PARERE DELL'ESPERTO

Il Mobbing

di
Renato Crivelli e Pietro Russo



Il Punto su ...
"Validation": quanto vale e in cosa consiste
Editoriale
di Luisella de Cataldo

Parere dell'Esperto
Il Mobbing
di Renato Crivelli
    Pietro Russo

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di Simona Iaconella

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    Diego Giordano

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13-14 maggio 2002 

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Sempre più spesso psicologi e avvocati si trovano confrontati con il tema del "Mobbing". Per avere qualche elemento di conoscenza di un fenomeno ancora relativamente nuovo (almeno in Italia) abbiamo chiesto ad uno psicologo e ad un avvocato qualche breve considerazione dai rispettivi punti di vista professionali.
 
 

   Renato Crivelli
Psicologo Forense, Psicoterapeuta

 Ultimamente vengo spesso contattato, nel mio ruolo di psicologo forense, per profili psicodiagnostici di persone con problematiche di conflitti col datore di lavoro definibili "sindromi da mobbing". Il termine ‘mobbing’ (dall'inglese "to mob", aggredire) deriva dall’etologia e precisamente da Konrad Lorenz che lo coniò nel 1971, per indicare l’aggressione di animali di piccola taglia da parte di animali più grandi con l’intento di escluderli dal branco o di ucciderli. Successivamente lo svedese Heinemann traslò questa definizione sulle vessazioni subite da alcuni bambini a scuola, da parte di compagni prepotenti e violenti definiti bulli, da cui più tardi si originò la definizione del fenomento in" bullying" o bullismo. Agli inizi degli anni 80 ilprof. Heinz Leymann di Stoccolma l’ha usato per indicare una particolare forma di violenza psicologica messa in atto sul posto di lavoro nei confronti di una vittima designata.
In questo contesto ha individuato circa 45 azioni mobizzanti (strutturate secondo il questionario L.I.P.T.) del datore di lavoro (trasferimenti, spostamenti continui, provvedimenti disciplinari, disagi psico-fisici, prepensionamenti, esclusione dal mondo del lavoro etc...), che continuamente messi in atto esautorano l’individuo fino a strutturare uno stato di sofferenza psico-fisica rilevante, permanente e con ricadute nell’area cognitiva, affettiva e relazionale-sociale.

Il conflitto degenera in un’aggressione protratta che passa da questioni professionali ed oggettive, al coinvolgimento totale della persona, con attacchi alla leadership, episodi pregiudiziali, isolamento, ferite narcisistiche, minacce.

In Italia il Dott. R.Attanasio, riportando gli studi di Harald Ege nei paesi nordeuropei, sostanzia il fenomeno in un problema di comunicazione, in una routine di conflitto e da precisi criteri riguardanti la durata e la frequenza. La sequela del disagio psico-fisico, implica episodi di ansia ed agitazione nei primi sei mesi, l’evoluzione in un disturbo d’ansia o d’umore con tratti depressivi ed il fallimento nei tentativi di ripristinare l’equilibrio precedente in un periodo variabile da 6 a 24 mesi, la cronicizzazione del quadro clinico anche oltre i 24 mesi con ricoveri frequenti.

Nella mia pratica professionale ho visto una larga maggioranza di uomini a cui veniva riservato questo trattamento per problemi di competizione o di leadership inerente a fatti oggettivi, mentre spesso le donne sono ulteriormente vessate a causa di situazioni di seduzione non corrisposta, da parte del superiore o datore di lavoro. Ricordo un caso concreto in cui un uomo di 41 anni, impiegato con diligenza e profitto presso una casa di spedizioni internazionali, distintosi in passato con riconoscimenti ed incarichi da responsabile, fu posto in una condizione di mobbing da parte del datore di lavoro, per essersi rifiutato di fare gli straordinari a causa della grave malattia che affliggeva la moglie in quel periodo. Al paziente in questione vennero comminate sanzioni e richiami vari, imposti incarichi non all’altezza del ruolo, trasferimenti in altri luoghi di lavoro, accuse per violazioni mai commesse e facilmente confutabili dalle certificazioni prodotte nei tempi e nelle normative vigenti. Il perdurare di questa situazione corrispondeva, secondo lo schema di Ege, alla fase riguardante l’emergere dei primi sintomi come paura, insonnia, panico, la fase relativa al dominio pubblico del "caso", la fase dell’aggravamento psico-fisico con ricadute nell’ambito famigliare, sensi di colpa e perdita dell’autostima, isolamento e demansionamento con fantasie di suicidio. Nello specifico la perizia evidenziò una situazione da Disturbo Post Traumatico da Stress, con tensione motoria, iperattività neurovegetativa, aumentata vigilanza (arousal), costante preoccupazione pessimistica ed anticipazione di eventi futuri, ricordi spiacevoli ed intrusivi della situazione, incapacità a rilassarsi, difficoltà cognitive, grave alterazione del ritmo sonno-veglia con parasonnie e disturbi psicosomatici.

Ritengo indispensabile la partecipazione dello psicologo nell’accertare, in collaborazione con gli specialisti avvocato e medico legale, la veridicità ed il profilo clinico di soggetti afflitti da mobbing, utilizzando gli strumenti propri della professione quali colloqui clinici, scale di valutazione e test attendibili per una maggiore chiarificazione di un fenomeno di confine tra Psicologia del lavoro e delle Organizzazioni, Psicopatologia e Medicina legale. Nel colloquio clinico lo psicologo esamina i parametri cognitivi ed affettivi, ovvero il cosiddetto esame di stato mentale per porre una diagnosi sul soggetto. Dal punto di vista cognitivo sono indicativi l’organizzazione spazio-temporale, la memoria a breve e lungo termine, la memoria operativa, l’attenzione e la concentrazione, il linguaggio verbale e l’espressione. Dal punto di vista affettivo rileva la metacomunicazione non verbale, l’emotività, l’empatia, la capacità di gestione della pulsione erotica ed aggressiva.

L’impressione derivata dai colloqui non può prescindere dalla esperienza clinica del terapeuta psicologo, ma deve essere oggettivata e supportata da strumenti validati come test della personalità , scale di valutazione e questionari mirati (Hama o Stai per l’ansia di tratto e di stato, Beck per la depressione, Zung per l’ansia sociale, Maudsley per il disturbo ossessivo compulsivo etc), inventari della personalità (MMPI-MMPI2), che confermino la prima ipotesi diagnostica.

Al momento attuale non esistono parametri medici o psicologici specifici per accertare il mobbing. Lo psicologo sceglie gli strumenti che meglio conosce e accreditati da una storia clinica ampiamente validata, riferendosi a manuali come il Dsm o l’ICD10 per accertare un Disturbo depressivo, un disturbo d’ansia od un Post Traumatico da stress, molto comuni in queste situazioni.



 
 

Pietro Russo
Avvocato



   Trattando specificatamente il diritto del lavoro e previdenziale, ho avuto modo di confrontarmi, sempre più spesso, con problematiche riguardanti la complessa fattispecie del mobbing. Allo stato, in considerazione della relativa novità della tematica – apparsa sulle riviste e sui quotidiani italiani da poco più di un anno – e della carenza di una legislazione ad hoc, è di intuitiva evidenza la ragione per la quale il mobbing non ha ancora assunto una sua consistenza di tipo giurisprudenziale. Nelle aule dei Tribunali i Giudici stentano a riconoscere il risarcimento dei danni subiti dal lavoratore in conseguenza dei comportamenti vessatori messi in atto dal datore di lavoro, così come un tempo avveniva per il riconoscimento del danno biologico.

Purtuttavia, è necessario tenere vivo il dibattito per cercare di fornire validi contributi al Legislatore affinché possa varare una legge sufficientemente meditata al fine di contemperare gli interessi paralleli sia del lavoratore subordinato che del datore di lavoro. In Parlamento, finora, sono stati presentati diversi disegni, progetti e proposte di legge (progetto di legge Camera 1813, progetto di legge Camera 6410, disegno di legge Senato 4265 e altri ancora) aventi perlopiù finalità preventive, repressive e di informazione. Nel nostro ordinamento, peraltro, sono già rinvenibili validi strumenti di tutela per il lavoratore che devono necessariamente combinarsi e sovrapporsi in relazione alle modalità concrete di attuazione delle condotte vessatorie: l’art. 32 della Costituzione (che sancisce il diritto primario ed assoluto della salute), le norme civilistiche contenute nell’art. 2087 c.c. (che impone al datore di lavoro l’obbligo contrattuale di attuare tutte le misure generiche di prudenza e diligenza necessarie al fine di tutelare l’incolumità e l’integrità psico-fisica del lavoratore), nell’art. 2043 (che delinea invece l’obbligo extra-contrattuale del neminen ledere) e nell’art. 2103 (che vieta le ipotesi di demansionamento e dequalificazione), nonché negli artt. 1175 e 1375 c.c (principi di correttezza e buona fede). Le norme richiamate, comunque, non esauriscono il quadro normativo di riferimento. Tra le norme fondamentali che rivestono rilievo in materia di mobbing, si annoverano altre disposizioni sia costituzionali (art. 2, art. 4 e art. 13), sia penali (art. 582 c.p. e 590 c.p.), sia internazionali (Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, Carta Sociale Europea ed i Patti Onu sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali), sia comunitarie (Carta comunitaria dei diritti fondamentali dell’uomo e la Risoluzione del Parlamento sui diritti dell’uomo nell’Unione Europea del 1997).

L’indagine del legale volta a verificare la reale sussistenza del mobbing, stante la carenza di una normativa specifica, dovrà passare attraverso un’analisi approfondita dell’impianto normativo sopra delineato finalizzata all’accertamento del rapporto di casualità tra la condotta vessatoria e la patologia del lavoratore.