeno.
A questo punto una cosa non può non colpire (e certo merita ben più approfondite analisi e meditate considerazioni): il doppio ruolo negativo cui la donna nella nostra società industriale avanzata e ancora largamente patriarcale sembra condannata. Come figlia sembra esposta, ancor più del maschio, alla influenza nefasta dell'ambiente primario, se esso è patogeno, proprio per la sua maggiore passività, disponibilità, dipendenza nei confronti della famiglia nucleare. Come madre, cui vengono delegati i compiti principali dell'allevamento della prole durante i primi anni, sembra destinata ad assumere, per lo meno in modo più diretto e più esplicito di quanto non facciano il padre e le altre figure parentali, quel ruolo patogeno e nefasto di cui prima si parlava. Di questa
duplice condanna (a "mamma cattiva" da un lato, a "figlia- capro espiatorio". "figlia vittima" dall'altro) non mancano le conferme anche nella recente letteratura psicologica e psicoanalitica.
Da un lato, seguendo le orme di A. Rascovsky (1970, 1974), lo psicoanalista italiano G. Carloni si è preoccupato in alcuni interessanti lavori (1972, 1975) di "contribuire con alcune osservazioni cliniche e con molte deduzioni di diversa fonte alla conoscenza dei mostri e dei rancori che albergano nella parte più infantile della psiche adulta e, in particolare, dell'aggressività e delle gelosie riconoscibili nelle condotte di tante madri verso la propria prole".
D'altro lato è significativo che nel lavoro di R.D. Laing (1964) che a giusto titolo è considerato una delle ricerche più serie e significative sui rapporti fra dinamiche familiari e disturbi psicotici, le undici situazioni cliniche riportate con ricchezza di dettagli e di commenti, si riferiscano a personaggi femminili. Né Carloni né Laing si sono posti, almeno in apparenza, il problema dell'interpretazione psicosociologica dei dati riportati: ci si può chiedere se anche nelle situazioni di ricerca degli psicoanalisti più seri non si debba fare i conti con quel fenomeno della
"censura", che gli analisti sono abituati ad invocare per spiegare le dimenticanze, gli atti mancati e le resistenze dei loro pazienti. Occupandoci di fenomeni così delicati quali sono le dinamiche familiari dobbiamo evidentemente cercare di mettere a punto degli strumenti che, pur non tradendo la matrice psicoanalitica, ne allarghino la sfera di influenza e di applicazione. Come ha tentato del resto H. E. Richter (1970), che abbiamo più sopra ricordato e abbondantemente citato.
Proprio nell'intento di portare un piccolo personale contributo al dibattito su questo argomento, desidero, dopo le considerazioni di ordine teorico, riferire quattro brevi situazioni cliniche, che mi sono parse particolarmente significative alla luce delle affermazioni e delle ipotesi riassunte nelle pagine precedenti.

1) Candida. E' una pittrice di 30 anni. Mi è stata inviata da un collega psichiatra con diagnosi di "schizofrenia acuta" (l'intelligenza e la sensibilità di questa giovane artista peraltro ancora lungi dall'essersi affermata nel suo campo) facevano ritenere che ella fosse suscettibile di beneficiare di un trattamento psicologico. Quando iniziò l'analisi presentava uno stato di confusione fluttuante, chiari disturbi del pensiero, dell'affettività e della sensibilità corporea; in passato aveva anche sofferto di stati depressivi e di idee suicide.Era cresciuta in una situazione familiare e ambientale a dir poco drammatica. Figlia unica di un padre alcoolista (che aveva definitivamente abbandonato la moglie, quando la paziente aveva sei anni) e di una madre possessiva, probabilmente molto disturbata, che tirava avanti facendo molti piccoli lavori. Ella aveva nei confronti della paziente un rapporto gelosissimo, chiaramente sado - masochistico:
Candida era cresciuta alla sua mercé, in una situazione di simbiosi estremamente coattiva. Solo a 20 anni la giovane riuscì a staccarsi dalla madre incominciando a frequentare una accademia d'arte: era sempre stata molto portata verso il disegno e la pittura, che erano anche le uniche sue attività che la madre tollerasse. Finiti gli studi, restò a vivere da sola (la madre era rimasta al paese d'origine in Emilia) in una stanza presa in subaffitto: pur sentendosi in colpa verso la madre e trovando difficile sopravvivere da sola, si rendeva conto che era l'unico modo per non ricadere in una situazione di dipendenza per lei angosciosa. In questo quadro, intrecciò una relazione con un mercante d'arte (uomo dall'aspetto tranquillo ma psicologicamente non poco contorto), il quale da un lato le vendeva i suoi quadri, dall'altro la teneva legata con un rapporto possessivo, e, col passare del tempo, sempre più sado-masochistico. Questo rapporto fece rivivere intensamente a Candida quello pregresso con la madre: si angosciò molto, riuscì (con l'appoggio dello psichiatra che poi me la inviò) a troncare la relazione ma nel contempo la sua sintomatologia confusionale e paranoide si accentuò. A questo punto iniziò l'analisi che durò tre anni e fu interrotta dalla paziente (che era nel frattempo molto migliorata) in concomitanza della ripresa del rapporto con il mercante d'arte. Questa ripresa fu giustificata da Candida con la necessità realistica di vendere dei quadri per sopravvivere: probabilmente vi era anche un inconscio bisogno di un rapporto di maggiore dipendenza di quello che le permetteva l'analisi.
Il problema terapeutico centrale fu per me quello di accettare il transfert simbiotico-psicotico
(con le sue implicazioni ambivalenti e distruttive), pur lavorando nel contempo in modo da permettere a Candida di uscire dalla simbiosi senza provare troppo senso di colpa. Mi è parso necessario creare una situazione terapeutica il più possibile flessibile, che le permettesse di muoversi con la maggiore libertà possibile e di comunicare anche a livello non verbale. La cosa è stata agevolata dal fatto che, non solo Candida era ben lieta di potersi spostare a suo piacimento dalla posizione sdraiata a quella seduta (il che evidentemente le permetteva di esperire un ambiente non ostile e permissivo per la prima volta in vita sua!), ma era possibile lavorare sui suoi disegni e sui suoi dipinti che lei stessa spontaneamente mi portava. Grazie a questo materiale ella aveva la possibilità di esprimere le angosce che la perseguitavano, ponendole in una specie di territorio neutrale, non troppo ravvicinato, che era nel contempo mantenuto sotto il controllo del proprio Io e preposto (come dono e come messaggio) all'Io ausiliario del terapeuta. In effetti l'osservazione e la discussione comune dei suoi disegni mi ha fornito la possibilità di dare interpretazioni in modo diretto. La sua fortissima ambivalenza (il desiderio di essere protetta e nel contempo il timore di essere distrutta) era di molto più difficile gestione quando si presentava direttamente nel vissuto transferale: cosa che del resto avvenne nell'ultimo anno di analisi, anche attraverso l'emergere di materiale onirico, che fu parzialmente interpretato. La possibilità dì portare con discreto successo interpretazioni direttamente sulla psicosi di transfert ("L'analista - cattivo, come in passato la madre - cattiva, la può uccidere ma non lo fa, anzi l'aiuta e la protegge") ritengo abbia permesso a Candida di rafforzare il suo Io, sia pure attraverso alterne vicende. Anche per questo penso che, malgrado l'interruzione prematura, il lavoro di analisi sia stato utile; inoltre ho avuto una verifica catamnestica negli anni successivi: un paio di volte è venuta a trovarmi portandomi i cataloghi delle sue mostre in corso, appariva abbastanza serena anche se tendenzialmente sempre un pò rallentata e depressa, non aveva più avuto episodi psicotici acuti.
Mi è parso di ravvisare nella situazione relazionale familiare di Candida quella che Richter definisce del
ruolo dell'ego negativo, nella versione del "capro espiatorio" (Nella fattispecie: simbiosi con madre-sadica = struttura psicotica).

2) Susanna, studentessa di lingue di 23 anni. Inviatami con diagnosi di "sindrome depressiva borderline" dopo un ricovero in O.P. e due tentativi psicoterapici falliti dopo poche settimane per interruzione da parte sua. Oltre alla depressione vi erano periodici attacchi di bulimia e una forte tendenza ad abusare di alcolici; aveva contemporaneamente rapporti eterosessuali e omosessuali ed oscillava fra una identità femminile ed una maschile. Era cresciuta in una famiglia di origine protestante (i principi religiosi non erano però molto introiettati neanche dai genitori) in un rapporto di stretta dipendenza nei confronti della madre (a sua volta una donna molto depressa e dipendente dalla nonna). L'inizio (almeno apparente) della sintomatologia depressiva e dei suoi correlati sembrava collegato con la partenza dalla casa materna per iniziare gli studi universitari. Quando venne da me erano già passati quattro anni da quella data e la situazione era andata progressivamente peggiorando.
L'analisi di Susanna (che durò cinque anni) fu inizialmente molto difficile a causa delle forti resistenze (che si esprimevano soprattutto in esasperanti silenzi) e del mio conseguente disagio controtransferenziale. Dopo quasi due anni interpretando le sue resistenze come collegate con le angosce sottese solo parzialmente affroranti, la situazione lentamente si modificò: le fu possibile esprimere anche verbalmente queste angosce e lavorarci con me in seduta. Scoprimmo assieme che i suoi silenzi erano vissuti con molta angoscia ma nel contempo esprimevano il suo desiderio di protezione simbiotica (analista = madre); soprattutto Susanna temeva di irritarmi parlandomi della sua sofferenza, dei suoi desideri e attività omosessuali, dei suoi eccessi nel mangiare e nel bere alcolici, ma nello stesso tempo aveva paura di perdermi proprio a causa del suo silenzio.
Dopo essere divenuti consapevoli del suo transfert materno, riuscimmo a lavorare (nel periodo successivo della sua analisi) sui nuclei più profondi (pre-edipici) del suo conflitto di identità in questa fase riuscì ad esprimere senza angoscia il suo desiderio di simbiosi: la situazione del transfert simbiotico non era più pericolosa. Anche grazie all'abbondante materiale onirico di questo periodo, fu possibile a Susanna ed a me collegare la fissazione orale con l'omosessualità, cioè "l'essere una cosa unica con la madre".
Era questa evidentemente la radice più profonda del suo conflitto d'identità, anche se successivamente (nell'ultima fase dell'analisi) emersero elementi di carattere più esplicitamente edipici che si erano aggiunti a complicarle le cose: si era sempre sentita criticata dal padre e mai abbastanza amata, questo l'aveva indotta a pensare che, solo comportandosi da ragazzo, il padre la avrebbe valorizzata e amata: ma in questo modo si sentiva depressa. Grazie al lavoro interpretativo, ora centrato sul transfert paterno (paura delle mie critiche ma attrazione nei miei confronti), Susanna recuperò gli aspetti positivi della sua problematica edipica, visse la sua omosessualità come sempre più egodistonica: capimmo insieme come il fortissimo legame con la madre e con le successive partners omosessuali avesse delle implicazioni non solo orali, ma anche edipiche. Nel frattempo vi era stato un progressivo miglioramento sintomatologico: molto meno depressa, più spontanea, più femminile ed attraente, non aveva più avuto accessi di bulimia, l'etilismo era molto moderato, si stava rafforzando il legame sentimentale con un coetaneo.
Anche nella situazione di Susanna (come in quella di Candida) mi è parso di ravvisare quello che Richter descrive come
ruolo dell'ego negativo, nell'altra versione però, quella della "parte debole". (In questo caso vi è evidentemente una relazione fra la simbiosi con la madre depressa e l'omosessualità e gli altri sintomi).

3) Lucia. È una casalinga di 24 anni, inviatami con diagnosi di "nevrosi del carattere depressiva, con insicurezza, fragile autostima, dipendenza verso il marito". Le motivazioni recenti che la conducono all'analisi sono due interruzioni spontanee di gravidanza (in assenza di disturbi organici e pur desiderando avere un figlio) e una forma di frigidità quasi completa (pur avendo un rapporto affettuoso e intellettuale valido col marito).
L'analisi è durata tre anni e mezzo. Anche nel transfert (come nel rapporto col marito) Lucia portava le sue angosce depressivo-abbandoniche di non essere abbastanza considerata e amata: sotto una problematica edipica non particolarmente marcata, emerse ben presto il problema centrale: una fortissima invidia per la sorella ed il fratello maggiori che erano, a suo parere, molto più valorizzati di lei nell'ambito della famiglia d'origine: di questa invidia Lucia si sentiva molto colpevole e ne derivava una tendenza autopunitiva, di cui il non mettersi in mostra, il sentirsi bloccata, inibita, depressa erano la diretta conseguenza.
Inizialmente fu difficile interpretare queste dinamiche anche a causa dell'atteggiamento trasferale depressivo e autosvalutativo che la portava fra l'altro a fare lunghissimi silenzi. In questa prima fase le mie interpretazioni furono indirizzate soprattutto alla valorizzazione delle pulsioni libidiche e alla sdrammatizzazione delle angosce che sottendevano quelle aggressive.
Questo ha evidentemente permesso a Lucia di sentirsi più accettata e di avere un atteggiamento molto meno autopunitivo: in analisi divenne più loquace e soprattutto fornì un materiale molto più abbondante sia sotto forma di messaggi onirici che di ricordi infantili. In questo periodo fu quindi possibile lavorare sulle situazioni più profonde e interpretare le dinamiche legate alla sua invidia distruttiva, al conseguente senso di colpa e alla depressione. Emerse chiaramente che l'invidia, che nell'infanzia e nell'adolescenza era indirizzata soprattutto verso i fratelli maggiori e verso la madre (fonte di ogni gratificazione), successivamente si era spostata verso il marito architetto di cui invidiava l'impegno professionale, che ella stessa avrebbe voluto avere (era infatti laureata in economia ma non aveva nemmeno cercato lavoro per occuparsi della casa). Sulla scia di un sogno riemerse un ricordo infantile che ci fu molto utile anche successivamente come punto di riferimento: "spesso fantasticava di essere la regina incontrastata di un mondo di omini e donnine molto piccoli ai quali lei faceva fare quello che voleva e talora, se non la ubbidivano, applicava sadici supplizi": si sentiva poi molto in colpa per queste fantasie così come si vergognava molto in analisi a raccontarle.
Queste implicazioni sadomasochistiche avevano, come capimmo assieme, caratterizzato tutti i suoi rapporti: non essere brillante in famiglia per "non dare soddisfazione ai genitori" ma sentirsene lei stessa poi avvilita e depressa, "punire" il marito carrierista con la sua frigidità salvo poi rendersi conto che anche lei così pagava un forte scotto, infine anche in analisi i suoi silenzi iniziali erano un modo per escludermi ma danneggiando se stessa.
L'interpretazione nel transfert dell'invidia, del conseguente senso di colpa e delle dinamiche sadomasochistiche ad essi collegate portarono nella fase terminale dell'analisi a un miglioramento sia sintomatologico che strutturale. Aveva nel contempo portato a termine una gravidanza e accudiva alla figlia con molta tenerezza; era più sicura e meno depressa; la frigidità era quasi completamente scomparsa. Si era messa a lavorare e si pagava da sé l'analisi: fu lei a decidere di porvi termine perché si sentiva molto meglio ed aveva ora troppi impegni.
Nella dinamica familiare di Lucia mi è parso di riconoscere il meccanismo dell'assegnazione del
ruolo dell'ego ideale (Richter) attraverso l'imposizione dell'aspetto positivo dell'lo ideale e la richiesta (più inconscia che conscia, ovviamente) di bellezza, prestigio, riuscita esistenziale. La forte invidia verso i fratelli maggiori e la madre ha probabilmente complicato le cose, deflettendo le cariche narcisistiche colpevolizzate e trasformandole in forti valenze depressive.

4) Marta. E' un'insegnante di 33 anni. Lo psicologo che me l'ha inviata ha diagnosticato: "Struttura ossessiva del carattere; frigidità; inibizione nel lavoro per paura (dichiarata) della propria aggressività".
L'analisi, iniziata tre anni fa, è tuttora in corso. Per un lungo periodo iniziale (più di due anni) Marta ha vissuto una ineffabile luna di miele analitica: il transfert fortemente simbiotico e il bisogno di sentirsi protetta, amata e compresa esprimevano delle antiche (e meno antiche) situazioni irrisolte. Figlia terzogenita di una madre rigida e sessuofobica e di un padre "sempre angosciato per il suo lavoro", si era sempre sentita l'ultima ruota del carro anche a causa delle preferenze dei genitori che andavano ai due fratelli maggiori "perché maschi". Le carenze affettive l'avevano indotta a cercare nel lavoro e nello studio (ha due lauree) un compenso ed una fonte di autostima; il matrimonio con un uomo di 15 anni più anziano e la nascita di tre bimbi avevano arricchito la sua vita affettiva ma non avevano risolto i problemi di fondo: "amo mio marito ed i bambini, - diceva spesso - amo anche il mio lavoro, ma sono stufa di dare sempre e non ricevere mai". E' comprensibile che l'analisi fosse vissuta come la situazione in cui poteva finalmente ricevere, aveva il diritto ed il dovere (non è ben la regola analitica che suggerisce di abbandonarsi alle proprie associazioni?) di aspettarsi "cose buone" sotto forma di interpretazioni, attenzione, comprensione. La mia interpretazione della sua modalità orale di vivere l'analisi fu accettata: il suo enorme bisogno di nutrimento di cibo, di "seno buono" era a lei stessa evidente; così come lo era l'aspetto negativo dello stesso problema: la fine della seduta, l'intervallo fra una seduta e l'altra, l'attesa del mio intervento verbale durante la seduta; erano vissute tutte come situazioni di frustrazione, di rifiuto, e di abbandono, di "seno cattivo" che si nega.
Solo dopo due anni di lavoro analitico è stato possibile per lei cominciare ad accettare l'interpretazione che la modalità simbiotico - fusionale di vivere l'analisi e la sua tendenza ad idealizzarla potessero essere delle modalità difensive non solo nei confronti di angosce abbandoniche ma anche nei confronti di angosce collegate alla paura della sua aggressività verso di me e l'analisi. Divenne possibile lavorare sul materiale aggressivo che era sempre stato abbondante ma che in precedenza non era stato possibile utilizzare. Sognò di trovarsi con me "su di una stretta lingua di terra che separava un torrente limaccioso e impetuoso dal mare calmo e limpido": nelle associazioni il torrente limaccioso si collegava alle sue pulsioni profonde (aggressive e sessuali), che, assieme a me, lei sperava di riuscire ad elaborare per entrare nelle acque più limpide di una vita finalmente serena.
Negli ultimi mesi il transfert non
è più monoliticamente simbiotico ma molto più fluttuante: talora depressivo e vittimistico ("i problemi che vengono fuori in analisi mi fanno stare male: sono più inquieta, sto peggio di prima!") talaltra maniacalmente caratterizzato da fughe in avanti e fantasie di fine analisi ("in fondo sto molto meglio, l'analisi mi ha aiutato, sono meno frigida, potrei accontentarmi e finire fra un anno o poco più"). Credo sia matura la situazione per lavorare sul vissuto depressivo, sui problemi della separazione e dell'abbandono dai quali Marta si era difesa a lungo con l'idealizzazione ed ora con la tendenza a utilizzare meccanismi di negazione e maniacali.
Anche nella situazione di Marta (come in quella di Lucia) mi
è parso di ravvisare il ruolo dell'ego ideale descritto da Richter: nell'altra versione però, quella dell'imposizione dell'aspetto negativo, repressivo del Super - Io. Indubbiamente da Marta la madre rigida e sessuofobica si attendeva (certo inconsciamente oltre che consciamente) la realizzazione di un ideale di assoluta purezza, astinenza sessuale e simili. Anche per Marta (come per Lucia) la dinamica familiare era complicata dalla presenza ingombrante dei due fratelli maggiori, con conseguente vissuto abbandonico e depressivo (mascherato dalla struttura ossessiva).

Concludendo rilevo per inciso quanto patogeno sembra essere stato il ruolo del padre in tutte e quattro le situazioni da me riportate. Quasi del tutto assente (oltre che alcoolista) nel caso di Candida; presente solo in apparenza, in realtà "sempre angosciato per il suo lavoro" e poco interessato ai figli nel caso di Marta; presente fisicamente ma debole e rinunciatario nel caso di Lucia e di Susanna. Nel caso di quest'ultima sembra esserci stato anche un rifiuto esplicito ed una difficoltà ad accettare il sesso della figlia, situazione certamente non priva di importanza, come si è visto nel corso dell'analisi di Susanna, nelle patogenesi dei suoi conflitti d'identità e delle sue scelte omosessuali. Di fronte a questi rilievi, anche se è vero che la madre finisce con lo svolgere il ruolo decisivo, o almeno il più scoperto, nella patogenesi dei problemi di tutte e quattro le giovani donne da me descritte, che senso ha parlare di "mamma cattiva?" Ed è poi proprio causale che, pur essendovi in quasi tutte le famiglie anche dei fratelli maschi, la funzione di "capro espiatorio" sia stata svolta da una donna?
Trarre delle conclusioni organiche è
ovviamente prematuro e inopportuno. Aldilà della rilevanza del materiale clinico presentato, ritengo che l'insieme dei problemi che ho tentato di delineare meriti un ulteriore approfondimento. Conoscere meglio le dinamiche familiari sul cui sfondo si stagliano le situazioni individuali dei pazienti con i quali lavoriamo; capire meglio le differenze di ruolo e di funzione fra i membri del nucleo familiare, a loro volta condizionate da stereotipi culturali e sociali extrafamiliari; allargare quindi il proprio interesse, tradizionalmente volto all'individuo, anche alle strutture micro e macro-sociali: questi argomenti mi sembrano tutti estremamente stimolanti e suggestivi per la ricerca e per la prassi psicoanalitica.

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