Corte Suprema di Cassazione

Giurisprudenza Civile e Penale


In tema di

Adozioni..
Affidamento
...
Famiglia-Divorzio
...
Lavoro e previdenza -Mobbing-

(Soltanto di alcune Sentenze è disponibile la versione integrale)


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Adozioni








Sentenza Sezione I Civile n. 1366 dell'8 febbraio 2000: Affidamento preadottivo - Possibilità anche nel caso di differenza di età tra coniugi adottanti e adottando superiore a quaranta anni.

Sentenza Sezione I Civile n. 4173 del 3 luglio 2000: "Anche il padre assente ha un legame con il figlio".
Anche se un padre è spesso assente per motivi di lavoro e lascia il figlio ad una famiglia amica – in quanto non può contare sulla moglie – questo non significa che non vi sia un legame affettivo che lo unisce al bambino, con la conseguenza che quest’ultimo non può essere considerato in stato di abbandono e quindi adottabile. La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha così respinto il ricorso del Procuratore Generale della Corte di Appello di Palermo che contestava la revoca dell’adottabilità di un bambino il cui padre era spesso assente a causa del suo lavoro di camionista che gli imponeva continue trasferte. La Suprema Corte rileva invece che una perizia aveva accertato che tra padre e figlio esisteva comunque un legame affettivo, e pertanto il bambino non doveva essere dato in affidamento ad altri, come correttamente avevano stabilito i giudici di secondo grado, revocando lo stato di adottabilità del minore emesso in primo grado.

Sentenza Sezione Civile n.7139 del 5 agosto 1996: La  dichiarazione di adottabilità del minore, che comporta un sacrificio della  sua primaria esigenza di crescita e sviluppo nella famiglia biologica, è  autorizzata dalla legge non per il mero fatto che ai fini del suo sviluppo  fisico  e  psichico  la vita in istituto o presso terzi possa presentarsi come  intrinsecamente pù' adatta, ma perche' (e solo quando) la vita offerta dai  genitori  sia  talmente inadeguata da far considerare la rescissione del legame  familiare  come il  mezzo  per evitare al minore un pregiudizio più consistente.  Ne  consegue  che  la  dichiarazione  di adottabilità non può discendere  da un mero apprezzamento circa l'inidoneità dei genitori affetti da   rilevanti   disturbi   e   anche  da  vere  e  proprie  patologie  della personalità,  quando  a tale apprezzamento non si accompagni l'ulteriore positivo  accertamento  che tali circostanze abbiano provocato o possano provocare danni gravi e irreversibili alla equilibrata crescita del minore.
Massima a cura del CED
V. anche Cass. NN., 793 del 1988; 13133 del 1991; 5011 del 1995; 5739 del 1995.
 

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Affidamento


Sentenza Sezione I Civile n. 2289 del 13 marzo 2001: "L'obbligo cessa solo con la raggiunta indipendenza economica o in caso di colpa. Al coniuge affidatario assegno anche col figlio maggiorenne".
Il diritto all'aumento dell'assegno di mantenimento permane, anche in caso di figlio maggiorenne, fino a quando il medesimo non abbia raggiunto una propria indipendenza economica o il mancato conseguimento di quest'ultima dipenda da fatto a lui imputabile. Così la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione respingendo il ricorso di un uomo che rifiutava il mantenimento alla moglie affidataria sull'assunto che il figlio avesse raggiunto la maggiore età, ha confermato un recente orientamento della Giurisprudenza di Legittimità. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che i genitori restano obbligati a concorrere tra loro, secondo il principio dettato dall'art. 148 del codice civile, nel mantenimento del figlio divenuto maggiorenne, qualora questi non abbia ancora conseguito, senza sua colpa, un reddito tale da renderlo economicamente autosufficiente e che pertanto detto obbligo non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma persiste finché il genitore o i genitori interessati dimostrino che il figlio ha raggiunto 1'indipendenza economica, ovvero è stato da loro posto nelle concrete condizioni per essere autosufficiente.

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Famiglia - Divorzio


Sentenza Sezione Lavoro n. 457 del 17 gennaio 2000: Morte del coniuge divorziato obbligato alla corresponsione dell'assegno periodico - Diritto del coniuge superstite alla pensione di riversibilità, indipendentemente dal preventivo accertamento giudiziale dell'obbligo di prestazione dell'assegno di divorzio a carico del defunto.

Sentenza Sezione I Civile n. 958 del 28 gennaio 2000: Revisione dell'assegno divorzile - Rilevano i mutamenti della condizione economica del coniuge onerato che risultino prevedibili e ricollegabili ad aspettative già esistenti nel corso del matrimonio.

Sentenza Sezione I Civile n. 1227 del 4 febbraio 2000: Interruzione dello stato di separazione tra i coniugi - Transitorio riavvicinamento, anche con breve ripresa della convivenza - Irrilevanza, in assenza della ricostituzione del nucleo familiare.

Sentenza Sezione I Civile n. 1365 dell'8 febbraio 2000: Divorzio - Diritto del coniuge affidatario al rimborso delle spese sostenute per i periodi di mancate visite del coniuge non affidatario.

Sentenza Sezione VI Penale n. 2925 del  9 marzo 2000: "Il mancato adempimento degli obblighi concernenti l'affidamento di figli minori, configura il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice - Art 388/2° c.p."
Commette reato il genitore affidatario dei figli minori se non li educa e non li sensibilizza ad avere un rapporto con l'altro genitore dal quale vivono separati, in quanto anche tale comportamento "omissivo" può  costituire l' "elusione" dolosa di un provvedimento del giudice. La VI Sezione Penale della Corte di Cassazione fornisce una interpretazione estensiva dell'art. 388 del codice penale &emdash; che disciplina il reato di "mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice" &emdash; ricomprendendovi anche il comportamento del genitore  separato che, non attivandosi per far sì che i figli minori vedano l'altro coniuge secondo quanto stabilito dal giudice, si riflette negativamente sulla psicologia dei minori stessi.
La Cassazione ha confermato la condanna inflitta da un uomo, padre di due bambine con lui conviventi ma diseducate ad un rapporto costante con la madre, nei tempi e nei modi stabiliti dal giudice civile al momento della separazione, al punto che la donna era stata costretta a non avere più contatti con le figliolette. Nonostante la magistratura avesse emesso ben tre ordinanze per assicurarle il diritto di visita, i provvedimenti erano rimasti inattuati a causa dell'inattività del padre che non si era adoperato in tal senso. Proprio la mancata collaborazione del genitore aveva reso  ineseguibili i provvedimenti del giudice civile, e per questo motivo l'uomo era stato condannato. La Suprema Corte ritiene giusta la condanna, in quanto, considerato il "ruolo centrale" che assume il genitore affidatario nel favorire gli incontri dei figli minori con l'ex coniuge, l'atteggiamento omissivo del genitore che non educa e sensibilizza i figli a vedere l'altro genitore finisce con l'eludere il provvedimento con il quale il giudice aveva imposto il diritto di visita; tale comportamento finisce inoltre con il riflettersi negativamente sulla psicologia dei minori, indotti essi stessi a "contrastare gli incontri con il genitore non affidatario", proprio perché  non "sensibilizzati" ed "educati" al rapporto con l'altro genitore.

Sentenza Sezione Prima Civile n. 3323 del 21 marzo 2000: Separazione tra coniugi - Permanenza della coabitazione anche dopo la pronuncia del tribunale per mere ragioni umanitarie ed in assenza di affectio coniugalis - Richiesta di cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Sentenza Sezione VI Penale n. 4928 del 31 maggio 2000: "I litigi non giustificano l’abbandono del tetto coniugale".
I litigi saltuari ed i contrasti occasionali anche accesi tra coniugi, che caratterizzano la gran parte dei rapporti di coppia, non legittimano iniziative unilaterali come l’abbandono del domicilio domestico. Questo il principio stabilito dalla Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso di un marito allontanatosi di casa in quanto, a suo dire, la convivenza con la moglie era divenuta insostenibile. La Suprema Corte richiama il proprio orientamento secondo cui la violazione degli obblighi di assistenza familiare (art.570 c.p.) pur essere integrata anche dal semplice allontanamento arbitrario dalla casa coniugale (sempre che la situazione si protragga per un tempo apprezzabile); afferma perr che il reato h escluso quando i rapporti interpersonali abbiano raggiunto un degrado tale da mettere a rischio l’incolumit` fisica o la salute psichica, rischio che deve essere tanto imminente da sconsigliare la prosecuzione della convivenza anche per il breve tempo occorrente all’avvio del procedimento di separazione (la riforma del diritto di famiglia prevede come giusta causa di allontanamento la semplice presentazione della domanda giudiziale). Per i Supremi Giudici "non possono, in sostanza, legittimare iniziative unilaterali i litigi saltuari, le temporanee cadute di tensione, i contrasti occasionali anche accesi che connotano in definitiva la maggior parte dei rapporti di coppia, e tanto meno questi eventi vanno considerati come segno di crisi irreversibile oggi che si registrano con maggiore evidenza e frequenza (ma in modo meno allarmante) soprattutto in misura del diverso ruolo assunto a ragione dalla donna nella società e nella famiglia".

Sentenza Sezione V Penale n. 7224 del 19 giugno 2000: "Lo jus corrigendi del padre non giustifica le lesioni".
Lo schiaffo dato dal padre al figlio per una marachella, pur ampiamente tollerato e giustificato dalla morale sociale, e sempre da condannare e può avere "rilevanza penale" -in relazione al reato di lesioni personali- anche se, in presenza di un comportamento riprovevole del figlio, non può considerarsi dato "per futili motivi". La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, pur annullando la condanna inflitta ad un padre per lesioni nei confronti del figlio, ha sottolineato come sia sempre sbagliato alzare le mani, in quanto lo "jus corrigendi" attribuito ai genitori non puo mai giustificare "condotte che sovente provocano anche gravi lesioni ai malcapitati ragazzi e che, comunque, non hanno una positiva valenza educativa". In particolare la Suprema Corte non ha ritenuto applicabile in questo caso -il ragazzino aveva trattenuto 3.000 lire di resto del tabaccaio senza dire nulla alla madre- l'aggravante dell'aver agito "per motivi abietti o futili", in quanto lo schiaffo, per quanto biasimevole, non puo essere considerato come dato "per futili motivi" in presenza di una marachella del  figlio: nel caso in cui non siano contemplate aggravanti, il reato di lesioni non e perseguibile d'ufficio ma a querela di parte, per cui, non essendo stata proposta alcuna querela, la Cassazione ha dichiarato la "impromovibilità dell'azione penale".

La Corte Suprema di Cassazione:

                                             Sezione V Penale

                      Composta dagli Ill.mi Sigg.:

                      Dott. Pasquale Lacanna (Presidente)
                      Dott. Carlo Casini
                      Dott. Giuliana Ferrua
                      Dott. Alfonso Amato
                      Dott. Gennaro Marasca (Relatore)

                      Ha pronunciato la seguente

                                              SENTENZA

sul ricorso proposto da P.S. avverso la sentenza emessa il 20 Aprile 1999 dalla Corte di Appello di Reggio Calabria, che aveva confermato la sentenza emessa il 5 maggio 1992 dal  tribunale di Reggio Calabria, con la quale S.P. era stato condannato, per il delitto di cui agli artt. 582,585,576 n.2 e 61 n.1 c.p. in danno del figlio minore M., alla pena di mesi sei di reclusione.

La Corte di Cassazione osserva:

P.S. puniva il figlio minore M. con uno schiaffo per non avere questi restituito alla mamma la somma di #. 3000 ricevuta come resto dal tabaccaio.
Per tale fatto, configurante la violazione degli artt. 582,585,576 n.2 e 61 n.1 c.p. [1], il P. veniva condannato dal Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza del 5 maggio 1992, alla pena di mesi sei di reclusione.

Con sentenza emessa il 20 aprile 1999 la Corte di Appello di Reggio Calabria confermava la decisione di primo grado e condannava il P. al pagamento delle maggiori spese processuali.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione S.P. deducendo i seguenti motivi di impugnazione:

                      1) Erronea applicazione dell'art. 576 n.2 c.p., poiche tale aggravante non puo concorrere con
                      quella di cui all'art. 61 n.1 c.p., in quanto quest'ultima e elemento costitutivo della aggravante
                      prevista dall'art. 576 n.2 c.p. .

                      2) Erronea applicazione dell'art. 61 n.1 c.p. , poiche il motivo non puo essere ritenuto futile,
                      tenuto conto dell'ambiente socio - economico nel quale i fatti si sono svolti e del fatto che il
                      ragazzo si era gia macchiato di furti precedenti. L'assenza di tale aggravante rende il reato di
                      lesioni semplici prescrivibile in cinque anni, trascorsi prima della pronuncia della sentenza di
                      secondo grado.

                      3) Erronea interpretazione dell'art. 582 comma 2 c.p., poiche mancando l'aggravante di cui
                      all'art. 576 n.2 c.p. ed essendo le lesioni guarite entro il ventesimo giorno, il reato era
                      perseguibile a querela di parte, istanza punitiva che non era stata, invece, mai proposta.

                      4) Mancanza e manifesta illogicita della motivazione del provvedimento impugnato sia in
                      ordine alla sussistenza del nesso di causalita sia in ordine alla sussistenza di uno "jus
                      corrigendi".

                      5) Erronea interpretazione degli artt. 163 e 164 c.p. perche i precedenti penali dell'imputato
                      non precludevano la concessione della sospensione condizionale della pena.

Inoltre i giudici di appello non avrebbero rispettato i criteri di cui all'art. 133 c.p. .
Il ricorrente chiedeva l'annullamento, con o senza rinvio, della sentenza impugnata.
I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da S.P. sono fondati.
Non e ravvisabile nel caso di specie il motivo futile di cui all'art. 61 n.1 c.p.- motivo di impugnazione n.2-
Infatti, per costante giurisprudenza, il motivo e ritenuto futile quando lo stimolo all'azione delittuosa sia cosi lieve da presentarsi piu come una scusa che come causa determinante della condotta criminosa.
Insomma, ed in altre parole, per motivo futile deve intendersi quello che ha provocato l'azione delittuosa in maniera del tutto sproporzionata e che viene considerato dalla coscienza collettiva banale ed inconsistente.
Tali requisiti non si rinvengono nella condotta del ricorrente.
Questi aveva "mollato" un ceffone al figlio minore che aveva rubato poche migliaia di lire, ma che gia in precedenza aveva commesso piccoli furti.
Il ragazzo, sorpreso ed interrogato dai genitori, non ammise il fatto e costrinse il padre alla umiliazione di chiedere al tabaccaio se al figlio fosse stato dato del resto. Da tale situazione derivo lo schiaffo, azione certamente da evitare e da condannare, ma ch  non puo considerarsi sproporzionata rispetto al comportamento di sicuro riprorevole del ragazzo.
Condotta, peraltro, che, specialmente nel contesto sociale del ricorrente, non viene giudicata sproporzionata ed inadeguata alla circostanza.
Anzi un senso comune ancora molto diffuso assegna al padre uno "jus corrigendi" in siffatte situazioni, che addirittura porterebbe ad escludere la rilevanza penale del gesto del P.
Senza pervenire a tali conclusioni che sarebbero sbagliate, perche non possono scriminarsi condotte che sovente provocano anche gravi lesioni ai malcapitati ragazzi e che, comunque, non hanno una positiva valenza educativa, come, invece, molti genitori continuano a credere, si puo pero certamente affermare che non e ravvisabile, per le ragioni indicate, la futilita del motivo.
Esclusa l'aggravante di cui all'art.61 c.p. non e piu ravvisabile, nel caso di specie, la contestata aggravante di cui all'art.576 n.2 c.p., che ricorre quando le lesioni vengano cagionate ad un ascendente o a un discendente per motivi futili o abietti - art.61 n.1 c.p. - o adoperando sevizie e crudelta - art.61 n.4 c.p. - , ma quella prevista dall'art.577 n.1 c.p. [2], che ricorre quando la vittima delle lesioni sia un parente in linea retta. Tra le due ipotesi vi e differenza, perche nel primo caso il delitto di lesioni risulta aggravato da due circostanze e l'aumento di pena e da un terzo alla meta, mentre nel secondo caso - delitto monoaggravato - l'aumento di pena e fino ad un terzo - art.585 comma 1 c.p.

                      Da ciò discenderebbe la avvenuta prescrizione del reato, poiché, essendo la pena edittale
                      prevista nel massimo inferiore ad anni cinque, il termine prescrizionale e di sette anni e sei
                      mesi.

                      I fatti si sono verificati nell'ormai lontano 1990.

                      Senonche, ai sensi dell'art. 582 comma 2 c.p., il delitto di lesioni lievi, cioe guarite entro venti
                     giorni, e perseguibile a querela di parte, a meno che non concorra una delle aggravanti previste
                      negli artt. 583 e 585 c.p., nel qual caso il delitto e perseguibile di ufficio.

                      Fa eccezione a tale regola l'aggravante di cui all'art.577 n.1 c.p., ricompresa dall'art.585 c.p.; in
                      tal caso il reato di lesioni lievi, ancorche aggravato, e perseguibile a querela di parte, secondo
                      l'esplicito dettato dell'art.582 comma 2 c.p.

                      Nel caso di specie le lesioni subite dalla parte lesa sono guarite in pochi giorni, e, comunque, in
                      un tempo inferiore ai venti giorni, e l'istanza punitiva non e mai stata presentata.

                      La causa di impromovibilita dell'azione penale ovviamente prevale sulla causa di estinzione del
                      reato per prescrizione e, quindi, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio per
                      improseguibilita della azione penale per difetto di querela.

                      L'accoglimento di questi motivi di impugnazione rende superflua la trattazione degli altri.

                                                                                            P.Q.M.

                      La Corte, esclusa l'aggravante di cui all'art.61 n.1 c.p., annulla senza rinvio la sentenza
                      impugnata per improseguibilita dell'azione penale per difetto di querela in ordine al reato di cui
                      agli artt.582 e 585 in relazione all'art.577 comma 1 n.1 c.p.

                      Cosi deliberato in Camera di Consiglio, in Roma, in data 11 maggio 2000.

                      Depositata in Cancelleria il 19 giugno 2000.


Sentenza Sezione V Penale n. 12655 del 8 maggio 2001: "È illegale installare apparecchi per intercettare le conversazioni. Spiare la moglie è reato".
Il marito geloso che, all'insaputa della moglie, fa installare un apparecchio per registrare le conversazioni telefoniche della consorte nella casa coniugale, commette reato. La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha confermato la condanna emessa dalla Corte di Appello di Bologna ai danni di un signore che aveva fatto installare un radioregistratore per spiare le telefonate della moglie. Invano l'uomo si era difeso sostenendo di avere agito per porre fine ad una serie di telefonate anonime di minaccia. La Suprema Corte ha rilevato che la strumentazione utilizzata non avrebbe mai permesso di risalire all'autore delle presunte minacce in quanto non era in grado di memorizzare il numero di utenza di chi chiamava, e ha ricordato che le intercettazioni abusive sono illegali.

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Lavoro e previdenza

Sezione Sesta Penale Sentenza n.10090 del 12 marzo 2001: "MOBBING" SUL LAVORO, MALTRATTAMENTI E VIOLENZA PRIVATA"  (Presidente L. Sansone - Relatore T. Garribba)

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con sentenza dell'1 febbraio 1999 la Corte d'appello di Milano confermava le condanne alle pene di anni cinque e anni quattro di reclusione rispettivamente inflitte dal pretore a E.O. e C.C., dichiarati colpevoli:
- il primo, dei reati continuati di cui agli artt. 572 e 610 cod. prn., per avere, quale capogruppo responsabile di zona per le vendite porta a porta di prodotti per la casa per conto della ditta gestita da C.C., maltrattato, con atti di vessazione fisica e morale, alcuni giovani sottoposti alla sua autorità nello svolgimento dell'attività lavorativa e, inoltre, per avere, con i medesimi atti di violenza fisica e morale, costretto i predetti giovani a intensificare l'impegno lavorativo oltre ogni limite di accettabilità;
- il secondo, del reato continuato di cui all'art. 610 cod. pen., per avere, quale titolare della ditta predetta, avvalendosi del clima di intimidazione creato dai suoi capigruppo e omettendo di reprimere i loro eccessi, costretto gli anzidetti giovani ad aumentare l'impegno lavorativo oltre il tollerabile.

Avverso tale sentenza entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione.

2. E. denuncia violazione della legge penale e vizio di motivazione:

1. in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di maltrattamenti, deducendo: a) l'insussistenza di un elemento costitutivo del reato, perché il rapporto di lavoro non può essere assimilato al rapporto di convivenza familiare previsto dall'art. 372 cod. pen.; b) che non sarebbe stato provato il dolo, perché gli isolati episodi di violenza sarebbero stati commessi con dolo d'impeto;
2. in ordine al reato di violenza privata, deducendo che non sarebbe stata dimostrata la pretesa coazione, dato che i giovani erano assolutamente liberi di di interrompere il rapporto di lavoro quando l'avessero voluto;
3. in ordine alla pena inflitta, lamentando che essa sarebbe eccessiva non essendosi tenuto conto della condotta positiva susseguente al reato.

2.1. Cominciando dall'esame del primo motivo, si osserva che, anche se l'ipotesi di reato di più frequente verificazione è quella che dà il nome alla rubrica dell'art. 572 cod. pen. ("maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli"), la norma incriminatrice prevede altresì le ipotesi di chi commette maltrattamenti in danno di "persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte". Si tratta di ipotesi di reato, in questi ultimi casi, in cui non è richiesta, a differenza della prima, la coabitazione o convivenza tra il soggetto attivo e quello passivo, ma solo un rapporto continuativo dipendente da cause diverse da quella familiare.
Venendo al caso in esame, non v'è dubbio che il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest'ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata, di "persona sottoposta alla sua autorità", il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente.
Vi è da aggiungere che nel caso di specie il rapporto interpersonale che legava autore del reato e vittime era particolarmente intenso, poiché, a parte il contatto quotidiano dovuto a ragioni di lavoro, nel corso delle lunghe trasferte, viaggiando su un unico pulmino, consumando insieme i pasti e alloggiando nello stesso albergo, si realizzava tra le parti un'assidua comunanza di vita.
Ma l'aspetto saliente della presente vicenda sta nel fatto diffusamente illustrato dai giudici del merito - che l'imputato, con ripetute e sistematiche vessazioni fisiche e morali, consistite in schiaffi, calci, pugni, morsi, insulti, molestie sessuali e, non ultima, la ricorrente minaccia di troncare il rapporto di lavoro senza pagare le retribuzioni pattuite (minaccia assai cogente, dato che il lavoro era svolto in mero e le retribuzioni venivano depositate su libretti di risparmio intestati ai lavoratori, ma tenuti da datore di lavoro), aveva ridotto i suoi dipendenti, tra i quali una minorenne, in uno stato di penosa sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro forsennati, essendo il profitto dell'impresa direttamente proporzionale al volume delle vendite effettuate.
Ne risulta, dunque, una serie di atti volontari, idonei a produrre quello stato di abituale sofferenza fisica e morale, lesivo della dignità della persona, che la legge penale designa col termine di maltrattamenti.
Per quanto attiene poi all'elemento psicologico del reato, la sentenza impugnata ha posto in rilievo non soltanto la sussistenza del dolo, concretatosi nella coscienza e volontà di ledere in modo abituale l'integrità fisica e morale dei soggetti passivi, ma anche il movente - individuato nella ricerca del massimo profitto - che, al di là di ogni dubbio, prova il disegno sottostante ai singoli fatti di violenza e minaccia, che risultano quindi cementati da una volontà unitaria e persistente, che va oltre il singolo episodio.
Il motivo di ricorso è quindi infondato.

2.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato, dato che la sentenza impugnata, proprio per rispondere alla deduzione difensiva già proposta con i motivi d'appello, ha spiegato che l'asserita libertà delle vittime, di licenziarsi in qualsiasi momento l'avessero voluto, era puramente apparente, perché, atteso il meccanismo del pagamento posticipato delle retribuzioni e del deposito delle relative somme, su libretti di risparmio trattenuti dal datore di lavoro, esse temevano che, andandosene, si sarebbe verificato quanto era stato loro minacciato, cioè la perdita delle retribuzioni già maturate.

2.3. E' manifestamente infondato anche il terzo motivo, perché il giudice di merito ha indicato a quali dei parametri elencati dall'art. 133 cod. pen. si è attenuto nell'esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena (la gravità dei fatti, la durata nel tempo della condotta delittuosa, il numero degli episodi e delle vittime), e tale scelta, essendo adeguatamente motivata, non è censurabile in sede di legittimità.

2.4. Con motivo nuovo presentato ai sensi dell'art. 585 comma 4 cod. proc. pen., la difesa del ricorrente E. denuncia altro profilo di violazione della legge penale, sostenendo che i fatti contestati avrebbero dovuto essere qualificati come abuso dei mezzi di correzione e disciplina a mente dell'art. 571 cod. pen., perché le violenze e minacce costituivano manifestazione, seppure abnorme, del potere disciplinare che competeva al ricorrente quale responsabile dell'attività produttiva delle vittime. Anche questo motivo è palesemente infondato.
L'abuso punito dall'art. 571 cod. pen. ha per presupposto logico necessario l'esistenza di un uso lecito dei poteri di correzione e disciplina, e quindi si verifica quando l'uso è effettuato fuori dei casi consentiti o con mezzi e modalità non ammesse all'ordinamento.
Venendo al caso concreto, si rammenta che lo Statuto dei lavoratori ha bandito ogni ricorso alla violenza da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore subordinato, per cui le violenze nella fattispecie commesse non possono rientrare nella previsione dell'art. 571 cit..
Non solo, ma alla sussunzione dei fatti nella fattispecie legale prevista dall'art. 571 osta la finalità perseguita dagli autori del reato nell'esercizio del preteso jus corrigendi. Come hanno rimarcato i giudici del merito, gli imputati perpetrarono sui giovani dipendenti le vessazioni fisiche e morali sopra descritte, non come punizione per l'erronea esecuzione del lavoro o per episodi di indisciplina o per altri fatti inerenti al corretto svolgimento dell'attività lavorativa, ma per costringerli a sopportare ritmi di lavoro altrimenti intollerabili, riducendoli di tal guisa in una condizione di sfruttamento di tipo schiavistico. la condotta afflittiva posta in essere dagli imputati non perseguiva dunque il fine educativo-correttivo che deve contraddistinguere l'uso dei mezzi di correzione, ma mirava soltanto a scopi di lucro personale.
Il ricorso di E. deve dunque essere rigettato.

3. C. denuncia mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta colpevolezza, sostenendo che non sarebbe stata fornita la dimostrazione ch'egli sapesse o incoraggiasse la condotta illecita dei suoi capigruppo, ché, anzi, sarebbe risultato che, ogni qualvolta fu informato dei loro eccessi, egli intervenne per reprimerli. Si duole infine dell'entità della pena irrogata e del diniego delle circostanze attenuanti generiche.

3.1.  Il ricorrente C. è stato ritenuto colpevole del reato di violenza privata continuata in applicazione del principio stabilito dall'art. 40 cod. pen., secondo cui non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. Infatti - argomenta la sentenza impugnata - egli, quale imprenditore, era tenuto in forza del disposto di cui all'art. 2087 cod. civ. "ad adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro", per cui, omettendo di porre fine alle vessazioni attuate dai capigruppo sui lavoratori dipendenti, se ne rese corresponsabile.
Quanto al dolo, la Corte di merito, con motivazione coerente con le risultanze probatorie e logicamente ineccepibile, ha spiegato che il ricorrente era perfettamente consapevole dei metodi vessatori usati dai capigruppo (e anzi li condivideva, essendo personalmente interessato al massimo sfruttamento dei dipendenti, i cui libretti di deposito tratteneva a fini ricattatori), e, sebbene ripetutamente sollecitato dalle povere vittime a intervenire, nulla aveva fatto per reprimere o interrompere la condotta antigiuridica dei capigruppo.
Le censure sollevate dalla difesa su questo punto sono dunque infondate, al pari di quelle concernenti il diniego delle circostanze attenuanti generiche (peraltro concesse dal primo giudice) e la misura della pena inflitta, che il giudice d'appello ha ritenuto di confermare, sottolineando, con valutazione discrezionale insindacabile, la notevole gravità dei fatti.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte di Cassazione rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.



 

Sentenza Sezione Lavoro n. 1307 del 5 febbraio 2000: Lavoro subordinato - Risarcimento del danno alla salute per malattia derivante da sovraccarico di lavoro.

Sentenza Sezione Lavoro n.  616 del 20 gennaio 2000: Azione per conseguire le prestazioni assicurative in caso di infortunio sul lavoro. Nel caso di erronea individuazione da parte dell'Inail della causa dell'infortunio, la prescrizione triennale inizia a decorrere dal momento in cui l'infortunato ha consapevolezza della causa violenta effettiva del sinistro.

Sentenza della Sezione Lavoro n.143 del 8 gennaio 2000: Non è sufficiente una sanzione disciplinare né il trasferimento ad altro reparto: la lavoratrice che ha mosso accuse non provate di molestie sessuali e discriminazioni ad opera del suo capo può essere licenziata poiché questo tipo di diffamazione, se privo di elementi che la supportino, lede gravemente il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e dipendente. E come prova delle persecuzioni subite – se non si indicano gli specifici episodi – non vale esibire certificati medici che attestano una sindrome depressiva da "mobbing".
La Corte  ha respinto il ricorso di una impiegata della "Henkel s.p.a." contro il licenziamento per giusta causa inflittole dalla società che aveva ritenuto non concrete le accuse che la donna aveva rivolto al capo del personale dello stabilimento di Ferentino. Il Pretore in primo grado aveva dato ragione alla donna, reintegrandola per ben due volte nel posto di lavoro; il Tribunale di Frosinone, invece, in qualità di giudice dell’appello, aveva dato ragione alla società datrice di lavoro, sottolineando che le accuse al caporeparto, accusato di avere bloccato la carriera della donna in seguito ai "no" alle sue "richieste extraprofessionali", non essendo risultate veritiere meritavano la perdita del posto di lavoro. La Suprema Corte conferma la sentenza di appello, rilevando come la "sindrome da mobbing" non lede la capacità di intendere e di volere ma altera solo gli stati emotivi; ma il "mobbing" non è sufficiente da solo ad accusare il capo: occorrono prove concrete, fatti luoghi, testimoni che – pur tenendo conto delle inevitabili "sacche di omertà" degli ambienti di lavoro – dimostrino le colpe e supportino le accuse: in mancanza, viene inevitabilmente meno "l’elemento della fiducia".

Sentenza Sezione Lavoro n. 12339 del 5 novembre 1999: RISARCIMENTO DEL DANNO PER INFARTO MIOCARDICO CAUSATO DA DEQUALIFICAZIONE PROFESSIONALE.
     R.A. è stato assunto dalla S.p.A. Ansaldo nel gennaio del 1980 per essere destinato, nella sua qualità di ingegnere, a dirigere un cantiere nello Yemen del Nord, per il periodo di circa tre anni. Dopo due anni è stato richiamato in patria e destinato a mansioni di livello inferiore, restando poi addirittura inutilizzato per lunghi periodi. In seguito a ciò è stato colpito da depressione e da infarto almiocardio.
     Egli si è rivolto al Pretore di Genova chiedendo, tra l’altro, la condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno da
dequalificazione e del danno alla salute.
     Il Pretore ha determinato (con sentenza parziale successivamente confermata dal Tribunale in grado di appello), il risarcimento del danno da dequalificazione in misura di lire 60 milioni, disponendo una consulenza tecnica per l’accertamento del danno alla salute.
     In seguito al deposito della relazione peritale, il Pretore, con altra sentenza, ha dichiarato che la malattia nervosa, da valutarsi nella misura del 15 per cento della totale invalidità, era stata totalmente causata dall’illegittimo comportamento della società Ansaldo e che l’infarto al miocardio (subito il 2 marzo 1987), da valutarsi nella misura del 40 per cento della totale invalidità, era stato parzialmente causato, nella misura del 30 per cento, dal medesimo illegittimo comportamento della società: condannava quindi quest’ultima a risarcire al R. il conseguente danno “biologico” (inteso come “danno alla salute rilevante nell’ambito della sfera lavorativa, economica, sociale, ricreativa e relazionale in cui si esplica l’intera personalità dell’individuo”) mediante pagamento della complessiva somma di lire 135.000.000, equitativamente liquidata.
     In grado di appello il Tribunale di Genova ha determinato il risarcimento del danno in misura di lire 140 milioni, affermando, in base alle conclusioni del consulente tecnico nominato d’ufficio in secondo grado, che il danno alla salute del R. determinato dalle vicende lavorative era quantificabile complessivamente nel 28 per cento di invalidità, di cui il 15 per cento imputabile alla patologia psichica (sindrome ansioso depressiva), collegata interamente da nesso causale ai problemi lavorativi, ed il residuo 13 per cento imputabile alla patologia circolatoria (infarto miocardio). Ha escluso, sempre in adesione al parere del consulente tecnico d’appello, che nel determinismo dell’infarto avessero avuto un ruolo significativo la pregressa abitudine al fumo, la dislipidemia ed un lontano episodio neurologico cerebrale, ed ha invece ritenuto il ruolo concausale di una “arteriosclerosi coronarica” (evidenziata nel 1987) dalle caratteristiche imponenti in quanto determinante stenosi ed occlusioni aortiche, ed avente cause genetiche od organiche, diverse cioè da agenti stressogeni collegati ai problemi lavorativi. Ha quindi attribuito alla aterosclerosi coronarica, quale patologia probabilmente preesistente all’epoca dello stress occupazionale, una incidenza causale nella determinazione dell’infarto nella misura dei due terzi, limitando quindi al un terzo l’incidenza della situazione lavorativa, ed attribuendo pertanto a tale situazione lavorativa il 13 per cento della complessiva invalidità causata dall’infarto, pari al 40 per cento.
     La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 12339 del 5 novembre 1999, Pres. Delli Priscoli, Rel. Mercurio), ha accolto il ricorso del lavoratore, in quanto ha ritenuto che il Tribunale abbia errato nell’escludere che il danno provocato dalla patologia cardiaca fosse imputabile in ragione del 100% al comportamento illegittimo della datrice di lavoro, avendo riconosciuto, quale concausa o antecedente condizionante una “aterosclerosi coronarica” con efficacia causale per due terzi. La Corte ha richiamato in proposito la sua giurisprudenza secondo cui una comparazione del grado di incidenza di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto fra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile; in questo caso essendo pacifico che la concausa dell’infarto era naturale – ha osservato la Corte – il Tribunale avrebbe dovuto porre a carico della datrice di lavoro, per il suo illegittimo comportamento, il risarcimento integrale del danno subito dal lavoratore.

Sentenza Sezione Lavoro n. 500 del 22 luglio 1999:  - RISARCIMENTO DEL DANNO INGIUSTO - Questa sentenza può essere utile nelle cause di mobbing contro le Pubbliche Amministrazioni. Un soggetto può essere risarcito dal danno derivante ove la P.A. per effetto di attività illegittima e colpevole, dovesse ledere "l'interesse del bene vita al quale l'interesse legittimo si correla " e se tale interesse al bene "RISULTI MERITEVOLE DI TUTELA ALLA LUCE DELL'ORDINAMENTO POSITIVO". Pertanto nel caso di mobbing l'interesse legittimo del lavoratore è quello di operare in un clima di lavoro sereno cosa che non si realizza per effetto del mobbing.

Sentenza Sezione Lavoro n. 1198 del 16 febbraio1996:
In  tema di risarcimento del danno alla persona, la riduzione della capacità  lavorativa  generica, quale potenziale
attitudine del soggetto all'attività  lavorativa  indipendentemente dalla produzione di un reddito, è  risarcibile quale
danno biologico.
Massima a cura del CED
V. anche Cass. NN. 3260 e 13013 del 1993.

Sentenza Sezione Lavoro n. 2004  del 12 marzo 1996:  Il lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo ha, rispetto a quello  scandito  da  pause aventi la normale cadenza settimanale, una gravosità maggiore  alla  quale deve corrispondere una maggiore retribuzione (spettante in  misura  proporzionalmente ridotta anche nel caso in cui vi è stata fruizione  del  riposo  compensativo in un giorno successivo al settimo), in base al  principio  di  proporzionalita'  di  cui all'art. 36 Cost., senza che sia richiesta la prova di un danno; e tale carattere retributivo del compenso non viene  meno  (con tutte le relative conseguenze sul piano dell'inapplicabilità dell'art.  1227 cod. civ. e ai fini del regime prescrizionale), ai sensi dell'art.  2126,  secondo comma, cod. civ., anche nell'ipotesi in cui il mancato  rispetto  della  ordinaria  cadenza  del  riposo  settimanale non trovi giustificazione  nelle  previsioni  dell'art.  5  della legge 22 febbraio del 1934  n.  370,  ovvero ecceda i limiti comunque ricavabili dall'art. 36 Cost. Nel  caso,  poi,  in  cui il lavoratore assuma di avere subito, nonostante il compenso,  un  danno  risarcibile - anche se consistente nel cosiddetto danno biologico  -,  è  necessaria la relativa prova. (Nella specie, il giudice di merito  aveva  ritenuto  presunto  il  danno  in un caso di alterazione della normale  cadenza del riposo settimanale, ma lo aveva liquidato, facendo riferimento  ad "istituti  affini", mediante una maggiorazione percentuale della retribuzione  normale. La S.C., rilevato che in realtà il Tribunale aveva di fatto  riconosciuto  un diritto avente contenuto retributivo e che la domanda aveva  lasciato impregiudicata la qualificazione del diritto azionato, ha rigettato lo specifico motivo di ricorso).
Massima a cura del CED
V.  Cass.  NN. 9409 del 1991; 4087 del 1993; 482 del 1994.

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Procedimento Penale

Sentenza Sezione Penale, 29 gennaio 1998 (dep. 27 febbraio 1998): Esecuzione in materia penale - Incidente d’esecuzione - Assunzione di prove - Perizia - Rispetto delle forme ordinarie - Non necessità (C.p.p., art. 666, 5° comma; disp att. c.p.p., artt. 185 e 186).  [Commento del Chiarissimo Prof. Alfredo Gaito]

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Reati contro la persona

Sentenza Sezione III Penale n. 2512 del 29 febbraio 2000: Violenza sessuale di gruppo nei confronti di una donna - Sussistenza del reato di stupro anche in caso di atteggiamento passivo della vittima.

Sentenza Sezione Lavoro n. 143 dell'8 gennaio 2000: Diffusione di accuse diffamatorie,  relative a comportamenti intimidatori e persecutori del capo del personale, non dimostrati dalla lavoratrice - Giusta causa di licenziamento.

Sentenza Sezione III Penale n. 9421/2001: Non è rilevante la personalità primitiva dell'imputato. È la gravità del reato di pedofilia a determinare la pena. La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, confermando la condanna di un uomo che aveva compiuto turpi atti di pedofilia a danno delle sue figlie piccole, ha respinto il ricorso del difensore dell'imputato che chiedeva, in applicazione dell'art.133 del codice penale, la rideterminazione della pena in considerazione del basso livello culturale del colpevole, che aveva dimostrato una personalità "primitiva".
 

Sentenza Sezione III Penale n. 3990 del 1° febbraio 2001: "Violenza sessuale - Nozione di atti sessuali".
(Presidente R. Acquarone - Relatore A. Fiale)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza 29.11.1999 la Corte di Appello di Lecce confermava la sentenza 22.12.1998 del Tribunale di Brindisi che aveva affermato la penale responsabilità di I. G. in ordine al reato di cui:

 - agli artt. 81, 61 n. 9 e 609 bis, comma 3, cod. pen. (per avere, con violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione di coordinatore amministrativo presso (omissis), con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso e con violenza, commesso atti di libidine sulle alunne (omissis) alle quali palpava il seno, e (omissis), alla quale dava anche un bacio sulle labbra in (omissis), fino all'11.5.1994) e, con circostanze attenuanti generiche prevalenti sull'aggravante contestata, essendo stato riconosciuto il "caso di minore gravità" di cui al 3° comma dell'art. 609 bis cod. pen., lo condannava alla pena complessiva - condizionalmente sospesa - di anni uno e mesi sei di reclusione, nonché al risarcimento dei danni nei confronti delle costituite parti civili.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'I., il quale ha eccepito:

a) carenza ed illogicità della motivazione, in punto di affermazione della responsabilità,  poiché la Corte territoriale - con argomentazioni anche superficiali ed inesatte - avrebbe ritenuto attendibili le accuse formulate dalle denunzianti, senza procedere ad una rigorosa valutazione delle stesse;

b) l'insussistenza del reato, in quanto i fatti contestati - mancando assolutamente alcun tipo di violenza, intesa come esplicazione di una energia fisica atta a vincere la resistenza delle ragazze - non sarebbero "idonei a varcare la soglia della rilevanza penale in relazione all'art. 609 bis; cod. pen.".

                        MOTIVI DELLA DECISIONE

                        Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, poiché entrambe le doglianze sono
                        manifestamente infondate.

                        1. Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, in tema di valutazione probatoria,
                        la deposizione della persona offesa dal reato, anche se quest'ultima non è equiparabile al
                        testimone estraneo, può tuttavia essere da sola assunta come fonte di prova, ove venga
                        sottoposta ad un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l'ha resa
                        (Cass. Sez. VI, 4.3.1994, n. 2732 e Sez. I, 18.3.1992, n. 3220).

                        Un'indagine siffatta, nella fattispecie in esame, risulta correttamente effettuata, poiché i
                        giudici di merito hanno sottoposto ad un controllo rigoroso le dichiarazioni accusatorie
                        provenienti dalle giovani parti lese, evidenziandone anzitutto le caratteristiche peculiari di
                        precisione, coerenza, ed uniformità nella loro reiterazione.

                        Hanno tenuto conto, quindi, degli elementi di conferma forniti già dalla reciprocità dei
                        riscontri sia dalle deposizioni delle persone cui le ragazze riferirono nell'immediato circa i
                        toccamenti di cui erano state vittime.

                        Nell'anzidetto contesto probatorio la Corte territoriale non ha mancato inoltre di
                        considerare le obiezioni formulate dalla difesa ed ha razionalmente escluso che tutte le
                        denuncianti abbiano agito per "suggestione reciproca" ovvero orchestrato di comune
                        accordo una calunniosa prospettazione di fatti, al solo fine (ma perché?) di danneggiare
                        l'I.

                        2. In relazione al reato già previsto dall'art. 521 cod. pen. (antecedentemente
                        all'emanazione della legge 15.2.1996, n. 66) veniva considerato atto di libidine "lo sfogo
                        dell'appetito di lussuria diverso dalla congiunzione carnale" (vedi Relaz. min. sul progetto
                        del cod. pen. del 1930, vol. II, pp. 307-308) e venivano ricondotte alla figura criminosa in
                        parola tutte le manifestazioni dell'istinto sessuale, e cioè tutte le forme in cui può
                        estrinsecarsi la libidine (ivi compresi i semplici palpamenti), diverse dal coito, suscettive di
                        dare sfogo alla concupiscenza, anche in modo non completo e di durata brevissima (vedi
                        Cass., Sez. III, 22.5.1986, Trovato).

                        Tali atti venivano distinti in violenti ed abusivi, perché dovevano essere compiuti usando
                        dei mezzi o valendosi delle condizioni già indicate negli artt. 5l9 e 520, e cioè mediante
                        violenza o minaccia oppure con abuso delle condizioni di inferiorità in cui le persone offese
                        si trovavano per il proprio stato fisico o psichico ovvero per il rapporto di soggezione
                        intercedente con l'agente.

                        Dopo l'entrata in vigore della legge n. 66/1996, invece, l'individuazione della condotta
                        tipica del reato di "violenza sessuale" si riconnette alla definizione della nozione, del
                        contenuto e dei limiti della locuzione "atti sessuali", in quanto l'art. 609 bis, cod. pen
                        (introdotto appunto da tale legge) ha concentrato in una fattispecie umanitaria le
                        previgenti ipotesi criminose previste dagli artt. 519 e 521, individuando quale unica
                        condotta composita, idonea a ledere il bene giuridico della libertà sessuale, in luogo della
                        "congiunzione carnale" e degli "atti di libidine violenti", il fatto di chi con violenza o
                        minaccia o mediante abuso di autorità "costringe" taluno a compiete o a subire "atti
                        sessuali".

                        Non avrebbe senso, infatti, stante l'unicità del bene protetto, distinguere tra diverse
                        modalità di aggressione, tutte comunque lesive della dignità e dell'autodeterminazione
                        della persona umana.

                        Le posizioni della dottrina, di fronte al problema dell'individuazione del minimum di
                        condotta penalmente rilevante perché resti integrato il delitto di violenza sessuale,
                        possono ricondursi a tre principali orientamenti:

                        a) la tesi della maggiore ampiezza dell'espressione "atti sessuali" rispetto a quella di "atti
                        di libidine", che ricomprende nella nuova categoria, perlomeno in astratto, qualsiasi atto
                        che sia comunque riconducibile (quanto ai motivi che lo ispirano, alle modalità di
                        realizzazione, alle finalità perseguite) alla sfera della sessualità umana;

                        b) l'opinione che tra gli atti di libidine e gli atti sessuali vi è invece una fondamentale
                        identità concettuale e che la fattispecie dell'art. 609 bis, unificando i precedenti reati di
                        violenza carnale e di atti di libidine nella figura unitaria della violenza sessuale, abbia
                        lasciato sostanzialmente intatto il limite inferiore della tutela della libertà sessuale,
                        costituito appunto dagli atti di libidine;

                        c) l'indirizzo secondo il quale la nozione di "atti sessuali" deve essere intesa in senso
                        restrittivo rispetto a quella comunemente accolta in relazione agli atti di libidine e deve
                        essere condotta in termini necessariamente oggettivi, senza che possano avere rilievo,
                        nell'individuazione della condotta penalmente rilevante, "né l'impulso del soggetto attivo
                        del reato, né la potenziale suscettibilità erotica del soggetto passivo, ma piuttosto
                        l'oggettiva natura sessuale dell'atto in sé considerato", individuata "rifacendosi alle
                        scienze medico psicologiche ed ancor più a quelle antropologico-sociologiche". In tale
                        prospettiva, per potere qualificare un atto come "atto sessuale", si richiede
                        necessariamente "il contatto fisico tra una parte qualsiasi del corpo di una persona con
                        una zona genitale, anale od orale del partner". Restano pertanto fuori dalla nozione mini
                        a di atto sessuale quelle condotte che, per quanto possano costituire espressioni di un
                        impulso concupiscente o possano essere rivolti ad eccitare o a soddisfare la
                        concupiscenza, siano però privi di quella oggettiva componente strettamente fisica (e non
                        moralistica) nel senso dianzi enunciato.

                        Un illustre autore, poi, ha posto in rilievo che "le fattispecie incriminatrici per la loro stessa
                        natura implicano una valutazione umana e sociale, culturalmente condizionata, dei
                        comportamenti presi in considerazione" e che "la determinazione di ciò che è
                        sessualmente rilevante in materia penale non può in realtà prescindere dal riferimento al
                        costume e alle rappresentazioni culturali di una collettività determinata in un determinato
                        momento storico. Da ciò ha dedotto la difficoltà di una collettività determinata in un
                        determinato momento storico". Da ciò ha dedotto la difficoltà di tracciare con sicurezza il
                        discrimine tra sessuale e non sessuale facendo prevalentemente riferimento alle parti
                        anatomiche del corpo e/o all'intensità dei contatti fisici e trascurando invece "la valenza
                        significativa dell'intero contesto in cui il contatto si realizza e, di conseguenza, la
                        complessa dinamica intersoggettiva che si sviluppa in una situazione connotata oltretutto
                        dalla presenza di fattori coartanti".

                        Secondo lo stesso autore, "viste le cose in questa più ampia prospettiva, aperta
                        all'influenza di fattori psicologici e culturali incentrare il momento decisivo della rilevanza
                        penale sulla considerazione meccanica e isolata della specifica parte anatomica aggredita
                        (o lambita) dal soggetto attivo e/o del grado di intensità fisica del contatto instaurato, non
                        può non apparire riduttivo: potrebbe, invece, apparire più aderente alla logica
                        dell'apprezzamento penalistico un approccio interpretativo di tipo sintetico, cioè volto a
                        desumere il significato della violenza sessuale da una complessiva valutazione di tutta la
                        vicenda sottoposta a giudizio".

                        Nella giurisprudenza di questa Corte Suprema è stato affermato che:

                        - va ricondotto alla definizione di atto sessuale "ogni comportamento che, nell'ambito di
                        un rapporto fisico interpersonale, sia manifestazione dell'intento di dare soddisfacimento
                        all'istinto, collegato con i caratteri anatomico-genitali dell'individuo", facendone derivare
                        "che la condotta deve consistere, quanto meno, in toccamenti di quelle parti del corpo
                        altrui suscettibili di essere - nella normalità dei casi - oggetto dei prodromi diretti al
                        conseguimento della piena eccitazione o dell'orgasmo" (Cass., Sez. III, 11.12.1996, n.
                        3800, Rotella);

                        - "la nozione di atti sessuali, a differenza di quella di atti di libidine violenti, è disancorata
                        dall'indagine sul loro impatto nel contesto sociale e culturale in cui avviene, in quanto
                        punto focale è la disponibilità della sfera sessuale da parte della persona che ne è titolare
                        … l'aggettivo sessuale attiene al sesso dal punto di vista anatomico, fisiologico o
                        funzionale, ma non limita la sua valenza ai puri aspetti genitali del rapporto interpersonale
                        sicché deve includersi nella nozione di atti sessuali tutti quelli che siano idonei a
                        compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad
                        entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione (violenza,
                        minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona ovvero abuso di
                        condizioni di inferiorità fisica o psichica, sì da assumere un significato prevalentemente
                        oggettivo e non soggettivo come, invece, avveniva per gli atti di libidine" (Cass., Sez. III,
                        5.6.1998, n. 6551, Di Francia);

                        - l'antigiuridicità della condotta vietata dall'art. 609 bis cod. pen. Resta connotata "da un
                        requisito soggettivo (la finalizzazione all'insorgenza o all'appagamento di uno stato
                        interiore psichico di desiderio sessuale) (che non va confuso con l'elemento soggettivo del
                        rato, individuabile nel dolo generico) innestantesi sul requisito oggettivo della concreta e
                        normale idoneità del comportamento a compromettere la libertà di autodeterminazione
                        del soggetto passivo nella sua sfera sessuale e ad eccitare o a sfogare l'istinto sessuale
                        del soggetto attivo"(Cass., Sez. III, 6.2.1997, n. 1040, Coro);

                        - "il concetto attuale di atti sessuali è semplicemente la somma dei concetti previgenti di
                        congiunzione carnale e atti di libidine, sicché esso non comprende anche quegli atti o
                        comportamenti che, pur essendo espressione di istinto sessuale, non si risolvano in un
                        contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo o comunque non coinvolgano la
                        corporeità sessuale di quest'ultimo … In tutti i casi, quindi, compiere o subire atti sessuali
                        implica un coinvolgimento della corporeità sessuale della persona offesa": (Cass., Sez. III,
                        3.11.1999, Carnevali).

                        Nella fattispecie in esame, alla stregua dell'elaborazione dottrinale dianzi enunciata (sia
                        pure in termini di necessaria approssimazione) e dei principi giurisprudenziali citati -
                        tenuto conto della oggettiva componente strettamente fisica dei comportamenti posti in
                        essere dall'imputato, concretatisi essenzialmente in palpamenti ripetuti del seno delle
                        alunne - deve rilevarsi che gli episodi contestati correttamente sono stati ricondotti alle
                        previsioni sia dell'abrogato art. 521 sia del vigente art. 609 bis cod. pen., allorché si
                        consideri che si verte in ipotesi di reato di pura condotta e che, in tutte le vicende in
                        esame, gli atti - posti in essere con modalità idonee a vincere nel caso concreto la
                        resistenza delle vittime in quanto connotate da repentinità e imprevedibilità - nelle loro
                        concrete estrinsecazioni fattuali;

                        - sono in se stessi riconducibili alla sessualità umana;

                        - hanno fisicamente coinvolto, nella loro connotazione oggettiva, la corporeità sessuale
                        delle persone offese;

                        - hanno compromesso la libertà di autodeterminazione delle giovani parti lese nella loro
                        sfera sessuale.

                        Va ribadito altresì, in proposito, il principio - già affermato dalla giurisprudenza prevalente
                        formatasi in relazione all'art. 521 cod. pen. (seppure criticato da autorevole dottrina) -
                        secondo cui la "violenza" richiesta dalla norma incriminatrice non è soltanto quella che
                        pone il soggetto passivo nell'impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta, tanto da
                        concretarsi in un vero e proprio costringimento fisico, bensì anche quella che può
                        manifestarsi nel compimento insidiosamente rapido dell'azione criminosa, consentendo in
                        tal modo di superare la contraria volontà del soggetto passivo (vedi Cass., Sez. III:
                        15.5.1986, n. 3796, Reina; 9.10.1982, n. 8860, Rabino; 8.4.1980, n. 4678, Giliberti;
                        11.3.1977, n. 3778, Azzani; 26.3.1974, n. 2546, Pirotie; 3.8.1973, n. 1209, Milani;
                        23.3.1972, n. 1833, Broggi; 5.6.1971, n. 572, Borgognini; 14.11.1967, n. 1109, Lanzoni;
                        28.2.1967, n. 1382, Iacovone; nonché Sez. I: 13.5.1976, n. 5873, Bozano).

                        Anche in ipotesi siffatte, invero, vi è "un'esplicazione di energia fisica diretta a superare la
                        contraria volontà del soggetto nei cui confronti viene esercitata"; la repentinità insidiosa,
                        anzi, viene scelta - nella sicura convinzione che il consenso non vi sarebbe e che
                        l'opposizione e la resistenza non mancherebbero se fossero rese possibili - proprio allo
                        scopo di sorprendere la vittima e vanificarne ogni possibilità di reazione, incidendo sul
                        tempo necessario all'impostazione di una qualunque forma di difesa.

                        Appare opportuno, pertanto, riaffermare - ancor più in considerazione della stessa ratio
                        della riforma - che l'inerzia incosciente della persona offesa, quando non è sintomatica di
                        un vero e proprio consenso (cioè quello stato di inattività che dipende non dalla rinunzia
                        ad una resistenza attiva nella consapevolezza della volontà dell'aggressore, ma dalla
                        ignoranza assoluta della intenzione dello stesso), non esclude, in relazione alle
                        circostanze concrete del singolo caso, vere e proprie forme di aggressione alla libertà
                        sessuale compiute con una repentinità di azione, idonea a limitare la libertà di
                        autodeterminazione della vittima ed a rendere inoperante la capacità di resistenza,
                        facendole subire un atto che in altre condizioni non sarebbe stato compiuto.

                        3. Tenuto conto della sentenza 13.6.2000, n. 186 della Corte Costituzionale e rilevato
                        che, nella fattispecie in esame, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia
                        proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
                        inammissibilità", alla declaratoria della inammissibilità medesima consegue, a norma
                        dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una
                        somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata, in ragione dei
                        motivi dedotti, nella misura di lire un milione.

                        PER QUESTI MOTIVI

                        la Corte Suprema di Cassazione,

                        visti gli artt. 607, 615 e 616 c.p.p.,

                        dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
                        processuali nonché al versamento della somma di lire un milione in favore della Cassa
                        delle ammende.

EDITA IN: Ministero di Grazia e Giustizia/Cassazione
 

Sentenza Sezioni Unite 31 maggio 2000:
Presidente, Vessia - Relatore, Onorato -P.M., Galgano (concl. diff.) - Bove (216337-8).

     * Pornografia minorile - Impiego di uno o più minori per produrre spettacoli o materiali pornografici - Concreto pericolo di diffusione del materiale pornografico - Necessità - Ragioni - Accertamento del pericolo - Criteri - Indicazioni -
( C. p. art. 600-ter)
     *Violenza sessuale - Abuso di autorità - Presupposti - Posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico in capo all'agente - Necessità.
( C. p. artt. 609-bis, 609-quater)

     Poiché il delitto di pornografia minorile di cui al comma 1 dell'art. 600-ter c. p. < mediante il quale l'ordinamento appresta una tutela penale anticipata della libertà sessuale del minore, reprimendo quei comportamenti prodromici che, anche se non necessariamente a fine di lucro, ne mettono a repentaglio il libero sviluppo personale con la mercificazione del suo corpo e l'immissione nel circuito perverso della pedofilia > ha natura di reato di pericolo concreto, la condotta di chi impieghi uno o più minori per produrre spettacoli o materiali pornografici è punibile, salvo l'ipotizzabilità di altri reati, quando abbia una consistenza tale da implicare concreto pericolo di diffusione del materiale prodotto.
(Nell'occasione, la Corte ha altresì precisato che è compito del giudice accertare di volta in volta la configurabilità del predetto pericolo, facendo ricorso ad elementi sintomatici della condotta quali l'esistenza di una struttura organizzativa anche rudimentale atta a corrispondere alle esigenze di mercato dei pedofili, il collegamento dell'agente con soggetti pedofili potenziali destinatari del materiale pornografico, la disponibilità materiale di strumenti tecnici di riproduzione e/o trasmissione, anche telematica, idonei a diffondere il materiale pornografico in cerchie più o meno vaste di destinatari, l'utilizzo contemporaneo o differito nel tempo di più minori per la produzione del materiale pornografico < dovendosi considerare la plurarità di minori impiegati non elemento costitutivo del reato ma indice sintomatico della pericolosità concreta della condotta >, i precedenti penali, la condotta antecedente e le qualità soggettive del reo, quando siano connotati dalla diffusione commerciale di pornografia minorile nonché gli altri indizi significativi suggeriti dall'esperienza; ed ha di conseguenza escluso la ricorrenza del concreto pericolo di diffusione del materiale in un'ipotesi in cui l'agente aveva realizzato e detenuto alcune fotografie pornografiche che ritraevano un minorenne, consenziente, per uso puramente "affettivo", anche se perverso).
In tema di violenza sessuale, "l'abuso di autorità", di cui all'art. 609-bis comma 1 c. p., presuppone nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico. (In applicazione di tale principio la Corte ha escluso la configurabilità dell'abuso di autorità in un'ipotesi in cui l'agente aveva compiuto atti sessuali con un minore degli anni sedici che gli era stato affidato, nella sua qualità di insegnante privato, per ragioni di istruzione ed educazione ed ha conseguentemente ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva qualificato il fatto come atti sessuali con minorenne - art. 609-quater c. p. - anziché come violenza sessuale - art. 609-bis c. p. -).

EDITA IN: CASSAZIONE PENALE  2000  -Decisioni delle Sentenze -. N° 1610 pag. 2983.
                    CASSAZIONE PENALE  2001  -Decisioni delle Sentenze -. N° 193 pag. 427.

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Responsabilità civile


Sentenza Sezione Terza Civile n. 4783 del 2 aprile 2001: – GLI EREDI DI UNA PERSONA DECEDUTA POCHE ORE DOPO ESSERE STATA INVESTITA DA UN’AUTO HANNO DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO SUBI'TO DAL LORO CONGIUNTO PER LA SOFFERENZA PSICHICA PATITA IN ATTESA DELLA MORTE –
Anche il danno psichico può essere accertato mediante consulenza tecnica (Cassazione Sezione Terza Civile n. 4783 del 2 aprile 2001, Pres. Favara, Rel. Petti).
Il giovane Roberto C. è stato investito, nel marzo del 1990, da un autoveicolo e, quattro ore dopo l’incidente, è morto. La madre ed i fratelli del defunto, in qualità di eredi, hanno chiesto al Tribunale di Catanzaro la condanna della compagnia presso la quale l’investitore era assicurato, al risarcimento tra l’altro del danno biologico subito dal giovane Roberto nel lasso di tempo intercorso fra l’investimento e la sua morte. Il Tribunale ha accolto questa domanda, liquidando il risarcimento del danno biologico in misura di lire 70.000.000.
Questa decisione è stata riformata dalla Corte di appello di Catanzaro, che ha ritenuto infondata la domanda di risarcimento del danno biologico in considerazione della brevità del lasso di tempo intercorso tra l’investimento e la morte. La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 4783 del 2 aprile 2001, Pres. Favara, Rel. Petti) ha accolto il ricorso degli eredi, in quanto ha ritenuto che la Corte d’Appello non abbia motivato adeguatamente la sua decisione. Le lesioni mortali – ha osservato la Cassazione – producono, secondo l’esperienza medico-legale e psichiatrica, un danno “catastrofico”, per intensità, a carico della psiche del soggetto, che attende lucidamente l’estinzione della propria vita e patisce pertanto una sofferenza esistenziale; mentre il danno fisico può essere escluso nel caso di breve durata della sopravvivenza, il danno psichico può essere subito dalla vittima, per la sua intensità, pur nel breve intervallo delle residue speranze di vita. Nel danno psichico  – ha affermato la Corte –  non è solo la durata a determinare la patologia, ma è la stessa intensità della sofferenza e della disperazione; poiché il danno biologico è la lesione dell’integrità fisica e psichica medicamente accertabili, è alla scienza medica che occorre affidarsi per la determinazione anche del danno psichico (che colpisce la mente umana sia neurologicamente, sia clinicamente, sia nelle sue funzioni esistenziali essenziali).
       Pertanto la Cassazione ha rinviato la causa alla Corte d’Appello di Catanzaro per un nuovo esame, da eseguirsi anche ricorrendo al supporto di un’appropriata consulenza medico legale.
 

Sentenza Sezione Terza Civile n. 1516 del 28 marzo 2001: Nel caso di lesioni colpose riconosciuto il danno riflesso. Risarcibile il danno morale per l'incidente del coniuge.
  In caso di incidente derivante da un fatto illecito colposo, al coniuge della vittima spetta il risarcimento del cosiddetto danno morale. Il principio è stato affermato dalla Terza Sezione civile della Corte di Cassazione, che, annullando con rinvio una sentenza della Corte di Appello di Palermo, ha accolto le richiesta di una coppia di coniugi siciliani: uno dei due era stato investito da una automobile guidata da un giovane carabiniere, e per questo aveva chiamato in causa anche il Ministero della Difesa. Nella motivazione della sentenza, la Suprema Corte sottolinea che il danno subito dalla moglie della vittima di un incidente, che rinunci per solidarietà familiare ad una propria attività lavorativa per dedicarsi al soccorso del marito, è un danno riflesso o di rimbalzo rispetto alla vittima primaria (secondo l'originaria intuizione della giurisprudenza francese), ma è un danno diretto, sia pure di natura consequenziale, per la vittima secondaria, che lo subisce come conseguenza rispetto al medesimo evento, subendo l'ingiusta menomazione della propria sfera "patrimoniale".  [Versione integrale della presente sentenza]

Sentenza Sezione Terza Civile  n. 1108 del 1 febbraio 2000: Responsabilità di sanitari per il decesso di neonato prematuro.

Sentenza Sezione Terza Civile n. 2117 del 14 marzo 1996: In  caso  di morte di un soggetto, cagionata dal fatto illecito altrui, i congiunti  del  defunto  acquistano "iure hereditatis" il diritto al risarcimento  del  danno biologico sofferto dal proprio dante causa limitatamente ai soli  danni  verificatisi  tra il momento dell'illecito e quello del decesso, qualora  i  due  momenti siano separati da un apprezzabile lasso di tempo. In caso  di  morte  immediata, invece, gli eredi non acquistano alcun diritto al risarcimento  del  danno biologico sofferto dal proprio dante causa: sia perche'  la  morte  determina  l'assoluta  incapacità,  da parte del defunto, a disporre  di  ogni diritto; sia perché la liquidazione del danno biologico - essendo  correlata  al  pregiudizio alla salute - ha per presupposto che sussista comunque una salute residua, cioè che il danneggiato permanga in vita.
Massima a cura del CED
V.  Cass.. NN. 271 DEL 1995; e 11169 del 1994.
EDITA IN: RESPONSABILITA CIVILE E PREVIDENZA.   Marzo 1996    PAG. 588
(a cura di) Dott.ssa PELLECCHIA Enza

Sentenza Sezione Terza Civile n.3539 del 15 marzo1996: Nella  determinazione del danno alla persona, il danno biologico e quello patrimoniale  attengono  a  due  distinte sfere di riferimento riguardando il primo  il  diritto  alla salute, il secondo la capacità di produrre reddito, con  la  conseguente necessità di procedere a due distinte liquidazioni, dovendosi  avere  riguardo per il danno patrimoniale alla riduzione della capacità  di  guadagni  e  per  il danno biologico prevalentemente alla gravità  della inabilità.
Massima a cura del CED
V.  anche Cass. NN. 10269  del 1994;  12390 del 1995.

Sentenza Sezione Terza Civile n. 3563 del 16 marzo 1996: Mentre  il danno biologico costituisce un evento immanente, ovvero interno, al  fatto illecito produttivo di una lesione dell'integrità biopsichica del  danneggiato  (danno evento), la lesione della cosiddetta capacità lavorativa  generica  o  specifica  costituisce  un  danno  patrimoniale e quindi trascendente, ovvero  esterno, allo   stesso   fatto   illecito (danno conseguenza).  Ne  consegue che in caso di lesioni personali il primo tipo di
danno è  necessariamente sussistente; il secondo è solo eventualmente sussistente.
Massima a cura del CED
V. anche Cass. N.6074 del 1995

Sentenza Sezione Terza Civile del 28 maggio 1996: Ove l'atto illecito altrui cagioni la morte immediata di un soggetto, gli eredi  del  defunto  non acquistano per successione alcun diritto al risarcimento  del danno biologico subito dal "de cuius", e cio' in quanto:
a) diritto  alla salute e diritto alla vita sono ontologicamente diversi, con la conseguenza  che  la  lesione  del  secondo non genera una lesione del primo;
b) l'acquisto  di  qualsiasi  diritto  al risarcimento presuppone l'esistenza in vita del danneggiato.
Massima a cura del CED
V. anche Cass. N. 10628 del 1995

Sentenza  Sezione Terza Civile n. 8286  del 16 settembre 1996: Nel  caso  di  lesioni  plurime, derivate da un medesimo fatto lesivo, il danno  biologico  è  unitario  per  cui la valutazione medico-legale delle singole  menomazioni,  che determinano un peggioramento globale della salute, deve essere complessiva.
Poichè il  danno  biologico è quello cagionato al diritto inviolabile, primario  ed assoluto alla salute dell'uomo, il cui valore non è perciò determinabile  in base al reddito, il giudice deve procedere ad una valutazione equitativa  logica  e  razionale  ispirandosi - secondo i principi enunciati dalla  Corte Costituzionale nella sentenza 184/86 - ai criteri di uniformità di  valutazione a parità di lesione e di adeguamento all'incidenza della menomazione  sulla  vita specifica del danneggiato, considerato anche nelle sue potenzialità  interrelazionali  (cosiddetto  danno personalizzato). Pertanto, il cosiddetto  calcolo a punto non è censurabile in sede di legittimità se il relativo giudizio è sorretto da congrua motivazione sui predetti criteri.
Massima a cura del CED
V. anche Cass. N. 4255 del 1995

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