PARERE DELL'ESPERTO
 

 Opponibilità del segreto professionale all’autorità
giudiziaria in relazione a circostanze conosciute dallo
psicologo nell’ambito del proprio esercizio professionale

di

Antonio Forza
Avvocato, Foro di Venezia




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Parere dell'Esperto
Opponibilità del segreto professionale
di A. Forza.
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Validità genitoriale in senso psicolo-
gico e giuridico.
di M. Adamo, T. Liverani, 
E. Tomeo
 


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 Inauguriamo questa nuova rubrica riportando, qui di seguito, un parere di grande interesse dell’Avv. Antonio Forza del Foro di Venezia al Consiglio dell’Ordine Regionale degli Psicologi del Veneto sulla opponibilità del segreto professionale all’autorità giudiziaria in relazione a circostanze conosciute dallo psicologo nell’ambito del proprio esercizio professionale. In particolare, se il professionista possa esimersi dal rendere testimonianza su fatti emersi nel corso di un colloquio psicologico, avvenuto durante una consulenza d’ufficio disposta dal Tribunale per i Minorenni. 
Nello specifico, una psicologa è stata invitata, quale teste, a deporre avanti ad un Ufficiale di Polizia Giudiziaria, operante su delega di un Pubblico Ministero, nello svolgimento di un’indagine preliminare che, in qualche modo, avrebbe interessato i soggetti esaminati. 
Il quesito è di grande interesse e offre molti spunti di riflessione, trattandosi di una materia che non trova significativi precedenti. Le norme di riferimento sono: 
- l’art. 200 del Codice di Procedura Penale (Segreto professionale); 
- l’art. 11 del Codice Deontologico degli Psicologi 18.02.1998; 
- l’art. 12 del Codice Deontologico; 
- l’art. 622 del Codice Penale (Rivelazione di segreto professionale). 
La norma di cui all’art. 200 c.p.p. regola i limiti alla testimonianza connessi al segreto professionale per determinate professioni, cui si ritengono sottesi valori costituzionalmente garantiti, tutelando il segreto. Così facendo, ha stabilito un delicato equilibrio tra le esigenze di salvaguardia dell’attività professionale e quelle di accertamento della verità. Nel valutare la ratio della disposizione, è necessario tenere nettamente distinto l’ambito di operatività dell’art. 622 c.p., che sanziona penalmente la rivelazione di un segreto per "chiunque" riceva la notizia "per ragione del proprio stato od ufficio o della propria professione o arte", da quello di cui all’art. 200 c.p.p.. 
Mentre, infatti, il legislatore con tale ultima norma mostra di ritenere prevalente l’interesse alla conservazione del segreto, tutelato in sede sostanziale dall’art. 622, rispetto all’obbligo di deporre, con l’art. 622, consentendo che il segreto professionale venga meno ove sussista una giusta causa di rivelazione, mostra invece di ritenere l’obbligo di testimoniare ed il conseguente interesse di giustizia, prevalente rispetto a quello personale alla inviolabilità del segreto. 
Il fondamento della norma processuale consiste nell’esigenza di tutelare l’esercizio di talune attività professionali il cui ruolo sociale postula un clima di "ampio affidamento" e di "adeguata riservatezza" nei confronti della persona assistita. 
Si è sostenuto, autorevolmente, che la tutela prestata in sede processuale al segreto sottende il soddisfacimento di interessi in ordine ai quali sussiste sempre un diritto costituzionalmente rilevante, come per l’avvocato il diritto di difesa, per il sacerdote la libertà di culto, per il medico, analogamente allo psicologo, il diritto alla salute
Dunque gli psicologi, che a buon diritto possono essere annoverati nella categoria degli "esercenti" una professione sanitaria, debbono essere fatti rientrare tra le categorie tutelate dall’art. 200 lett. c) c.p.p.. L’astensione dalla testimonianza è motivata dal rapporto tra confidente e depositario. La fiducia del primo è garantita dall’obbligo di tacere che una norma impone al secondo. 
Il Codice Deontologico in questo senso è molto chiaro laddove stabilisce il dovere per lo psicologo di astenersi dal rendere testimonianza "su fatti di cui è venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto professionale". (Cfr. art. 12 C.D.) 
La norma deontologica suggerisce nel capoverso la facoltà di deroga "all’obbligo di mantenere il segreto professionale, anche in caso di testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile consenso del destinatario della sua prestazione". (Cfr. art. 12 C.D.) privilegiando, dunque, la necessità "terapeutica" rispetto a quella giudiziaria. 
E’ stata ovviamente prevista una deroga nel caso di "consenso" informato e valido, nel senso che dovrà essere prestato da persona in grado di ben valutare e decidere sull’argomento. Il tema è particolarmente delicato e gravido di problematiche che si dovrebbe, caso per caso, preventivamente far valutare ai competenti Consigli dell’Ordine. 
L’ultima parte della disposizione in parola ribadisce, comunque, la prevalenza dell’interesse alla tutela psicologica rispetto all’attività giudiziaria, prevedendo che lo psicologo, anche in caso di consenso, possa decidere, nell’interesse psicologico del paziente, di non testimoniare. 
Il Giudice, quando ha motivo di dubitare del segreto professionale allegato dal testimone, provvede agli "accertamenti necessari" e, nel caso di esito negativo, dispone che lo stesso deponga. La norma parla di Giudice e non di Pubblico Ministero, il che fa ritenere che il controllo sull’attendibilità della eccezione di segretezza possa essere esercitato soltanto da colui che esercita la giurisdizione e, quindi, o dal Giudice per l’Indagine Preliminare o dal Giudice del dibattimento. 
Detto controllo si traduce nel verificare se realmente sia sussistito il rapporto professionale, che costituisce il presupposto della facoltà di astenersi dal deporre, e se, anche sussistendo tale rapporto, l’oggetto della deposizione sia veramente tale da richiamare la tutela del segreto professionale. Ovviamente, se dovesse risultare infondata l’opposizione del segreto, egli può ordinare che il testimone deponga. 
Questa dunque è la regola di carattere generale. 
Nel caso specifico, però, Ella non operava nell’ambito di un rapporto professionale con pazienti privati, ma, avendo ricevuto l’incarico come consulente tecnico del Tribunale dei Minori, interveniva professionalmente come consulente tecnico di un Giudice. 
Una situazione di questo genere potrebbe suggerire conclusioni in parte diverse. 
C’è però da tener conto che il consulente tecnico d’ufficio non può nascondere nulla di quanto è venuto a conoscenza per le finalità insite nell’incarico giudiziale, dal che mai potrebbe opporre il segreto all’autorità giudiziaria dalla quale ha ottenuto incarico. 
Nel caso concreto, viceversa, Ella, pur svolgendo un incarico affidatogli dall’Autorità Giudiziaria, è stata chiamata a rendere testimonianza da un Pubblico Ministero, procedente ad una indagine fondata su presupposti diversi. 
Ciò mi induce a ritenere che Ella ben possa opporre il segreto professionale all’autorità inquirente. 
Per completezza, infine, ci si potrebbe porre il problema se possa astenersi dal riferire all’autorità giudiziaria lo psicologo che, nel corso di un colloquio psicologico, abbia accertato in capo al paziente una responsabilità per un delitto procedibile d’ufficio. 
In altri termini ci si chiede si lo psicologo sia tenuto all’obbligo di referto sanzionato dall’art. 365 del Codice Penale. Indubbiamente, trattandosi di professione sanitaria, la lettera della norma indurrebbe a ritenere anche in capo allo psicologo questo obbligo; però vi è da aggiungere che il legislatore ha escluso tale obbligo nei casi in cui il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale. 
Ritengo, dunque, che anche nel caso della consulenza resa per il Tribunale dei Minori, ove la notizia di reato sia funzionale alla soluzione del problema posto da tale Giudice, questa andrà sicuramente riferita. Un’ipotesi di abuso sessuale nei confronti del minore non può essere sottaciuta all’autorità giudiziaria delegante, comunque la si sia appresa. Viceversa, la conoscenza di un reato, estraneo per natura all’oggetto dell’approfondimento richiesto dal Giudice minorile, dovrebbe indurre lo psicologo ad omettere il referto su tale circostanza. 
In conclusione, lo psicologo può certamente opporre il segreto professionale su fatti di cui sia venuto a conoscenza nell’espletamento della propria attività, anche se questa è stata resa in occasione di consulenza disposta dall’autorità giudiziaria diversa dal Pubblico Ministero procedente in un’indagine nella quale i soggetti trattati dallo psicologo possano essere coinvolti. Comunque, il controllo sull’opponibilità del segreto, cui si è fatto sopra riferimento, potrebbe essere esercitato soltanto in una fase successiva, dal Giudice e non dal Pubblico Ministero, che avesse dubbi sull’attendibilità dell’eccezione e ritenesse la deposizione necessaria ai fini dell’accertamento della verità".