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Percorso generale
Il tempo nella fisica
Il tempo nelle descrizioni esistenziali
Il tempo nella storia
Sommario

 

Il tempo nella teoria della relatività

L'etere

Come spesso accade nella storia della scienza, proprio il secolo che segnò il trionfo del meccanicismo, l’Ottocento, recò con sé anche scoperte e ipotesi scientifiche che ne determinarono una profonda revisione.
Fra queste, la prima ipotesi di grande importanza è quella dell’esistenza del campo elettromagnetico, formulata da Maxwell intorno al 1870. Questa teoria era infatti in grado di unificare i fenomeni elettrici, magnetici e ottici per mezzo di quattro equazioni fondamentali. Tuttavia essa creava diversi problemi teorici quando si cercava di inglobarla nel precedente quadro meccanicistico. In particolare risultava problematico escogitare un modello basato sulle proprietà meccanicistiche delle particelle in grado di spiegare la propagazione delle onde elettromagnetiche e, quindi, anche della luce.
Nessuno metteva in dubbio che come le altre onde meccaniche, anche la luce avrebbe avuto bisogno di un mezzo materiale per propagarsi.
Per definire questo strumento vennero recuperate ipotesi vecchie risalenti al Seicento, in base alle quali lo spazio doveva essere considerato come completamente riempito di un fluido invisibile, denominato in modo alquanto generico "etere".
Le proprietà di questo mezzo apparivano piuttosto strane, in quanto per permettere il moto ai corpi celesti avrebbe dovuto avere densità estremamente bassa, ma per permettere la propagazione delle onde avrebbe dovuto essere estremamente rigido. Anche se la contraddittorietà di queste affermazioni era evidente, l’esistenza di questo mezzo non veniva messa in dubbio perché consentiva di salvare la struttura meccanicistica della fisica, e si inseriva nell’idea di uno spazio assoluto, immaginato da Newton e considerato come a priori da Kant. L’ipotesi dell’etere comportava però una contraddizione fra i risultati sperimentali relativi alla determinazione della velocità della luce nello spazio etereo e i principi galileiano di velocità.

 

L'esperimento di Michleson - Morley

 

Negli anni Ottanta del secolo scorso, il fisico A. Michelson tentò con un esperimento di determinare il moto della terra nell’etere mediante l’osservazione di fenomeni ottici. L’esperimento consisteva nel mandare un fascio di raggi che andasse ad incidere su una lamina semitrasparente, riflettente al 50%. I due raggi, percorreranno percorsi di lunghezza uguale, fino a formare una figura di interferenza, rilevabile al microscopio. Michelson e Morley si aspettavano perciò che la luce percorresse in un tempo più lungo il percorso nel tragitto parallelo alla direzione del moto rispetto che a quello perpendicolare. Ci si aspettava perciò una figura di interferenza diversa da quella ipotizzata se la terra fosse stata ferma, in quiete.

L'APPARECCHIATURA DI MICHELSON-MORLEY

 

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Nel suo primo tentativo, Michelson non rilevò alcun spostamento di frange, ma dato che il valore previsto era molto basso, pensò si fosse trattato di un errore sperimentale. Non molti anni dopo, con la collaborazione di Morley, ripeté l’esperimento, utilizzando un’apparecchiatura in cui il percorso dei raggi di luce fosse equivalente a 11m. In tali condizioni lo spostamento delle frange non avrebbe potuto confondersi con l’errore sperimentale. Ma neppure questa volta si notò nulla e alla medesima conclusione giunsero coloro che ripeterono l’esperimento.

L'ESPERIMENTO DI MICHELSON-MORLEY
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Contro tutte le previsioni di uno sfasamento associato alla rotazione dell’apparato interferometrico, l’evidenza sperimentale indicava l’indipendenza della velocità della luce sia dal movimento del suo osservatore, sia dal movimento della sorgente che le emette.

Si imponeva perciò la necessità di un’aggiunta di nuove ipotesi che, integrando quelle esistenti, le rendesse compatibili con i dati sperimentali.
Da ciò nacquero le nuove formule di Lorentz e Fitzgerald, che però erano ipotesi ad hoc, pertanto non giustificate da principi fisici generali.

I postulati della teoria della relatività ristretta

Questa situazione era commentata da Einstein così:

"Si creò così una delle più drammatiche situazioni che la storia della scienza ricordi: Tutte le supposizioni concernenti l'etere non conducevano a nulla.[…] Tutti i tentativi di fare dell’etere una realtà sono falliti. Esso non ha rivelato né la propria struttura meccanica né il moto assoluto. Nulla è rimasto di tutte le proprietà dell’etere, eccetto quella per la quale esso venne inventato, ovvero la facoltà di trasmettere le onde elettromagnetiche. E poiché i nostri tentativi di scoprirne le proprietà non hanno fatto altro che creare difficoltà e contraddizioni, sembra giunto il momento di dimenticare l’etere, di non pronunciarne più il nome. Diremo dunque che il nostro spazio possiede la facoltà fisica di trasmettere talune onde, e cesseremo di usare una parola ormai inutile".

Tolto di mezzo l’etere, Einstein si trovò di fronte ad un altro problema da risolvere. Come mai la velocità della luce nello spazio vuoto appare sempre identica a qualsiasi osservatore?
La relatività galileiana insegna che due osservatori che si muovono l’uno rispetto all’altro secondo un moto rettilineo e uniforme non sono in grado di evidenziare la reale natura del loro moto, ovvero di stabilire se e quale dei due è effettivamente in quiete o effettivamente in moto. L’impossibilità di rilevare il moto dell’osservatore rispetto allo spazio vuoto mediante l’analisi del comportamento di raggi luminosi sembra indicare la possibilità di estendere il principio di relatività galileiano anche ai fenomeni ottici.
Questa estensione dei principi di relatività galileiana risulta però in contrasto con una sua conseguenza naturale: la legge della composizione della velocità:

Se un oggetto si muove rispetto rispetto a un osservatore O’ con velocità uo’ e il sistema di riferimento solidale con O’ si muove con velocità V rispetto ad un secondo osservatore O, l’oggetto si muove con la velocità:

uo = uo’ + v

Si noti che tale legge di composizione della velocità è, a sua volta, conseguenza diretta:

del modo con il quale si passa dalle coordinate spaziali dell’oggetto, misurate nel sistema di O’, alle coordinate spaziali dell’oggetto misurate nel sistema di O, modo espresso dall’espressione:

x = x’ + vt

del modo con il quale si passa dalle coordinate temporali del sistema di O’ alle coordinate temporali del sistema di O, espresso dall’equazione:

t = t’

L’estensione del principio di relatività ai fenomeni elettromagnetici sembra dunque in contraddizione con i cardini di tutta la fisica sviluppata da Galileo a Einstein: la legge di trasformazione delle misure di spazio e di tempo in due sistemi di coordinate in moto rettilineo uniforme fra loro.

Einstein era stato descritto come un pensatore deduttivo. Ciò significa che egli partiva da alcuni fondamentali principi di carattere generale che riteneva veri nel mondo reale, e poi tentava di proiettarli nel mondo dell'osservazione e dell'esperimento per dedurne le conseguenze. Nel 1905 Einstein era convinto che il principio di relatività dovesse essere sostenuto a tutti i costi. In questo era stato fortemente influenzato dal lavoro di Ernst Mach. Mach apparteneva alla scuola filosofica positivista, la quale quale riteneva che la realtà dovesse essere attribuita solo a quelle cose che potevano in qualche modo essere concretamente osservate o rilevate. Secondo Mach qualunque moto è relativo. L'idea che un corpo come la terra potesse realmente muoversi attraverso lo spazio invisibile veniva respinta come priva di significato. Lo stesso Mach afferma che "diciamo che un corpo di muove confrontando la sua posizione con altri corpi, non immaginando che scivoli attraverso il nulla".
D'altra parte Einstein non voleva rinunciare all'eccellente ed efficace teoria dell'elettrodinamica, e con essa che la velocità della luce avesse un valore costante. Egli allora compì un passo ardito, mantenendo, come principi fondamentali di una teoria della relatività totalmente nuova, sia la relatività del moto uniforme, sia la costanza della velocità della luce. Questi due postulati sembrano in stridente contraddizione tra loro. Se il moto è relativo, un impulso luminoso dovrebbe avere velocità variabile a seconda del moto dell'osservatore, ma allora non avrebbe velocità costante. L'unico modo per superare questa contraddizione era quello di rinunciare a qualcosa che era stato dato per scontato fin dall'inizio della scienza: l'universalità dello spazio  e del tempo.

Ecco dunque le nuove ipotesi della relatività di Einstein:

  1. Per due sistemi di riferimento che si muovono in moto rettilineo uniforme l’uno relativamente all’altro, tutte le leggi naturali sono assolutamente identiche e non è possibile distinguere con qualsivoglia esperimento un eventuale moto assoluto.
  2. La velocità della luce nello spazio vuoto è sempre la stessa, indipendentemente dal moto della sorgente che la genera e dell’osservatore che la riceve

Da questi postulati si ricavano le trasformazioni che sono chiamate di Eintein – Lorentz, che legano le coordinate x’, y’, z’, t’ relative ad un cero evento, rilevate da un osservatore O’ in moto rettilineo uniforme con velocità v rispetto a un osservatore O alle coordinate x, y, z, t, rilevate per quello stesso evento dall’osservatore O.

La presenza della radice quadrata rende necessario porre 1 – v²/ c²³ 0
Come noto infatti la radice quadrata di un numero negativo perde di significato nel campo dei numeri reali, imponendo dunque che v £ c. Visto che la radice quadrata di 1 – v²/ c² sta al denominatore, si rende necessario imporre che
v < c.
Quello della velocità della luce costituisce dunque un valore limite della velocità che un corpo può assumere.
Le trasformazioni di Einstein nascono da una intuizione di portata molto generale (l’estensione del principio di relatività al campo dei fenomeni elettromagnetici) ma la loro applicazione conduce poi a conclusioni riguardanti ogni campo della fisica, in particolare conducono a ritrovare quelle che per Lorentz erano state ipotesi ad hoc e a spiegare il fallimento di ogni tentativo di trovare una qualche variazione della velocità della luce rispetto a osservatori diversi

Una prima e immediata conseguenza delle trasformazioni di Einstein – Lorentz, è che con l’approssimarsi della velocità di un copro a quella della luce, un osservatore fermo vedrà il corpo contrarsi nella lunghezza e vedrà il tempo del copro rallentare.

 

  La contrazione delle lunghezze

Un osservatore O, situato su un sistema di riferimento S, vuole determinare la lunghezza di un metro campione, situato su un sistema di riferimento S’ in moto rispetto a S con velocità v.

Supponiamo che tale metro campione sia adagiato sull’asse x’ del sistema S’, e che i suoi estremi, per un osservatore O’ solidale con S’, siano x’a e x’ b con:

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O’ è fermo nel suo sistema e osservando il suo metro campione non dubita che esso sia proprio lungo 1m.

Poniamoci ora dal punto di vista di O, per il quale O’ con il suo metro campione è in moto verso destra con velocità v. egli vuole misurare il metro di O’ e perciò ne eseguirà una misura degli estremi in un medesimo istante che, per comodità, assumeremo come istante zero.

Si ottiene allora:

Come si vede, nelle espressioni di xa e xb sono contenuti i tempi t’a e t’b dell’osservatore O’. Dobbiamo perciò far ricorrere alle trasformazioni di Einstein per riuscire a far comparire i tempi ta e tb di O, tempi che porremo uguale l’uno all’altro ed entrambi uguali a zero (ta=tb=0). Ciò equivale a usare le formule inverse. Si ottiene allora:


cioè

e quindi

È evidente che la misura del metro campione, data da xa – xb, è minore di 1m, quindi O giudicherà il metro di O’ più corto del proprio. Anche se capovolgiamo la situazione, cioè cercando cosa vede O’ del metro campione di O, si otterrà ancora lo stesso risultato.

Si noti la coerenza logica fra questo risultato e il principio di relatività: se la contrazione del metro fosse una prerogativa del solo osservatore O o del solo osservatore O’, allora sarebbe possibile stabilire chi dei due è in moto e con ciò verrebbe a cadere la validità del principio di relatività.

La dilatazione dei tempi

La dilatazione dei tempi può essere dedotta come la dimostrò Einstein, non solo da un punto di vista matematico, come ho mostrato prima per le lunghezze, ma anche da un punto di vista fisico.
Consideriamo un passeggero su un treno che osserva l'accendersi di una lampadina nella carrozza dove viaggia


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Il tempo che impiegherà la luce per percorre il tratto BD sarà

Per un osservatore situato sulla banchina, il raggio di luce percorrerà il tratto in rosso nella figura, perché mentre il treno si muove, si muovono con lui anche il punto A, il punto B e il punto D.
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In questo caso il tempo che impiegherà la luce a percorre il tratto
2AB (AB=BC) sarà:

Cioè, dividendo i due tempi si ottiene:

considerando però che il tratto AD= vt e AB=ct, si ottiene

da questa equazione di ricava che il tempo che misurano i due osservatori è diverso. Crollano dunque le relazioni galileiane che prevedevano un tempo e uno spazio assoluto

Una verifica sperimentale della contrazione delle lunghezze e della dilatazione del tempo è descritta dal comportamento dei muoni.
Quando i raggi cosmici, costituiti da particelle ad alta energia provenienti dallo spazio, vengono a contatto con gli strati superiori dell’atmosfera si producono grandi sciami di svariati tipi di residui subatomici. La maggior parte delle particelle decade quasi subito, mentre tra quelle a vita più lunga ci sono i cosiddetti "muoni". Un muone è praticamente un elettrone di peso superiore. I muoni interagiscono poco con la materia ordinaria, e la maggior parte di loro lo fa a livello del suolo, alcuni sottoterra.
Se però avessimo sul banco del laboratorio un vaso di muoni appena creati, dopo qualche milionesimo di secondo, quasi tutti decadrebbero in elettroni. Il motivo? I muoni sono intrinsecamente instabili e decadono dopo una vita media di circa 2 microsecondi. Nessun oggetto materiale può superare la velocità della luce: i muoni infatti hanno una velocità pari a 0.997 c. A questa velocità, nel loro tempo di decadimento, dovrebbero percorrere meno di un chilometro. Come mai allora arrivano sul nostro pianeta? La spiegazione sta nella dilatazione del tempo. Secondo la teoria della relatività, quando un muone si muove a una velocità prossima a quella della luce, il suo tempo risulta notevolmente deformato. Nel nostro sistema di riferimento fissato sulla terra, il tempo del muone in movimento viene notevolmente allungato, per meglio dire dilatato. Anziché decadere in pochi microsecondi , tempo terrestre, un muone ad alta velocità può vivere più a lungo, quanto bassa per raggiungere il suolo.
Lo stesso esperimento permette anche di mostrare la validità della legge della contrazione della lunghezza. Infatti il muone, per effetto della sua alta velocità, vede la distanza tra lui e la terra più corta, rispetto a quella misurata da un osservatore terrestre. Così nel tempo di decadimento misurato in laboratorio, deve percorrere un distanza minore per effetto della contrazione delle lunghezze, riuscendo così ad arrivare al suolo.

La relatività della simultaneità
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Le stesse conclusioni si possono raggiungere per via matematica.
Consideriamo due eventi A e B (ad esempio allo scoccare di due scintille) che, in un sistema di riferimento S, si producono nel medesimo istante, ma in due punti differenti caratterizzati dalle ascisse Xa e Xb e valutiamo la differenza (se esiste) tra i tempi t'a - t’b misurati da un osservatore solidale a un sistema S’ in moto rispetto a S con velocità v (e, come al solito, disposto in modo che il suo asse x’ scivoli sull’asse x del sistema S). utilizzando le formule di Einstein Lorentz si può scrivere:

=

E poiché si è supposto che ta = tb si ottiene:

Dunque, a meno che non sia xb = xa , cioè a meno che i due eventi non accadano nello steso luogo, essi verranno registrati dall’osservatore solidale a S’ non più simultaneamente

Passato, presente e futuro nella relatività einsteiniana.

La relatività della simultaneità di due eventi, pone alcuni gravi problemi circa l’oggettività delle leggi fisiche, e più in generale, circa l’oggettività di una conoscenza razionale. Per introdurre la questione, riprendiamo in esame i due eventi E(A) e E(B) che si producono in due punti A e B a distanza L tra di loro e che per l’osservatore O risultano contemporanei. Per un osservatore O’ in moto da A a B con velocità v, secondo le leggi di Einstein, l’evento E(B) avviene prima dell’evento E(B), mentre per un osservatore in moto da B ad A, vedrà l’evento E(B) dopo l’evento E(A): la sequenza temporale di due eventi può dunque risultare opposta per due osservatori diversi!

Le conseguenze di questa conclusione potrebbero risultare devastanti per qualsiasi descrizione oggettiva del reale; una sequenza temporale ben precisa si eventi è infatti alla base di ogni possibile legge che colleghi due fenomeni, e più in generale, dello stesso principio filosofico del rapporto fra causa ed effetto. Se teniamo inoltre presente che, per quanto visto prima, anche la misura degli intervalli di tempo e la misura delle lunghezze non possono essere considerate caratteristiche invariabili di un certo fenomeno, ma dipendono dall’osservatore che le esegue, sembra seguire una conclusione inevitabile: la teoria della relatività afferma che tutto è relativo, ovvero afferma che nulla si può dire con certezza. In realtà le cose stanno ben diversamente. La relatività einsteiniana infatti, mentre relativizzava le misure di alcune grandezze, introduceva due nuove invarianti che restituirono una completa oggettività alla descrizione del reale. Per capire come ciò possa avvenire è opportuno riesaminare cosa significano i termini presente, passato e futuro, dando ad essi un significato non ambiguo da un punto di vista fisico.
Per semplicità ci riferiamo a uno spazio a sue sole dimensioni: una dimensione temporale (che rappresenteremo sull’asse verticale di un sistema di assi cartesiani ortogonali) e una dimensione spaziale (che rappresenteremo sull’asse orizzontale del medesimo sistema)

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Secondo la relatività galileiana, nella quale non esiste alcun limite teorico alla velocità dei segnali, tutti i punti del semipiano corrispondente a t > 0 indicheranno eventi posti nel futuro di O. Infatti, un generico evento caratterizzato da una coppia di valori (x;t) potrà sempre essere influenzato da O, purché questo invii un segnale alla necessaria velocità .

Analogamente ogni evento corrispondente ad una coppia di valori (x;t) del semipiano sottostante l’asse x potrà essere considerato nel passato di O. Il presente sarà dunque rappresentato dai soli punti dell’asse x (che rappresentano eventi "contemporanei" ad O) sono correlati ad O da un rapporto causa – effetto.

Nella relatività einsteiniana la rappresentazione è più complessa. Per renderla graficamente più chiara assumeremo c come valore unitario per le velocità (in altri termini come unità di misura delle velocità assumeremo il valore 3·108 m/s). Con tale valore l’unità di misura delle lunghezze viene ad essere lo spazio percorso dalla luce in 1s, ovvero 3·108 m. Continueremo inoltre a supporre il nostro osservatore O nell’origine del sistema.
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Per individuare qual zone del piano x, t rappresentano il passato, il presente, il futuro di O cominciamo a definire il luogo o i luoghi dei punti che possono essere raggiunti da O 9° che raggiungono O) mediante un lampo di luce. Essi sono evidentemente rappresentati dalle due rette di equazione x = ct, x = -ct le quali, avendo posto c=1, coincidono con le bisettrici degli assi x, t

Queste rette dividono il piano in quattro parti delle quali, due corrispondono rispettivamente al futuro e al passato di O, le altre al presente di O. Per individuarle, si consideri che, affinché un lampo di luce ossa collegare un generico punto p del piano con l’osservatore o, per le coordinate x, t di P deve essere soddisfatta la condizione:

I punti O così caratterizzati o stanno nella zona 1 per la quale e che costituisce quindi il futuro di O, o stanno nella zona 2, per la quale t < 0 e che costituisce quindi il passato di O. Le altre parti (3 e 4) costituiscono il presente di O. Per un punto P’ qualunque di essi infatti

e quindi P’ non potrà mai essere influenzato da O, né potrà influenzare O. Queste parti rappresentano perciò il presente di O.

 

Esempio pratico

Per concretizzare quanto detto prendiamo in considerazione un evento sul sole.
Come noto, una tempesta magnetica sul sole può influire sulle trasmissioni terrestri. Poiché però la radiazione elettromagnetica emessa dal sole impiega circa 8 minuti a raggiungere la terra, sono nel nostro attuale passato tutte le tempeste solari che sono avvenute prima di 8 minuti fa. Una tempesta magnetica avvenuta cinque minuti fa non può aver alcuna influenza attuale sulla terra, e perciò non è nel nostro passato. Tantomeno è nel nostro futuro e quindi diremo che è nel nostro presente.
In termini più generali , ogni evento che è accaduto sul sole 8 minuti prima dell’ora segnata in questo momento dal nostro orologio terrestre è nel nostro passato. Ogni evento che accade sul Sole compreso fra l’istante t e t+8 minuti non può essere nel nostro futuro; gli eventi inclusi i questo intervallo di tempo appartengono a ciò che chiamiamo il nostro presente. Fra questi eventi e il punto O non può esserci alcun rapporto causa – effetto.
Sempre riferendoci alla tempesta magnetica avvenuta cinque minuti prima di un evento terrestre, la relatività prevede che possa esistere un osservatore per il quale l’evento sulla terra accade prima della tempesta magnetica ma anche per questo osservatore non sarà possibile instaurare alcun rapporto di causa – effetto tra i due eventi. Diverso è il caso di una tempesta magnetica avvenuta 9 minuti prima di un certo evento terrestre.
In questo caso infatti esiste una possibilità di rapporto causa – effetto e allora non si potrà osservare alcuna inversione temporale per nessun osservatore reale, la cui velocità, cioè, non superi quella della luce.

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Il problema dell'etere
Cenni generali sull'esperimento di Michelson-Morley
I postulati della relatività ristretta e il superamento della relatività galileiana
La contrazione delle lunghezze
La dilatazione dei tempi
La relatività della simultaneità
Passato, presente e futuro nella teoria della relatività