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scultura, problematica sociale

 

 

Qui di seguito si possono leggere alcuni commenti della critica reperiti su internet

 

"Per via di levare". Psicoanalisi e Scultura di Luca Trabucco

Un giardino delle sculture per il Centro Basaglia di Genova: lo spazio reinventato Margherita Levo Rosenberg

Considerazioni sulla Scultura di Alfonso M. Gialdini, Scultore

 

 

 

ARTE E RAPPRESENTAZIONE

"Per via di levare". Psicoanalisi e Scultura

di Luca Trabucco

(dal sito PSYCHOMEDIA )

 

Presentazione dell'opera di Alfonso M. Gialdini

 cannot say at what point tecnique begins or where it ends"
(T.S. Eliot)

Presentare l'opera di uno scultore moderno rappresenta per me un compito che senza la conoscenza dell"opera del Mo. Gialdini non avrei mai affrontato, in quanto troppo spesso mi sono trovato di fronte a realizzazioni brutte e incomprensibili. Brutte e incomprensibili per la mia "estetica" naturalmente, che deve trovare in ciò che guarda qualcosa che emozioni, in cui lo sforzo intellettuale che eventualmente richiede rappresenti, per dirla con Bion, lo sforzo necessario a comprendere l"esperienza emozionale.

Naturalmente l'opera del Mo. Gialdini mi emoziona.

Mi emoziona il materiale che costituisce il substrato del suo stile scultoreo, che non è chiaramente casuale e ininfluente nella realizzazione dell'idea che si materializza, non rappresentando un arricchimento esteriore e/o compensatorio di una insufficienza artistica.
Mi emoziona sopratutto lo stile, sempre riconoscibile pur nella diversità della sua produzione, che a mio avviso indica il "contatto" con una matrice creativa autenticamnete personale e nel contempo comunicativa.
Mi emozionano i contenuti che mi sembrano sempre rimandare a esperienze umane profondamente condivisibili, pur se qui non mi potrò soffermare su di essi, anche perché l'analisi delle singole opere dovrebbe avere dei riferimenti biografici da cui restiamo ovviamente estranei.
Può solo essere rilevante il fatto che l'estro artistico è stato una scoperta ed una conquista di una fase relativamente avanzata della sua vita, una svolta decisiva e chiaramente creativa. Come analista non posso che restare affascinato e incuriosito da questo mutamento, che mi porta a pormi la domanda: "da dove nasce la creatività"?

Cercherò di tracciare un breve percorso attraverso il pensiero psicoanalitico per dare le coordinate della mia personale "estetica".

La primitiva concezione freudiana lega la creatività artistica al concetto di "sublimazione" delle mete pulsionali parziali. In particolare la scultura rappresenterebbe una sublimazione della fase coprofilica dello sviluppo del bambino. Tuttavia la stima in cui Freud tiene l'artista per la capacità di descrivere le leggi e le modalità di funzionamento dell'inconscio, che solo a costo di grandi sforzi egli riuscì ad individuare e formulare, fa pensare ad un'idea di fondo sulla creatività artistica più "creativa" e meno legata alla meccanica pulsionale.

Hanna Segal, nel suo classico "Approccio psicoanalitico all'estetica" (1952), individua nella posizione depressiva descritta dalla Klein il punto originario della creatività artistica: "[Il] desiderio di reintegrare e ri-creare è alla base della successiva sublimazione e creatività". Questo desiderio è volto verso l'oggetto primario, attaccato sadicamente nelle primitive fasi dello sviluppo, e distrutto nella fantasia a causa della necessità di proiettare gli elementi persecutori, fino a che l'integrazione permette di passare alla fase depressiva, con la conseguente preoccupazione per l'oggetto, ora percepito nella sua realtà come buono e cattivo al contempo.
La concezione kleiniana, pur rappresentando un progresso notevole rispetto al concetto freudiano di sublimazione pulsionale, rimane fondamentalmente condizionata dalla concezione unipersonale della mente della Klein, per cui la riparazione, pur coinvolgendo profondamente l'oggetto, è essenzialmente in rapporto al sadismo primario contenuto nella pulsionalità propria al Sé.

Elliot Jaques (1965) ha individuato, tra l'altro, questo momento riparatorio nella "crisi di mezza età", legata alla elaborazione depressiva del lutto per la propria esistenza, e per le proprie fantasie di eternità ... Nel mezzo di cammin di nostra vita ...
La mezza età rappresenta quel momento, secondo Jaques, in cui il rivolgersi al proprio passato ha lo scopo di recuperare e ri-creare gli oggetti e le esperienze perdute -fin troppo facile qui ricordare Proust e la Recherche- intese sia come oggetti della propria vita esteriore, che aspetti del proprio Sé (v. anche Grinberg, 1971, allorché illustra le modalità del lutto per le parti perdute del Sé). Questo rilievo pare particolarmente indicato nei riguardi del nostro.

Sebbene il sadismo primario e gli aspetti persecutori e proiettivi rappresentino sicuramente elementi essenziali nello sviluppo psichico, non può essere considerato che come uno degli elementi in causa, essendo l'altro per l'appunto l'oggetto nella sua realtà materiale.
Sarà allora Winnicott che, sviluppando la teoria della relazione d'oggetto implicita nella concezione kleiniana, ci verrà ulteriormente in aiuto per comprendere più a fondo la matrice della creatività artistica e culturale.
Nella formulazione del concetto di oggetto e fenomeni transizionali, sviluppato successivamente da Ogden (1989) -spazio potenziale- e da Bollas (1987) con l'idea dell'oggetto trasformativo, troviamo la possibilità di muoverci in un'area che tenga conto sia della pulsionalità dell'Io che del contributo dell'oggetto e della cultura. Sarà il punto di incontro di natura e cultura?

E' dal gioco e col gioco che l'uomo impara a creare, dapprima grazie alla capacità della madre di creare un'illusione di onnipotenza attraverso la "presentazione dell'oggetto", ovvero offrendo al bambino l'oggetto desiderato quasi ad anticipare il bisogno, lasciandogli l'illusione di essere stato lui stesso, con l'onnipotenza del suo pensiero, a crearlo; quindi attraverso una graduale disillusione a conquistare l'oggetto, attraverso il suo uso, primo possesso non-me, dove il bambino ritrova sia se stesso che la madre. E' propriamente in questo oggetto intermedio che ritroviamo la forma dell'opera d'arte, espressione al contempo della più profonda soggettività, così come del legame con l'oggetto. E' questo legame, l'ombra dell'oggetto che si protende nell'Io, secondo l'immagine freudiana ripresa ed elaborata da Bollas (1987), che lega l'espressione della creatività individuale alla matrice culturale in cui si sviluppa, ed è da questo legame che l'opera d'arte trae la sua essenza comunicativa.

Tuttavia, a mio avviso, bisogna andare ancora al di là di Winnicott per entrare più a fondo nel mistero della creatività, e in particolare per concepire lo strutturarsi di uno spazio in cui si fondono spontaneità emozionale e pensiero espressivo.
Come è noto nella concezione di Winnicott non viene tenuto in debito conto il ruolo del padre. Secondo Winnicott i fenomeni transizionali hanno a che fare con quel momento del rapporto primario in cui l'oggetto (la madre) è concepita e non ancora percepita (1971, p. 167), per cui rappresentano il simbolo dell'unione, del legame.
Il simbolo non può essere pensato al di fuori di uno spazio di pensiero in cui esista una separazione, essendo il simbolo già il modo per pensare questa separazione. E' la figura del padre come terzo che rappresenta questa funzione separante della mente, che solo separando permette di riunire.

Faccio qui riferimento a un concetto presente nella formulazione di Bion in "Una teoria del pensiero" (1962), dove viene evidenziata la necessità della congiunzione tra preconcezione e frustrazione perché possa formarsi il pensiero, l'area simbolica della mente. Mentre la congiunzione tra preconcezione e soddisfazione genera un concetto: la creatività artistica ha sicuramente a che fare con pensieri e simboli e non con concetti. La frustrazione è introdotta dalla presenza sulla scena del legame primario dalla figura del padre, che interdice la fantasia di possesso illimitato dell'oggetto, sia nel senso del bambino verso la madre, che viceversa. In questa "preconcezione edipica" (Di Chiara e coll., 1985) il terzo è sempre sullo sfondo come elemento capace di creare uno spazio mentale, di dare quella profondità alla relazione per cui gli oggetti, sfuggendo al controllo onnipotente dell'Io, debbono essere introiettati andando a costituire il mondo interno.

Nell'ambito della creatività artistica è in base a questo modello che si può concepire lo "stile". E' attraverso il proprio stile che l'artista manifesta se stesso nella maniera più profonda, ma nel contempo non investe il fruitore della sua opera con un fluire caotico di manifestazioni (quasi) dirette del proprio inconscio -il processo primario allo stato puro non è dato di percepirlo-, come capita quando ci troviamo di fronte a forme di cattiva arte o pseudo arte. Con lo stile, espressione della mediazione tra inconscio e pensiero, egli offre un prodotto che, in quanto permeato di "cultura" -i fenomenologi forse direbbero di intersoggettività- riesce a far vibrare delle "corde" che all'interno di ogni uomo trovano un qualche tipo di risonanza.

In questi casi siamo di fronte ad un artista che riesce ad essere comunicativo, a non rimanere chiuso in un universo individuale dove regna l'onnipotenza e la sterilità. Come osserva Ferrari (1994) lo stile rappresenta la risultante di una "corrispondenza strutturale tra il bisogno di ogni individuo di ordinare e controllare il proprio caos interno e certe norme e principi estetici" (p. 33). Andando al di là del discorso di Ferrari, che basa le sue considerazioni su di un modello freudiano-kleiniano, e quindi la corrispondenza di cui parla fa riferimento al principio di costanza, possiamo pensare a questa corrispondenza in base al principio della ricerca dell'oggetto, e quindi rispondente ad un fondamentale bisogno comunicativo, che ha il suo modello nella identificazione proiettiva e nella rèverie materna di cui parla Bion, teso alla comprensione di Sé attraverso l'altro.

Credo che questa esigenza comprensiva sia alla base dell'opera artistica, in cui l'artista tende a risolvere il problema della pensabilità e della vivibilità della propria condizione umana. Sicuramente ciò è presente nell'opera di Gialdini.
Nello stile di questo artista ritengo di ritrovare un filo conduttore che lega le varie opere fra di loro, e anche i vari momenti della sua produzione. Questo filo mi pare rappresentato dal tentativo di esprimere la tensione verso l'armonia, anche quando i contenuti che vengono espressi fanno riferimento a momenti di grande sofferenza e di grande angoscia. La tensione verso l'armonia è rappresentata in vari modi.

Il primo e più evidente è dato dalla ricerca di forme e linee che costantemente accolgono lo sguardo in una serie di rimandi che definirei "prospettici", catturando l'attenzione in questa tensione verso il centro di un movimento costante verso quella che mi sembra l'essenza della scultura di Gialdini: l'accoglimento di una realtà sfuggente, o, complementarmente, lo sfuggire dell'elemento accogliente rispetto alla realtà che le si propone.
In fondo mi sembra di poter generalizzare senza allontanarmi troppo dalla complessità della sua opera dicendo che al fondo delle sue sculture si può ritrovare la figura femminile-materna nel suo rapporto col bambino.
In questo senso, per me estremamente suggestivo, i rimandi tra queste due "figure" sono sempre estremamente complessi, nella sua scultura, come nella realtà mentale dell'uomo.
Il cercarsi ed il non trovarsi vengono rappresentati plsticamente nella grande dinamicità che le linee della scultura evoca, lasciando sempre aperta la tensione tra un soddisfacimento possibile e realizzato, ed una frustrazione angosciosa e disperata.

In ogni pezzo troviamo questo contraddirsi del sentimento. Sia attraverso il contenuto, quando per esempio compare un elemento "maschile" a rompere l'unione che sembra realizzarsi, sia attraverso il rapporto col materiale, di cui parlerò più avanti. L'elemento maschile, che può apparire esplicitamente o simbolicamente, come figure che traspaiono nella figura femminile, asce o incudini o armi, o nella struttura androide che talvolta in certi particolari contraddistingue l'elemento femminile, rappresenta proprio l'elemento separante nel senso che dicevo più sopra. E' quell'elemento che separando però permette anche di realizzare il rapporto, evitando una fusione conglutinante, che, nella scultura, sarebbe la fine della comprensibilità finendo forse per creare unicamente una massa informe.
E' anche quell'elemento che permette di creare lo spazio ove possa essere accolto il sentimento, l'idea abozzata (la preconcezione), non solo il "ritorno del rimosso", ma l'angoscia nascente e sempre rinnovantesi della disintegrazione, forse alla base del sentimento perturbante di cui ci ha parlato Freud che ci prende di fronte all'opera dell'artista.

Tendere al contenimento del sentimento rappresenta propriamente a mio avviso il nucleo dell'esperienza del "bello", dell'esperienza estetica. Il sentimento contenuto apre alla creazione in quanto non si ha a che fare solo con l'esperienza rimossa, cioè già in qualche modo vissuta, ma con la rivelazione di aree della mente che devono essere ancora simbolizzate (v. anche Magherini, 1992, 1997), che hanno a che fare con esperienze mentali che devono trovare ancora la loro pensabilità (Tagliacozzo, 1982).
Il sentimento estetico nasce quindi dall'incontro tra queste esperienze mentali e un contenitore adeguato (forse qualcosa di simile voleva anche dire Meltzer, 1988) che permette la trasformazione; allorché viceversa questa trasformazione non avviene abbiamo una presentazione di contenuti bruti della non-pensabilità. Sono queste le forme di cattiva o pseudo-arte di cui accennavo all'inizio, illustrazioni magari di "patologia" -nel senso di sofferenza- ma non rappresentazioni artistiche proprio perché non trasformative.

Nelle sculture di Gialdini questa trasformatività viceversa si percepisce costantemente: si percepisce come l'equilibrio delle forme e delle linee, e di queste con la natura del materiale, abbia comportato un lavoro lungo di reciproca interazione trasformativa. E si percepisce come la figura risultante sia stata "estratta" dal materiale di cui è fatta, con ispirazione michelangiolesca, ma rispondendo ad un bisogno di confrontarsi con una realtà che al contempo contiene l'idea e si oppone al realizzarla.
Il materiale usato, legno o pietra "basaltica", nella scultura di Gialdini rappresentano il corpo dell'opera. Quel corpo che è sostanza dell'opera e suo limite, substrato e ostacolo, materia da piegare all'idea, integrazione quasi impossibile di naturalità e cultura.

Nel materiale sembra essere ricercata la sua profonda sostanza emozionale, la fibra del legno, il colore e la trama della roccia, quasi a volerla "tirar fuori" a fronte di una resistenza ineludibile.
In questo senso il materiale diviene elemento essenziale in questa scultura, come il corpo è essenziale di ogni individualità: "Va detto del corpo ciò che S. Agostino diceva del tempo: che esso è perfettamente familiare ad ognuno, ma nessuno di noi può spiegarlo agli altri e ad ognuno di noi esso è, parimenti, perfettamente oscuro. Da questa oscurità irriducibile anche nell'apparato psichico più mentalizzato, da questa latenza, l'esperienza del corpo emerge" (Barale, Ucelli; 1997, p. 61).
Esso ci mette in relazione con le angoscie fondamentali dell'esistenza, con l'alfa e l'omega della nostra vicenda umana, il trauma della nascita (Rank), la paura della morte (Bonasia, 1997), quelle fondamentali situazioni intorno alle quali nasce il bisogno del pensiero, della rappresentazione e della simbolizzazione, di cui la creatività artistica rappresenta l'espressione forse più universale.

Il corpo è elemento costitutivamente ambiguo proprio in ordine alla esigenza di integrazione: esso infatti rappresenta l'elemento intorno al quale si costituisce l'identità del Sé, come nel contempo rappresenta ciò che ne fonda la dissoluzione.
Nell'opera scultorea di Gialdini questa tensione appare anche nel carattere sensuale che traspare quasi ubiquitariamente, ma una sensualità che sembra avere meno a che fare con l'erotismo, che non con un bisogno di integrazione e di contenimento dell'esperienza emozionale: una sensualità che rimanda al mito del Convivio di Platone, di ricostituzione di un'unità originaria, ricongiunzione con un oggetto primario mitico. "L'oggetto originario, l'oggetto perduto, in quanto fondato nell'area delle fantasie [...]prescinde da qualsiasi realtà: l'oggetto madre, pertanto, non riuscirà mai ad essere un oggetto sufficiente" (De Silvestris, 1994). Questa insufficienza, l'intervallo incolmabile tra bisogno e soddisfazione, tra impulso espressivo e rappresentazione realizzata, crea la tensione "perturbante" che è propria della vera arte, e che mi sembra di ritrovare in queste opere. Così come questa tensione nasce tra l'espressività del Sé più personale e il desiderio di condivisione, mettendo drammaticamente in campo lo spazio della solitudine: "Questa è la condizione solipsistica; la profondità della sua solitudine stimola alla comunicazione, la necessità di condividere, la fame di intimità, il dire ciò che può essere detto - e mostrare ciò che non può" (Meltzer, 1988).

Freud riprese la formula leonardesca "Per via di levare", che contraddistingue il modo di procedere della scultura contrapposto a quello della pittura, "Per via di porre", per distinguere il procedere analitico rispetto ai metodi suggestivi. L'analisi, eliminando tutto ciò che cela la verità profonda dell'uomo, tende a raggiungere la sua più intima essenza individuale e nel contempo a rivelarne la sua "umanità" più universale, pur dovendosi prima o poi scontrare con lo "strato roccioso" di ciò che non può essere detto, e che purtuttavia e proprio ciò che stimola più profondamente la nostra curiosità.
Nella scultura di Gialdini il tentativo di giungere a cogliere qualcosa che sta dentro al corpo ancora informe dell'opera sembra voler essere rispettoso di una natura ultima nascosta in fondo alle cose, ovvero della propria natura più profonda, e della natura più profonda dell'uomo. Ciò senza eludere il confronto con la pesantezza della realtà, ma anzi proprio grazie a questa stessa "pesantezza". Credo che di fronte all'opera di questo artista ci si possa confrontare con la bellezza drammatica dell'esistenza.

Riferimenti bibliografici

Barale F.; Ucelli S. (1997) Il corpo e la psichiatria, La via del sale, I,1, pp. 51-65.
Bion W.R. (1962) Una teoria del pensiero, in: Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma 1970.
Bion W.R. (1966) Il cambiamento catastrofico, Loescher, Torino 1981.
Bollas C. (1987) L'ombra dell'oggetto, Borla, Roma 1989.
Bonasia E. (1997) Il sillogismo malato: la paura di morire e il sacrificio della verità, letto all' International Centennial Conference on W.R. Bion, Torino 16-19 luglio 1997.
De Silvestris P. (1994) Transfert come vita e destino, in: Algini M.L.; De Silvestris P.; Farina C.; Lugones S., Il transfert nella psicoanalisi dei bambini, Borla, Roma.
Di Chiara G. e coll. (1985) Preconcezione edipica e funzione psicoanalitica della mente, in: Riv. Psicoan., XXXI, 3.
Ferrari S. (1994) Scrittura come riparazione, Laterza, Bari.
Freud S. (1907) Il poeta e la fantasia, OSF, vol. 5.
Freud S. (1919) Il perturbante, OSF, vol. 9.
Grinberg L. (1971) Colpa e depressione, Il Formichiere, Milano 1978.
Jaques E. (1965) Morte e crisi di mezza età, in: Lavoro, creatività e giustizia sociale, Boringhieri, Torino 1978.
Magherini G. (1992) La sindrome di Stendhal, Feltrinelli, Milano.
Magherini G. (1997) Viaggio e dimensione estetica della conoscenza, letto all'International Centennial Conference on W.R. Bion, Torino 16-19 luglio 1997.
Meltzer D. (1988) Amore e timore della bellezza, Borla, Roma 1989.
Segal H. (1951) Un approccio psicoanalitico all'estetica, in: Scritti psicoanalitici, Astrolabio, Roma 1984.
Tagliacozzo R. (1982) La pensabilità: una meta della psicoanalisi, in: Itinerari della psicoanalisi (a cura di G. Di Chiara), Loescher, Torino.
Winnicott D.W. (1971) Gioco e realtà, Armando, Roma 1974.

 

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TERAPIA NEL SETTING ISTITUZIONALE

Un giardino delle sculture per il Centro Basaglia di Genova: lo spazio reinventato

Margherita Levo Rosenberg

(dal sito PSYCHOMEDIA )


Lo spazio, il luogo in cui viviamo o fantastichiamo di vivere, le strade, gli alberi, i giardini coi quali conserviamo una relazione, assumono nei nostri pensieri una tonalità affettiva, legata alle esperienze ed ai ricordi che in qualche modo vi sono legati.

Così come altri luoghi, anche i giardini dell'ex ospedale psichiatrico di Quarto, legati com'erano, nell'immaginario collettivo, alla realtà storica di emarginazione, circondati da un alone di mistificazione rispetto alla realtà del disagio psichico, vissuti come topoi della follia e del degrado, abitati da gatti e scarafaggi, contaminati di malattia e di malati, non hanno goduto di buona reputazione fino a qualche mese fa.

Ora, da qualche giorno, il "manicomio" è chiuso. Chiuso per sempre con le sue torri che sembravano inespugnabili, chiuse anche le ultime roccaforti della resistenza strenua di chi ha creduto, fino alla fine, nella cura della malattia come nella custodia di un segreto.

La psicosi porta certamente con sé i suoi segreti, segreti da cui tutti siamo esclusi, ma le persone, tutte le persone conservano uno spazio da condividere che non può e non deve, per nessuna ragione, essere precluso. E' questo uno spazio che straripa dagli argini e che nessuna barriera, fortunatamente è riuscita a celare per sempre, grazie anche all'impegno di enti ed associazioni tra cui l'Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli.

Basta percorrere i corridoi del Centro Basaglia, nato in luogo di una divisione manicomiale, e sbirciare alle pareti le opere pittoriche dei tanti frequentatori degli ateliers di arte-terapia, italiani ed esteri, e dei tanti artisti che hanno accettato di "esporsi" a fianco dei malati, per rendersi conto di come il "segreto" della psicosi abbia voluto depositarsi in colori e forme che respirano e respireranno ancora, oltre le inferriate ed oltre ogni barriera possibile.

L'Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli, nato nel 1988 come organizzazione di volontariato in convenzione con la U.S.L., ha lavorato, in tutti questi anni per far emergere e conservare, non tanto la voce della "follia", bensì la voce delle "persone", di tutte quelle persone che ancora non avevano spazio sufficiente per essere ascoltate; con la sezione Museattivo Claudio Costa - dal nome di uno dei suoi fondatori, artista precocemente scomparso nel 1995 - viene conservata una cospicua raccolta di lavori frutto dell'espressività di artisti e non artisti, che a vario titolo hanno collaborato alla demolizione delle barriere culturali che si frapponevano, nel passato più che nel presente, tra normalità e follia, tra salute e malattia, tra identità e anonimato.

Tra le conquiste sociali maggiormente apprezzabili degli ultimi anni vi è senza dubbio l'impegno ad abbattere le barriere architettoniche che, fino a pochi anni or sono, hanno impedito ai disabili pari opportunità di fruizione di spazi pubblici e privati; vi sono però altre barriere, architetture virtuali dello spazio mentale, che potrebbero rivelarsi tristemente resistenti, muri di gomma del desiderio di relazione, barricate trasparenti tra due mondi, quello dei "più" fortunati e quello dei "meno", cui la vita ha negato la serenità dell'essere "normali".

Il "manicomio", ora, è chiuso ma abbassare la guardia, ritenere di aver demolito per sempre le barriere, potrebbe rivelarsi un'illusione; il Museattivo C. Costa, attivo per definizione, vuole continuare nel suo impegno di rendere visibile coloro che possono sembrare invisibili, nella convinzione che il disagio abbia bisogno di supporto costante, di solidarietà e coinvolgimento sociale; l'arte può diventare un veicolo importante per realizzare questi obiettivi.

In occasione delle celebrazioni per la festa della Liberazione, il 25 aprile, quest'anno l'Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli, in collaborazione con la A.S.L. 3 Genovese, attraverso la sezione Museattivo C. Costa, ha arredato il giardino antistante il Centro di Riabilitazione Psichiatrica F. Basaglia con alcune sculture già nella collezione del Museo dal 1992 ed altre di più recente acquisizione.

Grazie alla volontà e all'impegno dello scultore Alfonso Gialdini, che si è prodigato in prima persona per allestire il giardino delle sculture, inaugurato il 23 aprile 1999, hanno trovato collocazione le prime sei opere degli artisti A. Barone, E. Boero, S. Lunini, A. Perniciaro e A. Gialdini stesso che, con il suo "busto" liberato dalle "valve" simbolicamente interpreta il concetto di "liberazione".

Di prossima collocazione opere di E. Alfieri, C. Bednarski, G. Moser Wagner, A. Bove, D.M. Raggio, F. Repetto, E. Bixio, P. Gaietto, G. Sessa, S. Parodi e G. Asfodele accanto alle quali saranno collocati anche alcuni lavori realizzati nel 1996 presso il Centro F. Basaglia, da un gruppo di ospiti dell'ex Ospedale psichiatrico, opportunamente indirizzati dal maestro Gialdini, che ha lavorato al fianco degli operatori del Centro di Riabilitazione psichiatrica nell'ambito di un progetto sperimentale di terapia dell'aggressività attraverso il mezzo scultoreo.

 

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ARTE E RAPPRESENTAZIONE

Arti Visive

Considerazioni sulla Scultura

di Alfonso M. Gialdini, Scultore

(dal sito PSYCHOMEDIA )

 

 

In occasione della lavorazione di una scultura in materiale particolarmente duro, la fatica, anche fisica, che ho sopportato mi ha permesso di puntualizzare il mio modo di vedere (anche se in parte in quanto scultore) per ciò che riguarda le arti figurative e la scultura in particolare.
Il fatto che a certe considerazioni sia arrivato proprio per le difficoltà e la "sfida" offertami dal materiale non è casuale. Pur essendo convinto che comunque la forma debba dominare sulla materia, (ovvero se il pezzo ha contenuto artistico, in linea di massima il materiale può essere qualunque), mi accorgo che il materiale è più importante dal punto di vista emotivo per l'artista che per l'osservatore. La cosa purtroppo spesso viene rovesciata: l'osservatore dà più importanza al materiale che al contenuto, in un rovesciamento di termini dovuto spesso a motivi strettamente inerenti al mercato.
Quelle che dico non sono novità, ne ha già parlato Moore e ne ha specificato precedentemente il significato Bourdelle, allievo di Rodin. Quest'ultimo, altro non ha fatto che riuscire a dire un sentimento che è parte integrante del vero scultore. Il problema si svolge attorno al concetto di "cristallizzazione" del tempo, o senso del magico o del dio come, a mio parere, sostiene Bourdelle.
Per spiegare questo concetto faccio un confronto rapido fra pittura e scultura. In generale in un quadro si può rappresentare un qualcosa di sfumato nella realtà (paesaggio, natura morta, ecc.) mentre nella stragrande maggioranza delle opere scultoree c'è uno stacco netto fra l'opera e lo spazio circostante o reale, a parte qualche eccezione (vedi interni di Martini). Non è casuale che quasi sempre il soggetto scultoreo sia un corpo o corpi umani (Moore specifica che la sua "guida" è il corpo di donna, cosa che sento e condivido anch'io).
L'effetto "magico" si ottiene "staccando" senza sfumare l'opera nella realtà circostante, cosa che succede quasi inevitabilmente con la scultura: tale effetto porta a "cristallizzare" il tempo: da ciò il dio. Io ritengo la scultura arte più primordiale della pittura: non ha bisogno della mediazione raziocinante per esprimere il concetto evoluto e complicato. Un paesaggio ha bisogno della prospettiva che a sua volta ha bisogno di studio e quindi di una più forte mediazione fra il sentimento e la sua espressione. Lo stesso gesto dello scolpire, ovvero piegare un materiale ribelle al proprio sentire, è quello che permette l'unica mediazione dello scultore, quella fra gli istinti, i sentimenti, la fantasia e la loro realizzazione nel reale e quindi la creatività. Proprio per questo lo scultore talvolta apprezza ed ama il materiale duro e ribelle perché in certi casi vuole esprimere i suoi sentimenti fortemente contrastanti (il titolo spesso non coincide con quello che ha sentito intimamente l'artista, è un'altra mediazione che fa per pudore o per comunicare un modo di vedere più "adulto" all'osservatore), per cui il materiale stesso è in qualche modo simile ai suoi sentimenti; la durevolezza nel tempo del materiale usato vuole affermare il dominio dell'artista su se stesso e dimostrarlo alla persona (o persone) che gli è più cara, ottenendo allo stesso tempo, ma in seconda istanza, l'effetto di "cristallizzazione" del tempo per l'osservatore.

 


Una nota.

Alfonso Gialdini si occupa di utilizzare la propria capacità artistica presso l'IMFI, Istituto per le materie e le Forme Inconsapevoli, presso l'ex OP di Genova Quarto. Nel lavoro di riabilitazione e cura dei pazienti cronici si è impegnato da tempo con entusiasmo e competenza. Le considerazioni che ci invia sono un sostrato importante per l'applicazione con questi pazienti. (Luca Trabucco).

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