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Diritto e Psicologia
CEDAM - Padova
2000
a cura di Anita
Lanotte
Dall'Estero
Difesa
del Rorschach in tribunale:
un'analisi
dell'ammissibilità attraverso l'uso di Standard Legali e professionali
di E. Longano
e S. Mandressi
Notizie dalla
Associazione
Convegni e Seminari
Siracusa: 22-23-24 settembre 2000
Milano: 5-6
ottobre 2000
Roma: 30 ottobre
2000
Parere dell'Esperto
Opponibilità
del segreto professionale
di A. Forza.
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Validità
genitoriale in senso psicolo-
gico e giuridico.
di M. Adamo, T. Liverani,
E. Tomeo
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Inauguriamo questa nuova rubrica
riportando, qui di seguito, un parere di grande interesse dell’Avv. Antonio
Forza del Foro di Venezia al Consiglio dell’Ordine Regionale degli Psicologi
del Veneto sulla opponibilità del segreto professionale all’autorità
giudiziaria in relazione a circostanze conosciute dallo psicologo nell’ambito
del proprio esercizio professionale. In particolare, se il professionista
possa esimersi dal rendere testimonianza su fatti emersi nel corso di un
colloquio psicologico, avvenuto durante una consulenza d’ufficio disposta
dal Tribunale per i Minorenni.
Nello specifico, una psicologa è stata invitata,
quale teste, a deporre avanti ad un Ufficiale di Polizia Giudiziaria, operante
su delega di un Pubblico Ministero, nello svolgimento di un’indagine preliminare
che, in qualche modo, avrebbe interessato i soggetti esaminati.
Il quesito è di grande interesse e offre molti
spunti di riflessione, trattandosi di una materia che non trova significativi
precedenti. Le norme di riferimento sono:
- l’art. 200 del Codice di Procedura Penale (Segreto
professionale);
- l’art. 11 del Codice Deontologico degli Psicologi 18.02.1998;
- l’art. 12 del Codice Deontologico;
- l’art. 622 del Codice Penale (Rivelazione di segreto
professionale).
La norma di cui all’art. 200 c.p.p. regola i limiti alla
testimonianza connessi al segreto professionale per determinate professioni,
cui si ritengono sottesi valori costituzionalmente garantiti, tutelando
il segreto. Così facendo, ha stabilito un delicato equilibrio tra
le esigenze di salvaguardia dell’attività professionale e quelle
di accertamento della verità. Nel valutare la ratio della
disposizione, è necessario tenere nettamente distinto l’ambito di
operatività dell’art. 622 c.p., che sanziona penalmente la rivelazione
di un segreto per "chiunque" riceva la notizia "per ragione del proprio
stato od ufficio o della propria professione o arte", da quello di cui
all’art. 200 c.p.p..
Mentre, infatti, il legislatore con tale ultima norma
mostra di ritenere prevalente l’interesse alla conservazione del segreto,
tutelato in sede sostanziale dall’art. 622, rispetto all’obbligo di deporre,
con l’art. 622, consentendo che il segreto professionale venga meno ove
sussista una giusta causa di rivelazione, mostra invece di ritenere l’obbligo
di testimoniare ed il conseguente interesse di giustizia, prevalente rispetto
a quello personale alla inviolabilità del segreto.
Il fondamento della norma processuale consiste nell’esigenza
di tutelare l’esercizio di talune attività professionali il cui
ruolo sociale postula un clima di "ampio affidamento" e di "adeguata riservatezza"
nei confronti della persona assistita.
Si è sostenuto, autorevolmente, che la tutela
prestata in sede processuale al segreto sottende il soddisfacimento di
interessi in ordine ai quali sussiste sempre un diritto costituzionalmente
rilevante, come per l’avvocato il diritto di difesa, per il sacerdote
la libertà di culto, per il medico, analogamente allo psicologo,
il diritto alla salute.
Dunque gli psicologi, che a buon diritto possono essere
annoverati nella categoria degli "esercenti" una professione sanitaria,
debbono essere fatti rientrare tra le categorie tutelate dall’art. 200
lett. c) c.p.p.. L’astensione dalla testimonianza è motivata dal
rapporto tra confidente e depositario. La fiducia del primo è garantita
dall’obbligo di tacere che una norma impone al secondo.
Il Codice Deontologico in questo senso è molto
chiaro laddove stabilisce il dovere per lo psicologo di astenersi dal rendere
testimonianza "su fatti di cui è venuto a conoscenza in ragione
del suo rapporto professionale". (Cfr. art. 12 C.D.)
La norma deontologica suggerisce nel capoverso la facoltà
di deroga "all’obbligo di mantenere il segreto professionale, anche
in caso di testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile
consenso del destinatario della sua prestazione". (Cfr. art. 12 C.D.)
privilegiando, dunque, la necessità "terapeutica" rispetto a quella
giudiziaria.
E’ stata ovviamente prevista una deroga nel caso di "consenso"
informato e valido, nel senso che dovrà essere prestato da persona
in grado di ben valutare e decidere sull’argomento. Il tema è particolarmente
delicato e gravido di problematiche che si dovrebbe, caso per caso, preventivamente
far valutare ai competenti Consigli dell’Ordine.
L’ultima parte della disposizione in parola ribadisce,
comunque, la prevalenza dell’interesse alla tutela psicologica rispetto
all’attività giudiziaria, prevedendo che lo psicologo, anche in
caso di consenso, possa decidere, nell’interesse psicologico del paziente,
di non testimoniare.
Il Giudice, quando ha motivo di dubitare del segreto
professionale allegato dal testimone, provvede agli "accertamenti necessari"
e, nel caso di esito negativo, dispone che lo stesso deponga. La norma
parla di Giudice e non di Pubblico Ministero, il che fa ritenere che il
controllo sull’attendibilità della eccezione di segretezza possa
essere esercitato soltanto da colui che esercita la giurisdizione e, quindi,
o dal Giudice per l’Indagine Preliminare o dal Giudice del dibattimento.
Detto controllo si traduce nel verificare se realmente
sia sussistito il rapporto professionale, che costituisce il presupposto
della facoltà di astenersi dal deporre, e se, anche sussistendo
tale rapporto, l’oggetto della deposizione sia veramente tale da richiamare
la tutela del segreto professionale. Ovviamente, se dovesse risultare infondata
l’opposizione del segreto, egli può ordinare che il testimone deponga.
Questa dunque è la regola di carattere generale.
Nel caso specifico, però, Ella non operava nell’ambito
di un rapporto professionale con pazienti privati, ma, avendo ricevuto
l’incarico come consulente tecnico del Tribunale dei Minori, interveniva
professionalmente come consulente tecnico di un Giudice.
Una situazione di questo genere potrebbe suggerire conclusioni
in parte diverse.
C’è però da tener conto che il consulente
tecnico d’ufficio non può nascondere nulla di quanto è venuto
a conoscenza per le finalità insite nell’incarico giudiziale, dal
che mai potrebbe opporre il segreto all’autorità giudiziaria dalla
quale ha ottenuto incarico.
Nel caso concreto, viceversa, Ella, pur svolgendo un
incarico affidatogli dall’Autorità Giudiziaria, è stata chiamata
a rendere testimonianza da un Pubblico Ministero, procedente ad una indagine
fondata su presupposti diversi.
Ciò mi induce a ritenere che Ella ben possa opporre
il segreto professionale all’autorità inquirente.
Per completezza, infine, ci si potrebbe porre il problema
se possa astenersi dal riferire all’autorità giudiziaria lo psicologo
che, nel corso di un colloquio psicologico, abbia accertato in capo al
paziente una responsabilità per un delitto procedibile d’ufficio.
In altri termini ci si chiede si lo psicologo sia tenuto
all’obbligo di referto sanzionato dall’art. 365 del Codice Penale. Indubbiamente,
trattandosi di professione sanitaria, la lettera della norma indurrebbe
a ritenere anche in capo allo psicologo questo obbligo; però vi
è da aggiungere che il legislatore ha escluso tale obbligo nei casi
in cui il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale.
Ritengo, dunque, che anche nel caso della consulenza
resa per il Tribunale dei Minori, ove la notizia di reato sia funzionale
alla soluzione del problema posto da tale Giudice, questa andrà
sicuramente riferita. Un’ipotesi di abuso sessuale nei confronti del minore
non può essere sottaciuta all’autorità giudiziaria delegante,
comunque la si sia appresa. Viceversa, la conoscenza di un reato, estraneo
per natura all’oggetto dell’approfondimento richiesto dal Giudice minorile,
dovrebbe indurre lo psicologo ad omettere il referto su tale circostanza.
In conclusione, lo psicologo può certamente opporre
il segreto professionale su fatti di cui sia venuto a conoscenza nell’espletamento
della propria attività, anche se questa è stata resa in occasione
di consulenza disposta dall’autorità giudiziaria diversa dal Pubblico
Ministero procedente in un’indagine nella quale i soggetti trattati dallo
psicologo possano essere coinvolti. Comunque, il controllo sull’opponibilità
del segreto, cui si è fatto sopra riferimento, potrebbe essere esercitato
soltanto in una fase successiva, dal Giudice e non dal Pubblico Ministero,
che avesse dubbi sull’attendibilità dell’eccezione e ritenesse la
deposizione necessaria ai fini dell’accertamento della verità". |