CAPITOLO XV

Il colloquio riservato tra il sen. Giulio Andreotti e Andrea Manciaracina, svoltosi all’Hotel Hopps di Mazara del Vallo in data 19 agosto 1985

 

 

In data 19 agosto 1985 il sen. Andreotti (allora Ministro degli Affari Esteri), giunto a Mazara del Vallo, dopo avere assistito (essendovi stato invitato in forma ufficiale) ad una seduta del Consiglio Comunale riguardante i rapporti intercorrenti tra la Sicilia e la Tunisia con riferimento alla pesca nel Canale di Sicilia, si recò presso l'Hotel Hopps (v. la deposizione resa dal teste Misiti all’udienza del 27 gennaio 1997).

All’interno dell’albergo, il sen. Andreotti ebbe un incontro con il giovane Andrea Manciaracina, come ha riferito il Sovrintendente Capo di P.S. Francesco Stramandino, che espletava il servizio di ordine pubblico nel medesimo luogo.

E’ stato inserito nel fascicolo per il dibattimento, come atto irripetibile, il verbale di assunzione di informazioni rese dallo Stramandino al P.M. in data 19 maggio 1993. In questa circostanza, lo Stramandino dichiarò quanto segue:

"Il giorno 19.8.1985, in occasione di una visita a Mazara del Vallo dell’on. Giulio ANDREOTTI, fui incaricato, dall’allora Dirigente del Commissariato di P.S. di Mazara del Vallo dott. GERMANÀ, di sovraintendere al servizio d’ordine predisposto presso l’Hotel HOPPS, ove il parlamentare doveva recarsi e pernottare.

Era con me altro personale del Commissariato, tra cui ricordo l’Agente di P.S. Giorgio MANGIARACINA.

Il mio compito era quello di controllare le sale dell’albergo onde prevenire pericolo di attentati, nonché di controllare le persone che entravano, per verificare se non compivano qualche atto sospetto (come ad es. lasciare borse o bagagli in qualche sala).

L’on. ANDREOTTI, provenendo dal Consiglio Comunale, giunse all’Hotel HOPPS ove tenne un breve discorso in una delle sale.

Dopo di ciò, io notai, innanzi alla porta di una saletta dove si trovava un apparecchio televisivo, l’on. ANDREOTTI, il Sindaco di Mazara del Vallo ZACCARIA, ed un giovane che riconobbi in MANCIARACINA Andrea. Riconobbi il giovane perché l’avevo già visto in Commissariato e sapevo che era uno dei figli di MANCIARACINA Vito, quest’ultimo persona che sapevo essere agli arresti domiciliari. Dico meglio, in quella circostanza ritenevo che MANCIARACINA Vito fosse agli arresti domiciliari; poi ho appreso che era sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale della P.S..

Ebbene, notai – come ho detto – i tre insieme, e vidi che ZACCARIA presentava il Giovane MANCIARACINA all’on. ANDREOTTI, che gli strinse la mano.

Ricordo che rimasi un po’ sorpreso di ciò, poiché pensai che l’on. ANDREOTTI trattava cortesemente una persona del tipo di MANCIARACINA, e magari poi a noi della polizia neanche ci guardava.

Dopo la presentazione, l’on. ANDREOTTI e MANCIARACINA Andrea entrarono nella saletta di cui ho detto, e chiusero la porta.

Il Sindaco ZACCARIA rimase invece fuori della stanza, davanti alla porta chiusa, senza muoversi.

Passarono circa 10 minuti, ho individuato questo periodo di tempo perché ricordo che accesi una sigaretta, la finii, e la porta si riaprì dopo qualche minuto che io avevo smesso di fumare (in genere, per fumare una sigaretta, io impiego 5 minuti circa).

Dopo 10 minuti circa, quindi, la porta si riaprì, il giovane MANCIARACINA uscì, e si introdusse nella stanza il Sindaco ZACCARIA, che richiuse la porta dietro di sé.

Io seguii il MANCIARACINA, il quale si diresse verso l’uscita dell’Hotel, e andò via.

Ricordo che – mentre l’on. ANDREOTTI e il giovane MANCIARACINA erano chiusi in quella saletta – io vidi il dott. GERMANÀ, e gli dissi: "Dottore, lo sa chi c’è lì dentro con ANDREOTTI? Uno dei figli di MANCIARACINA"; vede, tante volte a noi non ci calcolano, e poi ricevono queste persone".

Il dott. GERMANÀ non fece alcun commento.

L‘on. ANDREOTTI poi pernottò in albergo, e io rimasi di vigilanza per tutta la notte nel corridoio ove si trovava la sua camera.

D.R.

Per quanto io ricordo, non vidi l’on. ANDREOTTI intrattenersi a parlare con nessun altro, né in quella stanza, né altrove nell’albergo.

Solo successivamente egli cenò insieme a varie persone. Dopo di ciò si ritirò nella sua camera.

D.R.

L’incontro tra l’on. ANDREOTTI ed il MANCIARACINA si svolse nel tardo pomeriggio".

Nulla consente di porre in dubbio l’intrinseca attendibilità delle dichiarazioni dello Stramandino, che si caratterizzano per la loro spontaneità, precisione, coerenza logica e ricchezza di dettagli, oltre che per la provenienza da una fonte del tutto disinteressata.

Dalla deposizione dello Stramandino si desume che l’incontro tra il sen. Andreotti ed Andrea Manciaracina ebbe un carattere di particolare riservatezza, tanto che il Sindaco di Mazara del Vallo non vi prese parte e rimase davanti alla porta della saletta, nella quale non entrò nessun’altra persona.

Non vi è dubbio che in tale occasione ad Andrea Manciaracina (il quale aveva soltanto 23 anni) sia stato usato un trattamento di assoluto riguardo, consentendogli di intrattenersi in un colloquio di circa dieci minuti con il Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Italiana, con modalità idonee a garantire il mantenimento del segreto sul contenuto della conversazione.

Una simile cautela trova la propria logica spiegazione nella particolare delicatezza dell’oggetto del colloquio, cui, evidentemente, era opportuno che non presenziasse neanche il Sindaco di Mazara del Vallo, che pure aveva presentato Andrea Manciaracina al sen. Andreotti subito prima.

La rilevanza e la delicatezza del colloquio dovevano essere ben note al Sindaco, poiché quest’ultimo non ebbe difficoltà ad attendere, immobile, fuori della porta della saletta in cui il sen. Andreotti ed il giovane Manciaracina si trovavano riuniti.

E’, poi, assai significativo che, secondo il ricordo dello Stramandino, a nessun’altra persona sia stata offerta, in quella circostanza, la possibilità di incontrare da sola il sen. Andreotti.

Resta pertanto da verificare quali ragioni potessero giustificare le particolari modalità con le quali si svolse il suddetto incontro.

Quanto alla personalità di Andrea Manciaracina, deve in primo luogo osservarsi che il medesimo soggetto venne formalmente affiliato all’organizzazione mafiosa "Cosa Nostra" nel 1985 o nel 1986 (e dunque in un periodo pressoché contestuale o comunque di poco successivo all’incontro con il sen. Andreotti), e nei primi mesi del 1992 fu nominato "reggente" del "mandamento" di Mazara del Vallo, unitamente a Vincenzo Sinacori.

Queste circostanze sono state riferite all’udienza dibattimentale del 22 aprile 1997 dallo stesso Sinacori, il quale ha iniziato a collaborare con la giustizia alla fine del mese di settembre 1996, dopo essere stato tratto in arresto.

Il Sinacori ha chiarito che l’attribuzione della carica di "reggente" del "mandamento" ad Andrea Manciaracina dipese da una scelta di Salvatore Riina, che riponeva una particolare fiducia nel medesimo soggetto ("il MATTEO MESSINA DENARO, dopo che arrestarono (…) l'AGATE MARIANO nel 1992, mi portò da RIINA, e RIINA mi diede questo incarico, solo che (…) mi accostò il ANDREA MANGIARACINA, perché il ANDREA MANGIARACINA era un uomo di fiducia del RIINA (…) anche io lo ero, però di più il ANDREA MANGIARACINA").

Il collaborante ha aggiunto che Andrea Manciaracina ed il padre Vito Manciaracina (formalmente affiliato all’organizzazione mafiosa intorno al 1989), ancor prima di divenire "uomini d’onore", erano tra le poche persone a conoscere il luogo dove Salvatore Riina conduceva la sua latitanza e ad avere la possibilità di incontrarlo direttamente presso la sua abitazione ["sia lui che suo padre, o prima suo padre e poi lui, anche se non erano uomini d'onore, erano (…) delle poche persone che sapevano (…) direttamente dove andare a trovare il RIINA, cioè ci andavano direttamente a casa, cosa che gli altri (…) non potevano fare"], anche perché erano intestatari di terreni in realtà appartenenti al Riina, per il quale fungevano da prestanome; questo rapporto, anche di affari, tra la famiglia Manciaracina ed il Riina si protraeva da almeno vent’anni; Vito Manciaracina era stato amministratore unico della società "Stella d’Oriente", in cui avevano prestato la propria attività lavorativa lo stesso Sinacori e Pietro Giambalvo ("uomo di fiducia" di Salvatore Riina).

Dalla deposizione del Sinacori si desume, quindi, che Andrea Manciaracina, al momento del suo incontro con il sen. Andreotti, era legato da un rapporto di fiducia particolarmente stretto con il capo di "Cosa Nostra" Salvatore Riina. Tale rapporto avrebbe, in seguito, determinato l’attribuzione al medesimo Andrea Manciaracina di una posizione di vertice all’interno di "Cosa Nostra".

Il Sinacori ha altresì riferito che egli stesso ed Andrea Manciaracina, nella loro qualità di "reggenti" del "mandamento" di Mazara del Vallo, intorno alla fine del 1993 presero parte ad una riunione di esponenti mafiosi della provincia di Trapani (tra cui il capo del "mandamento" di Castelvetrano Matteo Messina Denaro, il capo del "mandamento" di Trapani Vincenzo Virga, un rappresentante del "mandamento" di Alcamo, e tutti i componenti della "famiglia" di Salemi, capeggiata da Gaspare Casciolo), organizzata in un fondo rustico in territorio di Salemi per dirimere alcuni contrasti di natura economica insorti tra Gaetano Sangiorgi (genero di Antonino Salvo) ed Antonio Salvo (nipote di Ignazio Salvo), entrambi "uomini d’onore" della "famiglia" di Salemi.

Quanto alla credibilità del collaborante Sinacori, può sicuramente formularsi un giudizio positivo, sulla base dei rilievi formulati precedentemente (v. al riguardo il capitolo concernente i rapporti del sen. Andreotti con i cugini Salvo).

Nelle sue dichiarazioni, sopra riassunte, è riscontrabile un elevato grado di attendibilità intrinseca, tenuto conto della loro spontaneità, precisione, univocità e coerenza logica, nonché dell’ampio grado di conoscenza dei fatti che il Sinacori ha mostrato di avere.

La suesposta deposizione del Sinacori attiene a vicende direttamente conosciute dal medesimo soggetto - per effetto del suo anteriore radicamento nella realtà criminale, quale esponente di primaria importanza dell’organizzazione mafiosa nella provincia di Trapani e referente dei "corleonesi" in tale zona - e da lui successivamente riferite in piena autonomia e senza alcun condizionamento, nel quadro di una seria scelta di collaborazione con l’autorità giudiziaria.

Certamente apprezzabili sono l'intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni del Sinacori, che risultano connotate dai requisiti della genuinità, della costanza, della logica interna e della puntualità specifica nella descrizione dei fatti, enunziati con notevole ricchezza di particolari e di riferimenti descrittivi, senza limitarsi al solo oggetto delle domande formulate.

Il raffronto tra le circostanze riferite dal suddetto collaboratore di giustizia e gli ulteriori elementi di prova acquisiti consente, poi, di pervenire ad un giudizio di sicura attendibilità anche estrinseca delle sue dichiarazioni.

Sul punto, occorre in primo luogo osservare che l’inserimento di Andrea Manciaracina nell’organizzazione mafiosa, ed i rapporti da lui intrattenuti con Salvatore Riina, trovano puntuale conferma nelle circostanziate deposizioni rese da Gioacchino La Barbera e da Baldassare Di Maggio (entrambi esponenti mafiosi dello schieramento "corleonese" nel periodo anteriore alla loro scelta di collaborazione con la giustizia).

Il La Barbera all’udienza del 9 luglio 1996 ha affermato che Andrea Manciaracina, "uomo d’onore" molto vicino a Vincenzo Sinacori e a Matteo Messina Denaro, nell’estate 1992 conduceva la propria latitanza in un villino sito a Mazara del Vallo. In tale immobile, nel medesimo periodo, si svolse una riunione tra Gioacchino La Barbera, Andrea Manciaracina, Salvatore Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro, Antonino Gioè, Andrea Gangitano, Giovanni Bastone, nel corso della quale si discusse di un omicidio da commettere nella zona di Trapani.

Il Di Maggio all’udienza dibattimentale del 12 dicembre 1996 ha dichiarato di avere conosciuto in un primo tempo Vito Manciaracina, presentatogli come "uomo d’onore" della "famiglia" di Mazara del Vallo da Francesco Messina (detto "Mastro Ciccio", componente della medesima cosca mafiosa) in occasione di un incontro presso l’impianto di produzione di calcestruzzi di Giovan Battista Agate, e di avere successivamente conosciuto Andrea Manciaracina, anch’egli "uomo d’onore", nel corso di un incontro con Salvatore Riina presso un immobile sito a Palermo, nelle vicinanze del supermercato "SIGROS".

Lo spessore delinquenziale di Andrea Manciaracina e del padre Vito, ed il loro radicato collegamento con l’organizzazione mafiosa, emergono con chiarezza anche dalle deposizioni testimoniali del dott. Francesco Misiti (Vice Dirigente della Squadra Mobile della Questura di Palermo, in passato Dirigente del Commissariato di P.S. di Mazara del Vallo) e del M.llo Francesco Salvatore Borghi.

All’udienza del 27 gennaio 1997 il dott. Francesco Misiti ha specificato che, nel periodo in cui avvenne il suddetto incontro con il sen. Andreotti, Vito Manciaracina era sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S.; che Vito Manciaracina era socio, insieme ad alcuni "uomini d’onore" della "famiglia" di Mazara del Vallo quali Giovan Battista Agate (fratello di Mariano Agate) e Calcedonio Bruno, della società "Stella d'Oriente", costituita dal commercialista Giuseppe Mandalari, la quale aveva come scopo l'importazione di pesce dai paesi orientali; che Andrea Manciaracina fu indicato in un rapporto trasmesso nel 1987 dal Commissariato di P.S. di Mazara del Vallo alla Procura della Repubblica di Marsala come "uomo d'onore" della "famiglia" di Mazara del Vallo, fu colpito successivamente da un mandato di cattura internazionale emesso dal Dott. Falcone per il delitto di riciclaggio, fu catturato nel 1991, fu successivamente sottoposto alla misura cautelare dell’obbligo di dimora, si rese irreperibile nel 1992 pochi giorni prima della "strage di Capaci", fu destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare emessa nel gennaio 1996 per reati di associazione mafiosa e di omicidio, e rimase in stato di latitanza.

All’udienza del 20 febbraio 1997 il teste M.llo Francesco Salvatore Borghi ha riferito che:

- Vito Manciaracina, zio dell’indiziato mafioso Andrea Gangitano, iniziò ad essere oggetto di attente indagini dopo che in data 12 febbraio 1980 la Guardia di Finanza di Palermo procedette all’arresto del nipote, trovato in possesso di somme di denaro ritenute provento del traffico internazionale di sostanze stupefacenti;

- in tale circostanza, infatti, all’interno dell’abitazione di Vito Manciaracina fu trovata una contabilità concernente svariati milioni di lire e versamenti in dollari, che gli investigatori ritennero di ricondurre all’attività svolta dal nipote Andrea Gangitano in seno alla società "Stella d’Oriente" di Mazara del Vallo;

- nel 1980 Vito Manciaracina fu nominato direttore commerciale della società "Stella d’Oriente", costituita il 26 febbraio 1974 da Giuseppe Di Stefano (indiziato mafioso, pregiudicato per omicidio, traffico di stupefacenti ed altro, nonché cugino del capo della "famiglia" di Mazara del Vallo Mariano Agate) e dal commercialista Giuseppe Mandalari (soggetto legato ai "corleonesi" ed imputato di associazione per delinquere di tipo mafioso);

- la società aveva lo scopo di commercializzare il prodotto ittico nei mercati dell’Italia settentrionale, ma questa attività era considerata dagli organi di polizia una "copertura" di quella reale, consistente nella gestione di un vasto traffico di sostanze stupefacenti e del contrabbando di tabacchi;

- della stessa società erano soci, tra gli altri, Mariano Agate (capo della cosca mafiosa di Mazara del Vallo), Giovan Battista Agate ("uomo d’onore" della medesima cosca e fratello di Mariano Agate), Calcedonio Bruno, Giuseppe Di Stefano, Salvatore Tamburello (tutti "uomini d’onore" della cosca mazarese), Gilda Burlando (vedova del contrabbandiere genovese Giovanni Bardica), Paola Cardinetto (cognata di Gaetano Riina, fratello del capo di Cosa Nostra Salvatore Riina), Vito Maggio (cognato di Gaetano Riina), Iolanda Cristoforetti (figlia di Giuseppe Cristoforetti, capo di un’organizzazione dedita al contrabbando internazionale di tabacchi, poi inseritosi nel traffico di sostanze stupefacenti), Maria Orlando (madre dei fratelli Nuvoletta, noti trafficanti di sostanze stupefacenti legati ai "corleonesi"), Antonietta Di Costanzo (moglie del contrabbandiere Antonio Orlando, zio dei fratelli Nuvoletta), Marianna Mauro (moglie di Francesco Messina, detto "Mastro Ciccio", considerato il "cassiere" della cosca mazarese, cui era affiliato), Rosa Riggio (moglie di Giovanni Bastone, "uomo d’onore" della cosca mazarese);

- l’attività della società "Stella d’Oriente" formò oggetto di un rapporto giudiziario redatto in data 14 dicembre 1987 da parte del Commissariato di P.S. di Mazara del Vallo, che segnalò alla Procura della Repubblica di Marsala 73 persone ritenute responsabili di associazione per delinquere di tipo mafioso ed altri reati;

- a seguito di questa indagine fu emesso a carico di Vito Manciaracina e di altri 13 appartenenti al sodalizio criminoso mazarese, in data 9 marzo 1988, un ordine di cattura dalla Procura della Repubblica di Marsala per il delitto di associazione di stampo mafioso ed altri reati;

- nei confronti di Vito Manciaracina fu poi adottata in data 24 marzo 1994 un’ordinanza di custodia cautelare in carcere dal G.I.P. presso il Tribunale di Palermo per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.; il medesimo soggetto rimase latitante;

- già in data 7 giugno 1983 la Questura di Trapani aveva inoltrato al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala la proposta per l’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale della P.S. nei confronti di Vito Manciaracina;

- Vito Manciaracina venne sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale della P.S. per la durata di tre anni nonché al sequestro dei beni con decreto emesso dal Tribunale di Trapani in data 19 luglio 1985; l’efficacia della predetta misura di prevenzione rimase interrotta a seguito dell’arresto del soggetto, avvenuto in data 9 marzo 1988, e riacquistò operatività in data 3 luglio 1991;

- Andrea Manciaracina fu destinatario di un mandato di cattura emesso dal Giudice Istruttore di Palermo Dott. Falcone in data 2 aprile 1988 in relazione al delitto di cui agli artt. 110, 112 n.1, 81 cpv. e 648 c.p., per avere in concorso con altri imputati ricevuto ingenti quantitativi di valuta ammontanti a diversi miliardi di lire provenienti da delitti concernenti anche il traffico internazionale di stupefacenti; nel corso delle indagini si accertò che le predette somme di denaro venivano convogliate sin dal 1986 in conti correnti bancari svizzeri accesi da Vito Roberto Palazzolo, elemento di spicco della "famiglia" corleonese, originario di Cinisi e già strettamente legato a Gaetano Badalamenti;

- dopo un periodo di latitanza, Andrea Manciaracina venne catturato il 31 Gennaio 1991; in data 30 luglio 1991 fu però scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare;

- in seguito, Andrea Manciaracina fu colpito dalle ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse rispettivamente il 15 giugno 1992 dal G.I.P. presso il Tribunale di Palermo per il reato di riciclaggio ed il 1° marzo 1993 dal G.I.P. presso il Tribunale di Marsala per il delitto di associazione mafiosa; il medesimo soggetto si rese latitante.

Ciò posto, deve osservarsi che le particolari modalità dell’incontro con il sen. Andreotti sono perfettamente spiegabili se si tiene conto dello stretto rapporto fiduciario che già allora intercorreva tra Andrea Manciaracina e Salvatore Riina.

La consapevolezza di trovarsi di fronte ad una persona che godeva dell’appoggio del capo di "Cosa Nostra" costituiva certamente un fattore idoneo ad ingenerare nel Sindaco di Mazara del Vallo un forte timore reverenziale, inducendolo ad aderire prontamente alla sua richiesta di presentargli il sen. Andreotti, a consentirgli un colloquio riservato con quest’ultimo, e ad attendere pazientemente fuori della porta della saletta in cui si svolgeva l’incontro, per evitare che altri potessero farvi ingresso.

Non si comprende quale altra ragione potesse spingere il Sindaco della città ad adoperarsi per permettere esclusivamente ad Andrea Manciaracina di intrattenersi a colloquio con il sen. Andreotti, ad astenersi dal partecipare al loro incontro, ed a garantirne nel contempo la segretezza, manifestando la più ampia disponibilità e condiscendenza, e giungendo a porsi in uno stato di sostanziale soggezione, nei confronti di un soggetto che - se si prescinde dal suo collegamento con il vertice di una pericolosa organizzazione criminale - era allora semplicemente un giovane dell’età di 23 anni, operante nel settore della pesca.

Se si fosse trattato di una semplice richiesta di intervento o di aiuto rivolta al sen. Andreotti da Andrea Manciaracina in relazione alla sua attività lavorativa o alle sue esigenze personali e familiari, non si vede perché il Sindaco avrebbe dovuto astenersi dal presenziare al colloquio, dopo averlo favorito: va, anzi, osservato che, in questa ipotesi, l’intervento del Sindaco avrebbe, ovviamente, rafforzato l’efficacia ed il "peso" politico della richiesta formulata da Andrea Manciaracina.

E’ pure evidente che, qualora l’interessamento del Sindaco fosse dipeso semplicemente dal suo intento di non scontentare un possibile elettore (eventualmente disposto ad adoperarsi attivamente per fini propagandistici in successive competizioni elettorali), analoghe ragioni clientelari avrebbero determinato una moltiplicazione degli incontri di persone del luogo con il sen. Andreotti in occasione della sua presenza presso l’Hotel Hopps.

Il fatto che, invece, la possibilità di avere un colloquio diretto e riservato con il sen. Andreotti sia stata concessa al solo Andrea Manciaracina, costituisce un significativo indice della assoluta peculiarità delle motivazioni di un simile trattamento di riguardo, comprensibile solo alla luce del rapporto che legava il giovane al capo di "Cosa Nostra", allora latitante e dotato, oltre che di una enorme capacità di intimidazione, anche di una forte influenza sui più vari settori della vita sociale, economica e politica della Sicilia.

Della circostanza che lo Stramandino avesse assistito ad un incontro suscettibile di connotare negativamente la posizione del sen. Andreotti divennero successivamente consapevoli sia la moglie del Sinacori (divenuto nel frattempo "reggente" del "mandamento" di Mazara del Vallo unitamente ad Andrea Manciaracina), sia lo stesso imputato.

Sul punto, assume pregnante rilievo la deposizione resa all’udienza del 19 maggio 1998 dal teste Baldassare Pernice (sacerdote, attualmente direttore della Caritas della diocesi di Frascati, già parroco della Parrocchia di Cristo Re, a Roma), addotto dalla difesa.

Il teste, dopo avere premesso di avere conosciuto il sen. Andreotti intorno al 1980-81 in occasione di alcune trattative sindacali da lui condotte mentre espletava il mandato di segretario esterno del sindacato regionale della C.I.S.L. Metalmeccanici, ha precisato di essere zio di Vincenzo Sinacori, essendo quest’ultimo figlio di una sua sorella.

Il Pernice ha quindi riferito di avere appreso in data 19 aprile 1993, attraverso la consultazione del "Televideo", che la Procura della Repubblica di Palermo aveva depositato alcuni atti relativi alla presenza del sen. Andreotti, seduto accanto ai parenti del Sinacori, in occasione della consacrazione della Parrocchia di Cristo Re, avvenuta il 27 novembre 1987, di essersi recato a Mazara del Vallo verso la fine del mese di aprile 1993, e di avere fatto poi ritorno a Roma.

Il teste ha evidenziato che successivamente la moglie di Vincenzo Sinacori, indicata con il diminutivo di "Nuccia", gli telefonò per comunicargli qualcosa in merito ad "una dichiarazione" dello Stramandino, il quale si trovava in cattive condizioni di salute e successivamente morì [sul punto, il teste ha aggiunto: "perché forse poteva (…) denunciare determinate cose, morendo non avrebbe più potuto dire niente, questo penso"]; la moglie del Sinacori evidenziò che lo Stramandino "avrebbe potuto testimoniare qualche cosa" e chiese al Pernice di riferire ciò al sen. Andreotti.

Il ricordo del Pernice in ordine al contenuto della comunicazione telefonica è apparso alquanto sbiadito; il teste, infatti, ha specificato di rammentare soltanto che lo Stramandino era "un poliziotto che stava male (…), che poteva morire e forse poi non poteva testimoniare".

Il teste ha affermato di essersi quindi recato dal sen. Andreotti e di avergli riferito il contenuto della conversazione telefonica, esplicitando: "Nuccia la moglie di Vincenzo SINACORI che è latitante (…) mi ha telefonato chiedendomi di dirti questo"; il sen. Andreotti rispose che ne avrebbe parlato con i suoi avvocati per vedere di che cosa si trattava.

Il teste ha aggiunto che in un secondo incontro svoltosi verosimilmente nel corso di quella stessa settimana, e comunque nel maggio 1993, il sen. Andreotti gli fece presente che il telefono della sua parrocchia "era sotto controllo". Sul punto, il Pernice ha chiarito di non avere domandato da quale fonte il sen. Andreotti avesse appreso questa notizia, specificando: "non mi interessava, non avevo problemi di segretezza".

L’attivo interessamento esplicato dalla moglie del Sinacori al fine di trasmettere al sen. Andreotti la notizia del probabile futuro decesso dello Stramandino, e dell’eventualità che costui rendesse la propria deposizione, presuppone necessariamente la chiara consapevolezza delle conseguenze pregiudizievoli che sarebbero potute scaturire dalla stessa deposizione con riguardo alle vicende processuali del sen. Andreotti.

Un siffatto interessamento, compiuto dalla moglie di un latitante mafioso giunto a ricoprire, insieme ad Andrea Manciaracina, una posizione di preminenza nell’ambito del "mandamento" di Mazara del Vallo, è coerente con il generale orientamento dell’organizzazione mafiosa, volto a impedire la ricostruzione dei contatti intercorsi tra persone ad essa riconducibili ed esponenti politici.

Pienamente consapevole della portata delle dichiarazioni dello Stramandino, e delle ragioni dell’interessamento spiegato dalla moglie del Sinacori, era il sen. Andreotti, il quale, pochi giorni dopo avere appreso dal Pernice le suesposte notizie, lo avvertì dell’attività di intercettazione in corso sull’utenza telefonica della sua parrocchia, all’evidente scopo di indurlo a mantenere la massima cautela in eventuali successive conversazioni telefoniche aventi analogo oggetto.

Appare del tutto inattendibile la versione dell’episodio prospettata dall’imputato nelle dichiarazioni spontanee rese alle udienze del 20 maggio 1998 e del 29 ottobre 1998.

All’udienza del 20 maggio 1998 il sen. Andreotti ha compiuto le seguenti affermazioni: "do per scontata la natura religiosa e sociale della mia presenza alla Consacrazione e ad altre cerimonie pubbliche della parrocchia di don PERNICE, prete operaio e dirigente sindacale che conosco come tale da molti anni. Nel maggio 1993, consultata la mia agenda posso precisare che si tratta del 19 maggio alle ore 9, don PERNICE, che mi aveva chiesto un appuntamento urgente venne a dirmi che una sua nipote che lavorava in una struttura sanitaria a Mazara del Vallo gli aveva telefonato molto emozionata, perché aveva appreso che si stava segretamente preparando una macchinazione, utilizzando un malato di cancro allo stato terminale per fargli rilasciare dichiarazioni contro di me. Ricongiunsi questa notizia ad un passo della seconda integrazione di richiesta della autorizzazione a procedere, dove si riferiva in modo assai singolare sulla mia visita del 1985 a Mazara, unica nella mia vita, fatta anticipando di mezza giornata l’andata al convegno di Erice per portare solidarietà alle popolazioni colpite dall’affondamento di un peschereccio in un conflitto verso le coste africane. Ringraziai don PERNICE e gli dissi che avrei informato i miei avvocati, che per altro mi spiegarono che sul momento nulla potevano e che si riservano, appena consentito, di consultare gli atti, per vedere se vi fosse stata una violazione dell’obbligo di incidente probatorio. In effetti dagli atti si desume che il signor STRAMANDINO fu interrogato in Mazara il 19 maggio e morì il 31 maggio. Gli avvocati mi dissero che comunque avrebbero chiesto la testimonianza di don PERNICE in dibattimento. Il secondo punto riguarda il controllo telefonico della parrocchia di don PERNICE: nel 1993 non avevo la minima notizia che fossero state attivate intercettazioni. Lo seppi parecchio tempo dopo, quando furono depositati ampi volumi di intercettazioni, che la Procura ha conosciuto prima di noi. Rimasi allibito e sconcertato per molte conversazioni più che frivole e non poche boccaccesche che provenivano da quell’apparecchio. Ritenni mio dovere di coscienza di informare il parroco, che ne restò sorpreso non meno di me. Mi spiegò che nell’ambulatorio esistente nel compendio parrocchiale prestavano servizio alcuni giovani, inviati lì in servizio sostitutivo di quello militare. Avrebbe provveduto a far cessare questo scandalo e non dubito che l’abbia fatto. Pertanto è priva di fondamento l’ipotesi di un rapporto quasi cospirativo con questo parroco e la sua chiesa, ancor più con la sua famiglia".

All’udienza del 29 ottobre 1998 l’imputato ha dichiarato: "comprendo dalla introduzione del tema nel processo che si è voluto tentare di rilevare un collegamento tra la mia persona e soggetti di cui si afferma l’appartenenza a "cosa nostra" anche in relazione ad una mia partecipazione ad una cerimonia religiosa, avvenuta nel 1987. E precisamente della mia partecipazione alla consacrazione della chiesa di Cristo Re alla periferia di Roma, della quale era all’epoca parroco don Pernice. Tale tentativo riposerebbe sul fatto che alla stessa cerimonia partecipò un parente di don Pernice, tale Vincenzo SINACORI appartenente a "cosa nostra". Faccio presente che conoscevo don Pernice da vari anni. Era ed è un prete operaio e dirigente sindacale della CISL e avevo con lui anche per questi motivi frequenti rapporti. Che don Pernice fosse parente di tale Sinacori (…) E che questo Sinacori dovesse partecipare alla stessa cerimonia sono fatti a me totalmente ignoti. Non insisto neppure sul fatto che io mi trovavo in una fila di banchi diversa da quella del Sinacori, perché tutto è superato da questa mia perentoria e inconfutabile affermazione mai saputo niente del signor Sinacori e della sua appartenenza a "cosa nostra". Sempre a proposito di don Pernice debbo aggiungere richiamandomi per altro alle mie dichiarazioni spontanee del 20 maggio 1998, che qui naturalmente confermo integralmente e che mi permetto semplicemente di riassumere per ragioni di brevità, in data 19 maggio 1983 (si tratta in realtà del 1993: n.d.e.) per come ho potuto ricavare da una mia agenda ricevetti una telefonata di don Pernice, che molto agitato mi comunicò di aver appreso da una sua nipote che svolgeva l’attività di infermiera in uno ospedale ove era ricoverato tale Stramandino ammalato di cancro allo stato terminale, che in quello stesso giorno si stava organizzando, queste più o meno furono le parole, una macchinazione in mio danno cercando di sfruttare una testimonianza in articulo mortis dello Stramandino, appartenente alla Polizia di Stato. Mi sembra che don Pernice in quell’occasione fece il nome della sua nipote come tale Nuccia, ma sono sicuro che non fece riferimento a rapporti di parentela di questa sua nipote con il Sinacori, di cui ho prima parlato. Meno che mai del pari egli fece riferimento allo stato di latitanza del Sinacori e alle ragioni di questa latitanza. Don Pernice è evidentemente caduto in un equivoco quando ha affermato che io avrei conosciuto la nipote portatrice di tale notizia e avrei altresì saputo del Sinacori e della sua situazione. Tanto è vero che a seguito del controesame della mia difesa ha finito con il riconoscere che tale conoscenza da parte mia per il semplice fatto che quei giorni sui televisori si era, appunto, parlato del Sinacori e del Mangiaracina poteva esserci. In realtà io neppure dalla televisione avevo appreso della esistenza e della qualità di queste persone, che tra l’altro non mi avrebbe colpito. Ringraziai don Pernice della notizia che mi aveva riferito e mi affrettai a darne comunicazione ai miei avvocati, i quali fecero le osservazioni di cui ho già parlato nella mia dichiarazione spontanea, sottolineando che la notizia riferita in quel momento non consentiva loro alcuna iniziativa e che si riservavano di assumere quelle necessarie a mia difesa nel momento in cui sarebbe stato chiaro l’episodio attraverso il deposito degli atti. Faccio presente che effettivamente, risulta in modo formale, lo Stramandino morì pochi giorni dopo e precisamente il 31 maggio 1993, è un episodio molto grave. Per quanto riguarda l’affermazione di don Pernice secondo cui io l’avrei avvertito che il suo telefono era sotto controllo. Don Pernice cade in un equivoco e confonde i tempi, leggendo gli atti di questo processo dopo il loro deposito e quindi in epoca diversa e successiva da quella della comunicazione sopra detta di don Pernice, ho appreso che il telefono del sacerdote era sotto controllo. E ho letto con stupore più di un volume di trascrizioni, con stupore e con qualche dispiacere, perché il contenuto di molte di queste conversazioni effettuata usando l’utenza della parrocchia era spesso frivolo e talvolta addirittura di natura boccaccesca e certamente non consoni alla dignità di don Pernice e di una parrocchia. Mi sembrò quindi doveroso avvertire don Pernice che il suo telefono era o era stato sotto controllo. Quanto dell’uso che del telefono veniva fatto, seppi da lui che si trattava di giovani obiettori di coscienza che prestavano servizio sostitutivo nell’ambulatorio sito nell’edificio parrocchiale e a disposizione dei poveri, anche di altre zone. Per concludere sull’argomento faccio presente che io mi sono limitato a trasferire la notizia ai miei avvocati e che non ho dato incarico alcuno a don Pernice di svolgere accertamenti, non l’ho invitato a farmi mettere in contatto con sua nipote, non ho personalmente proceduto né ho dato incarico ad altri di compiere sull’argomento alcun tipo di verifiche. Facendo mente locale a questo episodio e attingendo alle carte processuali, ho ricollegato, ma naturalmente si tratta di miei attuali deduzioni logiche, la persona Stramandino alla mia visita a Mazara del Vallo in occasione della quale mi era presentato perché intendeva rappresentarmi un suo problema. Tal Andrea Mangiaracina, tra i molti che mi furono presentati senza che alcuno si fosse preoccupato di illustrarmi la sua persona e mi avesse sconsigliato un tale incontro. Faccio presente a questo proposito e per completare per economia l’argomento, ed il rilievo potrebbe valere per le decine o centinaia di persone che nel corso della mia vita mi hanno rappresentato loro problemi individuali o collettivi, hanno avanzato istanze, hanno presentato, se mi si consente l’espressione, suppliche o richieste di interventi e che salvo il caso in cui qualcheduno non mi avesse sconsigliato un incontro o salvo a casi a me ignoti di interventi per impedire che persone mi si avvicinassero. Era da un lato per me naturale ascoltare le persone che desideravano parlare con me in occasione di queste mie visite pubbliche, dall’altra parte era anche impossibile da parte mia sottrarmi a tali contatti o addirittura pretendere l’anamnesi personale di coloro che intendevano parlare con me. Aggiungo che talvolta qualcuno ha avuto la sensibilità di sconsigliarmi certi incontri e certi contatti e naturalmente quando questo è avvenuto ho preso in considerazione le indicazioni che mi erano state fornite. Ricordo per esempio che al termine di un comizio fatto proprio in Sicilia ad Alcamo negli anni 50, il comandante dei Carabinieri mi sconsigliò di accogliere se lo avessi ricevuto un invito a cena dal Sindaco locale, pensai che dipendesse dal momento elettorale e che la mia presenza comportasse un impiego di Carabinieri necessario altrove, i comizi si susseguivano uno dietro l’altro. Presi comunque nella dovuta attenzione il consiglio, tanto che quando ricevetti il relativo invito mi guardai bene dall’accettarlo e accampando una scusa mi sottrassi a quella cena e tornai immediatamente a Palermo. Nel caso in esame invece il tramite per questo incontro con Mangiaracina e con tutti gli altri che facevano la fila lì a Mazara del Vallo quella sera fu lo stesso Sindaco di Mazara del Vallo, che mi pregò di ascoltare molte persone che lo chiedevano. Nessuno dei presenti ufficiali, autorità locali eccetera mi sconsigliò l’incontro con il MANGIARACINA, che d’altra parte vedo dagli atti era allora giovanissimo e forse insospettabile. La visita a Mazara effettuata in occasione della mia venuta in Sicilia per recarmi a Erice al convegno internazionale di fisica, fu compiuta anticipando di un giorno il mio arrivo in Sicilia, in quanto la popolazione era in stato di forte agitazione, a causa del fermo da parte dei tunisini di un peschereccio di Mazara e del suo successivo affondamento per un errore di manovra dell’unità militare che era intervenuta. Purtroppo inconvenienti simili avvenivano ed avvengono ed era doverosa la solidarietà da parte del Ministro degli Esteri che per di più si recava per altri motivi nella zona. Non potevo nemmeno immaginare che questa iniziativa che ritenni doverosa e sarebbe stata messa a carico, quasi che il desiderio di andare a Mazara non fosse per calmare la situazione e rappresentare solidarietà a quei pescatori ma per incontrare questo signor Mangiaracina".

L’assunto dell’imputato - secondo cui il Pernice non gli avrebbe comunicato il rapporto di parentela esistente tra la propria nipote ed il Sinacori né lo stato di latitanza di quest’ultimo, e sarebbe stato informato dell’attività di intercettazione soltanto parecchio tempo dopo il loro incontro del 19 maggio 1993 ed in ragione del carattere frivolo e boccaccesco di numerose conversazioni effettuate sull’utenza telefonica parrocchiale – è smentito inequivocabilmente dalla deposizione del teste Pernice, il quale non ha fatto alcun riferimento ad indicazioni espresse dal sen. Andreotti circa il contenuto sconveniente delle comunicazioni telefoniche intercettate (particolare, questo, che certamente lo avrebbe colpito, inducendolo a prendere precisi provvedimenti nei confronti di coloro che avevano effettuato le telefonate dall’utenza della parrocchia), ma ha evidenziato chiaramente di avere riferito al sen. Andreotti di avere parlato con la moglie del Sinacori menzionando lo stato di latitanza di quest’ultimo, ed ha specificato di avere avuto notizia delle intercettazioni pochi giorni dopo il suo colloquio con l’imputato, e comunque nel maggio 1993.

La scelta dell’imputato di fornire una versione non veridica in ordine al contenuto dei propri colloqui con il Pernice può ragionevolmente ricondursi alla rappresentazione della negativa valenza sintomatica del contegno da lui tenuto nei confronti del medesimo soggetto.

Deve ritenersi che analoghe motivazioni abbiano indotto l’imputato a ricostruire in modo non conforme al vero talune circostanze di essenziale rilievo che accompagnarono il suo incontro con Andrea Manciaracina.

Infatti l’asserzione dell’imputato, secondo cui in quella occasione il Sindaco di Mazara del Vallo lo pregò di ascoltare molte persone che lo chiedevano e fece da tramite "per questo incontro con Mangiaracina e con tutti gli altri che facevano la fila lì a Mazara del Vallo quella sera", è palesemente smentita dalle dichiarazioni dello Stramandino, il quale ha affermato: "per quanto io ricordo, non vidi l'on. ANDREOTTI intrattenersi a parlare con nessun altro, né in quella stanza, né altrove nell'albergo", ed ha aggiunto che solo successivamente il sen. Andreotti cenò insieme a varie persone (situazione, questa, ben diversa rispetto alla realizzazione di un incontro riservato con il Ministro degli Affari Esteri, senza la presenza di terzi).

La versione offerta dall’imputato costituisce, all’evidenza, un tentativo di qualificare il colloquio con Andrea Manciaracina come un normale incontro con una persona interessata a chiedere un suo autorevole intervento, presentatagli da un esponente politico locale. Poiché è del tutto inverosimile che soltanto Andrea Manciaracina fosse, in quella circostanza, interessato a conferire riservatamente con il sen. Andreotti, quest’ultimo ha sostenuto che furono parecchie le persone presentategli nel medesimo contesto di tempo e di luogo.

Tuttavia, dato che una simile asserzione contrasta apertamente con le dichiarazioni dello Stramandino (alle quali deve attribuirsi preminente efficacia dimostrativa, per il completo disinteresse della fonte da cui promanano), occorre riconoscere che l’imputato ha esposto una versione dell’episodio non veridica nell’intento di sminuire la valenza indiziaria dell’incontro con Andrea Manciaracina, svoltosi con modalità del tutto diverse rispetto a quelle che caratterizzano i normali contatti degli esponenti politici con le persone interessate a rivolgere loro le proprie istanze e da essi occasionalmente conosciute.

Il suindicato atteggiamento dell’imputato denota la sua consapevolezza del peculiare significato attribuibile all’incontro con Andrea Manciaracina, tenuto conto delle concrete circostanze che lo accompagnarono.

Va poi osservato che, pur non essendovi prova del fatto che il Sindaco di Mazara del Vallo, nel presentare al sen. Andreotti il giovane Andrea Manciaracina, abbia menzionato il rapporto fiduciario intercorrente tra quest’ultimo ed il capo di "Cosa Nostra", tuttavia le peculiari modalità del colloquio (non accompagnato da analoghi incontri con altri soggetti, e svoltosi a tu per tu in una saletta appartata, senza neppure l’intervento del Sindaco, il quale, frattanto, rimaneva fermo davanti alla porta di ingresso per impedire l’accesso di terzi) erano certamente tali da accordarsi soltanto con la trattazione di questioni assai rilevanti, delicate, e circondate dalla massima segretezza.

Risulta palesemente inverosimile che il contenuto del colloquio sopra descritto si incentrasse sulle esigenze personali e lavorative di Andrea Manciaracina, le quali avrebbero certamente potuto essere palesate anche al Sindaco di Mazara del Vallo, che già conosceva il giovane e lo teneva in una considerazione tale da presentargli il sen. Andreotti.

Deve, inoltre, tenersi presente che, nel periodo in questione, Andrea Manciaracina poteva facilmente agire indisturbato espletando compiti affidatigli da esponenti di primaria importanza dell’associazione mafiosa "Cosa Nostra", trattandosi di un soggetto che, sebbene legato a Salvatore Riina da un particolare rapporto fiduciario, non aveva ancora attirato su di sé l’attenzione degli organi investigativi.

Per tali ragioni, è ben possibile che, nel corso del suddetto incontro, siano stati trattati argomenti che in qualche modo rientravano nella sfera di interessi dell’organizzazione mafiosa.

Deve tuttavia osservarsi che la semplice circostanza che il sen. Andreotti si sia incontrato con una "persona di fiducia" del capo di "Cosa Nostra" non vale a dimostrare la sua partecipazione ovvero il suo concorso nell’associazione mafiosa, in mancanza di ulteriori elementi che consentano di ricostruire il contenuto del colloquio.

Nulla, infatti, è emerso in merito alle richieste formulate, in questa occasione, da Andrea Manciaracina, ed alle risposte date dal sen. Andreotti.

Né si ravvisano, nel successivo comportamento tenuto dal sen. Andreotti, specifici elementi sintomatici di una sua adesione alle istanze prospettate da Andrea Manciaracina.

Con riferimento all’episodio in esame, manca, quindi, la prova della incidenza causale assunta dall’intervento dell’imputato rispetto alla esistenza o al rafforzamento dell’associazione di tipo mafioso (nel suo complesso o in un suo determinato settore), in una fase "patologica", o, comunque, anormale e particolarmente difficile della sua vita; non può, infatti, escludersi l’eventualità che il sen. Andreotti abbia opposto un rifiuto alle richieste avanzate da Andrea Manciaracina (eventualità, questa, che preclude la configurabilità di una condotta punibile ai sensi degli artt. 110 e 416 bis c.p.).

La inverosimile ricostruzione dell’episodio offerta dall’imputato potrebbe, inoltre, ricollegarsi non alla coscienza dell’illiceità del contegno da lui serbato in tale circostanza, bensì, semplicemente, al suo intento di non offuscare la propria immagine pubblica ammettendo di avere incontrato un soggetto strettamente collegato alla criminalità organizzata e di avere conferito con lui in modo assolutamente riservato.

Né può affermarsi che un singolo incontro, di contenuto indeterminato, con un soggetto legato al vertice di "Cosa Nostra", denoti, di per sé, l’instaurazione di un rapporto di stabile e sistematica collaborazione, con la realizzazione di comportamenti che abbiano arrecato vantaggio all'illecito sodalizio; si tratta, infatti, di un episodio che, se non accompagnato da ulteriori fatti dotati di significatività e concludenza in termini di affectio societatis, non manifesta in termini di certezza l’esistenza di un vincolo associativo dell’imputato con l’organizzazione mafiosa.