DOUBLE            ROOMS

Storia di un viaggio nello Yemen.

 

di

Alighiero Adiansi

                               

                                                      

All’unica persona che mai ha cercato di dissuadermi dal partire, l’unica che quando andavo chiedeva solo “dov’è questo posto?” e quando tornavo “È andato tutto bene?”…

                                                              ..... a mio padre.          

                                                                                               

 

 

"Quando si viaggia (e anche quando ci si innamora) non lo si fa certo per collezionare materiale. Lo si fa semplicemente perché fa parte della vita."            (E. Waugh)

 

 

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1   -    Sanaa

Il colpo, secco e improvviso, scaraventa la vecchia 504 verso il ciglio della strada. La prima sensazione è di una pallottola in mezzo agli occhi del tassista che, memore delle antiche discendenze ottomane, bestemmia come un turco. La seconda sensazione è quella giusta: sul pezzo di strada più bello del paese, dopo un paio di chilometri, sotto lo sguardo luminoso del dio Luna, è scoppiata una gomma. Tiriamo giù i bagagli, una lattina arrugginita, una buccia di banana putrefatta, stracci bisunti, una scarpa, una gran puzza di topo morto .... manca solo la ruota di scorta! La seconda auto è scomparsa inghiottita dalla notte.

Matahari è il rappresentante dell'agenzia cui ci appoggiamo per il viaggio ma, meglio non appoggiarsi troppo. Già l'appuntamento all'aeroporto era andato buco. L'aereo della Yemenia partito da Roma a mezzogiorno era atterrato a Sanaa alle 20 locali, in perfetto orario, nonostante lo scalo al Cairo e le rassegnate previsioni della vigilia.

Passando e ripassando davanti alla selva di mani, occhi e cartelli protesi non avevo trovato traccia della Sheba. Con le facce appiccicate ai vetri, decine di tassisti si accalcavano fuori delle porte indicando con ampi gesti le auto scalcinate, urlando saluti in inglese e snocciolando i nomi di tutti gli hotel di Sanaa.   Al terzo tentativo il telefono aveva dato segni di vita:

- Hello, Sheba Agency, hello! -

- Hello un cazzo! Sono Dario, we are in airport! -

- ... Hello Dario, excuse me, l'aereo è già arrivato? -

- Indovina! -

- Di solito arriva dopo mezzanotte ...dieci minuti e sono lì ... -

I dieci minuti erano passati da venti quando, sgomitando tra la folla dei tassisti, un piccoletto grassoccio, dall'aria furba e dall'aspetto poco raccomandabile entrava nella sala Arrivi Internazionali tutto trafelato e visibilmente impegnato ad apparire dispiaciuto. In aeroporto c'eravamo solo noi:

- Benvenuti!  Io sono Matahari, della Sheba Travel Agency. - Neanche fosse la più nota del mondo.

- Matahari?! -

- Esatto, Matahari, come la spia! Scusate molto. Io mi sono confuso con il gruppo in arrivo con aereo extra...  -

- Va beh, adesso andiamo; c'è gente in piedi dalle quattro, per esempio io. -

- Le macchine sono fuori ...  -

- Spiega a questi che non abbiamo una lira yemenita in tasca, quindi rischiano di  portare i bagagli gratis .... - Cinque o sei facchini erano aggrappati agli zaini.

- Nessun problema ... penso io a loro ...  andiamo. -

- L'albergo c’è? -

- Vi aspettano. -

Nella prima macchina si erano incastrati Sandro, Silvia, Andrea con Valeria sulle ginocchia e Roberto di Firenze, eletto all'unanimità' cassiere del gruppo mentre era andato a pisciare. Parti di corpi aggrovigliati sporgevano dai finestrini, ma, nonostante tutto, la macchina si era mossa davanti ad una nuvola asfissiante in mezzo alla quale  lampeggiava la freccia sinistra, unico segno di vita dell'impianto d’illuminazione.

Non essendo disposti a tenere in braccio Matahari, Marcello ed io stavamo spiaccicati contro le portiere posteriori, impegnati a tenerle chiuse, in mezzo Rossana faceva da sedile all’amica Giulia. Inaspettatamente il motore si era avviato scoppiettando e trascinava da qualche minuto il suo bel mucchio di ferramenta e ossa quando era successo il fattaccio della gomma...

 Ora la spia cerca di fermare un’altro taxi, Marcello aiuta l'autista a smontare la ruota e le ragazze, sedute sul mio zaino, brontolano sconsolate.

- Tra un quarto d'ora siamo a letto, ragazze. Fidatevi ...! -

Il nuovo taxi è un clone del precedente ma con tutte le gomme a posto. Dopo una ventina di chilometri superiamo le mura di Sanaa attraverso la Bab Al-Yemen piombando di colpo nel medioevo. La vecchia auto è in realtà una macchina del tempo e ci ha scaricati qualche secolo indietro.

La piazzetta è quasi deserta: alla luce dell'unico lampione s’intuiscono alcune ombre distese per terra e tre strade; prendiamo quella di sinistra in mezzo a costruzioni così alte da scorgere a malapena il cielo. Confusa tra le stelle, una luce tremolante illumina i vetri colorati di piccole finestre in un'atmosfera da Mille e una Notte. L’auto si blocca a pochi centimetri dall'ingresso del Gasmy, il nostro albergo. Tre colpi decisi e un rettangolo di luce si ritaglia nel buio; il guardiano apre, fa passare, richiude, torna nel suo loculo male rischiarato e riprende a dormire, ammesso che si sia svegliato.

Al bancone della hall, se così possiamo chiamarla, ci disputiamo le chiavi delle camere: una doppia e una ... settupla. Sandro e Andrea si giocano la doppia a pari e dispari ma Rossana e Giulia hanno la meglio sulle improbabili esigenze sessuali delle coppie. Per le due ragazze il letto è irrinunciabile, per gli altri pollo, spiedini e patatine fritte: si riapre la cucina, si sveglia il cuoco, tra mezz'ora si cena. Zaini in spalla, saliamo verso lo stanzone al terzo piano; la scala gira attorno ad un pilastro squadrato, l'illuminazione è molto bassa, i gradini molto alti e l'andatura ne risente.

- Quelli più piccoli come facevano a salire? -

- Come "fanno"  a salire - sottolinea il "piccolo" Roberto a metà rampa.

- ... e quelli scoppiati? - chiede Silvia appoggiata al muro.

- Dammi lo zaino e tira il fiato se no arriviamo domani mattina. - interviene Sandro.                                

- Ecco la 2  ...  è già aperta ... sembra vuota ... -           

- Ci sono dei materassi per terra ... quattro .... due là ... altri tre .... -

- Cosa cazz... qui ce n'è un altro ... - Roberto si lascia cadere sul bagaglio.

Lo stanzone è avvolto nella semioscurità di due lampadine e della penna-pila di Valeria, per fortuna dalle finestre filtra la luce della luna. Lo spessore permette di distinguere i materassi dai tappeti, ci srotoliamo sopra i sacchi a pelo e i sacchi lenzuolo cercando di non svegliare le pulci.

Nel cortile del Gasmy tre locali fungono da sala da pranzo quando si ha fame e da riparo quando piove; in mezzo ad ognuno, c'è un robusto tavolone e un cospicuo numero di sedie sgangherate; le pareti verniciate riflettono una parte della luce. Quando arrivano i vassoi, stracolmi di patatine e spiedini, dobbiamo riconoscere che al Gasmy, per il benvenuto, si sono dati parecchio da fare. A tavola il morale si rialza, in compenso si abbassa del tutto la luce; questo succede spesso di giorno e quasi sempre di sera: meglio avere a portata di mano una torcia.

Appena il tempo di poggiare il culo sui pagliericci bitorzoluti e qualcuno russa. Valeria e Andrea avvicinano i materassi, io e Marcello li trasciniamo sotto le finestre. Una brezza leggera filtra dalla grata di legno; si intravedono i tetti di Sanaa anche stando sdraiati, la luna fa risaltare gli arabeschi di gesso della casa di fronte.  La prima notte a Sanaa è appena cominciata, la stanchezza ha il sopravvento e i mucchi informi dei corpi giacciono sul pavimento, ma la speranza di un sonno ristoratore è illusoria: nessuno ha pensato di abbassare gli interruttori e le lampadine illuminano improvvisamente lo stanzone quando, verso le tre, ritorna la luce. Alle quattro e mezza in punto esplode come una bomba la voce lamentosa dei muezzin e quella fastidiosa di un migliaio di cani; alle sette il sole supera di slancio il tetto di fronte e una cascata di luce colorata irrompe dai vetri. Prima delle nove siamo attorno al tavolo della cena con la sensazione di essere passati dalle patatine fritte al caffelatte senza muoverci dalla sedia. Matahari arriva puntuale mentre il latte condensato cola lento sul pane caldo.

- Buongiorno. Passata una buona notte? - 

- Quale notte? - risponde prontamente Sandro.

- Fuori c'è il pulmino per il giro della città. Offre l'agenzia. Tu Dario devi... -

- Lo so, lo so ... ragazzi, ci vediamo alle quattro. Datemi i biglietti e i passaporti per il visto. Qualcuno vuol cambiare i dollari in agenzia? Il cambio è leggermente più basso ma al ritorno potete riconvertire i ryal in dollari. -

A destra del Gasmy un parapetto di cemento e una striscia di vegetazione fanno da cornice alle case, i muri hanno il colore della strada, i piani più bassi sembrano farne parte, in quelli intermedi fessure e finestre sono più numerose, incorniciate da mattoni a nudo e da rifiniture di gesso. Gli ultimi piani sono gioielli. Le finestre, sormontate da una mezza luna con incastonati frammenti di vetro colorato, hanno la parte inferiore chiusa da grate di legno a balconcino, si chiamano shubak e indicano le stanze dove le donne possono sbirciare in strada senza essere viste.

 Le finestre hanno una struttura architettonica ben definita: la mezza luna in alto è l'elemento decorativo, un tempo lastre di alabastro erano incastonate negli arabeschi di gesso; la parte centrale con i vetri chiari dà luce all'ambiente, la parte bassa consente la circolazione dell'aria come sperimentato con soddisfazione nel dormiveglia di questa notte, più veglia che dormi.

- Come hai imparato l’Italiano? -

- Anni fa avevo delle attività con gli italiani, in Etiopia; adesso qui vengono molti italiani, faccio esercizio tutti i giorni. Parlo bene? -

- Molto bene. Fa comodo qualcuno che parla Italiano perché l'arabo è un problema. -

- Un grande problema! A scuola insegnano l’Arabo standard, quello parlato è un'altra cosa. -

- E l'inglese? -

- Si insegna a scuola; tutti i bambini conoscono un poco. Loro vogliono parlare inglese con i turisti: come ti chiami, da dove vieni, cosa fai, do you like Yemen ... e così via -

Lasciato il "balcone" panoramico proseguiamo, sinistra... destra... sinistra e siamo sulla riva del fiume Saila.  Scendiamo per il bordo scosceso dove il continuo passaggio ha scavato gradini naturali, superiamo le pozze saltellando sulle pietre e risaliamo nella città nuova vicino alla Tea House 26 September, ritrovo dell'élite culturale della città. Pochi avventori sorseggiano un the, forse studenti universitari o professori, o scrittori famosi, o pirla qualsiasi che hanno trovato libero un tavolino.  Sono di più quelli fuori, intenti a discutere animatamente, seduti per terra, appoggiati al muretto attorno al giardino. Delle bancarelle di libri usati non c'è traccia, un giornalaio ha esposto la merce occupando un intero angolo del marciapiede: giornali, riviste e qualche volume ingiallito. Matahari mi offre il the in un minuscolo locale interamente occupato dal bancone e dalla pancia del proprietario. Due bicchieri di the alla menta, 50 lire: non troverò più un the così a buon mercato.

Tra la Sheba Tourist Agency e il vicino Sheba Palace Hotel il contrasto è imbarazzante. Gli uffici dell’agenzia sono al pian terreno di una fatiscente costruzione grigia, l'insegna penzola sopra l'ingresso da cui si accede all'unico spoglio locale. Un ventilatore dondola al centro del soffitto; sopra una panca due tipi leggono un quotidiano e non ci degnano di uno sguardo. Il resto dell’arredamento è un bancone sudicio sul quale non c'è assolutamente niente e dietro al quale non c'è assolutamente nessuno. Sul muro tre vecchi poster della città e numerosi adesivi di Avventure nel Mondo, apparentemente l'unico cliente internazionale e nazionale. Attraverso un corridoio e una robusta porta di legno si arriva all'ufficio del capo. Non ci sono finestre e una lampada da tavolo illumina a malapena la scrivania ingombra di documenti impolverati. Alamhari è grande e grosso, più grosso che grande, con lunghi baffi spioventi, la pelle grassa e la barba rasata male un paio di giorni fa. Stringo la mano molliccia borbottando un "salve" truccato da “salam” in risposta ad un grugnito. Matahari fa da interprete perché il boss parla solo arabo. Rompo il ghiaccio tirando fuori i "regali obbligatori": stecca di sigarette per la spia e bottiglia di whisky per il capo che velocemente la fa sparire in un cassetto. Confermo la prenotazione del Gasmy per le notti nella capitale e dell’hotel di Saada, dove il numero di posti letto è limitato; per le altre località ci arrangeremo al momento. Il costo delle jeep è quello definito via fax ed esclude le spese degli autisti, i quali dovranno provvedere da soli a vitto e alloggio. Il noleggio delle auto, complete di autista e benzina, costa 70 dollari al giorno nello Yemen del Nord e 100 nello Yemen del Sud (ma non si erano unificati?). Gli alberghi si pagano sul posto, compresa la percentuale all'agenzia e agli autisti, che pagheremo a nostra "insaputa". Aggiungo i duecento dollari della guida per l'attraversamento del deserto; la salita a Shihara si paga in loco. Tiriamo le somme con le rispettive calcolatrici e il risultato è sorprendentemente lo stesso, quindi anticipo, in dollari, i tre quarti del totale, il resto al ritorno se tutto andrà bene. Lascio ad Alhamari i biglietti aerei per la conferma dei voli e i passaporti per il visto definitivo. Per finire, il cambio: un dollaro per 128 ryal, contro i 132 del cambiavalute. Il cambio migliore si ottiene con banconote di grosso taglio, 100 o 50 dollari, in buono stato e posteriori al 1990. I dollari contati e ricontati scompaiono nei pressi del whisky in cambio di un ingombrante pacco di ryal. Il potere d'acquisto si misura in chili: con un chilo di banconote si pranza in una trattoria locale, non delle migliori. L'unità di misura è la mazzetta da mille ryal, formata da dieci banconote da cento, questa a sua volta contribuisce a formare la più usata mazzettona da diecimila: dieci mazzette da mille per un totale di cento banconote da cento.  Rimboccate le maniche, il boss comincia a sfogliarle; sono così zozze da costringerlo a leccarsi le dita in continuazione e le mazzette arrivano nelle mie mani in condizioni disgustose. Matahari osserva serio scambiando col superiore lunghi borbottii la cui traduzione mi lascia perplesso perché ad ogni scambio di due o tre minuti corrispondono quattro o cinque parole in italiano; va beh sintetizzare ma qui mi prendono per il culo!

- ... con questo sono trentamila. Non conti? -                              

- Mi fido! –

Raccomando a Matahari la puntualità per l'indomani con le jeep in condizioni perfette, compresi i teli per coprire gli zaini sui tetti, e me ne torno in hotel. Breve sosta in camera per alleggerire lo zainetto, ripulire le mani dai residui di ryal e studiare la cartina della città recuperata in una piccola agenzia viaggi. Fuori dal portone il vicolo semideserto si allarga dopo poche decine di metri e forma la piazzetta dell'Old Palace, molto simile al Gasmy. Due ragazzi simpatici mi mostrano un paio di camere e poi, all'ultimo piano, un grande locale coi finestroni così ampi da permettere la vista dell’intera città; dal tetto il panorama a 360 gradi è fantastico. Intasco il biglietto da visita con i prezzi delle varie sistemazioni, a dire il vero un po’ più alti del Gasmy, e riprendo la strada sbucando davanti alla Bab-al Yemen. Attorno alla porta principale della città si concentra la maggior parte delle persone, mercanti o clienti, definizioni molto vaghe in questo frangente dove tutti vendono e cercano qualcosa. La via centrale della città arriva alla Bab ash-Shaub, non lontana, ma di mezzo c'è il mercato e quindi per le urgenze è meglio passare fuori dalle mura. Forzo a gomitate il flusso di uomini, animali, carretti, biciclette e motorini per sedermi sul bordo del marciapiede. Alcuni ragazzini vendono borse di carta azzurra; guardano divertiti il cappello maldiviano e i pantaloni viola da trekking. Uno di loro, avrà una decina d'anni, non stacca gli occhi dalle Adidas.

- Hello, italiano?! -

- Yes, italian. - come fanno a riconoscermi sempre!

- How are you?-

- Fine, thank. And you? - il tentativo di interrompere la sequenza naufraga nel fatidico:

- What’s your name? -

- Dario. -

- My name Mohammed. -

- Ciao Mohammed... -

- Vuoi comprare moneta di regina Teresa...?-

- No, no. Hai visto altri italiani in giro? -

- Yes, in suk. Belle ragazze, bionde. Andiamo, io conosco negozio di stoffa, no expensive... -

- Per favore... sono appena arrivato... -

- Vuoi buono ristorante? Io conosco ... -

- Lo so, lo so ... conosci un sacco di posti. -

- Vuoi borsa per spesa, 1 ryal. -

- Ok, dammi una borsa, però cambiami 100 ryal, così faccio moneta. -

- Dammi scarpe e ti do due borse, ok? -

- E io vado in giro con le borse ai piedi ?! Recupera il resto e dammi questo benedetto sacchetto! -

- Aspetta! - Prende la banconota, scompare tra la folla, torna con una manciata di monetine e banconote; un paio fanno così schifo che le scambio con altre borse e una sostanziosa dose di ringraziamenti. Accompagnato dagli sguardi soddisfatti di Mohammed, lascio la piazza trascinato dalla corrente tumultuosa composta quasi esclusivamente da uomini. Le poche donne, col viso coperto e avvolte nei lunghi abiti neri, passano a testa bassa; una vecchia allunga la mano per qualche spicciolo di elemosina.

I negozi sono a mezzo metro da terra, completamente ingombri di mercanzie e così piccoli che il venditore, inginocchiato o seduto a gambe incrociate, può raggiungere tutto senza cambiare posizione; sono raggruppati secondo la merce e formano nel loro insieme un suk: il suk delle stoffe, quello dei cappelli, quello delle scarpe, della frutta, dei gioielli, il suk dei falegnami e così via; l'insieme dei suk costituisce il bazaar. Gli unici a non esporre la merce sono i cambiavalute. Non so se il cambio nero sia legale o meno, ma come sempre in banca ci si smena, infatti oggi al cambio ufficiale un dollaro vale 54 ryal contro i 128 offerti dal mercato nero. Restando sempre sulla via principale arrivo allo slargo dove si affacciano gli antri sanguinolenti dei macellai, un tempo costretti a svolgere il loro lavoro, considerato impuro, fuori dalle mura; molti si trasferirebbero in Italia se vedessero il 740 dei nostri macellai che stanno anch'essi fuori dalle città, nelle ville in collina.

Elucubrando su banche e macellai, mi scappa l'occhio in un negozio, al vero un po’ meglio degli altri, e tra cascate di stoffe multicolori, riconosco Giulia e Rossana avvolte in una seta rossa; Andrea le spalleggia mentre discutono con scarsa convinzione. Più animatamente Marcello e Sandro trattano uno jambiya, il tipico coltello ricurvo la cui foggia, unita ai disegni dell'impugnatura e alla posizione sulla cintura, permette di riconoscere la tribù e il rango del possessore. Silvia osserva da pochi passi; non vedo la bionda chioma di Valeria e neppure quella corvina del cassiere. Per non interrompere le trattative scantono a naso dietro un invitante aroma di pane appena sfornato. Il locale è dietro un muro di pentoloni; invitanti polpettine dorate galleggiano dentro un laghetto di grasso, un paio di frigoriferi traboccano di bibite colorate e larghe fette di pane a forma di piadina riposano sotto un tappetino di mosche.  Bastano 5 ryal per 6 polpette croccanti e due fette di pane da arrotolarci attorno.

- Buono ? -  

- Valeria! Ti sei persa? -

- No,no ... cioè ... sì mi sono un po’ persa, ma di proposito. -

- Come di proposito? Col casino che c'è in giro ... -

- È questo il bello, basta restare indietro un paio di metri, giri dentro alla prima stradina ed è fatta. -

- Non hai paura?! Voglio dire ... tu non passeresti inosservata neppure in piazza del Duomo, figurati qua ... Vuoi? - le allungo un sandwich apparentemente disgustoso.

- Solo un po’ di pane ... -

- Il pane da solo è sprecato, prova ... non è malvagio, siediti - lascio libero lo sgabello spostandomi sul gradino della ... paninoteca. 

- mmmh.... un po’ piccante ... prendo una bottiglia di minerale ... – quando torna ha ancora gli occhi del barista attaccati alla maglietta.

- Sarebbe meglio stare insieme agli altri, sul serio. -

- Cosa potrebbe succedere con tutta 'sta gente. Sò  tutti gentili ... -

- Fai l'ingenua o mi prendi per il sedere? Lo chef, lì dietro, ha carbonizzato mezza dozzina di polpette e un paio di dita solo a guardarti le braccia nude. Tu per un arabo sei la donna ideale: bianca, bionda, morbidona ... -

- Come ... morbidona!? -

- ... senza offesa. Non amano le donne secche ... non che tu sia grassa eh... sei normale  ... paffutella, insomma le forme si vedono, saresti l'ideale per un harem! -

- Tu invece le preferisci brutte e paralitiche!? -

- Cosa vuol dire ... io sono d'accordo con loro ... -

- Però è buono 'sto pane, ne prendo ancora un po’, vuoto. -

- Senti, adesso potresti recuperare Andrea e perdervi insieme ... -

- ... proprio lui  voglio perdere! Tu dove vai? -

- In giro ...  -

- Posso venire o ... rompo le palle? -

- Figurati ... -

- Cavoli! Mo'mme sento davvero protetta! -

- Non contarci... -

Andare in giro con Valeria vuol dire avere addosso gli occhi di tutti; gli artigiani interrompono il lavoro per scambiarsi borbottii di approvazione e anche qualcosa di più. Chissà se dalle finestre, dietro le grate di legno, qualche donna non stia sbirciando curiosa! Camminiamo per un po’ entrando ed uscendo da negozi e laboratori, dentro e fuori da stradine e vicoletti, a casaccio. In alcuni punti le ferite provocate dalla guerra civile del ‘92 sono evidenti: la sequenza delle case si interrompe d'improvviso e tra le mura semi distrutte si individuano i metodi brutali della distruzione e quelli ingegnosi della costruzione. I primi piani di basalto e granito hanno resistito ai bombardamenti ma quelli alti sono ridotti a mucchi di argilla e mattoni destinati a qualche manutenzione spiccia; difficile pensare ad un restauro. È come se un gigante incazzato avesse preso a calci un castello di sabbia.  Tra le brecce si intravedono le macchie verdi dei leggendari giardini. C'è un parco aperto al pubblico, prima o poi a forza di girare speriamo di capitarci, almeno potremo sedere all'ombra, o meglio al fresco perché da qualche minuto il sole è sparito e, negli squarci di cielo tra il fango, passano gonfi nuvoloni neri.

Attraversato un suk di falegnami, odoroso di legno tagliato e di colle, la strada fiancheggia un muro anonimo, bianco e scrostato, abbastanza alto da nascondere alla vista degli infedeli l'interno della più grande moschea di Sanaa, quella di al-Kabir. Ci sediamo sul  marciapiede di fronte ad un piccolo atrio coperto e racchiuso da un muretto, due snelle colonne sostengono un tettuccio spiovente. Il portale è aperto e un vecchio sonnecchia per terra con la mano sull'elsa del pugnale, sembra di guardia all'entrata. Due giovani parlottano seduti tra le colonne. Dopo qualche minuto da una stradina alla nostra sinistra, una ventina di ragazze, avvolte in lunghi grembiuli neri, avanzano in coppie e gruppetti stringendosi l'una all'altra. Abbassano la testa, smettono di bisbigliare e da sotto i veli sfuggono risatine maliziose mentre sfilano tra noi e la moschea. I giovanotti interrompono il parlottio, il vecchio guardiano si risveglia dal torpore e apre un occhio. Per un attimo il misticismo sprigionato dalla moschea cede alla sensualità dei corpi avvolti negli svolazzanti sharshaf neri. È un attimo, poi il vecchio riprende a dormire, i due uomini a sbirciare, io e Valeria a chiacchierare.

-  ... e perché sarebbe così importante questo viaggio? -

- È il primo fuori dall'Europa ... è un altro mondo ... questa città da sola vale il viaggio, ma per me è importante in un altro senso. Vedi, io e Andrea ... sai da quanto ci conosciamo? Quasi dieci anni, dalle medie... e adesso siamo all'università, sempre insieme, io e lui, lui ed io... -

- Bello!! -

- Ultimamente litighiamo per qualsiasi cazzata. -

- Abbastanza normale... -

- Normale mica tanto, non mi molla mai ... io ho in mente un rapporto un po’ diverso... un po’ più allentato ... -

- Allentato !? -

- Non immagini che lotta per spuntare questo viaggio in gruppo invece del solito viaggio in due. -

- Ma non puoi passare il tempo a perderti per i mercati! Lui sarà preoccupato ... -

- Questo è sicuro! Se sa che sono stata con te comincia a guardarti male. -

- Forse una camera doppia...? -

- Non scherzare, per me è importante ... Non si può ridurre tutto ad una questione di letto! –

   - Mah ... -

- Non si potrà proprio entrare? -

- Sei matta !? È la moschea più importante del paese, costruita su richiesta di Dio in persona e c'è pure la tomba di un “sant'uomo, precursore della vera fede". Forse più avanti in qualche cittadina, chissà... Però un occhiata si può provare. -

Appena attraversiamo la strada il vecchio si alza a sedere e i due, lì vicino, smettono di guardare di sottocchio e ci squadrano da capo a piedi con aria interrogativa, e comunque squadrano molto di più Valeria.                    

Arrivati davanti alla porta, senza neppure azzardarci a mettere piede dentro, ci sporgiamo nella speranza di scorgere qualcosa dell'interno.  Il vecchio toglie la mano dal pugnale e la allunga per chiedere un po’ di elemosina; se fosse per lui potremmo tranquillamente entrare, specialmente dopo avergli sbriciolato sulle mani una banconota dal valore indefinito. Dalla porta si intravede una selva di tozze colonne bianche, alcune lisce, altre con scanalature di vario tipo, tutte con grandi capitelli collegati da massicci archi. Tra le colonne filtra il bianco abbagliante del marmo e nel cortile si distingue la vasca per le abluzioni. Secondo i testi la moschea dovrebbe essere in perfetto stile islamico, cioè rispecchiare le linee architettoniche della casa di Maometto, o comunque del posto dove il profeta teneva le prediche: un semplice cortile aperto e privo di strutture. Come in tutte le moschee, anche questa ha nella parete denominata qiblah, la nicchia indicante la direzione della Mecca, questa nicchia si chiama mihrab, mentre il pulpito da cui si legge il Corano si chiama minbar. Il segno che fanno i due ragazzi si chiama: "Fuori dai coglioni". 

- Non vogliamo entrare. Solo un'occhiata ... -

- No possibile!  Pardon, no possibile stare qui. -

Il sole è sparito e il cielo è di un grigio poco rassicurante, per cui decidiamo di riguadagnare l'albergo e riunirci al resto del gruppo. Secondo il mio proverbiale senso dell'orientamento, alla fine della stradina dobbiamo girare a destra e poi di nuovo a destra ma, dopo il primo angolo l'unica via è a sinistra. I primi goccioloni di pioggia si trasformano in secchiate. Svoltiamo un po’ a destra e un po’ a sinistra, sempre a caso, tenendoci contro i muri delle case, cosa perfettamente inutile perché i tetti sono terrazzi senza sporgenze salvo i minacciosi canaletti che incrementano il volume di "liquido" destinato alle nostre teste. Sbuchiamo sulla piazzetta dell'Old Palace nel cui ingresso hanno trovato riparo Sandro e Silvia. Roberto e Giulia arrivano di corsa dalla strada opposta.

- Dove sono gli altri? -

- Marcello è dentro, al cesso. Andrea è in hotel a cercare Valer ... dove sei sparita ?! -

- Dove siete spariti voi ?! Ad un certo punto mi sono trovata da sola. -

- Andrea è andato a cercarti in albergo. Anche Rossana è là, ci stavamo andando tutti quando è scoppiato questo po’ po’ di temporale. -

- Un monsone. - specifica Roberto.

- Ma fammi il piacere...  Piuttosto l'albergo è vicino, possiamo fare una corsa. -

- La strada è allagata. -

- Fa freddo, io mi farei un the - l'idea di Silvia non è malvagia.

- Conosco quelli dell'albergo. All'ultimo piano c'è un salone...  andiamo su. The  per tutti? -

- Ok, avviso gli altri. - Così dicendo Roberto sparisce sotto la pioggia.

Mezz'oretta dopo siamo alle finestre del mafraj a sorseggiare un the bollente con Sanaa sotto i piedi. Il salone occupa l'ultimo piano della casa,  caldi e morbidi tappeti coprono il pavimento, niente scarpe. Un gran numero di cuscini sono appoggiati lungo le pareti dove slinguazza una coppietta francese e una biondina sonnecchia sopra l’Apa versione inglese; dai capelli si direbbe svedese o tedesca, dagli sguardi di sbieco e dai sospiri si direbbe che abbiamo rotto le palle. I colombini d’oltralpe si alzano, raccolgono le scarpe e vanno a cercare angoli più tranquilli. Quando Sandro e Roberto cominciano a sparar cazzate, la bionda chiude il libro ed esce senza salutare e senza scarpe, rivelando una certa insofferenza e una pianta dei piedi che la dice lunga sulla pulizia delle camere.

- Va beh, se non è di compagnia peggio per lei - conclude Sandro.

- Allora com’è andato il giro con l'agenzia? -

- Meglio da soli. - risponde Rossana tra il fumo del the alla menta.

- E il museo? -

- C'è una bella vista dal tetto, ma da qui è meglio. - Giulia scatta una foto dietro l'altra.

- Solo il mercato del qat è interessante, pieno di gente! Vendono un po’ di tutto, frutta, verdura, galline, capre ... e una distesa di qat. -

- Sarà per gli animali! - suggerisce Silvia.

- Mi piacerebbe vedere una capra mentre si fa una canna. - ride Roberto.

- Ma quale canna, si mastica! -

Un mare di nuvole scure  fa da sfondo alle vecchie case confuse nella pioggia torrenziale. I minareti, col doppio pennacchio degli altoparlanti, e le cupole hanno il colore delle  finestre e l'alternanza di gesso e fango si moltiplica all'infinito con motivi sempre diversi ma uniti dallo stesso stile. Le moschee dovrebbero essere sessantaquattro, nessuno arriva a venti. Dopo tre quarti d'ora e mezzo litro di the a testa smette di piovere e una parte del cielo si rischiara, i primi raggi fanno risaltare gli sbalzi di gesso aumentando il contrasto tra le case arrossate dal sole, lo sfondo scuro delle nuvole e uno splendido arcobaleno. I fotografi si scatenano precipitandosi sul tetto dell'Old Palace attraverso la porticina  in cima alle scale. Click ... click  ... click.

Quando stiamo per rientrare Roberto ci blocca: sta scattando una foto artistica, come la chiama lui. Valeria, Giulia e Rossana sono affacciate alla stessa finestra, inginocchiate sui cuscini, coi gomiti appoggiati al davanzale; i tre sederi sporgenti nei pantaloni attillati occupano gran parte dell'inquadratura insieme con una porzione di città ormai inondata di sole. Roberto regola  la messa a fuoco e scatta soddisfatto.

- Titolo: le saneeee! -

È ora di cambiare aria.

La strada è un fiume di fango ma, saltellando tra una pozzanghera e un gradino, tra una pietra traballante e un paraurti di passaggio, arriviamo all'hotel. Il minuscolo negozietto davanti al portone è come l'oblò di una nave in mezzo al mare. Silvia saluta con la mano l'arabo seduto a mezzo metro dalla corrente.

- Lo conosci? -

- Certo, abbiamo cambiato lì! Il cambio migliore, 132 ryal, vero Sandro? -

- Già, nel mercato ne davano al massimo 130. -

-Cavoli è un bel cambio! Quasi quasi cambio qualcosa anch'io. -

- Aspetta Roberto. Avete contato bene i soldi? -

- Li ha contati Silvia, perché? -

Nel cortile dell’hotel distribuisco i ryal cambiati alla Sheba.

- Matahari ha detto che spesso nei suk sbagliano a fare i pacchettini; non tutti hanno voglia di contare quelle schifezze di soldi. -

- Hai detto giusto! - esclama il cassiere - Questi li hai già contati tu, immagino, o no? -

- Puoi scommetterci! Se avessi visto la faccia del boss li riconteresti tre volte! -

- Va beh, io mi fido. -

Si fidano tutti, tranne Sandro.

- Silvia, li hai contati bene ...?! -         

- Cosa!?! ... Mmmmh ... si,sì ... quattro pacchetti giusti. -

- I pacchetti ...  ma ... tu hai contato tutto? -

- Beh... nel primo erano 100 esatti li ho contati,  anche se facevano un po’ schifo ... tutti appiccicati ... -

- E gli altri?!? -

- Ho misurato l'altezza dei pacchetti ... tutti uguali... però ho fatto finta di contarli ... quello mi guardava. -

- Cosaaaa ... dammi i pacchetti ! -

Nel primo mazzetto ci sono esattamente 100 banconote, nel secondo esattamente 94, nel terzo 95 precise, il quarto è ridotto a metà ma se vogliamo fidarci dei conti di Silvia, tolte le spese arriviamo a 91. I baffi di Sandro si agganciano alle sopracciglia.

- Porca puttana! Altro che bel cambio, quello stronzo di arabo... adesso mi sente. -

- Ma dove  vai, ormai è tardi. Stamattina, davanti a lui andavano bene; te ne vai tutto il giorno a spasso per il mercato e poi vai a dirgli che erano sbagliati! Che figura ci fai? -

- Da pirla! -

- ... e dai, Sandro so'mmanco quindicimila lire, quello ce magna un mese ... -

- Già, voi a Roma siete abituati a “magnare” coi soldi nostri ... puttanaeva ... bisogna essere cretini per farci ciulare anche qui! Li tengo io questi schifo di soldi, dammi il marsupio. Robe da matti .... Comunque un paio di cosine gliele dico a quel terrone là  fuori. Buono cambio... buono cambio ... una sega buono cambio!-

Sandro torna in strada a sfogarsi col cambiavalute, mentre noi andiamo a rimetterci in sesto. Per cena ho prenotato allo Shazarwan, primo nella classifica EDT dei ristoranti con cucina del Medio Oriente.

Il cielo è tornato sereno e nell'aria è rimasto l'odore della pioggia, assai meglio di quello che si sente di solito. Le strade sono praticabili con un minimo di attenzione, il fiume no, per cui lo costeggiamo fino ad una scaletta di cemento che porta sul ponte. In fila indiana, prendiamo a destra e, al semaforo, ancora a destra per la Mogni street, la Strip di Sanaa; sull'altro lato, in un angolino, ci sono gli uffici del corrispondente, più avanti le luci dell'Hotel Sheba Palace. Passiamo di fianco alla Tea House 26 September e poi sotto le insegne giallorosse dello Snack 88. Lo Shazarwan non è facile da individuare, se non ci fossi venuto stamattina non lo noterei tanto è piccolo e anonimo. Il gestore accompagna il gruppo all'unico tavolo completo di posate e tovagliolini di carta.  L'ambiente, non molto illuminato, sembra pulito e l'assembramento è un buon segnale per quanto riguarda la freschezza dei cibi. Dopo averci accuratamente radiografati il cameriere porta uno stropicciato menù: giralo di qui, voltalo di là, ma questo è arabo! Meglio vedere di persona: in cucina è notte fonda, solo un bagliore dai fornelli a gas sui quali borbottano due pentole fumanti, ne escono aromi sconosciuti e intensi. Scegliamo una zuppa di verdure molto miste e una salsa infuocata, il cuoco la chiama helba e la usa per condire il riso, qualcuno ci prova ma la maggior parte preferisce il pollo allo spiedo. Dalla griglia in vetrina ordiniamo: polpette, spiedini, omelette, focacce e focaccine. Niente birra, acqua minerale per tutti e pane a volontà: il pane caldo, gonfio sottile e fragrante, si chiama khubz ma è buono lo stesso. Il caffè è schifoso nonostante sia originario di qui: sul Mar Rosso esiste la città, Mokha, che ha dato il nome ad una delle marche più famose e alla caffettiera napoletana.  Poche discussioni sul conto col simpatico proprietario: lui sconta, io prometto di tornare e la cena ci costa 450 ryal a testa, circa 5.000 lire. Sulla strada del ritorno andiamo a visitare lo Sheba. Sfiliamo attraverso la lussuosa hall sotto gli occhi sospettosi dei portieri e sotto il soffio gelido dell'aria condizionata. Per non dare nell'occhio facciamo i turni ai gabinetti, più grandi del camerone del Gasmy.  Nel ristorante, nuova radiografia poi il capo sala,  un po’ a disagio, ci guida verso il tavolo più nascosto del salone.

- Cos'hanno da guardare? Facciamo così schifo!? - Sandro coi pantaloni da trekking  a quadrettoni verdi e viola e la t-shirt scolorita sotto il vecchio pile azzurro è l’elegantone del gruppo.

- Ragazzi, che dolci! - Rossana e Giulia hanno adocchiato il carrello-dessert.

Buffet libero! In pochi secondi saccheggiamo creme, crostate, torte di ogni tipo, ma specialmente del tipo diecimila calorie a fetta. Quando il cameriere viene per le ordinazioni raccomanda di fare un solo giro ciascuno: Silvia e Roberto devono tornare mestamente indietro.

- C'è l’espresso! Possiamo rifarci la bocca dalla schifezza di prima ... – Marcello era in bagno da mezz’ora.

Le tazze sono pulite, i cucchiaini d’argento, la zuccheriera tempestata di diamanti ma il liquame è lo stesso del Shazarwan, per renderlo ristretto ne hanno messo meno: nessuno protesta. Molto meglio il the e le tisane alla frutta per contrastare l’aria condizionata e sciogliere la sottile rugiada dai baffi di Sandro e dalla mia barba. Nessuno ha la forza di approfittare della discoteca dell'hotel. Verso le undici, dopo aver pagato più o meno quanto la cena e senza lasciare un ryal di mancia ai rassegnati camerieri, lasciamo il Palace. Le strade sono deserte, i negozi chiusi; la vecchia città riposa, scura e silenziosa. Poche luci ai piani alti e qualche ululato a quelli bassi sono gli unici segni di vita. Dentro e fuori dalle mura, i mendicanti riposano avvolti nei  mantelli o rovistano tra i mucchi di immondizia. In silenzio attraversiamo la piazza; la stanchezza e il silenzio ci accompagnano fino al Gasmy ma, prima di entrare, come per un tacito accordo, arriviamo al muretto da dove si può ammirare Sanaa addormentata alla luce della luna. In queste prime ventiquattr'ore l'abbiamo vista di notte e di giorno, inondata di sole e allagata dalla pioggia, dall'alto e dal basso, deserta e brulicante di vita, ricca e povera, assordante e silenziosa. Prima di addormentarmi sbircio, tra i fiori stilizzati delle grate, il profilo del vecchio minareto, la sagoma infilata tra le stelle, il minaccioso altoparlante puntato verso le nostre finestre.