Almanacco dei misteri d' Italia


Piazza Fontana
le notizie del 2001
10 gennaio - Il plenum del Csm decide di archiviare la procedura di trasferimento d'ufficio per incompatibilita' del giudice di Milano Guido Salvini che per anni ha condotto l' inchiesta sui movimenti eversivi coinvolti nella strage di piazza Fontana. Tuttavia il Csm ha stralciato una parte del fascicolo, quella sui "rapporti a dir poco difficili" che il magistrato avrebbe instaurato con i colleghi dell'ufficio gip di Milano. Si tratta di fatti sinora non contestati a Salvini , ma che secondo il plenum lasciano "dubbi sulla possibilita"' che il giudice "continui ad amministrare giustizia presso l'ufficio gip di Milano". L'archiviazione riguarda comportamenti tenuti da Salvini nell'ambito dell'inchiesta sulla destra eversiva coinvolta nella strage di Piazza Fontana e oggetto anche di un procedimento disciplinare che l'anno scorso si e' concluso con l'assoluzione del magistrato. Tra l'altro al giudice milanese veniva contestato di essersi attribuito abusivamente la competenza delle indagini su piazza Fontana, contro la volonta' dei magistrati cui era stata delegata l'istruttoria del procedimento; ma soprattutto gli veniva rimproverato di aver svolto attivita' investigative anomale. E in particolare di essersi servito nelle indagini di un ufficiale del Sismi e di aver chiesto al servizio di mettere a disposizione del neofascista Martino Siciliano 50 milioni di lire perche' collaborasse. Il plenum ha deciso di archiviare sia tenendo conto delle conclusioni del giudice disciplinare, sia considerando che per altri fatti contestati al magistrato, si trattava di vicende risalenti a piu' di cinque anni fa e quindi che hanno perso "quel minimo di attualita' che rappresenta una delle condizioni atte a legittimare un trasferimento d'ufficio".

10 gennaio - Secondo i deputati di An Enzo Fragala' e Alberto Simeone, e' "assolutamente pilatesca" la delibera del Csm sul caso del giudice Salvini e il Csm "ha di fatto deciso di non decidere sull'incompatibilita' ambientale del giudice Salvini, accusato di lavorare in maniera solipsistica, arrogante e autoreferenziale". "A noi pare che Salvini venga perseguitato dal Csm per motivi di contrapposizione lobbistica all'interno della corporazione dei magistrati - affermano i due parlamentari - mentre non si evita di fronire una valutazione chiara su metodi di indagine assolutamente inammissibili in uno Stato di diritto come quelli dell'uso giudiziario dei servizi segreti o delle dazioni di denaro a testimoni processuali".

15 gennaio - Processo per la strage di piazza Fontana: l' ufficiale dei carabinieri Massimo Giraudo dice che Carlo Maria Maggi nel 1994 era pronto a collaborare, ma improvvisamente cambio' idea e gli spiego' che c'era "un pericolo Zeta". In un colloquio investigativo i cui atti sono pubblici in un altro processo, nel '94 il medico veneziano Carlo Maria Maggi, responsabile di Ordine Nuovo per il Veneto, disse che per la strage di piazza Fontana "era stato scelto Delfo Zorzi perche' erano sicuri che non avrebbe parlato". Giraudo racconta anche che, mentre, tra il 1993 e il 1994, indagava negli ambienti di estrema destra e sulla strage di piazza Fontana, c'era chi oltre a raccogliere informazioni sul suo conto e sullo sviluppo delle indagini, pensava fosse giunto il momento di eliminarlo. "Tra il 1993 e il 1994 - ha ricordato il maggiore Giraudo - ho avuto diversi colloqui investigativi in carcere con Biagio Pittarresi, ex appartenente del gruppo la Fenice. Dopo una serie di incontri Pittarresi mi disse che, attraverso il figlio che andava a fargli visita in carcere, riferiva tutto a tale Carlo Rocchi, personaggio legato ai servizi segreti americani". Giraudo ha spiegato ai giudici di avere eseguito indagini su Carlo Rocchi, morto recentemente, presso il Sismi. "Al Servizio segreto militare - ha detto - mi venne spiegato che Rocchi era conosciuto come un agente al servizio degli americani fin dalla seconda guerra mondiale". Giraudo ha raccontato che venne intercettato un fax di Rocchi all'ambasciata americana contenente notizie sull'inchiesta del giudice Salvini e il suo indirizzo: "Il figlio di Pittarresi mi racconto' che Rocchi gli disse che era necessario eliminarmi". L'avvocato Antonio Franchini, difensore di Delfo Zorzi, ha insistito per sapere quali indagini erano state fatte per identificare David Carret e Teddy Richard, i due ufficiali americani in servizio alle basi Ftase e Setaf di Verona e Vicenza. Carlo Digilio, infatti, ha raccontato di avere avuto come referenti nei servizi americani proprio Carret e Richard. Il maggiore Giraudo ha ribadito che i due non sono stati identificati, ma l'avvocato Franchini ha depositato un indirizzo americano di tale Teddy Richard che chiamera' prossimamente a testimoniare, insieme a svariati cittadini statunitensi che si chiamano David Carret.

19 gennaio – Processo per la strage di piazza Fontana: Giancarlo Rognoni, responsabile del gruppo 'La Fenice', una sorta di cellula milanese di Ordine Nuovo, si e' difeso dall'accusa di essere uno degli autori della strage di piazza Fontana e ha detto:"Mi dichiaro estraneo ai fatti, non solo in forma cosciente ma anche incosciente". "Insomma - ha aggiunto - nessuno mi ha dato una valigia in mano senza che io sapessi cosa contenesse, facendo si' che diventassi inconsciamente autore della strage". Impiegato alla Comit dove il 12 dicembre 1969, giorno della strage alla Banca nazionale dell'agricoltura, venne rinvenuta una bomba inesplosa, Giancarlo Rognoni e' stato latitante in Spagna e condannato per l'attentato al treno Torino-Genova del 1973. Giudicato elemento di spicco dell'estrema destra milanese, secondo l'accusa ha dato un supporto logistico ai fascisti venuti dal Veneto con la bomba non ancora innescata. "Guardate - ha detto ai giudici - io per primo vorrei che su questa vicenda si facesse luce. Vorrei essere giudicato solo per questo fatto, non per idee politiche o altre vicende nelle quali sono stato coinvolto in un certo periodo della mia vita". Poi ha ricordato cosa fece dopo lo scoppio della bomba: "Come tanti altri milanesi andai in piazza Fontana. Ricordo che il figlio di un parlamentare comunista diede un pugno ad un ragazzo che era con me". Molti testimoni del processo hanno raccontato che in carcere, soprattutto negli anni 70, tra i terroristi di destra si sviluppo' un dibattito sulla stagione delle stragi. Tutti gli estremisti di destra hanno spiegato al processo che al loro interno era pacifica la convinzione che la strage di piazza Fontana era stata fatta da qualcuno al loro interno. Rognoni, oggi, ha invece spiegato: "Eravamo convinti che fosse stata la sinistra o gli anarchici. Non ci eravamo mai posti il problema delle deviazioni di cui oggi si parla. Quelli, per noi, erano dati acquisiti e non erano fonte di discussione". Cresciuto con il mito del comandante Junio Valerio Borghese, Rognoni ha confermato di avere avuto rapporti di amicizia con Carlo Maria Maggi, il medico veneziano, responsabile di Ordine Nuovo in Veneto, e con Delfo Zorzi con il quale ha anche partecipato a due campi per la formazione del "soldato politico". "Con Maggi - ha detto - ho avuto rapporti di amicizia oltre che di sintonia politica anche se mi sono reso conto che a Venezia era circondato da una sorta di corte dei miracoli". "Con Zorzi ci siamo incontrati in diverse occasioni: lo ritenevo una persona molto valida".

31 gennaio - Il settimanale "Diario" pubblica un articolo sul prof. Pio Filippani Ronconi, "Non solo un illustre orientalista, un soldato che in gioventu' si e' schierato dalla parte sbagliata, ma e' stato invece chiamato a rispondere, a verbale, sull' organizzazione delle stragi di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia". "Diario" ricorda anche la vicenda che ha visto protagonisti lo studioso e il "Corriere della Sera", con cui aveva una collaborazione, sospesa dal direttore Ferruccio De Bortoli dopo aver appreso del suo passato. Ex nazista, "combatte' con le Waffen-Ss durante l' ultima guerra", citato dal giudice Salvini nella sentenza ordinanza per Piazza Fontana, il prof. Pio Filippani Ronconi, scrive 'Diario', "e' ancora oggi sotto la lente della squadra di investigatori che indaga su eversione e stragi, sotto l' autorita' dei magistrati di Brescia che stanno per chiudere l' ultima inchiesta sulla strage di Piazza della Loggia. Vorrebbero sapere dal grande orientalista, teorico dell' organizzazione a piu' livelli, che cosa sa dei livelli operativi, dei ragazzi passati dalle 'nobili azioni dimostrative' a piu' utili e coordinate attivita' eversive. Cosa sa, per esempio, dei gruppi esoterici neonazisti, il circolo dei Krammerziano di Verona, il nucleo italiano della setta induista Ananda Marga".

16 febbraio – Al processo per la strage di piazza Fontana e’ in programma la testimonianza di George Bush, ex presidente degli Stati Uniti, ex direttore della Cia e padre dell'attuale presidente americano, che naturalmente non si presenta. Oltre a George Bush, infatti, non si sono presentati anche altri ex direttori della Cia che, nelle intenzioni dei difensori di Delfo Zorzi, avrebbero dovuto precisare chi erano gli agenti in servizio nelle basi Setaf e Ftase di Verona e Vicenza. Carlo Digilio, l'artificiere di Ordine nuovo, ha infatti sostenuto che gli uomini dei servizi segreti statunitensi in servizio nel Veneto erano stati da lui informati su come era stata organizzata la strage di piazza Fontana. L' avvocato Lodovico Mangiarotti ha spiegato al presidente che la Cia ha risposto all'invito della difesa appellandosi al trattato bilaterale Italia-Usa. "Chiederemo quindi alla Corte - ha detto il legale - di valutare la possibilita' di sentire i testimoni per rogatoria". Una via, quest'ultima, che sembra difficilmente percorribile in quanto potrebbe anche comportare il trasferimento della Corte negli Stati Uniti. Tra l'altro i testimoni americani citati dalla difesa di Delfo Zorzi sono moltissimi e soprattutto di difficile reperibilita'.

20 febbraio - "Il Corriere della sera" pubblica in prima pagina un fondo di Ernesto Galli della Loggia che polemizza con un' ennesima presentazione del libro del presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino.

20 febbraio - Alla presentazione del libro di Giovanni Pellegrino dal titolo "Segreto di Stato", il presidente del Consiglio Giuliano Amato dice che quella che noi abbiamo vissuto e' stata la storia di un "paese non normale", con due comunita' politiche con delle varianti estremistiche a sinistra e a destra, in cui esistevano "due patrie", una legata all'occidente, l'altra all'est comunista. Questo fatto consenti' la nascita di due Gladio, entrambe difensive, una bianca e una rossa. "Questa e' l'ipotesi che mette avanti Pellegrino, una ipotesi aspra da accettare: era comodo interpretare la storia - prosegue il premier - sostenendo che l'illegalita' stava tutta da una parte". "Io non sono mai appartenuto al Pci, anzi, ma capisco che digerire un libro di questo genere e' difficile. Il volume di Pellegrino rappresenta un controcanto che non si puo' leggere correttamente solo mettendo in evidenza le illegalita' di certi apparati come la P2. La lettura storica di quegli anni che riconduce tutto a Gladio suona poco credibile anche se altrettanto poco credibile suona il fatto che i gladiatori fossero solo 600". Secondo Amato, non si puo' pensare che tutte le stragi siano state figlie dell'anticomunismo. "Alcune si', ma ci furono anche le stragi della manovalanza estremista scaricata da certi apparati. E questa potrebbe essere una spiegazione per Piazza della Loggia". Amato, nel ricordare il suo "stupore" per gli attacchi ricevuti quando parlo' delle stragi inesplicate dell'Italicus e della stazione di Bologna, vede bene l'ipotesi di "coltivare" un dubbio, cosi' come fa Pellegrino, senza doverlo "appendere al grappolo delle stragi tutte uguali". Di qui, la distinzione che il premier fa tra le stragi di chiara finalita' anticomunista, quelle che nascono dalle rotture all'interno "dell'impasto eversivo" che si era creato nel nostro paese e, quelle che non si spiegano e per le quali la risposta non deve essere necessariamente "provinciale". Per Amato le stragi dell'Italicus e della stazione di Bologna "forse si collocano sul versante di un quadrante internazionale...E' bene fermarsi qua per l'incarico che momentaneamente ricopro, anche se gli stessi Papi quando parlano dei loro incarichi dicono 'pro tempore'". "La strage dell'Italicus, dice Pellegrino, rimane inesplicabile - ha tra l'altro detto il premier - e sono anch'io convinto di cio'. Non sappiamo la motivazione della strage di Bologna anche se conosciamo chi materialmente l'ha fatta". Di queste stragi si puo' anche ipotizzare una  matrice che non e' proprio 'provinciale'". Impostare cosi' queste vicende, ha ancora detto Amato riferendosi al libro di Pellegrino, consente di "coltivare un dubbio senza doverlo appendere al grappolo delle stragi tutte uguali". Amato ritiene inoltre plausibile l'ipotesi che l'eventuale presa del potere da parte del Pci potesse essere bloccata dall'Urss stessa per non avere fastidi dagli americani su altri fronti, "nello spirito di Yalta". Cosi' come, per quanto riguarda il periodo delle Brigate Rosse, il presidente del Consiglio parla di una infatuazione "irresponsabile" da parte di una certa borghesia, di cui facevano parte anche professori universitari: una infatuazione dunque che nasceva da "ruoli superiori" a quelli che erano i tradizionali elettori del Pci. "Gli incontri nella casa a Prati e le rivelazioni su Firenze sono di grande interesse. Mi hanno impressionato tanto da rendermi scettico sulla possibilita' che una soluzione politica possa permetterci di arrivare alla verita'". "Se uno era partecipe non lo dice, anche se puo' avere le garanzie che non sara' condannato. Nel libro ci sono episodi di grande rilevanza legati alle Brigate rosse, episodi legati alla vicenda Moro e caduti nel nulla. A Roma si sta indagando su due giovani in motocicletta che erano in via Fani - ha ancora detto Amato - ma non si e' ancora indagato su fatti acquisibili da altre procure e molto piu' rilevanti". Amato ha anche citato l'ipotesi del "doppio ostaggio" per quanto riguarda il caso Moro. "Si era capito - ha affermato nel commentare il libro di Pellegrino - che Moro stava dando informazioni alle Brigate rosse". Amato sostiene anche che abbiamo il dovere "di continuare comunque a cercare la verita"' sulle stragi. "E' un dovere che va al di la' di cio' che possono fare i giudici". "Anche su Ustica bisogna arrivare a capire quello che e' successo. C'e' un diritto alla verita'" senza porsi limiti del tipo "taci il nemico ti ascolta", ha ancora detto il premier sottolineando come Pellegrino nel suo libro cerca di uscire da una visione "manichea" di queste storie. Il presidente Ds Massimo D'Alema definisce "singolare" la polemica aperta da Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere della Sera". "Scrivere libri non rappresenta una lesione per le prerogative del Parlamento. Non significa sottrarre al Parlamento doveri e prerogative. Questo libro e' una iniziativa di lotta politica e civile e documenta le difficolta' della commissione stragi di arrivare ad una chiave di lettura complessiva condivisa al suo interno. Una certa polemica che non ha senso da parte di chi professa liberalismo anzi se n'e' fatto cattedra. Speriamo che in futuro non ci vietino i dibattiti", ha detto sorridendo, aggiungendo poco dopo: "c'e' una ventata liberale inquietante nel paese". D'Alema ha condiviso pienamente il giudizio che esce dal volume, ma ora chiede "qualche elemento in piu"'. E si rivolge, direttamente e indirettamente, a Francesco Cossiga. "Una volta Cossiga mi riferi', e non e' un segreto, una sua valutazione conclusiva su questa vicenda: 'abbiamo difeso la democrazia possibile' nel quadro di un mondo che era quello. I margini di sovranita' erano quelli. Io sono disposto ad accettare questa conclusione, ma prima di arrivarci vorrei conoscere qualcosa sulla parte precedente. Per curiosita' di verita', non per malizia". D'Alema ha chiesto di conoscere "qualche altro passaggio", "pur avendo ben chiaro - ha rilevato - che la sentenza e' di assoluzione, sentenza che mi sento di condividere fin d'ora". Questo passaggio del presidente dei Ds fa riferimento alla "parte non scritta" del volume di Pellegrino, cioe' quella che non ha trovato dei riscontri tali per essere contenuta nel volume. Il libro puo' essere letto, secondo D'Alema, come "una sentenza". "C'e' pero' - ha concluso - un bisogno di verita', non per fare conti con il passato o per cercare le responsabilita' di Tizio o Caio, ma per liberare il futuro del Paese". Per questo D'Alema condivide l'invito ad uno scambio: verita' sulle stragi e la vicenda Moro in cambio della non punibilita' giudiziaria. Giunti a questo punto, dice l'ex presidente del Consiglio, non e' piu' il caso di andare a cercare le singole responsabilita' giudiziarie, ma si puo' ricercare la verita' garantendo una non punibilita'. "Quello proposto dal sen.Pellegrino - dice D'Alema - e' un obiettivo condivisibile".

21 febbraio - E' presentata in Parlamento una relazione di An, firmata da Enzo Fragala' e Alfredo Mantica e redatta dal consulente Giam Paolo Pellizzaro sulla dimensione sovra-nazionale del fenomeno eversivo in Italia che ha tra i protagonisti centrali proprio l'editore Giangiacomo Feltrinelli, capo gappista, figura che si incrocia con molte realta': dal Kgb a Carlos, ai servizi segreti dell'Est, ai nascenti gruppi dell'eversione di sinistra tra cui le Brigate Rosse. La relazione e' uno studio ragionato e coerente sui collegamenti fra le organizzazioni terroristiche internazionali. Il documento era gia' stato depositato in Commissione insieme a molti altri elaborati ma e' stato aggiornato per l'arrivo a San Macuto di un ponderoso dossier su Feltrinelli. Tra l'altro si cita un rapporto elaborato dal Centro di controspionaggio del Sismi di Berna, risalente al 1982, secondo il quale nei campi di Cecoslovacchia dal '48 al '78, sarebbero passati circa 600 cittadini italiani. Dalle osservazioni e dai rilievi effettuati, sono state confermate le attivita' di supporto e addestramento degli apparati cechi (sottoposti alla supervisione degli istruttori sovietici del Kgb e Gru) nel campo dell'addestramento paramilitare a cellule di tedeschi, italiani, francesi, irlandesi, palestinesi, cileni, boliviani, cubani, venezuelani, argentini ed afgani (per questi ultimi, circa 1000, sarebbero stati esercitati alla guerriglia per il loro successivo utilizzo contro le sacche di resistenza formatesi in seguito all'invasione dell'Afganistan da parte dell'Urss). "Feltrinelli - ricostruisce la relazione - rappresenta un personaggio la cui statura, in termini di operosita', potenza, efficienza, influenza e pericolosita' per le istituzioni democratiche, corre di pari passo a quell'incredibile e schiacciante vulgata che lo ha descritto come una sorta di minus habens, un rivoluzionario mancato o incompiuto, un dandy decadente senza spina dorsale, un outsider maniaco-depressivo. Un fallito, insomma". Feltrinelli, invece e' stato "uno dei generali del terrorismo mondiale, un personaggio di altissimo livello che ha impresso il decisivo e forse definitivo impulso al progetto di integrazione (soprattutto al livello di vertici), dei vari movimenti e organizzazioni eversive internazionali. Il ruolo di Feltrinelli e' stato quello di ministro plenipotenziario, emissario ed ambasciatore del neonato comparto eversivo mondiale". An chiede che le molte relazioni finali presentate dai vari gruppi in Commissione stragi vengano discusse quanto prima altrimenti , se non verra' meno "un certo ostruzionismo", il gruppo si rivolgera' ai Presidenti di Senato e Camera. "Qualora il presidente Pellegrino non dovesse accogliere la nostra richiesta - ha spiegato l'esponente di An Enzo Fragala' - chiederemo ai presidenti d intervenire per sollecitare il Presidente della Commissione a tener fede ai suoi doveri istituzionali". E comunque - ha aggiunto - "riteniamo che nella prossima legislatura vada recuperata la Commissione Mitrokhin, gia' approvata da un ramo del Parlamento , che dovra' ereditare tutto l'archivio della Commissione per  approfondire l'intera questione e per proseguire un lavoro non certo esaurito in questi anni". Fragala' ha parlato di responsabilita' della maggioranza a non voler concludere il lavoro della Commissione con la discussione e la messa in votazione delle relazioni, "passaggi che danno conto dell'attivita' svolta in dieci anni di esistenza di questo organismo parlamentare d'inchiesta". Sul perche' cio' rischia di accadere  Fragala' ha una  idea: "faccio un cattivo pensiero: la maggioranza non e' certa di tenere sulle relazioni depositate, e teme che quelle della Casa delle Liberta' possano avere l'approvazione maggioritaria. E per la prima volta la Commissione Stragi si rivelerebbe un boomerang per la coalizione di governo".

22 febbraio - "Panorama" scrive che Martino Siciliano, l'ex terrorista nero che e' il testimone-chiave dell'accusa nel processo per la strage di piazza Fontana, ha ricevuto 4.200 dollari in 18 bonifici bancari. Secondo il settimanale in una lettera ricevuta dalla Corte d'Assise di Milano il 17 gennaio scorso Siciliano ha sostenuto che mittente del denaro era il giudice Guido Salvini e ha polemizzato con i magistrati: "mi era stato fatto credere che ero stato riammesso a un nuovo programma di protezione - ha scritto il testimone a quanto riferisce "Panorama" - mentre per persuadermi a rientrare in Italia per la testimonianza, il sussidio mensile mi e' stato personalmente e direttamente versato dal dottor Salvini oppure da persone da lui incaricata". Sentito da "Panorama" Salvini ha confermato di aver fatto lui quei bonifici, ma ha detto che si trattava del rimborso di un viaggio compiuto da Siciliano dalla Colombia in Italia nel marzo 2000 per essere intervistato per un libro. Circostanza confermata anche dall'autrice, la giornalista romana Patrizia Minta. Ma per "Panorama" resta il mistero: "perche' - si interroga il settimanale - Siciliano parla di un sussidio mensile, lasciando intendere che Salvini gli abbia personalmente pagato una specie di anticipo del programma di protezione?".

22 febbraio - A "Radio 24" il giudice milanese Guido Salvini definisce molto interessante la proposta del presidente della commissione parlamentare Stragi, il sen. Giovanni Pellegrino, di istituire una "commissione per la riconciliazione e la verita", una sorta di scambio: la verita' sulle stragi e la vicenda Moro in cambio della non punibilita'. "Non e' un colpo di spugna. Perche' oggi il problema non e' piu' la punibilita' in termini di carcere e di crimini insoluti - ha continuato Salvini - e una commissione che operi in questo senso, raccogliendo testimonianze, senza dover punire, e offrendo gli ultimi tasselli mancanti, sarebbe benvenuta, soprattutto per quanti ancora attendono la verita' per i propri morti".

27 febbraio - Il ministro della Giustizia, Piero Fassino, terminato il vertice del G8, incontra il rappresentante della Giustizia giapponese per ribadire la richiesta dell'Italia di estradizione di Delfo Zorzi, l'ex ordinovista veneto accusato della strage di piazza Fontana, per la quale e' in corso a Milano il processo in Corte d'Assise. "Noi siamo in attesa che da parte delle autorita' giapponesi si dia luogo all'estradizione di Delfo Zorzi - ha detto il ministro Fassino durante la conferenza stampa al termine del G8 -. Se necessario siamo pronti a fornire al Giappone ulteriore documentazione per testimoniare la necessita' dell' estradizione". Fassino ha quindi aggiunto: "Auspichiamo che il Giappone consegni Zorzi anche solo temporaneamente, al fine di consentire la celebrazione del processo nel quale lo stesso Zorzi possa difendersi". Al termine dell'incontro con la delegazione giapponese il ministro Fassino ha spiegato di avere chiesto l'accelerazione della pratica di estradizione di Delfo Zorzi "per l'accertamento di una verita' che da troppo tempo sta aspettando". Fassino ha anche spiegato che domani si svolgera' un incontro di natura tecnica tra esperti italiani e giapponesi per studiare la possibile soluzione del caso. L'estradizione di Delfo Zorzi, da molti anni ormai cittadino giapponese, in mancanza di un trattato bilaterale tra Italia e Giappone per questa materia, appare, infatti, di difficile esecuzione. "I colleghi giapponesi - ha detto Fassino - non si sono opposti alla nostra richiesta". A proposito della possibilita' di una consegna da parte del Giappone di Zorzi, affinche' venga al processo, in corso davanti ai giudici della seconda Corte d'assise di Milano, per l'interrogatorio, Fassino ha spiegato: "La presenza di Zorzi sarebbe importante per l'acquisizione di nuovi elementi e per consentire allo stesso Zorzi di difendersi nella sede propria". Quindi ha negato che, attraverso questa soluzione di consegna temporanea, si voglia fare un piacere all'ex ordinovista veneto, accusato della strage di piazza Fontana: "Non stiamo dando un salvacondotto a nessuno. La parola salvacondotto puo'ingenerare equivoci. Stiamo cercando di avere qui un imputato che, attualmente, e' a diecimila chilometri di distanza".

28 febbraio - Al termine del vertice dei Paesi del G8, due delegati giapponesi incontrano il Procuratore della Repubblica, Gerardo D'Ambrosio, e  l'aggiunto Angelo Curto, per acquisire nuova documentazione su Delfo Zorzi, l'ex ordinovista veneto, accusato della strage di Piazza Fontana e per il quale l'Italia chiede l'estradizione.

1 marzo - In una interrogazione al ministro della Giustizia, i senatori di An Antonio Serena, Alfredo Mantica e Paolo Danieli sollecitano “L'immediato avvio di una ispezione presso gli uffici del Gip e della procura di Milano dove i giudici Guido Salvini e Massimo Meroni, secondo quanto affermato dal settimanale 'Panorama', nell'ambito del processo per la strage di Piazza Fontana, si sarebbero resi responsabili, di aver rispettivamente, erogato e coperto le rimesse finanziarie al collaboratore di giustizia Martino Siciliano”. “E' - affermano in una dichiarazione congiunta - l'ennesimo mistero su evento tragico, che dopo oltre venti anni di indagine e un processo ancora in corso non cessa di suscitare ancora ombre e sospetti”. “Lascia in particolare sgomenti - ha detto il senatore Serena - apprendere che un magistrato, il giudice Salvini (oggi Gip di Milano), avrebbe pagato personalmente il 'pentito' Martino Siciliano effettuando ben 18 bonifici bancari in Colombia e, cosa ancor piu' grave, che un altro magistrato, l'attuale sostituto procuratore Meroni, sarebbe responsabile dello smarrimento dei documenti originali dai quali risultava la denuncia inoltrata alla magistratura sui fatti in oggetto”.

8 marzo - Al processo per la strage di Piazza Fontana, gli avvocati difensori di Delfo Zorzi, dopo essersi recati negli Usa ed aver identificato un ex ufficiale della Marina Usa negli anni '60 in servizio nelle basi Setaf e Ftase di Vicenza e Verona, hanno chiesto alla Corte di acquisire la documentazione o di disporre una rogatoria internazionale. Ma c'e' stata la netta opposizione del pm Meroni e i giudici si sono riservati di decidere. L'ex ufficiale era stato indicato da Carlo Digilio, l' artificiere di Ordine Nuovo nel Veneto, e ora pentito al processo per la strage, come David Carret, agente della Cia. Digilio lo aveva identificato su una fotografia con la moglie e altre due persone. Un testimone al processo, Giovanni Bandoli, aveva spiegato che l'uomo ritratto nella fotografia era tale Charlie Smith e non David Carret, come aveva sostenuto Digilio. Nel corso delle indagini preliminari, anzi, Bandoli aveva appunto fornito l' indirizzo americano di Charles Smith. Ora gli avvocati difensori di Delfo Zorzi si sono recati nel Kansas, negli Usa, dove Charlie Smith abita con la moglie Dolores. Sia Smith che la moglie hanno accettato un colloquio con i legali e hanno spiegato di essere rimasti in Italia fino al 1969, quando lui si reco' in Vietnam per servizio, poi in Germania. Da questa ricostruzione, quindi, emergerebbe che Carlo Digilio si sia sbagliato nell'identificare David Carret, l' agente Cia suo referente. La difesa di Delfo Zorzi, con l'avvocato Franchini, ha chiesto di depositare tutto il materiale raccolto negli Usa: dal videotape del colloquio avuto con Charles Smith e la moglie, alle fotocopie della patente e ad altri documenti che provano la loro identita'. Smith e moglie, tra l'altro sono citati come testimoni per lunedi' prossimo. I due non saranno pero' presenti in aula, in quanto non hanno rinnovato il passaporto e non possono venire in Italia. Per questo motivo la difesa di Zorzi ha chiesto alla corte di acquisire tutta la documentazione presentata oppure di disporre una rogatoria internazionale. A queste richieste e alla attivita' svolta dalla difesa di Delfo Zorzi si sono opposti il pubblico ministero Massimo Meroni e gli avvocati di parte civile. "Ho appreso - ha detto il pm - delle indagini eseguite dalla difesa leggendo questa mattina dei quotidiani. Credevo di avere instaurato un clima di collaborazione in questo processo. L'atteggiamento di slealta' della difesa di Zorzi mi amareggia anche sul piano personale". Il pm ha sostenuto che tutte le indagini sono state svolte "in dispregio del Codice di Procedura Penale". Meroni ha quindi chiesto alla corte di non acquisire la documentazione della difesa di Zorzi in quanto il codice prevede che, dopo l' ordinanza che dispone il giudizio, ogni altra attivita' investigativa puo' essere eseguita ma la parte che la esegue deve avvisare il pubblico ministero. Cosa che i difensori di Delfo Zorzi, in questo caso, non avrebbero fatto. Uno dei difensori, l'avv.Gaetano Pecorella, ha chiesto alla corte di acquisire un articolo del settimanale 'Panorama' in relazione al denaro che il pentito Martino Siciliano avrebbe ricevuto dal giudice Guido Salvini. La corte si e' riservata di decidere sulle richieste. Carlo Maria Maggi risponde all' interrogatorio del pm Massimo Meroni "Mi chiede se ho parlato della possibilita' di un golpe? Vede, quando si beveva, si parlava spesso di golpe". Maggi, ex ispettore di Ordine nuovo per il Triveneto, gia' condannato all'ergastolo per la strage alla questura di Milano, indagato per quella di piazza della Loggia a Brescia, al processo milanese e' ritenuto uno degli organizzatori dell' eccidio alla Banca Nazionale dell'Agricoltura. Lui, sofferente per un ictus e per un'operazione al polmone, ha cercato di accreditare un'immagine diversa. Quella dell'ordinovista poi rientrato nell'Msi che, al massimo, se ha parlato di violenza, lo ha fatto per prospettare un'organizzazione di difesa: "all'epoca - ha detto - giravano le spranghe come bruscolini. La moglie di Rognoni e' stata massacrata a sprangate e Ramelli e' stato ucciso". Lui non ha mai teorizzato lo stragismo: "Succedeva spesso - ha spiegato - che si beveva e allora si raccontavano puttanate". Eppure Carlo Digilio, l'artificiere di Ordine Nuovo, ora pentito, ha raccontato che Maggi teorizzava la strategia della tensione. "Io non lo so - ha detto Maggi - con Digilio ci siamo incontrati in questura, voleva che diventassi un infame, per usare un'espressione carceraria". Digilio, infatti, tra il '94 e il '95, aveva iniziato a collaborare all'inchiesta del giudice Guido Salvini e, in un incontro organizzato dal capitano dei Ros Massimo Giraudo, aveva cercato di convincere Maggi a seguirlo su quella strada. "Mi disse - ha ricordato in aula Maggi - che dovevo dire di conoscere alcuni agenti della Cia". Maggi ha ricordato i numerosi incontri avuti con il capitano Giraudo che gli disse che stavano emergendo elementi a suo carico in relazione all'indagine su Piazza Fontana. "Mi diceva - ha ricordato Maggi - che avrei fatto meglio a collaborare e raccontare cose penalmente rilevanti sul mio conto. Mi disse anche che se avessi collaborato sarei stato riassunto come medico in ospedale e che mi avrebbero dato del denaro". Denaro, Maggi, lo ricevette invece da Rudy Zorzi, fratello di Delfo Zorzi, il principale imputato al processo. "Alle fine del '94 - ha ricordato Maggi - Rudy Zorzi mi chiese se avevo bisogno di denaro. Mi fece avere 14 milioni, quattro a me e dieci a mia moglie. Perche' me li diede? Per aiutarmi perche' la mia era una situazione finanziaria disperata". Mentre pero’ gli avvocati Lodovico Mangiarotti e Barbara De Biasi depositano la loro "controindagine" che smentisce la pista della Cia, paradossalmente è proprio Maggi a riparlarne:"E' vero, il mio amico Soffiati sospettava che Digilio fosse un agente Cia: me lo disse in carcere". E su Amos Spiazzi, il colonnello della "Rosa dei venti" ora condannato per la strage in questura, addirittura non ha dubbi:"Lo capii quando lo assolsero in appello proprio perché era dei servizi... cioè, perché aveva fatto tutto per dovere. Poi Spiazzi stesso mi spiegò che era di una branca speciale dei servizi". Ma il personaggio Maggi, innocente o colpevole che sia, forse si riassume in un'esclamazione:"A Verona ho espulso da Ordine Nuovo uno che si vantava di essere un reduce delle SS, e invece non era vero!".
Sulla vicenda pubblica un articolo "Il Corriere della Sera":
“MILANO - "No, non mi chiamo David Carret. Io sono Charles Smith. Ecco i miei documenti". "No, io non sono la moglie di Carret. Mi chiamo Dolores Smith perché ho sposato proprio Charlie. Ecco i miei documenti". Una controindagine difensiva - culminata in un viaggio di due avvocati italiani negli Stati Uniti - mette in dubbio un passaggio centrale delle nuove tesi accusatorie sulla strage di piazza Fontana: il presunto coinvolgimento della Cia - in particolare di un ufficiale dei servizi americani - nell'"addestramento" dei neonazisti veneti accusati di avere eseguito l'eccidio del 12 dicembre 1969. Quel giorno, a Milano, scoppiò la prima delle bombe che insanguinarono un decennio di storia italiana: l'attentato provocò 16 morti e 84 feriti, ma è ancora senza colpevoli.
IL PROCESSO - Oggi, nel nuovo processo in corso a Milano, gli avvocati del principale imputato, l'ex ordinovista Delfo Zorzi (latitante in Giappone) consegneranno alla Corte d'Assise una controinchiesta che alla difesa sembra decisiva: le testimonianze di due coniugi statunitensi - documentate da una videoregistrazione di 80 minuti - smentirebbero non solo le dichiarazioni del più importante terrorista "pentito", Carlo Digilio, ma anche il "riconoscimento fotografico" dell'ufficiale americano da lui indicato come "il mio superiore nella rete Cia in Italia".
LA FOTOGRAFIA - L'ipotesi di una copertura americana ai terroristi neri italiani (in funzione anticomunista) nasce dalle rivelazioni raccolte fino al '95 dal giudice Guido Salvini. L'uomo-chiave, secondo il pentito Digilio, è "David Carret, ufficiale della Marina statunitense in servizio nella base di Verona dal '65 al '74". Nel rapporto sulla presunta "rete Cia", il capitano Giraudo, collaboratore di Salvini, sottolinea che "fu Carret a reclutare Digilio come informatore e ad addestrarlo" in una lunga serie di incontri. Il rapporto spiega che "non è stato possibile identificare l'agente Carret", ma rimarca che Digilio lo ha riconosciuto "in una foto fornita da Dario Persic", un simpatizzante di destra sentito come teste. L'immagine ritrae i coniugi Persic e una coppia di americani. Sul retro è annotata a penna la data del "23/12/72" con un'indicazione sgrammaticata che sembra contraddire Digilio: "Ciarly Smit e la moglie a casa di Giovanni". Ma per l'accusa il nome sbagliato è in realtà un riscontro: "Persic ha riferito - scrive infatti Giraudo - che la foto fu scattata a casa di Giovanni Bandoli, che usava indicare Carret e tutti gli americani con il nome di Charlie Smith". Anche Bandoli, secondo Digilio, era un "agente Cia".
IL TESTIMONE - Il 21 dicembre 2000, al processo su Piazza Fontana, Bandoli conferma solo di avere lavorato "dal '55 al '91, come autista, nelle basi Nato di Verona e Vicenza" e di avere "conosciuto Digilio e Maggi". Ma quando un avvocato di Zorzi gli mostra la foto di Carret, il testimone smentisce: "Questo è il mio amico Charlie Smith con sua moglie Dolores". Bandoli, a sorpresa, aggiunge: "Avevo fornito al giudice Salvini anche l'indirizzo di Smith, recuperato da una sua vecchia lettera". Il presidente della corte, a questo punto, chiede informazioni. E in breve il pm Meroni consegna la risposta di Giraudo: l'indirizzo fornito già durante le indagini da Bandoli e la precisazione che al capitano non fu chiesto di approfondire quella pista, ritenuta falsa. Quindi la difesa di Zorzi incarica due investigatori di convocare come teste l'ipotetico "Charles Smith detto Charlie". A sorpresa, l'atto risulta "notificato". E il 20 febbraio due avvocati degli studi Pecorella e Franchini partono per New York, da dove telefonano ai "coniugi Smith", che vivono in Kansas e, sorpresi dalla citazione già ricevuta, accettano di parlare. Il 24 febbraio scorso, nell'ufficio interrogatori della polizia ("Sheriff's Department") di Oskaloosa, nella contea di Jefferson, i due statunitensi rispondono alle domande tradotte dal loro legale, Michael C. Hayes.
IL VIDEO - Gli avvocati italiani videoregistrano tutto. Davanti al loro "vicesceriffo", i due testimoni si presentano come "Charles e Dolores Smith", fanno fotocopiare i loro documenti, confermano di avere vissuto in Italia "fino al 1968". E, soprattutto, si riconoscono nella stessa fotografia del '72 in cui il pentito Digilio, anche al processo, aveva invece identificato il capitano Carret. "Charles detto Charlie" aggiunge di avere lavorato alla base di Vicenza, "ma come magazziniere", e di essere partito per il Vietnam "nel '69". Sua moglie conferma: "Questi siamo io e mio marito". Entrambi dichiarano di avere conosciuto "Johnny Bandoli". E consegnano quattro fotografie degli anni '60 che li ritraggono proprio con quell'"amico italiano". E Carret? I coniugi Smith cadono dalle nuvole: "E' un nome che non abbiamo mai sentito".

9 marzo - I giudici della Seconda Corte d' Assise di Milano, davanti ai quali si celebra il processo per la strage di piazza Fontana, respingono le istanze dei difensori di Delfo Zorzi in relazione all' acquisizione agli atti di un colloquio investigativo avvenuto negli Stati Uniti con Charlie Smith, l' ex ufficiale della Marina degli Stati Uniti, identificato dal pentito Carlo Digilio come David Carret, agente della Cia. I giudici hanno anche respinto l' istanza dei difensori di produrre i bonifici bancari sui presunti versamenti di denaro a favore del pentito Martino Siciliano, che sarebbero stati fatti dal giudice Guido Salvini. I giudici hanno respinto l' istanza in quanto, hanno spiegato nella loro ordinanza, la vicenda non fa parte del processo in corso. I giudici hanno respinto l' istanza di deposito dell' intero materiale spiegando che il colloquio investigativo e' sostanzialmente avvenuto al di fuori delle regole processuali. L' ufficio del pubblico ministero, infatti, non era stato avvertito preventivamente dell' attivita' investigativa da parte delle difesa. I giudici hanno anche spiegato che sia Charlie Smith che la moglie Dolores sono citati in qualita' di testimoni e quindi devono presentarsi all' udienza. I difensori di Zorzi su questo punto, nell' udienza di ieri, avevano spiegato che i coniugi Smith sono privi di passaporto e che quindi non possono venire in Italia. La Corte, nella sua ordinanza, a questa osservazione ha replicato che la questione del passaporto e' facilmente superabile per cui ha convocato Charlie Smith e la moglie Dolores per l' udienza del 20 marzo.

12 marzo – Processo per la strage di piazza Fontana: il pm Massimo Meroni e gli avvocati di parte civile danno il consenso ad acquisire le fotografie e il video registrato di Charlie Smith, l'ufficiale della marina Usa, che sarebbe l’ uomo che il pentito Carlo Digilio aveva identificato come l' agente della Cia David Carret. L' avv. Sinicato, patrono di parte civile per i familiari delle vittime della strage, ha spiegato: “E' vero che Digilio ha sbagliato l' identificazione. Cio' non vuol dire che ha volutamente mentito. Lo stesso Charlie Smith quando gli e' stata mostrata la fotografia ha avuto difficolta' a riconoscersi”. I deputati di An Enzo Fragala' e Alberto Simeone dichiarano che “Se gli atti prima rifiutati e poi accettati dai giudici della Corte d'Assise di Milano riguardanti la deposizione dell'agente della Cia Charlie Smith confermeranno l' inattendibilita' di Carlo Digilio, il castello accusatorio crollera' e tutto il processo per la strage di piazza Fontana dovra' essere rivisto”. Si tratta di un processo - secondo i due esponenti di An - “nato male e finito peggio, sulla scorta di un teorema giudiziario creato dal giudice istruttore Salvini, diventato referente di due pseudo-pentiti: uno, il Martino Siciliano pagato con cento milioni del Sismi e poi beneficiato di un bonifico mensile da parte dello stesso Salvini; l'altro, lo stesso Digilio, totalmente incapace di intendere e di volere”. A questo punto - affermano Fragala' e Simeone - “dinanzi alla frana del castello accusatorio aspettiamo di vedere cosa fara' il ministro Fassino rispetto alla ventilata ipotesi dell'estradizione di Delfo Zorzi”.

16 marzo – Il settimanale "Tempi" presenta il libro “Piazza Fontana” di Pierangelo Maurizio, edito da Maurizio:
“È costretto a stamparsi i libri da solo, perché non trova un editore disposto a scommettere sulle sue scomode verità. Ma Pierangelo Maurizio non demorde. In "Morte di un eroe cristiano" ha raccontato la limpida testimonianza di fede del commissario Calabresi, e sollevato sulla sua fine inquietanti interrogativi, ben al di là della consueta pista LC. Ora l'indagine si è allargata, estendendosi ai silenzi, ai depistaggi, alle connivenze che hanno accompagnato le inchieste sull'attentato che ha cambiato la storia della Repubblica. Tutti con un denominatore comune: distogliere le indagini dai pesanti indizi che conducevano verso gli anarchici (e l'editore Giangiacomo Feltrinelli) e accreditare la pista nera. Che legittimava, in nome della "vigilanza antifascista", l'avvicinamento del PCI all'area del potere. Eccellente antidoto a libri come il recente Strage di Stato (Einaudi), che non fanno che riproporre i soliti cliché.”

19 marzo - "Le autorita' giapponesi dovranno valutare attentamente se questo individuo merita e ha le caratteristiche di onorabilita' per continuare ad essere un cittadino giapponese". E' quanto ha rilevato il ministro degli Esteri Lamberto Dini a proposito dell'estradizione di Delfo Zorzi dopo un colloquio con il ministro degli esteri giapponese Yohei Kono nel corso del quale e' stato toccato anche il caso dell'ex ordinovista veneto sotto processo a Milano per la strage di Piazza Fontana. "I contatti proseguono",ha detto Dini. "Dobbiamo trovare una soluzione che rispetti la legge giapponese ma che dia soddisfazione anche al governo italiano che ha posto questo problema ormai da anni". Il responsabile della Farnesina ha ricordato che contatti sono in corso anche tra i due ministeri della giustizia allo scopo di trovare una soluzione. "C'e' la questione dell'estradizione e della naturalizzazione" di Zorzi come cittadino giapponese, ha osservato ancora Dini.

19 marzo - Dopo un esilio in Sudafrica durato 21 anni, Gianadelio Maletti ha lasciato ieri sera Johannesburg per Milano dove e' arrivato in mattinata. L'ex capo del Reparto D del Sid, latitante da anni, ha accettato di tornare in patria e domani deporra' davanti alla Corte d'Assise di Milano sulla strage di Piazza Fontana. Il generale Maletti sara' in Italia per alcuni giorni, protetto da un salvacondotto previsto dall'articolo 728 del Codice di Procedura penale, che stabilisce come una persona che compare per deporre non possa essere sottoposta a restrizioni della liberta' personale. L'estate scorsa Maletti e' stato condannato a 15 anni per strage, al termine del processo per l'attentato alla questura di Milano del 17 maggio 1973. La condanna ha spronato Maletti, che in tutti gli anni di latitanza aveva mantenuto il piu' assoluto silenzio sul suo ruolo nella "strategia della tensione", a decidere di parlare. Dopo lunghi e delicati negoziati condotti dal suo legale di fiducia, avvocato Michele Gentiloni, con la Procura di Milano, il generale ha accettato di tornare in Italia per deporre. Considerazioni di natura personale hanno anche giocato un ruolo nella decisone di rientrare: Maletti, hanno fatto sapere fonti a lui vicine, non e' in buona salute e desiderava da tempo rientrare in patria, dove vive sua figlia. Dopo ventuno anni di silenzio, c'e grande attesa per le parole di Maletti, da molti considerato l'unico in grado di rivelare i retroscena e i segreti di uno dei periodi piu' bui della storia della Repubblica italiana. L'ex capo dell'Ufficio D del Sid Gianadelio Maletti, giunto stamani a Milano con un aereo proveniente Johannesburg rimarra' in Italia per cinque giorni. L'ex generale, che domani sara' sentito come imputato in procedimento connesso al processo per la strage di piazza Fontana, in corso a Milano davanti ai giudici della seconda Corte d'Assise, non potra' usufruire dell'intero salvacondotto di 15 giorni che gli e' stato accordato. Dal 24 marzo, infatti, sara' soppresso il volo diretto da Milano per il Sud Africa, sicche' l'ex generale dovrebbe imbarcarsi su altri voli e fare scalo in altri aeroporti europei dove, in teoria, potrebbe esser fermato e arrestato non essendo coperto dal salvacondotto. Dopo la deposizione di domani l'ex generale, giovedi', sara' sentito anche dai magistrati della Procura di Brescia che indagano sulla strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 (otto morti e un centinaio di feriti).

19 marzo - I deputati di An Enzo Fragala' e Nino Lo Presti criticano il ministro degli esteri Lamberto Dini, che si impegna per l'estradizione dal Giappone di Delfo Zorzi, estremista nero ricercato per la strage di piazza Fontana ma trascura, secondo i parlamentari, quella del brigatista rosso Alvaro Loiacono. Dini, accusano Fragala' e Lo Presti, "si da' un gran da fare come il suo collega Fassino per estradare Delfo Zorzi" nonostante il fatto che il "teorema accusatorio" contro di lui starebbe "crollando sotto le prove raccolte dalla difesa". Per contro, sempre secondo i deputati, Dini "finge di dimenticarsi della vicenda Loiacono", gia' condannato all' ergastolo per l'omicidio Moro e a 16 per quello dello studente greco di destra Mikis Mantakas. Fragala' e Lo Presti concludono lanciando un appello al capo dello stato, perche' solleciti i ministri "ad attivarsi per l'estradizione di Loiacono: e' una questione di civilta' giuridica e dignita` nazionale".

20 marzo - L' ex capo dell' ufficio del Sid, Gianadelio Maletti, arriva alle 9.45 all' aula bunker di piazza Filangeri, a Milano, dove si svolge il processo per la strage di piazza Fontana. Maletti, condannato a 14 anni di reclusione per depistaggio e a 15 anni di reclusione nel processo per la bomba davanti alla questura di Milano, ha ottenuto un salvacondotto di 15 giorni per poter deporre. Maletti da 21 anni vive in Sud Africa dove dal 1980 ha anche ottenuto la cittadinanza. Durante l’ interrogatorio Maletti dice che "E' probabile che la Cia abbia aiutato movimenti eversivi italiani che facevano comodo alla politica americana" e spiega i rapporti che esistevano all'epoca tra il Sid e la Cia. Rapporti sostanzialmente di "sudditanza" da parte del servizio italiano nei confronti di quello americano. A quanto ha raccontato Maletti, insomma, gli agenti della Cia poco o nulla riferivano ai nostri servizi, anche se indagavano sulle questioni italiane. Per fare un esempio, ha citato Edgardo Sogno. "Sogno - ha detto Maletti - ha avuto rapporti con uomini della Cia. Stava raccogliendo le fila per un golpe, di questo ne ha parlato con la Cia che pero' non ha informato i nostri servizi. Questa mi pare una politica scaltra tra alleati". Maletti ha anche spiegato che il servizio americano aveva avuto precise informazioni sulla vicenda della 'Rosa dei Venti'. All'inizio dell' udienza le difese di Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi hanno sollevato un' eccezione sulla possibilita' di sentire l' ex generale del Sid. Secondo gli avvocati delle difese, Maletti dovrebbe essere sentito come testimone e quindi giurare; secondo il pm, invece, Maletti doveva essere sentito come indagato in procedimento connesso. La Corte ha deciso di sentire Maletti in quest'ultima veste. Maletti racconta anche che il Sid aveva infiltrati in Ordine Nuovo e in Avanguardia Nazionale:”Avevamo infiltrati e informatori". Il generale ha spiegato alla corte che, per i servizi, era "normale" infiltrare le organizzazioni di estrema destra, e dice anche che "Il servizio americano contribuiva a finanziare a livello economico il Sid". "Il servizio americano –per Maletti - ha avuto anche una parte importante nella costituzione di Capo Marrargiu". L' ex capo del reparto D del Sid ha riferito che la Cia in Italia aveva molte basi, e tra queste erano operative anche le caserme della Setaf e della Ftase. "Nel 1971 ho appreso che anni prima, attraverso il passo del Brennero, era arrivato dell' esplosivo direttamente dalla Germania per una cellula veneta di destra" afferma anche l' ex capo del reparto D del Sid, spiegando di avere appreso questa notizia nel 1971 direttamente dal capo centro del servizio a Padova. Conversando con i giornalisti durante la pausa dell'udienza, Maletti dice anche:"Ho sempre avuto la sensazione che ci sia stata una matrice e un appoggio oltre frontiera. Certo, non penso ai tedeschi" ha detto ancora Maletti, aggiungendo "L'aiuto non poteva venire che da la'. Pensate che negli Stati Uniti ci sono tutt'oggi gruppi neonazisti". Maletti, che aveva parlato del suo trasferimento durante l' udienza, e' ritornato su questo punto conversando con i giornalisti: "Nel '75 sono stato trasferito. C'e' stato in me un senso di frustrazione, perche' per la strage di Piazza Fontana, come servizio non ci interessavamo piu', in quanto si occupava l'autorita' giudiziaria. C'erano pero' stati altri attentati e io stavo indagando su gruppi dell'eversione di destra e di sinistra". Sul ruolo della Cia e dei servizi militari statunitensi, Maletti ha un' idea chiara: "Aiutavano i movimenti eversivi italiani che facevano comodo alla politica americana". Lo facevano in modo prepotente, senza coinvolgere i servizi italiani: "Un esempio questo - ha detto Maletti - di sovranita' limitata. Loro sostenevano economicamente il Sid ma non davano alcuna informazione". Le basi degli agenti della Cia, proprio come ha detto Digilio, erano le caserme della Ftase e della Setaf di Verona e Vicenza. Anche su questo punto ha detto di non avere prove, ma ha aggiunto: "Io so che le cose stanno cosi' anche perche' ho fatto un corso di due anni negli Usa. Lo so per esperienza, lo so perche' sapere quelle cose era il mio mestiere". L'ex generale ha anche confermato che il servizio segreto italiano infiltrava le organizzazioni di estrema destra. "Tutti infiltravano tutti. Era un groviglio inestricabile". E ha anche ricordato che tra le fonti c'era quella denominata 'Tritone', ovvero l'ordinovista Maurizio Tremonte, ora indagato per la strage di piazza della Loggia a Brescia. Piu' reticente, invece, e' stato sulla riunione del 18 aprile del 1969 avvenuta a Padova, nel corso della quale, secondo Marco Pozzan, che ha poi ritrattato, vennero decisi gli attentati ai treni dell'estate. A quella riunione, secondo il primo racconto di Pozzan, oltre a Freda e Ventura era presente anche Pino Rauti. Su questa vicenda, Maletti non ha detto chi fu la fonte che lo informo' nonostante esista un suo manoscritto nel quale scriveva al capitano La Bruna che non avrebbe fatto quel nome. Di voler tornare in Italia per deporre, a certe condizioni, Maletti aveva parlato all' inizio di agosto del 2000, in un' intervista a “La Repubblica”. Maletti aveva detto:"Ripetero' tutto davanti all' autorita' giudiziaria, purche' ci siano le condizioni. E'chiaro che mi voglio tutelare, ho gia' pagato abbastanza per delle accuse infondate". Ottanta anni ancora da compiere, Maletti e' stato al centro di molte delle vicende piu' oscure della storia italiana. Nato il 30 settembre 1921 a Milano, da una famiglia piemontese di antiche tradizioni militari, finisce anche lui nell' esercito e poi nel Sid, che allora era l' unico servizio segreto italiano. Dirige l' ufficio "D" dal 1971 al 1975 quando il capo del Sid era il gen. Vito Miceli. I due erano divisi da una fiera rivalita', nonostante i nomi di entrambi comparissero poi nelle liste dei presunti iscritti alla loggia massonica P2, trovate nel 1981 negli uffici della Gio.Le. di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. Quando scoppia lo scandalo P2 Maletti si trovava gia' in Sudafrica. Dalla carica nel Sid, secondo quanto scrisse allora Lino Jannuzzi sul settimanale "Tempo", Maletti fu destituito improvvisamente dopo un' intervista rilasciata allo stesso settimanale in cui parlava di una riorganizzazione delle Brigate rosse "sotto forma di un gruppo ancora piu' segreto e clandestino e costituito da persone insospettabili, anche per censo e per cultura, e con programmi piu' cruenti" e che "i mandanti restavano nell' ombra, ma non direi che si potessero definire 'di sinistra"'. Maletti era gia' stato arrestato per qualche settimana nel 1976, insieme al suo braccio destro, il cap. Antonio Labruna, nel corso delle indagini per la strage di piazza Fontana. Per la strage del 1969 alla Banca nazionale dell' Agricoltura il generale ebbe una condanna definitiva ad un anno per falsita' ideologica in atti pubblici (per il passaporto procurato a Marco Pozzan, all' epoca imputato di strage). Ma il gen. Maletti ha avuto anche altri problemi con la giustizia italiana. Nel 1996 e' passata in giudicato anche la condanna a 14 anni subita nel processo per l' attivita' della P2, per procacciamento di notizie riservate. Di un anno fa e' invece la condanna in primo grado a 15 anni nel processo davanti alla quinta Corte d'Assise di Milano sulla strage davanti la questura di Milano del 1973 per l' accusa di occultamento di notizie riguardanti la sicurezza dello Stato. Nelle motivazioni la sua responsabilita' viene definita "manifesta e gravissima". L'allora capo del reparto 'D' del Sid "seppe dei propositi di attentato a Rumor addirittura prima che venisse perpetrato", omise di riferirli alla magistratura e occulto' documenti e nastri magnetici importanti. Nel 1999 invece il generale era stato assolto nel processo per il disastro dell' "Argo 16", l' aereo dei servizi segreti precipitato nel 1973. Per lui il pm aveva chiesto una condanna a 8 anni per soppressione di atti concernenti la sicurezza dello Stato. Nel 1997, la commissione stragi va in Sudafrica per sentire Maletti (che era gia' stato interrogato a Johannesburg l' anno precedente dai giudici perugini del processo Pecorelli e nel 1991 dal giudice veneziano Casson, che indagava su Gladio). Nell' audizione, durata quasi tutto il giorno, Maletti delineo' un quadro di forte dipendenza dei servizi italiani da quelli americani, e disse di aver informato il ministro della Difesa sul "salto di qualita"' delle Br ma che il suo allarme non venne raccolto. Maletti avrebbe avvalorato anche l' ipotesi di una pluralita' di reti anticomuniste operanti in Italia e detto di aver ricevuto, fino a meta' degli anni ottanta, minacce riconducibili ad ambienti italiani. Maletti accuso' politici italiani di aver chiuso gli occhi, volontariamente e per fini politici, prima nei confronti del terrorismo di destra e poi, quando ne venne denunciata la pericolosita', anche verso le Br. "Ci sono stati episodi, non solo nel Sid - disse Maletti - che fanno pensare che alcune direttive venissero impartite nel senso di tollerare, e di chiudere gli occhi su avvenimenti molto gravi. Con cio' mi riferisco al ministro della Difesa, dell' Interno ed anche alla Presidenza del Consiglio". Piu' o meno gli stessi concetti, Maletti li ripete nell' intervista dell' agosto del 2000:"La Cia voleva creare attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell'estrema destra, Ordine nuovo in particolare, l'arresto del generale scivolamento verso sinistra. Questo e' il presupposto di base della strategia della tensione". L' ultima intervista rilasciata da Maletti e' del gennaio di quest' anno, dopo le rivelazioni di un pentito di mafia su un presunto collegamento dell' uccisione del giornalista Mauro De Mauro con il golpe Borghese.

20 marzo – Nel link potete trovare a confronto i resoconti di “Corriere della Sera”, “Stampa”, “Repubblica” e “Messaggero” sull’ interrogatorio del gen. Gianadelio Maletti, al processo per la strage di piazza Fontana.

20 marzo - "Fino ad ora mi pare che si sia scoperta l'acqua calda". Lo ha detto il giudice veneziano Carlo Mastelloni, commentando le dichiarazioni dell'ex capo del reparto D del Sid, gen. Gianadelio Maletti, sentito al processo per la strage di piazza Fontana come testimone indagato in procedimento connesso.

20 marzo - Al processo per la strage di piazza Fontana, il pm Massimo Meroni chiede la testimonianza di Anna Fusco, figlia di Matteo Fusco, ufficiale del Sid che il giorno della strage di piazza Fontana sarebbe dovuto essere a Milano per sventare l'attentato, e qulla di Paolo Emilio Taviani. La vicenda era emersa nel settembre dello scorso anno quando l'ex ministro Paolo Emilio Taviani, sentito dai Ros, aveva raccontato di avere appreso che un uomo del Sid era stato inviato da Roma a Milano per bloccare il piano stragista. In realta' Matteo Fusco, giunto all'aeroporto di Roma aveva appreso alla radio che una bomba era scoppiata alla Banca nazionale dell'Agricoltura, per cui aveva fatto marcia indietro. In questi giorni Anna Fusco, figlia dell'ufficiale del Sid morto qualche anno fa, e' stata sentita e ha sostanzialmente confermato questa versione. La donna, che e' molto malata, e che all'epoca era vicina al Movimento studentesco, ha confermato che il padre visse con il cruccio di non essere riuscito ad evitare la strage.

21 marzo - Il senatore Vincenzo Manca (FI), vicepresidente della commissione stragi, dichiara che la commissione ha condotto riscontri sulle affermazioni fatte nell' agosto dell' anno scorso dal generale Gian Adelio Maletti, gia' responsabile dell' Ufficio D del Sid, sul fatto che l' esplosivo utilizzato per la strage utilizzato per la strage di Piazza Fontana venisse dalla Germania. Questi riscontri sarebbero stati negativi e Manca accusa l' alto ufficiale di aver detto cose false e destituite di ogni riferimento e riscontro probatorio" "Va rilevato con amarezza - dice il senatore di Fi - che un personaggio delle istituzioni che ha indossato l' uniforme non puo' centellinare verita' a rate o, addirittura, affermando l' esatto contrario (arrivando a smentire se' stesso) cosi' come accaduto davanti alla commissione Stragi, durante la sua lunga audizione in Sud Africa nel marzo 1997". Manca afferma infatti che la Commissione ha verificato che l' unico elemento che conforta le affermazioni di Maletti sulla provenienza dell' esplosivo utilizzato per la strage del 12 dicembre 1969 e' contenuta in un appunto generico, datato 1974, relativo a presunte partite di armi ed esplosivo provenienti non gia' dalla Germania ma dall' Olanda. "Ma dalle cronache apprendiamo, inoltre, che il gen. Maletti avrebbe maturato il convincimento di venir a deporre al processo per 'amor di patria'. Dalle stesse apprendiamo che la sua latitanza in Sud Africa e' stata resa possibile oltreche' dalla pensione di ufficiale delle forze armate italiane, anche da un vitalizio versatogli dal Mossad, il servizio di sicurezza israeliano. La domanda e' questa: a quale amor di patria ha fatto riferimento ieri Maletti durante l' udienza in Corte d' Assise?".

22 marzo – Il gen. Gianadelio Maletti non si presenta negli uffici della Procura di Brescia per essere interrogato dai pm bresciani titolari dell'inchiesta sulla strage di piazza della Loggia. Si e' saputo, nel frattempo, che la difesa del generale dei carabinieri Francesco Delfino, indagato nell'inchiesta, ha chiesto che Maletti venga sentito con la formula dell'incidente probatorio. Il gip Francesca Morelli non ha ancora deciso se disporlo o meno. Maletti, che e' giunto in Italia con un salvacondotto dovrebbe pero' ripartire per il Sud Africa gia' domani. Pur avendo ottenuto un salvacondotto di 15 giorni, infatti, Maletti e' costretto ad anticipare il suo rientro in quanto poi sara' soppresso il volo diretto Milano Johannesburg. Il generale dovrebbe quindi fare scalo in altri aeroporti e, in teoria, essere arrestato. Della strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 (8 morti e un centinaio di feriti), l'ex capo del reparto D del Sid, Gianadelio Maletti, non ha mai detto nulla. Il 3 marzo 1997, davanti alla commissione Stragi che lo aveva sentito a Johannesburg, si era limitato a dire che non ricordava nulla. Eppure il generale Gianadelio Maletti era stato nominato capo del Reparto D del Sid nel 1971 ed era rimasto fino al 1975. Alla domanda del senatore Co' se poteva dire qualche cosa sulla strage di Piazza Loggia, Maletti aveva replicato: "No senatore, mi dispiace, ma non ricordo proprio piu' niente di questa questione di piazza Loggia. E' stata purtroppo una delle questioni molto serie e molto gravi, ma non e' stato uno degli elementi della sovversione sul quale noi abbiamo ottenuto successo, se non mi sbaglio: quindi non mi e' rimasto impresso granche' di quella vicenda". Il presidente Giovanni Pellegrino aveva sollecitato Maletti affinche' desse una spiegazione sul ruolo dell'Arma dei carabinieri in relazione alle inchieste sulla strage, sul Mar Fumagalli e sull'uccisione del neofascista Giancarlo Esposti a Pian del Rascino. "A distanza di tanti anni - era stata la risposta dell'ex capo del reparto D del Sid - direi che l'Arma dei carabinieri si e' sempre comportata bene e non so quanti e quali elementi avesse per poter intervenire in modo piu' efficace e se ci fossero state delle limitazioni politiche al suo intervento. Queste sono ipotesi che si possono formulare ma che hanno a mio parere, dette in questo modo da me come soltanto le posso dire, poco valore". A Paolo Corsini, all'epoca parlamentare Ds e membro della commissione Stragi, ora sindaco di Brescia, Maletti aveva risposto di non avere mai conosciuto il generale Francesco Delfino, all' epoca della strage capitano comandante del Nucleo operativo dei carabinieri di Brescia. Delfino, recentemente condannato per truffa in relazione al sequestro dell' imprenditore Giuseppe Soffiantini, aveva condotto le indagini oltre che sulla strage, anche sul Mar Fumagalli. Maletti aveva anche spiegato di non avere avuto conoscenza di eventuali rapporti di Delfino con i servizi italiani e stranieri. Quindi sull'uccisione da parte di Mario Tuti e Pierluigi Concutelli in carcere a Novara di Ermanno Buzzi, l'estremista di destra, condannato all'ergastolo al processo di primo grado per la strage, Maletti aveva replicato di non essersi fatto un'idea. All'insistenza di Corsini, Maletti aveva replicato di non avere seguito quelle vicende. Della strage di piazza della Loggia, l'ex generale, forse, aveva detto piu' cose in un' intervista giornalistica dell' estate scorsa. Parlando del ruolo della Cia nella strategia della tensione, aveva affermato: "La Cia ha cercato di fare cio' che aveva fatto in Grecia nel '67 quando il golpe mise fuori gioco Papandreu. In Italia le e' sfuggita di mano la situazione. L'effetto che alcuni attentati dovevano produrre e' andato oltre. Piazza Fontana, che io sappia, e' andata cosi'. Devo presumere anche per piazza della Loggia, per l'Italicus, per Bologna". E aveva aggiunto: "Riguardo ai politici voglio aggiungere una sensazione che per me e' quasi una certezza. A quel tempo, molti di loro, compreso il Capo dello Stato, Leone, furono costretti ad accettare il gioco".

22 marzo - All'unanimita' e dopo un confronto dai toni pacati la commissione di inchiesta sulle stragi e il terrorismo chiude i lavori, dopo 13 anni, con l'approvazione di un ordine del giorno che autorizza la pubblicazione immediata ed integrale di tutti gli elaborati prodotti dai gruppi o dai singoli commissari (18). Quindi nessuna votazione, nessuna trasmissione di documenti al Parlamento, ma solo la presa d'atto, la "fotografia" della situazione di stallo che si e' venuta a creare e che non ha permesso di arrivare ad un voto. Un verdetto di 'no contest' che chiude un confronto politico-storico aspro che non si e' concretizzato in un giudizio condiviso sui principali temi dei rapporti fra eversione e politica nella storia della Repubblica italiana. La scelta di pubblicare i 18 contributi presentati dai vari gruppi e' stata fatta "ritenendo indubbia l'utilita' e il senso complessivo della esperienza della commissione" dato che il materiale raccolto dalla Commissione "e' di notevole importanza per una valutazione complessiva della storia piu' recente del nostro Paese" Tutti i gruppi hanno condiviso, alla fine, l'ordine del giorno che prende atto della situazione politica che si e' venuta a determinare con l'impossibilita' pratica di esprimere un giudizio. "La mia sconfitta - ha detto al termine Giovanni Pellegrino - presidente della commissione - e il mio rammarico e di non aver potuto concludere con un risultato e giudizio condiviso ma questa commissione non e' niente altro che lo specchio del Paese. Un Paese ancora incapace di guardare al suo passato e di esprimere un giudizio maturo. Mi sarebbe piaciuto che la destra facesse la storia dei rapporti dell'Msi con An e Avanguardia nazionale e che la sinistra narrasse per intero la vicenda del Pci e i contributi dall'Est. Avremmo avuto una storia politica complessiva permeata di pietas. Ma cio' non e' stato possibile". Pellegrino si e' riservato di spiegare come si e' giunti a questo risultato di 'no contest' nella prossima e ultima relazione semestrale che inviera' ai presidenti delle Camere per illustrare il lavoro fatto. La commissione ha anche deliberato i criteri di pubblicazione degli atti. Saranno pubblicati, oltre ai 18 documenti finali, i resoconti stenografici delle sedute e le relazioni semestrali. La commissione ha deliberato la pubblicazione integrale, ma su cd-rom, di tutti i documenti che ha prodotto o che sono stati inviati a San Macuto o comunque che sono stati acquisiti nel periodo tra la X e la XIII legislatura. I documenti coperti da una qualche forma di segreto saranno pubblicati dopo aver verificato la presenza o meno di questa condizione. Sara' pubblicata anche la raccolta della rassegna stampa e gli elaborati prodotti dai collaboratori della commissione. Sono stati esclusi dalla pubblicazione gli scritti anonimi o quelli che sono stati inviati a titolo personale da soggetti privati o pubblici. Gli atti e i documenti originali, compresi quelli per i quali non e' consentita la pubblicazione, verranno versati all'archivio storico del Senato.
Nella X Legislatura la Commissione ha approvato quattro relazioni: Ustica, Caso Moro, Terrorismo in Alto Adige, Gladio; nella XI Legislatura la Commissione ha approvato tre relazioni (sull'attivita' svolta nel periodo giugno '93 - febbraio '94, relazione sulle stragi meno recenti, relazioni sugli ultimi sviluppi del caso Moro); nella XIII Legislatura la Commissione ha approvato una relazione sull'omicidio del professor Massimo D'Antona.
Queste sono le relazioni presentate e non messe ai voti nell' ultima legislatura:
   Sen. Follieri (Ppi) - "Gli eventi eversivi e terroristici degli anni tra il 1969 e il 1975";
   On. Fragala' (An) - "Il Piano solo e la teoria del golpe negli anni '60";
   Gruppo Ds - "Stragi e terrorismo in Italia dal dopoguerra al 1974";
   Sen. Mantica (An) - "Il parziale ritrovamento dei reperti di Robbiano di Mediglia e la 'Controinchiesta Br su Piazza Fontana";
   Sen. Mantica (An) - "Aspetti mai chiariti nella dinamica della strage di Piazza della Loggia - Brescia 28 maggio 1974";
   Sen. Mantica (An) - "Il contesto delle stragi. Una cronologia 1968-1975";
   Sen. Manca (Fi) - "Relazione sulla sciagura aerea del 27 giugno 1980' (Ustica)";
   Sen Manca (Fi) - "Il terrorismo e le stragi in Italia";
   Sen. De Luca (Verdi) - "Contributo sul periodo 1969-1974";
   Sen Mantica (An) - "Il problema di definire una memoria storica condivisa della lunga marcia verso la democrazia nell'Italia post-bellica";
   Sen. Mantica (An) - "Per una rilettura degli anni '60";
   On. Taradash (Fi) - "L'ombra del Kgb sulla politica italiana";
   Sen. Mantica (An) - "La dimensione sovra-nazionale del fenomeno eversivo in Italia";
   Sen. Bielli (Ds) - "Nuovi elementi concernenti il brigatista rosso Mario Moretti e la sua latitanza";
   Sen. Mantica (An) - "La strage di Piazza Fontana, storia dei depistaggi: cosi' si e' nascosta la verita' ";
   De Luca (Verdi) - "Il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro";
   On. Bielli (Ds) - "La controversa figura di Giorgio Conforto";
   Sen. Manca (Fi) - "Il terrorismo e le stragi impunite in Italia".

22 marzo – Per Enzo Fragala' (An) e il suo collega di gruppo Nino Lo Presti la Commissione stragi non ha piu' senso. Fragala’ annuncia l’ intenzione di battersi, nella prossima legislatura, qualora dovesse governare la Cdl, affinche' venga istituita un'unica 'Commissione Mitrokhin' che dovra' occuparsi di tutte le vicende riguardanti la guerra fredda. Per Fragala’ i lavori della Commissione sono stati "inconcludenti" per volonta' della sinistra e le conclusioni sono state "a coda di topo". Per quanto riguarda Pellegrino "riconosciamo il suo spessore umano e politico ma critichiamo il ruolo di 'arbitro parziale' recitato per salvaguardare la sinistra da quelle verita' storiche e giudiziarie pericolose per i post comunisti al governo".

2 aprile – Al processo per la strage di piazza Fontana, la difesa di Delfo Zorzi ha chiesto la testimonianza dell’ ex ordinovista siciliano Carmelo Cognitore, 55 anni, di Furci Siculo (Messina). Secondo Cognitore, fra il 6 e il 10 dicembre 1969 Zorzi si trovava a Napoli. Il 21 marzo scorso Cognitore ha scritto una lettera all'avv. Gaetano Pecorella, difensore di Zorzi, per comunicargli che aveva notizie importanti a favore del suo assistito. Il 26 marzo, sentito in base all'articolo 361 bis del Codice di procedura penale, che prevede l'interrogatorio investigativo della difesa, l'ex ordinovista siciliano e' stato sentito nello studio dell'avv. Franchin a Venezia. Ha raccontato di essere stato il 6 dicembre 1969 con Zorzi a una conferenza a Pozzuoli (Napoli). Inoltre ha detto di essere stato a cena con Delfo Zorzi o il 9 o il 10 dicembre a Napoli. Carlo Digilio ha sempre raccontato di avere incontrato Delfo Zorzi a Canal Sasso a Mestre il 7 dicembre. In quella circostanza Zorzi gli avrebbe mostrato l'esplosivo e gli avrebbe detto che lo doveva portare a Milano, dove il 12 dicembre ci fu la strage. I giudici della seconda Corte d' Assise di Milano respingono pero' tutte le richieste della difesa di Delfo Zorzi, compresa quella relativa al testimone che si sarebbe ricordato di essere stato a Napoli con l'ex ordinovista di Mestre, tra il 6 e il 10 dicembre 1969. La Corte, dopo una lunga camera di consiglio, ha respinto l' istanza di sentire in aula il testimone perche' avrebbe riferito “fatti non di rilievo”. I giudici hanno anche respinto tutte le richieste di rogatoria, compresa quella riguardante George Bush, ex presidente degli Stati Uniti e padre dell' attuale capo della Casa Bianca. Il processo e' aggiornato al 14 maggio prossimo per l' inizio della requisitoria del pm Massimo Meroni.

8 maggio - Esce in libreria il libro giallo "Quattro gocce d'acqua piovana" (editore Tropea) scritto da Piero Colaprico e Pietro Valpreda con protagonista il maresciallo Binda che, lasciata l'arma e morta la moglie Rachele, vive da pensionato in un paesino sui monti lombardi, leggendo libri di storia e ricordando le vecchie indagini, i casi insoluti. E' la Milano anni '80, da Brera a via Solferino, dai tangentisti ancora intoccabili all'anarchico rapinatore solitario che regala libri al maresciallo che lo ha arrestato, dalle scuole private ai condomini rispettabili, quella che raccontano il cronista che ha seguito Mani pulite per Repubblica ed il ballerino anarchico che ha conosciuto la macchina delle investigazioni dall'altra parte, arrestato per la strage di piazza Fontana. Gia' annunciato il prossimo titolo, "La nevicata dell'85".

14 maggio - Processo per la strage di piazza Fontana: comincia la requisitoria del pubblico ministero Massimo Meroni, che ha condotto l'inchiesta con la collega Maria Grazia Pradella. Il pm ha parlato per tutta la giornata e, secondo le previsioni, dovrebbe concludere il 17 maggio prossimo con le richieste di condanna. Meroni ha iniziato la requisitoria spiegando la genesi del processo che e' una sorta di naturale continuazione di quello di Catanzaro a carico di Franco Freda e Giovanni Venturi, assolti per insufficienza di prove. I due, dato che la sentenza di assoluzione e' passata in giudicato, non sono piu' processabili ma secondo il pm a loro carico in questo processo sono emerse nuove risultanze, soprattutto in ordine all'acquisto dei timers. Il pubblico ministero si e' quindi dilungato in modo puntiglioso, leggendo le dichiarazioni dei numerosi testimoni sentiti in aula, sui rapporti tra Freda e Zorzi, il principale imputato. Quindi ha descritto la strategia stragista e il possesso di esplosivo da parte di Ordine Nuovo.

17 maggio - Continua ancora e si concludera' domani con le richieste del pm Massimo Meroni la requisitoria al processo per la strage di piazza Fontana. Il magistrato, nell' udienza di oggi, ha approfondito il ruolo di Ordine nuovo e le responsabilita' dei cinque imputati. Dopo aver ripercorso la storia dei processi per piazza Fontana, il pm ha sottolineato che in quest'ultimo sono emersi nuovi importanti elementi a carico di Franco Freda e Giovanni Ventura, assolti per insufficienza di prove dalla Corte d' appello di Bari. "Dalle dichiarazioni di molti testimoni - ha detto - emerge inequivocabilmente che i timers appartenenti allo stesso lotto di cui facevano parte quelli usati per la strage erano nella disponibilita' di Franco Freda". Il pm ha ricordato le numerose testimonianze sul tentativo di depistaggio: come fare ritrovare i timers in una casa di Giangiacomo Feltrinelli per accusare la sinistra. Freda e Ventura non sono pero' piu' processabili essendo la sentenza di assoluzione passata in giudicato. Meroni ha quindi ricordato che tra gli anni '70 e '80 negli ambienti carcerari si era aperto un dibattito sulla stagione delle stragi e, citando i numerosi testi comparsi in aula, ha spiegato: "Dal dibattito era emersa la consapevolezza che i gruppi di estrema destra, ed in particolare i gruppi veneti, di cui facevano parte Freda, Ventura e Fachini, fossero responsabili della strage". Il pm ha anche illustrato l' ideologia stragista, a suo giudizio teorizzata da Pino Rauti nel libro 'Guerra rivoluzionaria'. E ha citato Claudio Bizzarri del Centro studi Ordine Nuovo, per il quale, scopo del movimento era di portare al potere una classe dirigente "con un senso quasi religioso dello Stato" con mezzi "diversi da quelli democratici". "All'interno della struttura di Ordine nuovo - ha spiegato il pm - Carlo Maria Maggi e' stato nel corso degli anni '70 uno dei piu' qualificati sostenitori della tesi stragista appoggiata anche da Giancarlo Rognoni". Nella sua requisitoria il pm ha quindi sostenuto attraverso la rilettura delle testimonianze che il gruppo veneto di Ordine nuovo ha sempre avuto disponibilita' di armi ed esplosivo. E ha ricordato gli attentati alla scuola slovena di Trieste, al cippo di confine a Gorizia, messi a segno da Delfo Zorzi, Martino Siciliano e da Giancarlo Vianello e quelli ai treni dell'agosto '69. Il magistrato ha quindi preso in esame le singole posizioni degli imputati a cominciare da Delfo Zorzi, ritenuto l'autore materiale. Contro di lui ci sono soprattutto le dichiarazioni di Carlo Digilio e Martino Siciliano. Quest'ultimo, che non si e' presentato a testimoniare, ha detto di avere raccolto confidenze di Zorzi sulla sua responsabilita' per piazza Fontana. Per il pm indizi di colpevolezza sono da considerare anche i comportamenti avuti da Zorzi durante le indagini preliminari quando, nel '95, e' stato sentito dai magistrati italiani. "Ha tentato - ha detto Meroni - di allontanare da se' il minimo sospetto della sua attivita' nella struttura illegale di Ordine nuovo. Ha negato che il gruppo avesse disponibilita' di armi ed esplosivo e gli attentati di Trieste e Gorizia. Ha negato di aver frequentato Rognoni, mentre quest'ultimo ha dichiarato di aver partecipato con Zorzi a un campo scuola di ON". Oltre alle dichiarazioni di Siciliano, contro Zorzi ci sono quelle di Digilio, noto come 'Zio Otto'. Quest' ultimo, artificiere di ON, ha raccontato che il 7 dicembre '69, a Mestre, incontro' Zorzi che gli fece vedere due casse contenenti esplosivo che doveva trasportare a Milano. Digilio ha sempre tentato di accreditarsi come testimone e mai come protagonista. Carlo Maria Maggi, ispettore di ON per il Triveneto, e' considerato dall'accusa l' ideologo e l'ideatore della strage ed e', tra l'altro, gia' stato condannato all'ergastolo per la strage alla questura di Milano. C'e' stato un momento,durante le indagini preliminari in cui Maggi e' sembrato pronto a collaborare con l'autorita' giudiziaria. Secondo il pm l'ex ispettore di ON in questi anni ha ricevuto a piu' riprese denaro da Zorzi e, per dare prova di fedelta', ha anche denunciato il maggiore dei carabineri Massimo Giraudo che indagava sull'eversione di destra e sulla strage di piazza Fontana. Per l'accusa il ruolo di Giancarlo Rognoni sarebbe stato quello dell' organizzazione logistica: "Vinciguerra - ha detto il pm - ha riferito che la Fenice era inserita organicamente in ON e quindi prendeva ordini da Maggi". Secondo il pm dietro gli autori materiali hanno agito servizi stranieri come la Cia. Lo ha detto lo stesso Carlo Digilio, che ha raccontato di essere un informatore della Cia e di avere avuto come referenti David Carret e Teddy Richiard, in servizio nelle basi Nato di Verona e Vicenza, ma la circostanza e' stata confermata anche dall'ex generale del Sid Gianadelio Maletti. Sentito in aula, Maletti aveva detto che i servizi di inelligence americani disponevano di informatori all'interno dei gruppi eversivi di destra e che "tali gruppi venivano incoraggiati e aiutati perche' perseguivano scopi che coincidevano con quelli della politica americana".

18 maggio - Processo per la strage di piazza Fontana: il pm Massimo Meroni chiede la condanna all' ergastolo per Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. Per un altro imputato, il pentito Carlo Digilio, il pm ha chiesto di non doversi procedere essendo il reato estinto in quanto all' imputato sono da concedere le attenuanti generiche. Per Stefano Tringali, accusato di favoreggiamento, il pm ha chiesto due anni di reclusione. Per Carlo Digilio, che e' accusato di strage, il Pm ha tenuto conto della collaborazione data durante le indagini preliminari e durante il dibattimento e ha chiesto che all' artificiere di Ordine Nuovo vengano concesse le attenuanti generiche prevalenti a quelle aggravanti proprio per la sua collaborazione. La pena, quindi, non e' dell' ergastolo, per cui, come e' accaduto anche al processo per la strage alla Questura di Milano, scatta la prescrizione del reato. Terminata la requisitoria sono subito iniziati gli interventi dei legali di parte civile. Nelle prossime udienze seguiranno le arringhe degli avvocati difensori degli imputati e, secondo il calendario, i giudici della seconda Corte d'Assise entreranno in camera di consiglio il 15 giugno. In aula erano presenti numerosi familiari delle vittime e dei feriti che hanno voluto seguire le ultime fasi della requisitoria con la richiesta delle condanne. Per tutti ha parlato Luigi Passera, presidente dell' Associazione Familiari delle Vittime. "Sono soddisfatto - ha detto Passera - per le richieste. Ma la nostra soddisfazione e' anche quella che finalmente il processo per la strage e' stato celebrato a Milano". Passera si e' anche detto convinto che i giudici della seconda Corte d'Assise di Milano decideranno per la condanna degli imputati. "Sono assolutamente convinto - ha detto - della colpevolezza di Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi. Purtroppo sono sicuro che Zorzi non tornera' piu' dal Giappone". Delfo Zorzi, l'ex ordinovista di Mestre, ritenuto l'autore materiale della strage del 12 dicembre '69 alla Banca Nazionale dell' Agricoltura, da molti anni ormai e' infatti in Giappone, dove ha anche ottenuto la cittadinanza. Zorzi, per il quale lo Stato Italiano ha chiesto l'estradizione, ha anche cambiato nome ed e' diventato il cittadino giapponese Hagen Roy. La requisitoria del pm Massimo Meroni e' durata complessivamente una ventina di ore in tre udienze. Stamane, prima di chiedere le condanne, il magistrato si e' dilungato su alcuni aspetti trascurati nelle udienze precedenti. In particolare, in ordine alle responsabilita' di Delfo Zorzi, oltre a descrivere i rapporti con Stefano Tringali per avere notizie sugli sviluppi dell'inchiesta, il pm ha ricordato la testimonianza di Giampaolo Stimamiglio. "Vecchio amico di Giovanni Ventura - ha ricordato Meroni - in occasione di un viaggio a Buenos Aires, dove vive tutt'oggi Ventura, Stimamiglio chiese notizie sulla strage di piazza Fontana. Stimamiglio ci ha riferito che Ventura rispose con fare ironico di chiedere a Delfo Zorzi come era stata organizzata la strage alla Banca nazionale dell'agricoltura". Il pm, che ha dedicato un capitolo della requisitoria ai servizi segreti italiani e americani, ha ricordato il ruolo dell'Aginter Press di Yves Guerin Serac. Pino Rauti l'ha descritta come agenzia giornalistica, in realta' dalle testimonianze di Pierluigi Concutelli, di Vincenzo Vinciguerra e dalle indagini del maggiore dei Ros Massimo Giraudo e' emerso che Aginter Press, che aveva sede a Lisbona, era una centrale del terrorismo di estrema destra. Anche un informatore dell'Ufficio affari riservati, Armando Mortilla, ha riferito di avere raccolto notizie sui rapporti tra Ordine Nuovo e Aginter Press fino al 1968. Secondo il pm "e' strano" che l'Ufficio affari riservati del ministero dell'Interno non abbia piu' raccolto notizie proprio quando "in Italia si manifestano in modo evidente gli effetti di un'azione ispirata agli scopi per cui quell'organizzazione internazionale risultava istituita", cioe' collaborare con movimenti in grado di determinare svolte autoritarie.

24 maggio - Processo per la strage di piazza Fontana: il Comune di Milano, che si e' costituito parte civile, chiede un miliardo di risarcimento provvisionale. La richiesta e' fatta in aula dagli avvocati Corso Bovio, Consuelo Bosisio e Caterina Malavenda, i tre legali che rappresentano Palazzo Marino. "Questo lunghissimo processo - ha detto l'avv. Bosisio - ha dimostrato l'esistenza di un gruppo di fuoco che si era organizzato e armato gia' dagli anni '65-'66 per mettere in atto una serie di operazioni dimostrative e provocatorie fino ad arrivare a veri e propri attentati propagandistici, come quelli a Trieste e a Gorizia". Secondo il legale, quegli attentati furono la prova generale della strage di Piazza Fontana che colpi' al cuore Milano.

7 giugno - Al processo per la strage di piazza Fontana, l'avvocato Gaetano Pecorella, al termine della sua arringa, chiede l'assoluzione di Delfo Zorzi. Pecorella ha sostenuto che il processo nato in seguito alle indagini del giudice Guido Salvini, proseguite dai pm Grazia Pradella e Massimo Meroni, e' "frutto dei tempi e non della ricerca della verita'". "Questo processo - ha detto il legale che al dibattimento davanti alla Corte d'assise di Catanzaro era patrono di parte civile per i familiari delle vittime - e' l'esempio di come troppe volte la politica abbia avuto incidenza su dove andavano svolte le indagini e sulle sentenze che andavano emesse". Secondo Pecorella la storia d'Italia puo' anche essere scritta seguendo le sentenze e le indagini del processo su piazza Fontana. "Con la prima indagine - ha spiegato il legale - si voleva colpire la sinistra per cui vennero scelti i piu' deboli e cioe' gli anarchici. Negli anni del compromesso storico si ravviso' nella destra non istituzionale la responsabilita' delle stragi. Il centralismo della politica individuo' poi la responsabilita' negli opposti estremismi ed ora le nuove vicende politiche portano a mettere sotto accusa la Nato e la Cia". Secondo l'accusa, infatti, i servizi segreti americani erano al corrente dei piani eversivi di Ordine Nuovo. Nella sua arringa, Pecorella ha cercato di smontare tutte le accuse di Carlo Digilio, il pentito che, secondo l'accusa, avrebbe confezionato le bombe. "Digilio - ha detto Pecorella - mente. Mente in continuazione". Quindi ha ripercorso tutte le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, sottolineando le imprecisioni e le contraddizioni e le autentiche "menzogne", come, per esempio, quella sull'identita' di David Carret, l'ufficiale della Cia per il quale Digilio lavorava come informatore. "Digilio - ha quindi detto il legale - in una prima parte dell'inchiesta ha affermato che fu Zorzi a dirgli che mise le bombe. In una seconda fase ha invece detto che lui le vide sull'auto di Zorzi. Credo che qualsiasi collaboratore di giustizia che da' due versioni contrapposte debba essere considerato privo di credibilita"'. Pecorella ha anche ricordato che Martino Siciliano, che non si e' mai sottoposto a contraddittorio con la difesa, "ha mentito a proposito della cena di capodanno dove Zorzi gli avrebbe parlato della sua responsabilita' nella strage". Quella cena - ha detto l'avvocato - non c'e' mai stata perche' il padrone di casa dove si sarebbe svolta, cioe' Vianello, era in Svezia". Nella parte finale dell'arringa ha quindi sostenuto che l'esplosivo che Digilio ha affermato di avere visto sull'auto di Zorzi e' incompatibile con quello che, secondo le perizie, e' stato usato per la strage di piazza Fontana. Pecorella, rivolto ai giudici ha quindi spiegato che anche la difesa avrebbe potuto condurre un "processo politico ma abbiamo preferito seguire la strada della valutazione delle prove. Quindi vi chiediamo di valutarle perche' se non vi sono responsabilita' penali al di la' di ogni ragionevole dubbio, nessuno puo' essere condannato". E ha concluso: "Vi lascio con una domanda: dopo avere letto gli atti, sentito i testimoni, ascoltato gli imputati davvero potete avere la certezza di avere raggiunto la prova della responsabilita' di Delfo Zorzi?".

9 giugno - "Il Manifesto"
Piazza Fontana, la zavorra dei pentiti
La difesa di Delfo Zorzi attacca: troppi pentiti. Ma trascura l'effetto boomerang
MANUELA CARTOSIO - MILANO
Il processo per la strage di piazza Fontana è in dirittura d'arrivo. Ancora qualche udienza per le repliche, poi la corte entrerà in camera di consiglio. Ieri e l'altro ieri è scesa in pista per ultima la difesa di Delfo Zorzi, che schiera due pezzi del calibro di Gaetano Pecorella e Antonio Franchini. Consumati professionisti capaci di far sembrare bianco il nero e viceversa, i due avvocati hanno attaccato là dove era previsto: la credibilità dei collaboratori di giustizia che indicano nell'ex ordinovista mestrino riciclato in Giappone l'esecutore materiale della strage alla Banca dell'agricoltura. La credibilità di Carlo Digilio, innanzi tutto, l'imputato-teste della corona. E, a seguire, quella di Martino Siciliano, di Maurizio Tramonte (la fonte Tritone), di Edgardo Bonazzi. Contro Delfo Zorzi non esiste solo ed esclusivamente la parola di questi poco raccomandabili signori. E' vero, però, che in questo processo indiziario a trent'anni dai fatti l'accusa, quando dallo scenario generale scende ai particolari, poggia in gran parte sulla parola dei cosiddetti pentiti. Nel mazzo dei collaboratori la difesa ovviamente ha scelto quelli per lei più vantaggiosi, i più facili da demolire. Perché hanno parlato a rate, aggiustato in corso d'opera le loro dichiarazioni sulla scia di colloqui investigativi o di notizie già finite sui giornali, spesso mossi dal bisogno di soldi o dalla speranza di sconti di pena. "Pentiti parassiti", li ha definiti Franchini, "rimasticatori", "bugiardi abituali", fantosiosi tessitori di "complesse storie di cappa e spada", "mercanteggiatori", "inquinatori" che prima di mettere a verbale pretendono d'essere considerati non testimoni, tenuti a dire la verità, ma imputati in procedimento connesso, autorizzati quindi a mentire. O che, è il caso di Martino Siciliano, si sottraggono alla prova dell'aula. Fatta la tara al mestiere, innegabile che le argomentazioni di Franchini sull'attendibilità di questi "pentiti" mordono. L'avvocato rischia, però, l'effetto boomerang quando invita la corte a espungere dal processo le dichiarazioni di Siciliano, "un inquinatore prezzolato che per denaro ha venduto la propria anima e la propria dignità". Già, ma se quello sparagnino di Zorzi voleva comprarselo lui Siciliano, una ragione ci sarà. In un analogo peccato di gola era scivolato l'altro ieri anche Pecorella quando, per dimostrare la curvatura politica delle varie piste su Piazza Fontana, aveva sostenuto che quella salviniana che chiama in causa Cia e Nato è stata "autorizzata" dalla caduta del muro di Berlino e, quindi, dallo sganciamento dell'Italia dall'area d'influenza della Nato. E sì, ci siamo a tal punto sganciati che sotto le bandiere della Nato abbiamo fatto persino una guerra! Su un altro punto Pecorella si spinto troppo oltre. Ha sostenuto che alcune menzogne Digilio le racconta per diminuire le proprie responsabilità. Fatto pacifico, riconosciuto obliquamente dallo stesso pm Massimo Meroni che, infatti, non ha chiesto per il teste-imputato attenuanti speciali, bastando quelle generiche per dichiarare estinto il reato ed evitare il carcere a Digilio. Ma se Digilio vuole sminuire il suo ruolo, significa che alla strage di piazza Fontana ha partecipato. E se l'ha fatto, la sua chiamata di correo contro Zorzi e Maggi non è per sentito dire, il che non giova alla difesa. Torniamo a Franchini che ha attaccato, lasciando il segno, il modo in cui il Ros e il giudice istruttore Guido Salvini hanno "gestito" i pentiti. Quest'ultimo, "ha operato un'inammissibile selezione degli atti processuali, non ha trasmesso alla procura della repubblica di Milano proprio quelli che smentivano i collaboratori". Corre l'obbligo di ricordare che delle presunte irregolarità procedurali di Salvini si è più volte occupato il Csm che non ha mai sanzionato il giudice istruttore. Memori dell'esperienza fatta al processo Calabresi, corre altrettanto l'obbligo di non usare due pesi e due misure. Ci siamo indignati - invano - per i notturni incontri non verbalizzati tra Leonardo Marino e i carabinieri. Direte: però Sofri, Bompressi e Pietrostefani li hanno condannati lo stesso, dunque facciano almeno il piacere di condannare questi fascisti. E invece bisogna dire no a un simile ed offensivo risarcimento incrociato. A titolo personale, l'impressione ricavata dal dibattimento che i manovali di Piazza Fontana sono stati "grosso modo" Delfo Zorzi e i suoi camerati. Ma sul raggiungimento della prova pesa l'ingombro dei "pentiti". Senza "pentiti" i processi - è il caso di quello per il Petrolchimico di Porto Marghera - danno molte più soddisfazioni. Là gli unici pentiti sono i consulenti che vent'anni fa stavano con gli operai e adesso militano dalla parte dei padroni. Li lasciamo volentieri alla difesa.

9 giugno - "Il Gazzettino"
MILANO Al processo di Piazza Fontana requisitoria della difesa che solleva molti dubbi sulla credibilità dei pentiti
"Assolvete Zorzi, è innocente"
L'avv. Franchini è convinto che i verbali siano aggiustamenti, menzogne, falsificazioni
Milano
NOSTRO INVIATO
Un attacco vigoroso all'attendibilità dei pentiti che hanno reso possibile il terzo processo per la strage di Piazza Fontana. La scarnificazione impietosa di un'inchiesta che ha impiegato più di un lustro per arrivare al dibattimento, con tre imputati che rischiano la condanna all'ergastolo. Una rilettura, in chiave storica e politica, dei tentativi - fino ad oggi finiti nel nulla - di trovare un colpevole per la bomba che il 12 dicembre '69 uccise 17 persone e ne ferì un'ottantina. In due giorni la difesa di Delfo Zorzi ha giocato tutte le carte possibili per convincere la corte d'Assise di Milano che il mestrino divenuto un ricco uomo d'affari giapponese è innocente. Da giovane simpatizzava per l'estrema destra frequentava i circoli di Ordine Nuovo, ma non sarebbe lui l'esecutore materiale dell'attentato che segnò la storia d'Italia e tenne a battesimo la strategia della tensione. "Assolvete Zorzi da una strage che non ha commesso". La conclusione dell'avvocato Antonio Franchini ha solo l'apparenza della ritualità quando queste parole risuonano nell'aula-bunker di San Vittore dopo che per ore il penalista veneziano ha riletto le carte, gli atti, le deposizioni. E l'invocazione è l'epilogo di un percorso che toccherà ai giudici valutare, ma che comunque è riuscito a sollevare molti dubbi su ciò che hanno raccontato Carlo Digilio, Martino Siciliano, Edgardo Bonazzi, Maurizio Tramonte, perfino l'ergastolano Vincenzo Vinciguerra, ovvero i capisaldi dell'accusa.
Franchini è convinto che quell'insieme di verbali non siano altro che il frutto di aggiustamenti istruttori, menzogne belle e buone, falsificazioni dei fatti che alcuni personaggi hanno costruito nel tempo per ottenere benefici o per perseguire personalissimi obiettivi. "La requisitoria del pubblico ministero è stata un esercizio notarile, acritico, incapace di confrontarsi con l'altro processo che si è celebrato qui dentro, il processo della difesa" ha detto. Sono stati infatti proprio gli avvocati di Zorzi a mettere a segno i punti più favorevoli alla difesa, con un impegno investigativo assolutamente originale, come quando hanno scoperto che la presunta spia Cia Charles Smith, indicata da Digilio, in realtà è solo un barman militare in pensione che non poteva essere depositario di confidenze sullo stragismo per il semplice motivo che in quegli anni non era neppure in Italia.
A metterci il veleno della confutazione ci ha pensato Franchini che non ha trascurato nessuna delle posizioni cruciali del processo. Per ogni pentito ha cercato di dimostrare che non solo non vi sarebbero riscontri di attendibilità, ma addirittura le prove che non ha raccontato la verità. Ecco i "pentiti parassiti", ovvero Bonazzi ("Un vero calunniatore, parla e ottiene la liberazione condizionale") e Tramonte ("Non riferisce nessun particolare verificabile o soltanto cose già scritte sul giornale... ha perseguito un interesse economico chiedendo una fidejussione da 2 miliardi e poi un contributo da 400 milioni, senza peraltro ricevere nulla"). Martino Siciliano, invece, è un "pentito a rate", che incassa 50 mila dollari, va in Colombia, compera due taxi, si mangia tutto e torna in Italia a chiedere un lavoro. Ma secondo Franchini è "maligno, inaffidabile, psicolabile, mente per compiacere e poi si sottrae al contraddittorio del dibattimento, tanto che la difesa non gli ha mai potuto fare neppure una domanda".
L'avvocato confuta ciò che Siciliano ha raccontato. Disse di un casolare-fabbrica a disposizione dei fratelli Zorzi, quando questi lo affittarono dieci anni dopo. Parlò di una cena a causa del camerata Vianello in cui Zorzi avrebbe fatto delle confidenze sulle sue responsabilità per piazza Fontana, ma quella cena non si svolse il Capodanno dopo la strage ("Abbiamo esibito le prove che Vianello era in Svezia") bensì qualche anno prima. E il riferimento serve all'avvocato per attaccare il giudice Guido Salvini che avrebbe celato parecchie circostanze favorevoli alla difesa, appunti, biglietti, deposizioni. Nel pomeriggio tocca a Vincenzo Vinciguerra e alla sua teoria del complotto Cia, poi a Carlo Digilio.
Ma di quest'ultimo aveva già parlato giovedì l'altro difensore, Gaetano Pecorella. "Il racconto di Digilio è pieno di bugie e incongruenze, è un uomo privo di mezzi di sussistenza che quando sente che nel circuito carcerario si fa il nome dello "zio Otto", ossia di lui, come dell'artificiere di Piazza Fontana cerca di restarne fuori, poi diventa un pentito quando non può più farne a meno". E sull'esplosivo indicato da Digilio e asseritamente in possesso di Zorzi, Pecorella ha tentato di dimostrare che era incompatibile con quello usato a Piazza Fontana dagli attentatori.
Ma è soprattutto sullo scenario giudiziario che l'avvocato si è dilungato, insinuando che nell'arco di trent'anni le indagini abbiano risentito del clima politico. "Il processo è frutto dei tempi e non della ricerca della verità. Con il primo si voleva colpire la Sinistra nella sua parte più debole, incriminando gli anarchici". E si riferisce all'imputazione di Pietro Valpreda, poi assolto. Con Freda e Ventura, altra musica. "Con la nascita del compromesso storico ecco l'incriminazione della Destra più estremista. Poi il ritorno della politica centrista ha portato con sè l'ipotesi degli opposti estremismi, anarchici e fascisti assieme per distrugere lo Stato". E oggi? "Con lo sganciamento dell'Italia dall'area d'influenza Usa e la caduta del muro di Berlino, le stragi sono state ricondotte ai piani golpisti della Cia e della Nato". Osservazione finale: "Ma di ogni ipotesi politica le corti d'Assise hanno fatto giustizia: nel senso che dalla interpretazione ideologica dei fatti all'accertamento delle singole responsabilità c'è stato e ci deve essere un abisso".
Finirà così anche stavolta? La discussione è ormai all'epilogo. La camera di consiglio dovrebbe iniziare il 28 giugno.

15 giugno - Processo per la strage di piazza Fontana: gli avvocati difensori degli imputati completano i loro interventi di replica, ma i giudici si riservano un' altra udienza per le eventuali dichiarazioni spontanee degli imputati. Per ora solo Giancarlo Rognoni ha chiesto di poter fare una dichiarazione prima che i giudici si ritirino in camera di consiglio, il 28 giugno.

18 giugno -Il senatore a vita Paolo Emilio Taviani muore all'alba a Roma, nella clinica dove era ricoverato. Paolo Emilio Taviani, nelle sue ultime volonta', aveva precisato che sarebbero dovute rimanere distinte le cerimonie civili da quelle religiose ed aveva indicato nell' ex sindaco di Genova, Piombino, la persona che avrebbe dovuto tenere l' orazione funebre. L' ex sindaco di Genova Giancarlo Piombino sfuggi' per poco ad un agguato delle Brigate Rosse nel 1979. Un commando delle Brigate Rosse fece irruzione nel 1979 negli uffici della societa' Finligure, presieduta dall' avv. Piombino, con lo scopo di gambizzarlo. Come emerse dal processo nel quale furono condannati complessivamente a 35 anni di reclusione sette brigatisti, Piombino si salvo' perche' quella mattina non si era recato in ufficio per altri improvvisi impegni. Sentito piu' volte dalla Commissione stragi, Taviani si era rifiutato di rispondere su alcuni particolari relativi a piazza Fontana; interrogato il 7 settembre dello scorso anno dal maggiore dei carabinieri Massimo Giraudo, Paolo Emilio Taviani aveva invece fornito maggiori notizie, tra le quali quella che il Sid tento' all'ultimo momento di evitare la strage. "La sera del 12 dicembre 1969 - aveva raccontato l'ex ministro dell'Interno all'ufficiale dei carabinieri del Ros - il dottor Matteo Fusco, defunto negli anni '80, stava per partire da Fiumicino per Milano, era un agente di tutto rispetto del Sid con un ufficio in corso Rinascimento a Roma. Doveva partire per Milano recando l'ordine di impedire attentati terroristici. A Fiumicino seppe dalla radio che una bomba era tragicamente scoppiata e rientro' a Roma". Questa versione e' stata confermata anche da Anna Fusco, figlia dell'agente del Sid, che nel 1969 si trovava a Milano ed era vicina al Movimento studentesco. La donna, gravemente ammalata, sentita dal pm Massimo Meroni, aveva confermato che il padre, vicino alle posizioni politiche di Pino Rauti, visse il resto della vita con il cruccio per non essere riuscito ad evitare la strage. Taviani, nell'interrogatorio con il maggiore Giraudo, aveva spiegato di avere appreso la notizia relativa all'agente Fusco "in ambiente religioso" e di avere avuto la conferma dal questore Santillo e, forse, anche dal generale Vito Miceli. "Nel 1973, quando ritornai ad essere ministro dell'Interno - aveva spiegato Taviani - ebbi dal questore Santillo, che nominai ispettore per l'antiterrorismo, alcune certezze che vedo confermate dalle indagini della magistratura". Quindi aveva confermato di avere taciuto questi particolari alla Commissione stragi e aveva aggiunto che "un ufficiale del Sid, il tenente colonnello Del Gaudio, si mosse da Padova a Milano per depistare le colpe verso la sinistra". "Questi due dati - aveva spiegato a Giraudo l'ex ministro dell'Interno - sono indizi, se non prove, di atteggiamenti del tutto contrastanti all'interno dello stesso Sid. In alcuni settori del Sid e dell'Arma di Milano e Padova vi furono deviazioni. Fu l'Arma stessa, con la sua solida struttura, ad individuarle e correggerle". Nella sua testimonianza Taviani aveva spiegato all'ufficiale del Ros che per capire la strage alla Banca Nazionale dell' Agricoltura era necessario tenere presente un punto "fondamentale" e cioe' che "la bomba, nell'intenzione degli attentatori, non avrebbe dovuto provocare alcun morto ma avrebbe dovuto essere un atto intimidatorio come lo furono quelli contemporanei di Roma. Se non si accetta questa interpretazione, molto resta inintellegibile". Quindi, per spiegare in quale quadro politico doveva essere collocata la strage di piazza Fontana, aveva ricordato che l'apertura al Pci era vista con timore da molti settori politici e che lo scioglimento del Sifar era stato un errore perche' l'Italia, di fatto, rimase scoperta in quel settore. "Il Sid - aveva spiegato - nacque debole, senza una mano ferma che lo dirigesse. Il ministro della Difesa Tanassi non aveva ne' competenza, ne' prestigio adeguato per affrontare una situazione che si era molto aggravata per i problemi di ordine pubblico e per la invasione della Cecoslovacchia. Fu in quel clima che i gruppuscoli di estrema destra, che vivacchiavano agli inizi degli anni Sessanta, si gonfiarono fino a costituire una galassia distaccata dal Movimento sociale italiano". Il senatore a vita Paolo Emilio Taviani aveva annunciato lo scorso anno l' intenzione di pubblicare i suoi diari politici e di fare alcune rivelazioni sulle pagine oscure della storia d' Italia cominciare dalle stragi. Gia' la casa editrice Il Mulino ha pubblicato nel 1998 "I giorni di Trieste. Diario 1953-1954" e gli altri volumi che verranno si annunciano ricchi di retroscena e rivelazioni. La cosa emerge il 4 agosto 2000 in una intervista dell' allora presidente della commissione stragi, sen. Giovanni Pellegrino, che al Tg3 della Toscana, parlando delle cose dette dall' anziano senatore, soprattutto sugli attentati ai treni, afferma: "probabilmente, i mandanti e il contesto in cui maturavano quelle stragi non e' lo stesso in cui sono maturate le altre. Taviani non ci ha voluto dire niente di piu' e privatamente mi ha detto che avrebbe detto qualcosa di piu' soltanto da morto". Qualche giorno dopo, lo stesso Taviani, in un' intervista al "Secolo XIX", si diceva disposto a tornare ad essere ascoltato dalla Commissione stragi, ma precisava: "Devo peraltro precisare a scanso di future delusioni che le cose da me non dette non sono dati di fatto di rilevanza penale. I dati di fatto gia' li ho testimoniati in varie occasioni alla magistratura e alla Commissione" e aggiunge:"Si tratta di valutazioni e giudizi. Il riserbo era ed e' dovuto alla convinzione che i protagonisti della politica possano restare degni di rispetto anche quando alcune posizioni da loro assunte si rivelino poi infondate o erronee". Taviani nell' intervista annuncia anche che pubblichera' i suoi diari che riguardano 60 anni di vita politica, "ma li pubblichero' - sottolinea - dopo le elezioni". All' inizio di settembre del 2000, secondo cio' che scrisse a dicembre un quotidiano milanese, Taviani aveva poi affidato alcune testimonianze a un ufficiale dei carabinieri e i suoi racconti erano poi finiti agli atti del processo per la strage di piazza Fontana. Il verbale si aprirebbe cosi': "In Commissione stragi lasciai intendere che alcune cose riguardanti i precedenti lontani e vicini della strage di Milano del 12 dicembre '69, la madre delle stragi, non le avrei dette. Le dico adesso". Paolo Emilio Taviani aveva deciso che il suo diario politico fosse dato alla stampa dopo la morte. Nella sua ultima intervista riportata sul sito www.i-am.it, il senatore aveva spiegato, due mesi fa, di aver optato per una pubblicazione entro quest' anno. "Avevo deciso che il mio diario fosse dato alle stampe dopo la mia morte. Pero' i tempi si sono oltremisura allungati, quindi ho deciso che sara' pubblicato alla fine di quest' anno, passate le elezioni". Nell' intervista Taviani parla della guerra partigiana e del revisionismo. "Durante la Resistenza ci furono morti anche tra di noi. Una ventina di anni fa io e Boldrini abbiamo fatto una ricognizione retrospettiva: siamo arrivati a contare un totale di morti che non raggiunge la sessantina, appartenenti a bande di vario colore politico". E sul revisionismo Taviani dice che questo fenomeno storiografico ha avuto anche una sua utilita'; "quella di riconoscere che sono stati sottovalutati e rimossi alcuni crimini compiuti dai partigiani. Ma non c' e' mai stata guerra senza crimini. Occorre davvero molto coraggio per equiparare la criminalita' partigiana a quella del cosiddetto esercito di Salo' e dei mongoli, reggimenti dell' esercito russo che brutalizzarono le popolazioni civili, specialmente le donne. Dove il revisionismo e' completamente fuori strada e' nella rivalutazione del regime di Salo'. Molti dei richiamati alle armi dai repubblichini disertarono e parecchi di loro vennero da noi, portando con se' le armi". Solo dieci giorni fa Paolo Emilio Taviani aveva terminato di scrivere le sue memorie su 60 anni di vita politica italiana e venerdi' scorso avrebbe dovuto consegnarle alla casa editrice bolognese 'Il Mulino' nella loro versione definitiva. Ma l' ictus che lo ha colpito alla vigilia dell' incontro ha fatto saltare l' appuntamento gia' fissato a casa sua con il responsabile della sezione Storia della Casa editrice bolognese, Ugo Berti, al quale il senatore a vita avrebbe dovuto consegnare personalmente il dattiloscritto del libro intitolato "Politica a memoria d' uomo". Volume la cui uscita e' ora programmata per la fine dell' anno o al massimo entro la prima meta' del 2002. Lo ha raccontato lo stesso Berti, l' editor del libro che ha tenuto i contatti con Taviani. "Alcuni mesi fa mi consegno' una prima versione abbastanza smilza di circa 200 pagine che io gli chiesi di rimpolpare - spiega Berti -. Anche se segue la cronologia, il libro e' organizzato per tematiche, con un capitolo sulla Dc e quello finale di una trentina di pagine dedicato ai misteri d' Italia, sul quale Taviani mi disse poi che gli erano venute molte altre cose da aggiungere. In un primo momento voleva che il volume fosse pubblicato dopo la sua morte, ma poi cambio' idea e alle fine decise che doveva uscire solo dopo le elezioni per evitare che potesse essere usato a fini di polemica politica immediata". Si tratta di memorie inframezzate da pagine di diario che coprono l' intero arco della vita politica di Taviani, che non conterrebbero rivelazioni clamorose, anche perche' avendo deciso di pubblicarlo in vita, "nei giudizi e nelle considerazioni - spiega l' editor - si era aggiunta una misura di prudenza". Ma la versione finale, Berti non l' ha ancora potuta vedere: "Avrei dovuto andare a prendere il dattiloscritto venerdi', ma quando ho telefonato per la conferma mi hanno detto che Taviani si era sentito male. Il testo lo hanno i figli, ai quali so che il senatore ha dato tutte le disposizioni". Con Taviani era gia' in programma anche un incontro per discutere del lancio del libro.

19 giugno - Questa e' una piccola rassegna stampa degli articoli dedicati dai maggiori giornali (che hanno un' edizione online) alla morte del sen. Taviani:
"Il Corriere della sera"
Addio a Taviani, il partigiano tra i segreti del potere
Democristiano, inventò la corrente dei "pontieri". Fu tra i fondatori di Gladio. Guidò Viminale e Difesa. Oggi i funerali di Stato
Di lui, democristiano, capo partigiano (nome di battaglia Pittaluga) e genovese di nascita, don Gianni Baget Bozzo, suo concittadino e ai tempi amico di partito, diceva insolente: "Taviani è un buon uomo. Un buon uomo che ama solo due cose: la famiglia e il potere. Il potere è il suo adulterio". E il potere, sospettava qualcuno in quei tormentati primi anni Settanta, si conserva anche grazie alla conoscenza di qualche potente segreto. E il senatore a vita, scomparso ieri alla soglia dei novant'anni, forse ha lasciato scritto nei suoi diari risposta ai tanti (o pochi) misteri d'Italia. Uomo massiccio e imperioso, gran parlatore e studioso pignolo dei viaggi di Cristoforo Colombo, Paolo Emilio Taviani è stato alla guida di due ministeri chiave, la Difesa (1953-'58) e l'Interno (1962-'68), proprio negli anni più difficili e tormentati del dopoguerra. Nel libro La passione e la politica (Rizzoli), Francesco Cossiga ricorda che Taviani, suo "amico e protettore", in Italia fu tra i "padri fondatori" di Gladio. L'organizzazione paramilitare "coperta" Stay Behind costruita in funzione antisovietica. "...non facevo parte del giro ristretto delle persone più significative e importanti dal punto di vista della gestione di Gladio. Esse erano certamente Moro, Taviani e Andreotti...", rivela ancora l'ex capo dello Stato. Ma c'è di più. Il "Re di Bavari", tale lo definivano i diccì genovesi che si opponevano allo strapotere dei dorotei locali, arrivò al dicastero della Difesa senza insospettire troppo i comunisti. Anzi. Taviani era stato uno dei comandanti della Resistenza nel Settentrione. E partecipò in prima persona alla liberazione di Genova nell'aprile del '45. Nell'appellativo "Re di Bavari", paesino della Val Bisogno dove aveva la casa di campagna, è racchiusa tutta la vicenda democristiana di Taviani. Anche se l'"adultero" genovese sarà più uomo di governo che di partito. In una "velina" ingiallita del Viminale il ministro detta: "Coniugato con la Dr.ssa Vittoria Festa...Padre di sette figli. Professore nell'Università di Genova di Storia delle dottrine economiche. Ha tre lauree: in legge, in scienze sociali, in filosofia. Ha il diploma in matematica superiore e in paleografia... Deputato al Parlamento nazionale del 1945, sempre capolista della regione ligure". Già, sempre numero uno a Genova. Tre erano i princìpi che hanno regolato la vita di Taviani nella "sua" Dc: controllare il partito prima che l'elettorato; essere forti a Roma per contare a Genova; partire da posizioni di "sinistra" per fermarsi al "centro". Ecco da dove nasce la sua idea di dare vita ai "pontieri". La corrente dc prende corpo da una scissione con i dorotei alla vigilia del congresso di Milano (1967). Nella prospettiva di una alleanza di centrosinistra più avanzata. L'obiettivo dei tavianei è, appunto, "fare da ponte" tra sinistra e centro del partito. Il gruppo tornerà nella casa madre "dorotea" nel 1973. E il suo animatore tornerà a guidare il Viminale dal 1973-'74. Non senza qualche rovente strascico polemico. Che intaccherà la fama di insondabile conquistata da Taviani sin dai tempi di Gladio. Nel '74 rilascia una intervista a L'Espresso per dire di non credere più alla sua tesi degli opposti estremismi: "Quando ho cambiato parere? Poco dopo essere tornato su questa sedia di ministro degli Interni". Mentre, aggiunge, "l'organizzazione sovversiva va cercata a destra". Dieci anni dopo aver rinnegato quella teoria, il giornalista di destra e musicologo, Piero Buscaroli, pubblica i suoi diari su il Giornale . E rivela che Taviani gli avrebbe confessato che le bombe disseminate in quegli anni erano "operazioni targate Viminale". Lo scopo? Alimentare la strategia della tensione e favorire le ambizioni di Mariano Rumor. "Si tratta di un cumulo di falsità", replica risentito l'ex "Re di Bavari". Il 1974 sarà anche l'ultimo anno in cui Taviani, sessantadue anni, verrà chiamato a occupare incarichi di governo. Da capo partigiano a notabile di partito. Il passo è obbligato anche per l'uomo che era stato sottosegretario agli Esteri nel primo gabinetto De Gasperi. Nel '76 Taviani approda al Senato. Nel '91 Francesco Cossiga lo nomina senatore a vita. Tra i due amori evocati da don Baget Bozzo, la famiglia e il potere, ancora una volta Taviani sceglie la terza via: gli studi storici e la paleografia. Un ponte tra presente e passato.
Fernando Proietti

LE CONFIDENZE / L'ex ministro: Scajola è un mio figlioccio, voterei contro Berlusconi ma non contro lui
"Non parlai dei soldi di Mosca al Pci per evitare la guerra civile"
La sua principale preoccupazione politica, negli ultimi tempp, era evitare una scissione dell'Anpi, l'associazione nazionale partigiani d'Italia. Temeva che un settore di centrodestra potesse staccarsi per prendere le distanze dai comunisti e ha fatto il possibile per evitarlo. "Una spaccatura sarebbe deleteria", ripeteva. Ma Paolo Emilio Taviani, malgrado la sua età, non era un uomo con la testa rivolta all'indietro. Arrivato a 89 anni, i ricordi della Resistenza e della carriera governativa che aveva alle spalle alimentavano una parte delle sue giornate, come le ricerche e le letture su Cristoforo Colombo, sua vera passione. Tuttavia restava un uomo molto curioso sul tempo presente. Sui giornali leggeva perfino le notizie più nascoste e minute, ed era attualissimo uno dei crucci che lo accompagnava nelle settimane scorse. "Il governo Berlusconi no, non lo posso appoggiare. Voterò contro", ci aveva spiegato dopo le elezioni, in una delle ultime telefonate, mentre la lista dei ministri era ancora per aria. Benché fosse stato ministro per 26 anni, non lo turbava trovarsi all'opposizione da senatore a vita. Ad andare controcorrente, tutto sommato, ci era abituato. A dargli pensieri era come comportarsi verso un amico. "Se al Viminale mettono Claudio Scajola, non ho voglia di votare contro di lui. Non potrei. E' un mio figlioccio, nella Dc l'ho allevato io", raccontava. Da qui, la propensione verso una soluzione indolore: aveva intenzione di "trovare una scusa" per non presentarsi alla seduta. Risparmiandosi di votare, per quanto indirettamente, contro un proprio allievo. E' proprio un peccato che Taviani non abbia più bisogno di inventare una scusa. Quel signore che mancherà al Parlamento aveva maneggiato segreti di Stato, era stato uno degli artefici di Gladio, non faceva una grinza quando osservava che nel mondo dei servizi si possono far sparire in vari modi agenti ingombranti o che hanno sgarrato ("può esserci sempre un incidente stradale"), ma era un padre della Patria di indole buona. Non soltanto un padre di famiglia, un cattolico genuino, un nonno affettuoso. Se ci si incontrava per ricostruire con lui quei pezzi di storia dei quali conosceva i misteri, una sua preoccupazione era di non veder pubblicati dettagli privi di valore, anche se coloriti, che avrebbero potuto addolorare figli o mogli dei personaggi in questione. Fu il rispetto di queste sue richieste che aumentò la frequenza delle conversazioni. Nella casa di Roma o nello studio di Palazzo Giustiniani, l'ex ministro degli Interni descriveva i controlli non ortodossi ai quali i suoi uomini sottoponevano i dirigenti del Pci. Sosteneva che l'aereo di Enrico Mattei, presidente dell'Eni morto nel 1962, non era stato fatto esplodere con una bomba. Difendeva il generale De Lorenzo. E Taviani decise di raccontare uno dei modi nei quali uno come lui e Mario Scelba evitarono in Italia una guerra civile tra 1954 e 1955: applicando il realismo al posto della legge. "Mentre a capo del Sifar c'era Ettore Musco, in qualità di ministro della Difesa io ebbi la documentazione precisa del finanziamento di circa due miliardi di lire del tempo, attraverso Zurigo, al Pci", ricordò. Fondi sovietici. "Notificai la cosa al presidente del Consiglio del tempo, che era Scelba, e all'allora ministro degli Esteri Gaetano Martino", aggiunse. Il resto è qualcosa che altri definirebbero consociativismo. Taviani, che contro i cortei del Pci aveva mandato celerini non troppo formali, rivendicava di aver fatto benissimo: "Ci fu una riunione a tre al Viminale. Scelba prese nota dei nomi italiani delle persone coinvolte. Noi abbiamo sempre detto che il Pci era pagato da Mosca. Ma dare pubblicità alle carte di quel finanziamento avrebbe significato fare ciò che avrebbe voluto Clara Luce (allora ambasciatrice americana a Roma, ndr), avrebbe comportato mettere al bando il Pci. E dunque la guerra civile". Le carte rimasero riservate. Secondo il senatore, pure Martino e Scelba erano contrari a mettere al bando il Pci. Da un paio di anni Taviani stava scrivendo un libro, forse il suo libro. Aveva scelto di mettere in questo memoriale-diario, da pubblicare alla fine della sua vita, alcune cose che far stampare prima non voleva. Alla Commissione stragi ha fatto sapere che non autorizzava a rivelare gli omissis nel resoconto della sua audizione del 1° luglio 1997: è nel libro, "Politica a memoria d'uomo", che ne voleva trattare. L'editore della storia per il Mulino, Ugo Berti, doveva ritirare la versione finale del manoscritto venerdì scorso. Taviani non si fidava di mandare a mezzo posta roba del genere. L'ictus ha colpito prima dell'incontro. Ma quello che il senatore voleva dire sulla sua vita potrà essere conosciuto.
Maurizio Caprara

IL PROFILO
Terrorismo, fu il primo a denunciare la logica degli "opposti estremismi"
di DINO COFRANCESCO
Figura di altri tempi quella del senatore Paolo Emilio Taviani. Figlio di un direttore didattico, che, in gioventù, aveva recitato con Gilberto Govi, fu uno dei pochi uomini politici liguri ad acquisire un prestigio che andava ben oltre i confini nazionali. Lungo e ricco di allori il suo cursus honorum . Studente modello, trovò nel pensiero economico il punto d'incontro tra teoria e storia, tra filosofia e politica sì da segnalarsi, come borsista della Scuola Normale di Pisa, ai littoriali sulle tematiche corporative. Come molti universitari cattolici (e non solo), si era illuso che il regime avesse trovato il modo di conciliare la libertà d'impresa con la solidarietà sociale. La guerra e la china totalitaria dell'ultimo fascismo gli aprirono ben presto gli occhi: entrato nelle file della Resistenza, fu più volte decorato al valore. Il suo battesimo del fuoco, in politica, lo ebbe con l'elezione alla Costituente, nelle file della Democrazia Cristiana. Accanto ad Alcide De Gasperi il suo cattolicesimo sociale assunse un'impronta nettamente liberale. Non meraviglia, pertanto, che, intervenendo ai lavori dell'Assemblea Costituente, legasse inscindibilmente il diritto di proprietà alla libertà personale, facendo della prima un presupposto indispensabile della seconda e assegnandole solo in subordine una funzione sociale. Parlamentare tra i più autorevoli, in ben tredici legislature, Paolo Emilio Taviani - per un breve periodo segretario della Democrazia Cristiana tra il 1949 e il 1950) - svolse un ruolo di primissimo piano nella costruzione dell'unità europea; un ruolo che non sfuggì all'attenzione del più grande politologo francese del secolo, Raymond Aron. Il suo europeismo non nasceva dalla revanche del leader cattolico che, avendo ereditato lo Stato nazionale compromesso dalla dittatura fascista, tornava all'Europa carolingia come al porto sicuro contro le tempeste della modernità. In lui, infatti, gli Stati Uniti d'Europa erano il coronamento del progetto risorgimentale volto a ricongiungere l'Italia al Settentrione civile. In questo, era realmente affine ad altri "grandi vecchi" della sua generazione: Norberto Bobbio, Giovanni Spadolini, Leo Valiani. La sua genovesità, non a caso, si traduceva non solo negli studi (magistrali) su Cristoforo Colombo ma, altresì, nell'attenzione per figure come Goffredo Mameli che erano il simbolo del superamento della piccola patria ligure nella grande patria italiana. L'amore per gli uomini che fecero l'Italia, del resto, traspare in volumi come Problemi economici nei riformatori sociali del Risorgimento italiano , ancora oggi un indispensabile strumento di lavoro. Nella storia della Repubblica, Taviani resta, comunque, soprattutto per la fermezza e la competenza con cui resse i vari ministeri toccatigli in sorte: la Difesa (1953-'58) con i governi Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli); gli Interni (1962-'63 con Fanfani; 1963-'68 con Moro; 1974 con Rumor); il Tesoro (1960-'62 con Fanfani); le Finanze (1959-'60 con Segni) oltreché la vicepresidenza del Consiglio (1969-'70 con Rumor). Le polemiche sul ruolo svolto in momenti drammatici della storia del Paese - come Gladio, l'emergenza terrorismo ecc. - sono ancora oggetto di controversia. E tuttavia solo oggi forse siamo in grado di valutare la grande lucidità con cui, negli anni formidabili, aveva parlato, scatenando le ire della sinistra marxista e post-azionista, di "opposti estremismi". Quando persino sulle pagine di Panorama - lo ricorda il giornalista Michele Brambilla nel suo libro L'eskimo in redazione - emergeva soltanto "il concetto di un'unica regìa: il terrorismo è di Stato o ha coperture di Stato", lo statista genovese mostrava di non aver dubbi sui pericoli reali che minacciavano la democrazia. Nella solitudine di quegli anni, ricordava più che mai il suo grande, insuperato modello: Alcide De Gasperi.

19 giugno - "La Repubblica":
Quell'antifascista orgoglioso custode dei misteri della Repubblica
Cinquant'anni da protagonista: partigiano, parlamentare dal '46, segretario della Dc, ministro
MIRIAM MAFAI
Non so se davvero Paolo Emilio Taviani ha consegnato al suo editore un libro di memorie pronto per la pubblicazione. Se lo ha scritto evitando quella reticenza che contrassegna generalmente i diari dei politici, allora non c'e' dubbio che quelle pagine saranno fondamentali per la ricostruzione di molte vicende ancora oscure della nostra Repubblica. Paolo Emilio Taviani ha attraversato infatti almeno cinquant'anni della nostra storia da una posizione privilegiata, di grande autorevolezza, come vicesegretario e poi segretario della Dc tra il 1946 e il 1950, e poi come ministro in tutti i governi repubblicani per oltre venticinque anni. In anni difficilissimi fu ministro della Difesa e ministro dell'Interno e dunque in condizione di conoscere quelli che vengono generalmente chiamati "i segreti" o "i misteri" della Repubblica". Ne ha anche parlato, quando glielo hanno richiesto, con i giudici che su questi misteri e segreti hanno indagato. Nel 1991, deponendo di fronte al giudice Mastelloni, ha ammesso di aver saputo dell'esistenza di Gladio e di aver coperto politicamente l'iniziativa che riteneva necessaria per la sicurezza dell'Italia. Ma, da ministro dell'Interno, ha raccontato, si rifiutò di coprire politicamente il tentativo di golpe promosso, nel 1964, dal generale De Lorenzo su sollecitazione del presidente Segni: in quel caso avvertì Aldo Moro (allora segretario della Dc) e minacciò le dimissioni. Interrogato sulla strage di Piazza Fontana ricordò che all'epoca era ministro per il Mezzogiorno, ma, aggiunse, "oggi ritengo che la strage sia stata effettuata da elementi di destra con eventuali deviazioni dei servizi di sicurezza, penso al Sid". Ha sempre parlato con i magistrati, ma assai raramente, con i giornalisti. Era un uomo politico di vecchio stampo, che rifuggiva dal costume, oggi corrente, della indiscrezione, o del pettegolezzo cui far seguire, il giorno dopo una smentita. Con i giornalisti ha parlato, lo scorso anno, della tragedia di Cefalonia, ammettendo di aver contribuito, come ministro della Difesa, ad affossare quella vicenda, in accordo con Gaetano Martino, all'epoca ministro degli Esteri. "Un eventuale processo per l'orrendo crimine di Cefalonia" ammise Taviani "avrebbe colpito l'opinione pubblica impedendo forse per molti anni la possibilità per l'esercito tedesco di risorgere dalle ceneri del nazismo. Io sono stato uno dei precursori della necessità del riarmo della Germania. Non cerco alibi o scusanti. Dico come stanno le cose e a guidarmi fu la ragion di Stato". Era un uomo capace di assumersi, coraggiosamente, tutte le sue responsabilità. Come avevo fatto quando, a poco più di trent'anni, membro del Comitato di Liberazione Nazionale di Genova, sostenne, nella notte tra il 23 e il 24 aprile del 1945, la decisione (presa a maggioranza) di dare il via all'insurrezione. Le forze armate tedesche firmarono la resa nelle mani del Cln e fu proprio il giovane democristiano Paolo Emilio Taviani ad annunciarlo alla radio. Pochi mesi dopo entrava a Montecitorio come Consultore. L'anno dopo, nel 1946 veniva eletto alla Costituente. E da allora, fu sempre rieletto, nelle file della Dc, prima come deputato, fino al 1972 e poi, dal 1976 al 1987 come senatore. Nel 1991 venne nominato senatore a vita, ma lo si vedeva ormai di rado a Palazzo Madama. Lo vedemmo e lo ascoltammo per l'ultima volta il 30 maggio scorso quando, come senatore piu' anziano, ha inaugurato la XIV legislatura, ricordando i valori fondamentali affermati nella nostra costituzione: la liberta' l'eguaglianza la solidarieta'. Iscritto all'Azione Cattolica fin da ragazzo, era stato tra gli allievi prediletti di don Siri quando questi negli anni 30, riuniva in un circolo fucino, a Genova, i giovani universitari più promettenti, futura classe dirigente in un'Italia liberata dal fascismo. Nonostante la lunga amicizia e la fedeltà, Paolo Emilio Taviani seppe ricavarsi un suo spazio di autonomia nei confronti del suo vecchio e stimato maestro, quando questi, ormai cardinale, si oppose ferocemente all' accordo con i socialisti, promosso da Aldo Moro nei primi anni 60. L'esperimento venne messo in atto, a livello locale, prima a Milano e subito dopo a Genova, nonostante le proteste esplicite del cardinale e le resistenze all'interno della stessa Dc (un deputato democristiano di Genova, Durant De La Penne passò ai liberali e il cardinal Siri non ricevette più il suo antico allievo) Vecchio partigiano, presidente dell'Associazione di Partigiani Cattolici, Paolo Emilio Taviani ha partecipato, finchè le condizioni di salute glielo hanno permesso, a tutte le celebrazioni della Resistenza. Non mancava mai quando lo invitava l'Anpi, l'organizzazione partigiana presieduta dal suo vecchio amico, il comunista Arrigo Boldrini. Non mancava mai, in quelle occasioni, di ricordare che in quei mesi e con il sacrificio di quei combattenti si erano ricostruiti, in uno spirito e in una lotta unitaria, valori essenziali per la nazione. La Resistenza come riconquista della Patria. Da molti anni si era ritirato nella sua vecchia casa sulle alture di Genova, una casa modesta. Amava ricordare che "tra gli uomini della mia generazione, quelli dell'antifascismo e della Resistenza, non c'è mai stato un inquisito." Solo dopo, con il moltiplicarsi delle correnti, ha dilagato la corruzione e sono prosperati i disonesti. Ma sottolineava con orgoglio il ruolo giocato dalla Dc nella prima fase della vita della nostra Repubblica, a salvaguardia dell'indipendenza del paese e della sua crescita economica. Un errore? "Non abbiamo capito quello che c'era di valido nella generazione del 68: Ma non l'ha capito nemmeno la sinistra..."Il ricordo più doloroso? "Lo Stato che ha dato prova di fermezza e ha rifiutato di trattare per liberare Moro, ha ceduto per liberare Cirillo".

In un libro postumo rivelazioni sulle stragi
Appena consegnati all'editore Il Mulino i dattiloscritti in cui Taviani racconta le verità che non disse mai in vita
GENOVA - Fino a qualche settimana fa il dattiloscritto che svelerà la verità su tanti misteri d'Italia stava sul tavolo del piccolo studio nella casa romana di Paolo Emilio Taviani, in via Asmara, quartiere africano: una pila di fascicoli, ogni fascicolo una sottile copertina bianca con il titolo e il periodo di riferimento scritti dalla forte grafia del senatore a vita. Anni Cinquanta, la nascita di Gladio, meglio "stay behind, Anni Sessanta, la nascita della strategia della tensione, Anni Sessanta, la strage di Piazza Fontana, Anni Settanta, lo stragismo, Anni Settanta, la nascita delle Brigate Rosse.....Anni Settanta, il caso Moro. Oggi i fascicoli dattiloscritti sono presso la casa editrice del Mulino, che ne sta curando la pubblicazione, dopo avere già stampato due anni fa un'altra opera dello stesso autore, sugli stessi temi di una minuziosa ricostruzione storica: "I giorni di Trieste. Diario 19531954." Taviani aveva deciso la pubblicazione di questo libro ben prima del malore che lo ha colpito giovedì scorso proprio in quel piccolo studio della sua abitazione. In un primo tempo i suoi diari dovevano essere stampati postumi. Ma qualcosa negli ultimi mesi, durante le convulse fasi della vita politica, aveva con vinto il senatore a vita, oramai giunto agli 88 anni, ma perfettamente lucido e con una memoria di ferro, assistita da una documentazione imponente, a anticipare l'uscita alla fase post elettorale.
Nei diari ci sono pagine importantissime, non solo la ricostruzione del famoso tentativo di fermare la strage di Piazza Fontana, che il Sid mise in atto inviando un suo ufficiale a Milano. Ci sono particolari sul famoso "armadio della vergogna", nel quale erano custodite le documentazioni delle stragi di soldati italiani, "tollerate" dal Governo per ragioni di politica post bellica. Molti capitoli sono dedicati agli "anni di piombo", alle deviazioni dei servizi segreti, ai retroscena del caso Moro, alle decisioni di sciogliere i movimenti eversivi di destra come "Ordine Nuovo".

"Il Messaggero"
Muore a 88 anni l'ex responsabile del Viminale. Denunciò l'intreccio fra servizi segreti deviati e ultradestra negli attentati
Taviani, nel diario i misteri d'Italia
Funerali di Stato per uno degli ultimi padri fondatori della Repubblica
di AMEDEO CORTESE
ROMA- Avrebbe compiuto 89 anni il 6 novembre prossimo Paolo Emilio Taviani, dirigente storico della Democrazia cristiana, deputato costituente, antifascista convinto e più volte ministro-chiave nei governi della Repubblica. E contava di arrivarci a quella data l'ex ministro dell'Interno che forse più di molti suoi altri colleghi aveva frequentato le stanze e i segreti del Viminale. Un suo memoriale su 60 anni di storia della Repubblica visti da vicino, doveva andare alle stampe nei prossimi mesi per i tipi de Il Mulino. Proprio venerdì scorso il responsabile della sezione "Storia" della casa editrice bolognese avrebbe dovuto incontrarsi con il senatore Taviani e ricevere dalle sue mani l'ultimo dattiloscritto di un libro che sarebbe stato intitolato "Politica a memoria d'uomo". Ma proprio venerdì scorso, la grande tempra del comandante Tip - era il nome convenzionale di combattente nelle brigate partigiane bianche - aveva cominiato a incrinarsi, per poi cedere definitivamente nella clinica Quisisana di Roma. A quei dattiloscritti, che ora sono in possesso della famiglia, Paolo Emilio Taviani avrebbe affidato molte spiegazioni inedite degli eventi più oscuri della nostra vita democratica. Era già noto che l'ex ministro uscì dalla scena del governo a metà degli anni '70, dopo aver denunciato - inascoltato - le commistioni tra servizi segreti deviati e il terrorismo nero, nel periodo della cosiddetta "strategia della tensione". Proprio di recente il senatore a vita, parlando della strage di piazza Fontana, dichiarò che ormai "non ci sono dubbi sulle responsabilità di Ordine Nuovo" e quanto alla Cia "non credo - disse Taviani - che abbia organizzato il collocamento della bomba nella Banca dell'Agricoltura. Mi sembra certo invece che agenti della Cia siano stati tra i fornitori di materiali e tra i depistatori". Sempre lo scorso anno, a proposito questa volta della bomba sull'Italicus e correggendo il senatore Pellegrino che attribuiva quella strage alla "destra radicale", Emilio Taviani dichiarò:
"Si fermi alla destra, il senatore Pellegrino: il termine "radicale" è fuorviante". Dunque la strage di piazza Fontana e l'ordine tardivo del Sid per fermarla, il nome del colonnello dei Servizi incaricato di far cadere la colpa degli attentati sulla sinistra, le bombe sui treni, ma anche il piano Solo e la lista dei politici che spingevano il presidente Antonio Segni verso una svolta autoritaria. Questo ed altro nelle sue memorie. Oggi l'onore dei funerali di Stato, annunciati dallo stesso presidente del Consiglio Berlusconi ieri a palazzo Madama, dopo le manifestazioni di unanime cordoglio del mondo politico nazionale al gran completo: dal presidente della Repubblica ai presidenti delle Camere, da destra e da sinistra per lo statista e uomo della Resistenza, grande democratico, figura di limpidezza morale, cattolico protagonista della laicità dello Stato.

19 giugno - "La Stampa"
"Ci spiegò la strategia della tensione"
Pellegrino: su piazza Fontana disse tutto alla Commissione stragi
ROMA
IL senatore a vita Paolo Emilio Taviani era un mattatore assoluto nelle ultime ricostruzioni della commissione Stragi. Uno dei padri della Patria che poteva illuminare i parlamentari-inquirenti sui misteri della Repubblica. E lui, Taviani, per un po' li aveva delusi. Ma poi, quando decise che ormai era giunto il momento di raccontare la verità sugli anni difficili della guerra fredda e della Ragion di Stato, l'anziano senatore a vita parlò.
Raccontò che il Sid era spaccato tra uno spezzone che "tralignava" con i bombaroli neri e un altro che si opponeva. Spiegò che c'era una differenza sostanziale tra le bombe del '69, dove riconosceva una responsabilità "istituzionale", e le stragi del '73, che erano "reattive". Ossia rappresentavano la reazione dei manovali del terrore contro chi li aveva usati e poi scaricati. Queste erano le verità che Paolo Emilio Taviani scrisse nei suoi diari e che raccontò l'anno scorso alla magistratura. Ma poi il vecchio partigiano cattolico chiamò a casa sua il diessino Giovanni Pellegrino, che presiedeva la commissione, e gli diede la lettura "politica" di quello che era accaduto in quegli anni. Presidente Pellegrino, allora non è vero che il Parlamento ignorava la verità di Paolo Emilio Taviani.
"Certo che no, è una semplificazione giornalistica. Taviani ha parlato apertamente con l'autorità giudiziaria e noi della commissione Stragi acquisimmo il verbale. Io oggi posso dire che solo grazie a Taviani ho capito la strategia della tensione. Con me, poi, a quattr'occhi, si è scusato perché non aveva raccontato tutto nell'audizione del 1997. Davanti a un caffè a casa sua, un paio di mesi fa, mi disse anche che non era il caso di tornare in commissione perché si rendeva conto che il clima era ancora avvelenato e che anzi con l'avvicinarsi delle elezioni si sarebbe fatto un uso strumentale di qualunque cosa avesse detto". E così dicendo il senatore Taviani mostrava ancora di essere molto attento alla politica. "Era di una lucidità politica assoluta. Aveva fatto la Resistenza. Ma quando poi il Paese aveva fatto la scelta di campo occidentale, lui diventò coscientemente un uomo dell'alleanza atlantica. Si rendeva conto della necessità storica di un anticomunismo di Stato. Allo stesso tempo non recise mai i rapporti con Arrigo Boldrini, cioè l'altra parte".
Cosa le rivelò sulla strategia della tensione? "Mi disse che la genesi andava collocata nel periodo tra il suo primo e il suo secondo mandato di ministro all'Interno. Cioè sostanzialmente tra l'estate del 1968 e il febbraio del 1972. Quando tornò al Viminale, disse, capì il tralignamento degli apparati con la destra estrema e intervenne mettendo fuo i legge Ordine Nuovo". Come era stato possibile questo cosiddetto "tralignamento", per stare alle sue vparole?
"Per via della debolezza politica dei dorotei. Al solito, quando è debole la politica, gli apparati si prendono delle libertà. Mi parlò anche di una grave crisi del nostro servizio segreto militare nel momento del passaggio da Sifar a Sid. Non mi parlò mai, invece, di quali rapporti il Viminale intratteneva con la destra estrema. Rapporti che ci furono". Una debolezza politica che naturalmente, lui ministro, non c'era. "Escludeva decisamente che il '73-74 fosse un remake di piazza Fontana. Mi ripeté: so che a piazza Fontana non dovevano esserci morti, anche se non so chi mise la bomba. Invece a Brescia volevano uccidere. Solo che le vittime predestinate erano i carabinieri, non la folla. Era la vendetta di chi si sentiva abbandonato dallo Stato. D'altra parte è chiaro che i carabinier stroncarono il gruppo di Fumagalli, ma facendo sparire ogni contatto imbarazzante". E quella storia dell'ufficiale del Sid, Fusco, che tentò in extremis di evitare la strage di piazza Fontana? "Mi disse che c'era appunto un pezzo del servizio segreto che cercava di bloccarli. Anche se il progetto non prevedeva morti, ad alcuni sembrava ugualmente una pazzia. Troppo tardi: arrivò all'aeroporto di Fiumicino e sentì alla radio dell'esplosione di Milano". Lei dunque crede alle rivelazioni di Taviani? Certo. Le ho fatte mie nel libro "Segreto di Stato". Taviani mi mandò un biglietto per ringraziarmi. Concludeva così: "Duro come me c'era solo Scelba. Ma insieme abbiamo salvato l'Italia". Era un anticomunista. Ma un grand'uomo".

"il Giorno"
Taviani, ministro dei misteri
Paolo Emilio Taviani, dirigente storico della Dc e ministro dell'Interno di lungo corso, sentì nell'agosto del 1974 il bisogno di demolire la teoria degli "opposti estremismi" per certificare che di estremismi pericolosi ve n'era uno soltanto. Quello di destra. L' "amerikano" e' ironico che una personalità così carica di passato sia ricordata soprattutto per una battuta infelice, o presunta tale. Il fatto è che quella frase fece, e tuttora fa, pensare alla punta emersa di un mistero sommerso. Due mesi prima che uscisse di bocca al ministro, le Brigate rosse avevano cominciato la loro stagione di caccia ammazzando a sangue freddo due anziani e innocui missini di Padova. Poco dopo c'erano stati l'arresto di Curcio e Franceschini e l'omicidio di un maresciallo dei carabinieri. La realtà degli "opposti estremismi" saltava agli occhi, ma il ministro di polizia girava il capo dall'altra parte. E sì che Taviani non è stato uno di quei democristiani in adorazione della sinistra. Anzi, passa per essere un amerikano col "K". A che gioco giocava? In realtà non giocava affatto, anzi aveva paura. La bomba in maggio a Brescia, piazza della Loggia, e quella sul treno Italicus il 4 agosto, avevano evocato il braccio violento della lotta politica. Tanto più agghiacciante in quanto l'onda di piena elettorale missina non aveva rotto gli argini nelle politiche del '72 e due anni dopo era chiaramente in riflusso. Dunque le stragi non potevano essere in funzione di un disegno, per quanto criminale, nella cornice delle forze in campo. Da questa constatazione a ipotizzare la regia internazionale di un golpe militare, alla maniera di quello dei colonnelli greci, non c'era che un passo. Taviani ne era convinto. E se ne era convinto lui, che prima di passare agli Interni aveva gestito per lunghi anni, da ministro della Difesa, l'integrazione delle nostre Forze Armate nella Nato, figurarsi gli altri capi scudocrociati.
Il governo "invisibile"
Annus horribilis, il '74, per la Dc. Il referendum sul divorzio aveva rivelato lo scollamento del partito rispetto alla società e il potente alleato americano non era più così potente, dopo la batosta vietnamita. Né così amichevole, a giudicare dall'ondata scandalistica alimentata dal bisogno improvviso di rigore morale degli Stati Uniti. Inoltre, per chiari segni si diffondeva la sensazione che il paese stesse scappando di mano al potere legale per finire in braccio al "governo invisibile" di poteri occulti. In queste condizioni, la scoperta di una trama eversiva intitolata alla "Rosa dei venti" nelle Forze Armate, culminata a metà gennaio nell'arresto del colonnello Spiazzi, fece perdere la trebisonda ai capi del partito di governo. Alla fine di quello stesso mese il ministro degli Interni e il segretario del partito Flaminio Piccoli sentirono il bisogno di pernottare in una caserma della polizia, sotto la protezione delle mitragliatrici.
Aspettando le memorie
Che Piccoli fosse un tipo emotivo si sapeva, ma Taviani aveva nervi saldi. Abbastanza da non prendere sul serio il dossier sulle trame golpiste attribuite a Edgardo Sogno, benché lo avesse recapitato al giudice Violante perché indagasse. Mentre prese molto sul serio le connessioni tra l'Ufficio Affari Riservati del Viminale e organizzazioni extraparlamentari dell'ultradestra, come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Al punto da bandire tutt'e tre e da confidare più tardi i suoi sospetti sull'origine di "certe bombe". Se a tutto questo si aggiungono suoi recenti riferimenti a quattro piani d'invasione dell'Italia da parte dell'Armata rossa (datati 1950, '56, '62 e '68), il ruolo di primo piano da lui svolto nella Resistenza, e quello ambiguo di contenimento (sotto parvenze socialistoidi) di Moro e della sinistra dc da lui svolto nel partito, ce n'è abbastanza per desiderare che la promessa pubblicazione delle memorie di questo iniziato ai misteri d'Italia sia mantenuta al più presto. Tutto lascia credere che sarà - se sarà - una lettura più appassionante dei dotti volumi da lui dedicati alle navigazioni del suo illustre concittadino, Cristoforo Colombo.
di Franco Cangini

28 giugno – Il Parlamento in seduta comune elegge Mauro Ronco componente laico del Csm, il Consiglio superiore della magistratura. Mauro Ronco e' nato a Torino il 19 febbraio 1946. Autore di numerosi saggi in materia giuridica, e' stato ordinario di diritto penale all' Universita' di Modena e all' Universita' di Padova e docente di diritto all' Accademia Militare di Modena. Ronco e' un famoso avvocato penalista e, tra l' altro e' il difensore di Carlo Maria Maggi al processo per la strage di Piazza Fontana ed e' stato il suo difensore anche al processo per la strage davanti alla questura di Milano. Ha fatto parte del Consiglio dell' Ordine degli avvocati e procuratori di Torino e del consiglio direttivo della Camera penale del Piemonte e della Valle d' Aosta. Ronco e' un dirigente di "Alleanza Cattolica", un’ associazione cattolica integralista alla quale aderiscono anche il sottosegretario all Interno Alfredo Mantovano e il sociologo ed esperto di sette Massimo Introvigne.

28 giugno – Processo per la strage di piazza Fontana: Giancarlo Rognoni, ex appartenente al gruppo di estrema destra La Fenice di Milano, si e' rivolto ai giudici del processo di Piazza Fontana definendosi imbarazzato, "prigioniero di una situazione irreale", per essere stato chiamato a rispondere come imputato di una strage dopo la quale era andato subito a manifestare in piazza per esprimere la sua "indignazione". Per Rognoni il pm Meroni ha chiesto l'ergastolo, come per gli imputati Delfo Zorzi (da anni in Giappone) e Carlo Maria Maggi. Rognoni, accusato di aver fornito il supporto logistico all' autore materiale della strage (di questo e' accusato Zorzi, mentre Maggi sarebbe stato l'ispiratore), ha fatto alcune dichiarazioni spontanee prima che la corte si riunisse in camera di consiglio. L'imputato ha letto per una decina di minuti alcune pagine dattiloscritte, che poi ha consegnato ai giudici. A proposito delle accuse nei suoi confronti, Rognoni ha parlato dei rapporti all'interno delle carceri e del continuo rincorrersi di voci che generano accuse da lui definite infondate. Del coimputato Carlo Maria Maggi ha detto trattarsi di una persona di particolare umanita' che gli ha dato grande aiuto in momenti difficili, come quando sua moglie venne ferita. "Non ho ancora capito - ha aggiunto Rognoni - quale sarebbe stato il mio ruolo in questo processo e in questo progetto criminale", per il quale "non posso che augurarmi che i colpevoli siano trovati". Rognoni ha ribadito di aver conosciuto gli imputati successivamente al giorno della strage, giorno in cui, ha detto, "ero al mio posto di lavoro", alla Comit. "Credo che il pm abbia chiesto la mia condanna per dire di aver chiuso il caso: questo non e' un complotto dei magistrati, ma il pm e' un uomo che sbaglia". Rognoni ha concluso chiedendo di non essere giudicato per la sua fede politica e proclamandosi innocente. Anche Carlo Maria Maggi, il presunto ispiratore della strage, ha fatto in udienza dichiarazioni spontanee. Dopo aver esposto il suo curriculum vitae, dalla nascita al servizio militare, all' attivita' di medico (ha prodotto un documento in cui alcuni pazienti attestano la sua professionalita') fino alla malattia, ha dichiarato: "Voglio affermare con forza la mia assoluta innocenza". "Non siamo qui a cercare vendetta - ha detto l'avvocato di parte civile Federico Sinicato -. Il quadro politico nel quale l' attentato si inserisce e' chiaro. Ora il processo dovra' chiarire l'idea, il risultato che si voleva raggiungere e i gruppi effettivi che hanno organizzato la strage". Strage che sembra essere ormai troppo lontana nel ricordo e nella coscienza dei milanesi: l'appello alla presenza, lanciato ieri da Comitato Permanente Antifascista, Associazione Familiari delle Vittime, Osservatorio democratico sul processo per la strage di piazza Fontana e Osservatorio di Milano, e' caduto nel vuoto. Davanti all'aula bunker di piazza Filangeri c'erano in tutto una decina di persone con alcuni cartelli. "E' una colpevole disattenzione - ha commentato Saverio Ferrari, dell'Osservatorio Democratico - perche' dentro a questo processo e' passata una parte della storia di Milano e d'Italia. E' il dramma della dimenticanza di questa citta’".

29 giugno - "Il Gazzettino"
PIAZZA FONTANA
Camera di consiglio per la prima bomba stragista. Maggi e Rognoni: "Siamo innocenti"
MIlano
NOSTRO INVIATO
Il medico giudecchino, stanco e affaticato, legge una dichiarazione, in pratica il proprio curriculum professionale, e ribadisce la propria "assoluta innocenza". Carlo  Maria Maggi affida a un foglietto l'appello finale ai giudici che entrano in camera di consiglio per la sentenza di primo grado, nel terzo filone dei processi che hanno accompagnato la lunga storia della bomba che a Piazza Fontana, nel dicembre '69, costò la vita a 17 persone e il ferimento di un'altra ottantina. In quella pagina c'è solo il riferimento preciso alla carriera di un medico amato nell'"isola rossa", a dispetto delle non dissimulate idee di estrema destra. "Al resto hanno già pensato i miei avvocati..." dice prima di spiegare che dal '65 al '94 ha lavorato indefessamente come medico della mutua e ospedaliero. Nel '66-'67 ottenne la specializzazione in odontoiatria a Padova, con obbligo di frequenza, nel '69-'70 in malattie del tubo digerente, nel '72-'73 in gerontologia e geriatria. Nella sua carriera ha lavorato come assistente e aiuto al "Giustinian" di Venezia al mattino, al pomeriggio a casa, fino a tarda sera, in quanto come medico della mutua doveva garantire, fino al '79, un'assistenza di 24 ore su 24. "Ho lavorato con coscienza e umanità" ha aggiunto, consegnando copia di due petizioni firmate da 500 giudecchini raccolte in coincidenza con le disavventure giudiziarie (Maggi è stato condannato all'ergastolo in primo grado per la strage di via Fatebenefratelli). Cosa c'entra tutto questo con le bombe fasciste? Nulla se si pensa ai fatti contestati, ma serve a dipingere un'immagine più positiva rispetto a quella disegnata dalla pubblica accusa che ha chiesto la condanna all'ergastolo per Maggi, per il mestrino Delfo Zorzi, per il milanese Giancarlo Rognoni, invocando la prescrizione del reato per il solo pentito Carlo Digilio.
All'ultimo momento ha preso la parola anche Rognoni, accusato in quanto capo del gruppo "La Fenice" che avrebbe costituito da base logistica per i bombaroli venuti da Nord Est. "Mi pare incredibile essere accusato di una strage per la quale, pochi giorni dopo che si è verificata, ero in piazza ad urlare la mia indignazione. Sono prigioniero di una situazione irreale, vittima di una ricostruzione del passato fatta con il caleidoscopio in cui sono stati ricomposti pezzettini di vetro colorato". Perfino don Bosco risultava nel logo del gruppo milanese, a dimostrazione di una vocazione non violenta. "Non ho avuto alcun ruolo nè nella genesi, nè nello svolgimento della strage. Quel giorno ero al lavoro. Non ho ancora capito quale sarebbe stato il mio ruolo in questo processo e in quel progetto criminale. Non posso che augurarmi che i colpevoli siano trovati. Credo che il Pm abbia chiesto la mia condanna per poter dire che il caso è chiuso: non è un complotto dei magistrati, ma il pm è un uomo che sbaglia. E io chiedo una giustizia figlia della verità".
I giudici rimarranno chiusi in camera di consiglio nell'aula-bunker di piazza Filangeri, perchè sarebbe stato troppo oneroso trasportare altrove i fascicoli di un processo durato oltre un anno, con più di 100 udienze. Ma alla sera i componenti della Corte verranno scortati in un albergo. La sentenza è attesa per la prossima settimana.
L'ultima udienza non è servira a ravvivare l'interesse di Milano. Nonostante l'appello di alcune associazioni antifasciste, davanti all'aula c'erano solo una decina di persone.
Giuseppe Pietrobelli

30 giugno - "Il Giorno"
Taviani e i misteri d'Italia
BOLOGNA - Se lo sentiva. Paolo Emilio Taviani lo sentiva che stava morendo. E per questo aveva predisposto ogni cosa. In cima alla pila di cartelline verdi che raccoglievano i diari, sul tavolo del suo studio, i figli hanno trovato un appunto vergato pochi giorni prima che l'ictus se lo portasse via: "In caso di mia malattia (o peggio) consegnate queste carte alla casa editrice il Mulino, seguendo queste istruzioni...". Il "peggio" è accaduto. Così, "secondo le istruzioni", pochi giorni dopo i funerali, un ispettore di polizia in pensione - per anni uomo di fiducia del senatore -, si è presentato a Bologna, al civico 37 di Strada Maggiore, per consegnare i diari nelle mani Ugo Berti Arnoaldi Veli, direttore della sezione storia del Mulino, e dal 1997 anello di collegamento tra l'ex ministro e la casa editrice.
Anni turbolenti
Era il suo editor. E ora è quasi atterrito da tanto clamore. Non conscio, forse, di avere in mano una bomba. Ma Berti non è d'accordo: "Il punto è proprio questo. Il diario di Taviani non contiene grosse rivelazioni. E chi se le attende resterà deluso. Il nostro obiettivo non era e non è quello di creare un best seller, ma di vendere il libro per quello che è. Questi diari, integrati da un memoriale, sono interessanti perché trattano momenti importanti della storia italiana raccontati da un autorevole protagonista. Questo è lo spirito della nostra collana dedicata alla memoria. Abbiamo iniziato nell'83 con i diari di Dino Grandi e Leo Valiani e proseguiamo su questa strada. Ingannare il lettore, raccontando quello che non c'è, è anche contro i nostri interessi". Eppure, scava scava, si scopre che un capitolo del libro è dedicato alle "Testimonianze sul finanziamento dei partiti". Un altro a "Gladio e ai misteri veri o presunti d'Italia". E un altro ancora ad "Alcune cose mai dette". E se è vero che dei finanziamenti del Pcus al Pci Taviani parlò già in vita, è altrettanto vero che, ad probandum, ha inserito nel suo memoriale anche fotocopie di atti del ministero degli interni, che raccontano di quegli anni turbolenti. Alcune pagine si soffermano anche sul generale De Lorenzo. E a lui Taviani - e questa per molti sarà sì una sorpresa - avrebbe riservato parole di stima e simpatia. Ma nei diari si narra anche degli attentati mancati. Dei terroristi che progettarono di ammazzarlo negli anni di piombo. A destra come a sinistra. Quasi una riabilitazione postuma, da parte di Taviani, della sua teoria degli 'opposti estremismi', da lui stessa smentita negli anni Settanta, quando disse che il terrorismo esisteva solo a destra. E poi c'è il capitolo delle stragi. Anche se per quella di Bologna, il grande 'vecchio' della Dc si è limitato ad un'unica annotazione: "Questa rimane un mistero". Ma se quei diari sono 'solo' una "testimonianza autorevole", perché mai ha voluto acquisirli anche il pubblico ministero della procura di Brescia che indaga sulla strage di piazza della Loggia? "Quando i carabinieri del Ros mi hanno chiamato per chiedermi se avevo già ricevuto le carte di Taviani - racconta Berti - sono rimasto piuttosto stupito. Non credo infatti che lì dentro troveranno una chiave. Ma il magistrato non può saperlo finché non li avrà letti". I comuni mortali potranno leggerli tra un anno, quando saranno pubblicati. "Non prima, perché non vogliamo forzare i tempi".
"Non danneggiare i viventi"
No, non vuole sfruttare l'onda, il Mulino. Anche se Taviani a Berti aveva fatto una promessa: "Se nel 2000 sarò ancora vivo, li pubblichiamo e non se ne parla più". Tant'è che alcuni mesi fa il senatore aveva inviato a Bologna una prima versione dei diari. "Temeva di aver scritto troppo. In realtà aveva scritto poco. O comunque meno di quanto mi attendessi. Per questo gli chiesi di integrarli". Il che non creò ansie a Taviani, che aveva lasciato alcune 'cose' nel cassetto. Documenti e reperti della memoria trattati con cura, perché "il senatore, ancor prima di iniziare a scrivere, mi disse che non voleva danneggiare persone viventi". Il 30 maggio Taviani ha aggiunto un capitolo. Un poscritto: il discorso al Senato. L'ultimo. Poi ha lasciato le 'istruzioni' per il dopo. "Sto per andarmene, lo sento", sembra abbia detto ai figli. Pochi giorni dopo è arrivato l'ictus.
di Marco Ascione

1 luglio - "La Repubblica"
Piazza Fontana, tre ergastoli
I neofascisti "colpevoli" 32 anni dopo la strage
LUCA FAZZO
MILANO - Sono stati loro. Non hanno agito da soli: sono stati ispirati, organizzati, armati, aiutati a eludere per trent'anni le indagini. Molti complici sono senza volto, altri non possono venire incriminati. Ma almeno per questi tre imputati, per il terzetto di neofascisti accusato di avere organizzato e materialmente eseguito il massacro di piazza Fontana, la giustizia compie il suo cammino fino alla sentenza. Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni sono stati condannati all'ergastolo per strage, riconosciuti colpevoli dell'attentato che il 12 dicembre 1969 inaugurò con sedici morti e novanta feriti la strategia della tensione. Viene riconosciuto colpevole anche un quarto imputato: Carlo Digilio, anche lui ex militante di Ordine Nuovo. Ma per lui, divenuto il principale "pentito" del processo, scattano le attenuanti e il reato viene così dichiarato prescritto.
La sentenza letta alle 16 di ieri nell'aula bunker di fronte al carcere di San Vittore riconosce piena credibilità alla ricostruzione compiuta dal giudice istruttore Guido Salvini e poi dai pm Grazia Pradella e Massimo Meroni. Il giudice Salvini ieri pomeriggio è sul marciapiede di fronte al carcere, accanto - con gli occhi lustri per l'emozione - c'è Antonio Russo, il maresciallo che per anni ha esplorato insieme a lui la giungla dei legami tra fascisti, apparati deviati dello Stato, servizi segreti americani: "Il ruolo degli americani - racconta Salvini - fu un ruolo ambiguo, a metà tra il "sapere e non impedire" e l'indurre a compiere gli attentati". Anche Salvini sa che le zone d'ombra lasciate dalla sentenza sono tante, che - come ha detto in aula il pm Meroni - "ci sarebbe ancora molto da scoprire". Ma intanto, dice, "viene detta una parola chiara sul fatto criminoso che più di ogni altro ha inciso nei rapporti tra cittadini e istituzioni e nelle scelte di una intera generazione".
È la prima volta, nel lungo percorso giudiziario seguito alla strage, che una sentenza viene pronunciata qui, nella città dove la strage avvenne. I vecchi processi sono stati spostati per tutta Italia, affermando che a Milano non era possibile un giudizio sereno. Ma ieri, ad accogliere il verdetto, ci sono solo pochi familiari delle vittime e qualche ragazzo con i cartelli. Quando la sentenza viene pronunciata, dal pubblico parte un timido applauso: ma è sufficiente per fare arrabbiare Gaetano Pecorella, presidente della Commissione giustizia della Camera e difensore in questo processo di Delfo Zorzi: "Un paese dove si applaude una condanna all'ergastolo è un paese che mi fa paura... La sentenza che hanno applaudito ha prosciolto Carlo Digilio, che in questo processo è l'unico certamente colpevole... Una sentenza politica, una bella sintesi della giustizia dei pentiti...".
Proprio sulla sorte di Zorzi, i familiari delle vittime annunciano battaglia per ottenere che venga estradato dal Giappone: "Chiediamo che ora Zorzi sia consegnato all'Italia - dice Luigi Passera, che nella strage perse il suocero - andremo tutti a Palazzo Chigi per chiedere che intervenga il presidente del consiglio". Degli altri due condannati all'ergastolo, Carlo Maria Maggi è in condizioni di salute così precarie che un suo arresto appare improbabile. Qualche rischio in più potrebbe correrlo il milanese Giancarlo Rognoni. Indenni da qualunque pericolo sono Franco Freda e Giovanni Ventura, i neofascisti padovani che negli anni Settanta vennero inquisiti e assolti come mandanti della strage. La sentenza di oggi stabilisce che quelle assoluzioni furono errori giudiziari. Ma, dice la legge, nessuno può essere processato due volte per lo stesso reato.

In quel 12 dicembre debuttò la strategia della tensione
False piste, 007 deviati, otto processi: ecco come in trent'anni si è dipanato il filo dell'inchiesta
GIOVANNI MARIA BELLU
ROMA - Il 12 dicembre del 1969, la seconda guerra mondiale era finita da ventiquattro anni. Per un quarantenne di allora, la conclusione del conflitto era distante quanto, per un suo coetaneo di oggi, l'inizio degli anni di piombo. Un "avant'ieri" rispetto ai tempi della storia. Eppure pochissimi intuirono che quella bomba esplosa a Milano, nella sede della Banca nazionale dell'Agricoltura, in piazza Fontana, era una bomba della seconda guerra mondiale. Più precisamente: un ordigno innescato nello stesso istante in cui le truppe dell'Unione sovietica avevano conquistato Berlino e i servizi statunitensi avevano cominciato l'arruolamento di ex nazisti, collaboratori preziosi durante la Guerra fredda. Ci sarebbero voluti più di vent'anni - e la fine dell'impero sovietico - per trasformare quell'intuizione di alcuni dietrologi in una acquisizione storica. Da ieri, trentadue anni dopo, anche in una sentenza pronunciata nel nome del popolo italiano.
Tutti ricordano quel 12 dicembre come si ricordano solo i grandi traumi della storia: gli omicidi di John Kennedy e di Martin Luther King, il sequestro di Aldo Moro. I ricordi si cristallizzano in fotogrammi: la rotonda della banca devastata dalla deflagrazione della gelignite. L'espressione stralunata dell'innocente anarchico Pietro Valpreda mentre viene condotto in carcere. Il sorriso arrogante del nazista Franco Freda che, dopo una prima condanna, riesce a evitare il carcere a vita. E poi le farfuglianti giustificazioni dei capi dei servizi segreti, gli imbarazzati silenzi di Giulio Andreotti che solo cinque anni dopo, nel 1974, dirà in una intervista quello che fino ad allora aveva taciuto all'autorità giudiziaria: Guido Giannettini, incriminato per la strage (e poi assolto), era un agente della nostra intelligence.
A Giovanni Pellegrino, ex senatore ds e presidente della commissione stragi nella passata legislatura, di quei fotogrammi è rimasto impresso il volto di un politico scomparso da tempo, come quasi tutti i protagonisti di quell'epoca, l'allora presidente del consiglio Mariano Rumor: "Ricordo il suo viso al telegiornale. Era livido, attonito, incerto. Mi fece molta impressione. Forse percepii, a livello subliminale, ciò di cui mi sono convinto occupandomi di quella tragedia: il ceto dirigente sapeva ma non poteva parlare. Per salvare la democrazia bisognava sacrificare la verità".
La verità era quasi banale. L'Italia, col suo fortissimo Partito comunista, era sempre stata il ventre molle del blocco occidentale. E le lotte operaie dell'autunno caldo facevano apparire la sua fedeltà atlantica ancora più a rischio. Si trattava di interrompere quel processo prima che diventasse inarrestabile. Due anni prima, in Grecia, i Servizi americani avevano risolto una questione analoga con un colpo di Stato militare. Nel nostro paese, dal 1945, esistevano persone pronte a simili avventure. Bastava lasciarle fare e, a missione compiuta, proteggerle, magari offrendo all'opinione pubblica un falso colpevole della parte avversa.
Ma la bomba veniva veramente da lontano. E ognuno dei bombaroli aveva una sua storia, una sua motivazione. A quella "stabilizzante" dei mandanti, si sovrapponevano le velleità golpiste dei neofascisti e di alcuni settori militari. Ascoltato alcuni anni fa dalla commissione stragi, Paolo Emilio Taviani disse che l'operazione piazza Fontana era stata organizzata da "persone serie" e aggiunse che il progetto non prevedeva la strage. Chissà, forse quando i diari di Taviani saranno resi pubblici si potrà dire una parola definitiva sul grado di consapevolezza delle nostre autorità politiche. Ma ora già si può affermare che se i mandanti erano "persone serie", non altrettanto lo furono gli esecutori, cioè gli imputati che ieri hanno avuto, nell'ottavo processo, la condanna a vita. Perché, o sbagliarono (e cioè per errore fecero esplodere la bomba quando la banca era affollata) o andarono oltre l'incarico ricevuto trasformando uno dei tanti attentati dimostrativi di quegli anni in un massacro. Ipotesi, quest'ultima, più probabile della prima.
Mariano Rumor, "livido, attonito, incerto" il giorno della strage, era addirittura terreo quattro anni dopo, il 17 maggio del 1973, quando fu accolto dal lancio di una bomba davanti alla questura di Milano dove era andato a inaugurare una lapide intitolata al commissario Luigi Calabresi. L'attentatore, Gianfranco Bertoli, fu preso subito e disse di essere un anarchico individualista. Era, in realtà, un fascista legato ai servizi segreti. E il suo gesto non era, come riuscì a far credere per anni, un atto di violenza antisistema. Era una vendetta organizzata dallo stesso ambiente neofascista della strage di piazza Fontana contro Mariano Rumor, reo di non aver rispettato il patto di proclamare lo stato d'emergenza e favorire la nascita di un governo autoritario.
Quanto questo patto fosse effettivo, e quanto invece appartenesse alle velleità dei leader neofascisti, non è ancora ben chiaro. Ma è un fatto storico che in coincidenza con la fine dell'amministrazione Nixon, il ceto politico italiano avviò una operazione di sganciamento dai compromessi e compromettenti manovali del terrore nero. La strage di Brescia del 1974 (su cui ancora si indaga) con tutta probabilità fu una reazione dei fascisti "traditi" dalle istituzioni.
Ma il distacco non si spinse fino al punto di portare i colpevoli in carcere. L'attività di depistaggio e di copertura andò avanti. E conseguì il risultato di far morire la pista giusta, quella del gruppo neofascista padovano, in una sentenza definitiva di assoluzione per insufficienza di prove. Grazie a essa Franco Freda e Giovanni Ventura - concorrenti di Zorzi e compagni nella strage, secondo l'accusa del processo che si è concluso ieri - hanno potuto evitare un nuovo giudizio e l'ergastolo.
Sedici morti, più di ottanta feriti. Ma il bilancio ufficiale non tiene conto dei danni collaterali. La tragedia di Giangiacomo Feltrinelli fu per una parte importante causata da piazza Fontana, la stessa nascita delle Brigate rosse ebbe, nella strage di Milano, una delle sue motivazioni più forti. Quel 12 dicembre l'Italia, di colpo, perse le speranze sorte durante la ricostruzione, le illusioni degli anni del boom. Un'intera generazione sentì la stessa eco atroce che ancora tormentava i ricordi dei padri. Piazza Fontana fu il nostro Vietnam.
E il processo che si è concluso ieri è stato in un certo senso un processo per crimini di guerra. Non nella forma, naturalmente. Ma perché lo si è potuto celebrare solo quando il conflitto si è concluso: quando è stato chiaro chi erano i vincitori e chi i vinti. La nuova indagine si è aperta immediatamente dopo la fine dell'impero sovietico, e cioè quando la terribile verità della strage di Stato ha smesso di essere un'argomento a favore del nemico. Era questo "il sacrificio della verità in cambio della democrazia" di cui parlava Pellegrino.

1 luglio - "La Stampa"
Piazza Fontana, tre ergastoli dopo 32 anni
Milano: accolte le richieste dell'accusa, applauso in aula
Susanna Marzolla
MILANO Tre ergastoli per la strage di piazza Fontana. Dopo 31 anni e mezzo una nuova sentenza riafferma la responsabilità dei neofascisti. Sono stati infatti condannati: Delfo Zorzi, militante di Ordine Nuovo nel Veneto (e adesso ricco imprenditore in Giappone); Carlo Maria Maggi, ispettore di Ordine Nuovo per il Triveneto; Giancarlo Rognoni, del gruppo "La Fenice". Prescrizione per Carlo Digilio, esperto d'armi e collaboratore della Cia: ha collaborato e la corte gli ha riconosciuto le attenuanti generiche.
La corte d'assise di Milano ha accolto in pieno le richieste del pubblico ministero, Massimo Meroni. Anzi, con un imputato minore - Stefano Tringali, accusato di favoreggiamento per aver aiutato Zorzi - è andata più in là condannandolo a tre anni anziché due. E' soddisfatto il rappresentante dell'accusa "anche se - dice - siamo solo al primo grado. E' presto per dire se siamo arrivati a un risultato definitivo e c'è ancora molto da scoprire".
Di ben altro tenore le dichiarazioni di Gaetano Pecorella, parlamentare di Forza Italia, ieri in aula come difensore di Zorzi. "E' sconcertante - dice - che l'unico imputato su cui c'erano elementi d'accusa certi per la preparazione della bomba, Carlo Digilio, se la sia cavata, accusando degli innocenti. Ma i processi politici sono segnati fin dall'inizio e Milano si aspettava questa sentenza; lo dimostra l'applauso".
Un battito di mani breve, composto. Quasi un gesto liberatorio dopo che il presidente della seconda corte d'assise, Luigi Martino, ha pronunciato quelle parole: "Condanna alla pena dell'ergastolo... ". E' venuto dal pubblico, una cinquantina di persone (molti i giovani) in piedi sulle gradinate dell'aula bunker, di fronte al carcere di San Vittore. Giù, davanti alla corte, c'erano i legali e i parenti delle vittime. L'avvocato di parte civile, Federico Sinicato, appare il più soddisfatto di tutti: "Perché - spiega - è una sentenza importante. Ed era anche l'ultima occasione possibile, dopo tanti, di fare chiarezza, di ottenere giustizia. Se avessimo perso anche questa occasione non ce ne sarebbero state altre".
"Giustizia, sì è stata fatta giustizia - gli fa eco Anna Maria Maiocchi -, all'inizio ero disillusa temevo andasse come le altre volte. Ma grazie a Dio è andata come doveva". La signora Anna Maria è una donna non più giovane che piange quando ascolta la sentenza. Quel 12 dicembre 1969 nel salone della Banca dell'Agricoltura, pieno di gente per il mercato del venerdì pomeriggio, c'era anche suo marito, Vittorio Mocchi: "Aveva trent'anni", ricorda.
Trent'anni di vita e altrettanti per arrivare a questa sentenza che condanna - per una strage che ha causato 16 morti e oltre ottanta feriti, alcuni mutilati per sempre - i militanti neofascisti di Ordine Nuovo del Veneto. Cioè lo stesso gruppo politico ben individuato dai magistrati Gerardo D'Ambrosio ed Emilio Alessandrini. Quando le indagini abbandonano la pista anarchica, imboccata con una fretta sospetta all'indomani della strage (una pista che costerà anni di galera a Pietro Valpreda e la morte di Giuseppe Pinelli).
Erano Franco Freda e Giovanni Ventura i due neofascisti accusati per la bomba. Sarebbero entrati anche in questo processo ma l'ultima sentenza della Cassazione, con assoluzione definitiva, li ha resi non più imputabili. Rognoni, Maggi e Zorzi, pur coinvolti in tante inchieste sull'eversione nera, erano rimasti fuori dall'inchiesta sulla strage. Fino a quando il giudice Guido Salvini, indagando su vari episodi di terrorismo fascista, si è imbattuto in Carlo Digilio, soprannominato "zio Otto" che ha cominciato a collaborare. E ha aperto uno squarcio sull'organizzazione dell'attentato indicando in Zorzi quello che aveva portato l'esplosivo, in Maggi l'ideatore della strage e in Rognoni il necessario supporto logistico a Milano. Digilio, colpito da ictus, ha testimoniato in teleconferenza, su una sedia a rotelle. Gli avvocati della difesa hanno fatto di tutto per screditarlo, per negare validità alla ricostruzione dell'accusa. Non ci sono riusciti.
 

1 luglio - "Il Messaggero"
Milano/ Dopo trentadue anni la sentenza sulla strage alla Banca dell'Agricoltura
Piazza Fontana, 3 ergastoli
Pecorella: verdetto politico
di FABRIZIO RIZZI

MILANO - Con tre ergastoli, inflitti ai neofascisti Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni e Delfo Zorzi (unico latitante in Giappone), si è chiuso, dopo 32 anni, il processo per Piazza Fontana la cui strage (17 morti e 88 feriti), nella simbologia giudiziaria, dopo anni di tortuosi rimbalzi, tra assoluzioni e non luogo a procedere, sembrava destinata a rimanere impunita. Nell'aula bunker della seconda sezione della Corte d'Assise, in un caldo soffocante che è l'esatto opposto climatico di quando avvenne il massacro (12 dicembre 1969), la manciata dei familiari presenti ha espresso con un applauso la propria soddisfazione. Il presidente Luigi Martini, con i giurati del popolo al seguito, dopo aver letto il verdetto, aveva appena infilato l'uscita, quando dai pochi spettatori (alcuni dei centri sociali) e parenti, si è levato un fragoroso battimani, quasi una liberazione "per aver fatto giustizia", come ha detto Luigi Passera, presidente delle famiglie delle vittime. Ma il Pubblico ministero, Massimo Meroni, sorride, non è d'accordo, "ci sono ancora molte cose da scoprire, siamo appena al primo grado". Poco più in là, seduta sui banchi, c'è una donna che piange. Annamaria Maiocchi, occhiali scuri per nascondere le lacrime, ha perduto il marito (sopravvisse, in agonia, per 13 anni): "Adesso che paghino! Ero un po' disillusa quando sono entrata. Se queste persone sapessero quanti hanno fatto soffrire!". E sono scoppiate polemiche dopo le dichiarazioni del difensore di Zorzi, Pecorella e del sottosegretario all'Interno, Taormina. L'avvocato di parte civile, Federico Sinicato, ha replicato: "Tutte le volte che qualcuno perde un processo subito si parla di sentenza politica".
Sono le 16 in punto quando, "in nome del popolo italiano", il presidente Martino, legge il dispositivo, 4 minuti in tutto. Gli sguardi dei parenti si incrociano. Alcune donne, con l'abito scuro, alzano gli occhi al cielo. Forse pregano. Ma appena il presidente fa riferimento agli "articoli 533 e 535 del codice penale", la tensione si allenta. E' condanna, come aveva chiesto il Pm Meroni. L'ergastolo è stato comminato all'organizzatore, all'esecutore, al basista (Maggi, Rognoni e Zorzi, nessuno dei quali presente). Il Pm Meroni aveva accusato i tre "imputati di strage, in concorso con Freda e Ventura che non possono più essere perseguiti solo perchè ormai assolti per insufficienza di prove". Tutto come aveva dichiarato il pentito Carlo Digilio, per il quale, grazie alla collaborazione, è scattata la prescrizione del reato. Stefano Tringali, accusato di favoreggiamento, è stato condannato a 3 anni. Tutti i 3 condannati all'ergastolo, interdetti dai pubblici uffici, dovranno pagare 16 miliardi ai familiari costituitisi parte civile. In più 850 milioni andranno, complessivamente alle Province di Milano e Lodi. Al Comune di Milano, invece 1 miliardo e 50 milioni. Invece dovranno pagare simbolicamente mille lire alla presidenza del Consiglio. Un risarcimento toccherà pure al ministero dell'Interno, ma l'entità verrà decisa "in separata sede". I difensori hanno già annunciato che faranno appello.
Il sangue correva sul marmo del pavimento della Banca dell'Agricoltura, in quel lontano 12 dicembre '69, quando arrivarono i primi soccorritori. "E' saltata in aria una caldaia" si disse nei primi, disperati minuti, quando venivano raccolti monconi di carne e le decine di feriti (quasi tutti agricoltori e mediatori di Milano e Pavia, riuniti per "il mercato del venerdì) invocano aiuto. I barellieri si trovarono di fronte al primo sanguinoso capitolo della strategia della tensione. Altre bombe esplosero, quasi contemporaneamente a Roma, alla Bnl e all'Altare della Patria, e alla Commerciale in piazza della Scala, provocando solo feriti. Inizialmente si batté la pista anarchica (e ieri, quelli del Ponte della Ghisolfa hanno protestato), vennero presi Giuseppe Pinelli (per la morte del quale furono gettati sospetti sul commissario Calabresi, in seguito ucciso) e il ballerino Pietro Valpreda (subì diversi processi prima dell'assoluzione). Tre anni dopo la strage i giudici D'Ambrosio e Alessandrini arrestarono i neofascisti Freda e Ventura (prosciolti a Bari). Nel '74 la Cassazione sottrasse l'inchiesta a Milano trasferendola a Catanzaro. Al termine, tutti gli imputati vennero assolti. Ma nei primi anni '90, il giudice Guido Salvini riaprì l'inchiesta (anche con atti arrivati da Bologna) in base alle dichiarazioni dei pentiti Carlo Digilio e Martino Siciliano che rivelarono l'organizzazione delle cellule di "Ordine nuovo" veneto e gli obiettivi politici della strage, sullo sfondo delle complicità dei servizi segreti ma anche della Cia. E le nuove indagini chiamano in causa, ancora una volta,Freda e Ventura che, secondo il Pm Meroni "non si limitarono ad acquistare ma si fecero spiegare da un elettricista padovano come usare i timer della strage".

1 luglio - "Il Mattino"
IL PROCURATORE CAPO
D'Ambrosio: già allora eravamo vicini alla verità
FRANK CIMINI
"È la sentenza che era nelle previsioni della vigilia. Ce l'aspettavamo proprio così. Il risultato è abbastanza chiaro, la strada che avevamo imboccato già nel 1972 il collega Emilio Alessandrini e io era quella giusta. Ed è una considerazione che faccio adesso con grandissima amarezza". Il procuratore capo di Milano Gerardo D'Ambrosio che fu giudice istruttore dell'inchiesta sulla strage di Piazza Fontana commenta così i 3 ergastoli che la corte d'Assise ha inflitto agli neofascisti veneti.
Gerardo D'Ambrosio in questa vicenda di Piazza Fontana è considerato una sorta di memoria storica. Da giudice cercò la verità scontrandosi con investigatori e magistrati di altre città, con depistaggi. Da dirigente della procura di Milano ha appoggiato fin dall'inizio il lavoro dei suoi sostituti Massimo Meroni e Maria Grazia Pradella, avendo a che fare a tanti anni di distanza con nuovi depistaggi, tanto che tra i condannati dalla sentenza di ieri c'è Stefano Trigali, riconosciuto colpevole di favoreggiamento per aver tentato di inquinare le indagini nel 1996, a 27 anni dalla strage di Piazza Fontana.
Amarezza perchè?
"Perchè già allora eravamo molto vicini alla verità, ma il processo ci fu tolto e mandato a Catanzaro con una motivazione che io non esitai a definire abnorme e su cui poi la Cassazione mi diede ragione".
È stata fatta piena luce?
"Non lo so questo, siamo solo alla sentenza di primo grado e il risultato finale è ancora lontano. Però la sentenza appena emessa dà ragione a noi che già allora videro muoversi una strategia che cercò di fermare l'avanzata democratica del paese. Troppi centri di potere erano preoccupati da quell'avanzata. Noi capimmo subito che la prima pista imboccata dalle indagini, quella che puntava sugli anarchici era sbagliata e fuorviante".
L'ex capitano Gianadelio Maletti è venuto in aula a dire che la Cia quantomeno lasciò fare...
"Io mi meraviglierei se quei servizi segreti deviati non avessero agito anche con complicità internazionali".
Ma erano servizi deviati o servizi e basta?
"Questo è uno dei nodi. Ricordo che fu proprio Maletti insieme a La Bruna a toglierci Giannettini, agente del Sid, a farlo scappare all'estero e a pagarlo per lungo tempo. Se Maletti è venuto a dire certe cose in aula avrà avuto le sue buone ragioni".
Dottor D'Ambrosio, lei cosa pensa sui motivi per i quali ci sono voluti tanti anni per arrivare quantomeno a mettere un punto fermo in questa tragica storia?
"Adesso si comincia a mettere un punto fermo, ma aspettiamo i gradi successivi di giudizio, la prudenza non è mai troppa in vicende così delicate. La ragione è che la storia della bomba di Piazza Fontana con tutto quello che ne è conseguito è diventata un fatto storico. Questa sentenza, per dirla in parole povere, non avrà alcun riflesso sulla vita politica".
Ma in passato già una volta s'era arrivati alla condanna di appartenenti all'estrema destra. Freda, Ventura e Giannettini vennero condannati in primo grado e poi assolti...
"Infatti, bisogna aspettare. Allora la sentenza venne ribaltata perchè fu fatto a mio parere l'errore di celebrare un processo in cui erano imputati insieme i neofascisti e gli anarchici generando una grandissima confusione".

1 luglio - "La Repubblica"
Piazza Fontana, tre ergastoli
I neofascisti "colpevoli" 32 anni dopo la strage
LUCA FAZZO
MILANO - Sono stati loro. Non hanno agito da soli: sono stati ispirati, organizzati, armati, aiutati a eludere per trent'anni le indagini. Molti complici sono senza volto, altri non possono venire incriminati. Ma almeno per questi tre imputati, per il terzetto di neofascisti accusato di avere organizzato e materialmente eseguito il massacro di piazza Fontana, la giustizia compie il suo cammino fino alla sentenza. Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni sono stati condannati all'ergastolo per strage, riconosciuti colpevoli dell'attentato che il 12 dicembre 1969 inaugurò con sedici morti e novanta feriti la strategia della tensione. Viene riconosciuto colpevole anche un quarto imputato: Carlo Digilio, anche lui ex militante di Ordine Nuovo. Ma per lui, divenuto il principale "pentito" del processo, scattano le attenuanti e il reato viene così dichiarato prescritto.
La sentenza letta alle 16 di ieri nell'aula bunker di fronte al carcere di San Vittore riconosce piena credibilità alla ricostruzione compiuta dal giudice istruttore Guido Salvini e poi dai pm Grazia Pradella e Massimo Meroni. Il giudice Salvini ieri pomeriggio è sul marciapiede di fronte al carcere, accanto - con gli occhi lustri per l'emozione - c'è Antonio Russo, il maresciallo che per anni ha esplorato insieme a lui la giungla dei legami tra fascisti, apparati deviati dello Stato, servizi segreti americani: "Il ruolo degli americani - racconta Salvini - fu un ruolo ambiguo, a metà tra il "sapere e non impedire" e l'indurre a compiere gli attentati". Anche Salvini sa che le zone d'ombra lasciate dalla sentenza sono tante, che - come ha detto in aula il pm Meroni - "ci sarebbe ancora molto da scoprire". Ma intanto, dice, "viene detta una parola chiara sul fatto criminoso che più di ogni altro ha inciso nei rapporti tra cittadini e istituzioni e nelle scelte di una intera generazione".
È la prima volta, nel lungo percorso giudiziario seguito alla strage, che una sentenza viene pronunciata qui, nella città dove la strage avvenne. I vecchi processi sono stati spostati per tutta Italia, affermando che a Milano non era possibile un giudizio sereno. Ma ieri, ad accogliere il verdetto, ci sono solo pochi familiari delle vittime e qualche ragazzo con i cartelli. Quando la sentenza viene pronunciata, dal pubblico parte un timido applauso: ma è sufficiente per fare arrabbiare Gaetano Pecorella, presidente della Commissione giustizia della Camera e difensore in questo processo di Delfo Zorzi: "Un paese dove si applaude una condanna all'ergastolo è un paese che mi fa paura... La sentenza che hanno applaudito ha prosciolto Carlo Digilio, che in questo processo è l'unico certamente colpevole... Una sentenza politica, una bella sintesi della giustizia dei pentiti...".
Proprio sulla sorte di Zorzi, i familiari delle vittime annunciano battaglia per ottenere che venga estradato dal Giappone: "Chiediamo che ora Zorzi sia consegnato all'Italia - dice Luigi Passera, che nella strage perse il suocero - andremo tutti a Palazzo Chigi per chiedere che intervenga il presidente del consiglio". Degli altri due condannati all'ergastolo, Carlo Maria Maggi è in condizioni di salute così precarie che un suo arresto appare improbabile. Qualche rischio in più potrebbe correrlo il milanese Giancarlo Rognoni. Indenni da qualunque pericolo sono Franco Freda e Giovanni Ventura, i neofascisti padovani che negli anni Settanta vennero inquisiti e assolti come mandanti della strage. La sentenza di oggi stabilisce che quelle assoluzioni furono errori giudiziari. Ma, dice la legge, nessuno può essere processato due volte per lo stesso reato.

In quel 12 dicembre debuttò la strategia della tensione
False piste, 007 deviati, otto processi: ecco come in trent'anni si è dipanato il filo dell'inchiesta
GIOVANNI MARIA BELLU
ROMA - Il 12 dicembre del 1969, la seconda guerra mondiale era finita da ventiquattro anni. Per un quarantenne di allora, la conclusione del conflitto era distante quanto, per un suo coetaneo di oggi, l'inizio degli anni di piombo. Un "avant'ieri" rispetto ai tempi della storia. Eppure pochissimi intuirono che quella bomba esplosa a Milano, nella sede della Banca nazionale dell'Agricoltura, in piazza Fontana, era una bomba della seconda guerra mondiale. Più precisamente: un ordigno innescato nello stesso istante in cui le truppe dell'Unione sovietica avevano conquistato Berlino e i servizi statunitensi avevano cominciato l'arruolamento di ex nazisti, collaboratori preziosi durante la Guerra fredda. Ci sarebbero voluti più di vent'anni - e la fine dell'impero sovietico - per trasformare quell'intuizione di alcuni dietrologi in una acquisizione storica. Da ieri, trentadue anni dopo, anche in una sentenza pronunciata nel nome del popolo italiano.
Tutti ricordano quel 12 dicembre come si ricordano solo i grandi traumi della storia: gli omicidi di John Kennedy e di Martin Luther King, il sequestro di Aldo Moro. I ricordi si cristallizzano in fotogrammi: la rotonda della banca devastata dalla deflagrazione della gelignite. L'espressione stralunata dell'innocente anarchico Pietro Valpreda mentre viene condotto in carcere. Il sorriso arrogante del nazista Franco Freda che, dopo una prima condanna, riesce a evitare il carcere a vita. E poi le farfuglianti giustificazioni dei capi dei servizi segreti, gli imbarazzati silenzi di Giulio Andreotti che solo cinque anni dopo, nel 1974, dirà in una intervista quello che fino ad allora aveva taciuto all'autorità giudiziaria: Guido Giannettini, incriminato per la strage (e poi assolto), era un agente della nostra intelligence.
A Giovanni Pellegrino, ex senatore ds e presidente della commissione stragi nella passata legislatura, di quei fotogrammi è rimasto impresso il volto di un politico scomparso da tempo, come quasi tutti i protagonisti di quell'epoca, l'allora presidente del consiglio Mariano Rumor: "Ricordo il suo viso al telegiornale. Era livido, attonito, incerto. Mi fece molta impressione. Forse percepii, a livello subliminale, ciò di cui mi sono convinto occupandomi di quella tragedia: il ceto dirigente sapeva ma non poteva parlare. Per salvare la democrazia bisognava sacrificare la verità".
La verità era quasi banale. L'Italia, col suo fortissimo Partito comunista, era sempre stata il ventre molle del blocco occidentale. E le lotte operaie dell'autunno caldo facevano apparire la sua fedeltà atlantica ancora più a rischio. Si trattava di interrompere quel processo prima che diventasse inarrestabile. Due anni prima, in Grecia, i Servizi americani avevano risolto una questione analoga con un colpo di Stato militare. Nel nostro paese, dal 1945, esistevano persone pronte a simili avventure. Bastava lasciarle fare e, a missione compiuta, proteggerle, magari offrendo all'opinione pubblica un falso colpevole della parte avversa.
Ma la bomba veniva veramente da lontano. E ognuno dei bombaroli aveva una sua storia, una sua motivazione. A quella "stabilizzante" dei mandanti, si sovrapponevano le velleità golpiste dei neofascisti e di alcuni settori militari. Ascoltato alcuni anni fa dalla commissione stragi, Paolo Emilio Taviani disse che l'operazione piazza Fontana era stata organizzata da "persone serie" e aggiunse che il progetto non prevedeva la strage. Chissà, forse quando i diari di Taviani saranno resi pubblici si potrà dire una parola definitiva sul grado di consapevolezza delle nostre autorità politiche. Ma ora già si può affermare che se i mandanti erano "persone serie", non altrettanto lo furono gli esecutori, cioè gli imputati che ieri hanno avuto, nell'ottavo processo, la condanna a vita. Perché, o sbagliarono (e cioè per errore fecero esplodere la bomba quando la banca era affollata) o andarono oltre l'incarico ricevuto trasformando uno dei tanti attentati dimostrativi di quegli anni in un massacro. Ipotesi, quest'ultima, più probabile della prima.
Mariano Rumor, "livido, attonito, incerto" il giorno della strage, era addirittura terreo quattro anni dopo, il 17 maggio del 1973, quando fu accolto dal lancio di una bomba davanti alla questura di Milano dove era andato a inaugurare una lapide intitolata al commissario Luigi Calabresi. L'attentatore, Gianfranco Bertoli, fu preso subito e disse di essere un anarchico individualista. Era, in realtà, un fascista legato ai servizi segreti. E il suo gesto non era, come riuscì a far credere per anni, un atto di violenza antisistema. Era una vendetta organizzata dallo stesso ambiente neofascista della strage di piazza Fontana contro Mariano Rumor, reo di non aver rispettato il patto di proclamare lo stato d'emergenza e favorire la nascita di un governo autoritario.
Quanto questo patto fosse effettivo, e quanto invece appartenesse alle velleità dei leader neofascisti, non è ancora ben chiaro. Ma è un fatto storico che in coincidenza con la fine dell'amministrazione Nixon, il ceto politico italiano avviò una operazione di sganciamento dai compromessi e compromettenti manovali del terrore nero. La strage di Brescia del 1974 (su cui ancora si indaga) con tutta probabilità fu una reazione dei fascisti "traditi" dalle istituzioni.
Ma il distacco non si spinse fino al punto di portare i colpevoli in carcere. L'attività di depistaggio e di copertura andò avanti. E conseguì il risultato di far morire la pista giusta, quella del gruppo neofascista padovano, in una sentenza definitiva di assoluzione per insufficienza di prove. Grazie a essa Franco Freda e Giovanni Ventura - concorrenti di Zorzi e compagni nella strage, secondo l'accusa del processo che si è concluso ieri - hanno potuto evitare un nuovo giudizio e l'ergastolo.
Sedici morti, più di ottanta feriti. Ma il bilancio ufficiale non tiene conto dei danni collaterali. La tragedia di Giangiacomo Feltrinelli fu per una parte importante causata da piazza Fontana, la stessa nascita delle Brigate rosse ebbe, nella strage di Milano, una delle sue motivazioni più forti. Quel 12 dicembre l'Italia, di colpo, perse le speranze sorte durante la ricostruzione, le illusioni degli anni del boom. Un'intera generazione sentì la stessa eco atroce che ancora tormentava i ricordi dei padri. Piazza Fontana fu il nostro Vietnam.
E il processo che si è concluso ieri è stato in un certo senso un processo per crimini di guerra. Non nella forma, naturalmente. Ma perché lo si è potuto celebrare solo quando il conflitto si è concluso: quando è stato chiaro chi erano i vincitori e chi i vinti. La nuova indagine si è aperta immediatamente dopo la fine dell'impero sovietico, e cioè quando la terribile verità della strage di Stato ha smesso di essere un'argomento a favore del nemico. Era questo "il sacrificio della verità in cambio della democrazia" di cui parlava Pellegrino.

1 luglio - "La Stampa"
Piazza Fontana, tre ergastoli dopo 32 anni
Milano: accolte le richieste dell'accusa, applauso in aula
Susanna Marzolla
MILANO Tre ergastoli per la strage di piazza Fontana. Dopo 31 anni e mezzo una nuova sentenza riafferma la responsabilità dei neofascisti. Sono stati infatti condannati: Delfo Zorzi, militante di Ordine Nuovo nel Veneto (e adesso ricco imprenditore in Giappone); Carlo Maria Maggi, ispettore di Ordine Nuovo per il Triveneto; Giancarlo Rognoni, del gruppo "La Fenice". Prescrizione per Carlo Digilio, esperto d'armi e collaboratore della Cia: ha collaborato e la corte gli ha riconosciuto le attenuanti generiche.
La corte d'assise di Milano ha accolto in pieno le richieste del pubblico ministero, Massimo Meroni. Anzi, con un imputato minore - Stefano Tringali, accusato di favoreggiamento per aver aiutato Zorzi - è andata più in là condannandolo a tre anni anziché due. E' soddisfatto il rappresentante dell'accusa "anche se - dice - siamo solo al primo grado. E' presto per dire se siamo arrivati a un risultato definitivo e c'è ancora molto da scoprire".
Di ben altro tenore le dichiarazioni di Gaetano Pecorella, parlamentare di Forza Italia, ieri in aula come difensore di Zorzi. "E' sconcertante - dice - che l'unico imputato su cui c'erano elementi d'accusa certi per la preparazione della bomba, Carlo Digilio, se la sia cavata, accusando degli innocenti. Ma i processi politici sono segnati fin dall'inizio e Milano si aspettava questa sentenza; lo dimostra l'applauso".
Un battito di mani breve, composto. Quasi un gesto liberatorio dopo che il presidente della seconda corte d'assise, Luigi Martino, ha pronunciato quelle parole: "Condanna alla pena dell'ergastolo... ". E' venuto dal pubblico, una cinquantina di persone (molti i giovani) in piedi sulle gradinate dell'aula bunker, di fronte al carcere di San Vittore. Giù, davanti alla corte, c'erano i legali e i parenti delle vittime. L'avvocato di parte civile, Federico Sinicato, appare il più soddisfatto di tutti: "Perché - spiega - è una sentenza importante. Ed era anche l'ultima occasione possibile, dopo tanti, di fare chiarezza, di ottenere giustizia. Se avessimo perso anche questa occasione non ce ne sarebbero state altre".
"Giustizia, sì è stata fatta giustizia - gli fa eco Anna Maria Maiocchi -, all'inizio ero disillusa temevo andasse come le altre volte. Ma grazie a Dio è andata come doveva". La signora Anna Maria è una donna non più giovane che piange quando ascolta la sentenza. Quel 12 dicembre 1969 nel salone della Banca dell'Agricoltura, pieno di gente per il mercato del venerdì pomeriggio, c'era anche suo marito, Vittorio Mocchi: "Aveva trent'anni", ricorda.
Trent'anni di vita e altrettanti per arrivare a questa sentenza che condanna - per una strage che ha causato 16 morti e oltre ottanta feriti, alcuni mutilati per sempre - i militanti neofascisti di Ordine Nuovo del Veneto. Cioè lo stesso gruppo politico ben individuato dai magistrati Gerardo D'Ambrosio ed Emilio Alessandrini. Quando le indagini abbandonano la pista anarchica, imboccata con una fretta sospetta all'indomani della strage (una pista che costerà anni di galera a Pietro Valpreda e la morte di Giuseppe Pinelli).
Erano Franco Freda e Giovanni Ventura i due neofascisti accusati per la bomba. Sarebbero entrati anche in questo processo ma l'ultima sentenza della Cassazione, con assoluzione definitiva, li ha resi non più imputabili. Rognoni, Maggi e Zorzi, pur coinvolti in tante inchieste sull'eversione nera, erano rimasti fuori dall'inchiesta sulla strage. Fino a quando il giudice Guido Salvini, indagando su vari episodi di terrorismo fascista, si è imbattuto in Carlo Digilio, soprannominato "zio Otto" che ha cominciato a collaborare. E ha aperto uno squarcio sull'organizzazione dell'attentato indicando in Zorzi quello che aveva portato l'esplosivo, in Maggi l'ideatore della strage e in Rognoni il necessario supporto logistico a Milano. Digilio, colpito da ictus, ha testimoniato in teleconferenza, su una sedia a rotelle. Gli avvocati della difesa hanno fatto di tutto per screditarlo, per negare validità alla ricostruzione dell'accusa. Non ci sono riusciti.
 

1 luglio - "Il Messaggero"
Milano/ Dopo trentadue anni la sentenza sulla strage alla Banca dell'Agricoltura
Piazza Fontana, 3 ergastoli
Pecorella: verdetto politico
di FABRIZIO RIZZI

MILANO - Con tre ergastoli, inflitti ai neofascisti Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni e Delfo Zorzi (unico latitante in Giappone), si è chiuso, dopo 32 anni, il processo per Piazza Fontana la cui strage (17 morti e 88 feriti), nella simbologia giudiziaria, dopo anni di tortuosi rimbalzi, tra assoluzioni e non luogo a procedere, sembrava destinata a rimanere impunita. Nell'aula bunker della seconda sezione della Corte d'Assise, in un caldo soffocante che è l'esatto opposto climatico di quando avvenne il massacro (12 dicembre 1969), la manciata dei familiari presenti ha espresso con un applauso la propria soddisfazione. Il presidente Luigi Martini, con i giurati del popolo al seguito, dopo aver letto il verdetto, aveva appena infilato l'uscita, quando dai pochi spettatori (alcuni dei centri sociali) e parenti, si è levato un fragoroso battimani, quasi una liberazione "per aver fatto giustizia", come ha detto Luigi Passera, presidente delle famiglie delle vittime. Ma il Pubblico ministero, Massimo Meroni, sorride, non è d'accordo, "ci sono ancora molte cose da scoprire, siamo appena al primo grado". Poco più in là, seduta sui banchi, c'è una donna che piange. Annamaria Maiocchi, occhiali scuri per nascondere le lacrime, ha perduto il marito (sopravvisse, in agonia, per 13 anni): "Adesso che paghino! Ero un po' disillusa quando sono entrata. Se queste persone sapessero quanti hanno fatto soffrire!". E sono scoppiate polemiche dopo le dichiarazioni del difensore di Zorzi, Pecorella e del sottosegretario all'Interno, Taormina. L'avvocato di parte civile, Federico Sinicato, ha replicato: "Tutte le volte che qualcuno perde un processo subito si parla di sentenza politica".
Sono le 16 in punto quando, "in nome del popolo italiano", il presidente Martino, legge il dispositivo, 4 minuti in tutto. Gli sguardi dei parenti si incrociano. Alcune donne, con l'abito scuro, alzano gli occhi al cielo. Forse pregano. Ma appena il presidente fa riferimento agli "articoli 533 e 535 del codice penale", la tensione si allenta. E' condanna, come aveva chiesto il Pm Meroni. L'ergastolo è stato comminato all'organizzatore, all'esecutore, al basista (Maggi, Rognoni e Zorzi, nessuno dei quali presente). Il Pm Meroni aveva accusato i tre "imputati di strage, in concorso con Freda e Ventura che non possono più essere perseguiti solo perchè ormai assolti per insufficienza di prove". Tutto come aveva dichiarato il pentito Carlo Digilio, per il quale, grazie alla collaborazione, è scattata la prescrizione del reato. Stefano Tringali, accusato di favoreggiamento, è stato condannato a 3 anni. Tutti i 3 condannati all'ergastolo, interdetti dai pubblici uffici, dovranno pagare 16 miliardi ai familiari costituitisi parte civile. In più 850 milioni andranno, complessivamente alle Province di Milano e Lodi. Al Comune di Milano, invece 1 miliardo e 50 milioni. Invece dovranno pagare simbolicamente mille lire alla presidenza del Consiglio. Un risarcimento toccherà pure al ministero dell'Interno, ma l'entità verrà decisa "in separata sede". I difensori hanno già annunciato che faranno appello.
Il sangue correva sul marmo del pavimento della Banca dell'Agricoltura, in quel lontano 12 dicembre '69, quando arrivarono i primi soccorritori. "E' saltata in aria una caldaia" si disse nei primi, disperati minuti, quando venivano raccolti monconi di carne e le decine di feriti (quasi tutti agricoltori e mediatori di Milano e Pavia, riuniti per "il mercato del venerdì) invocano aiuto. I barellieri si trovarono di fronte al primo sanguinoso capitolo della strategia della tensione. Altre bombe esplosero, quasi contemporaneamente a Roma, alla Bnl e all'Altare della Patria, e alla Commerciale in piazza della Scala, provocando solo feriti. Inizialmente si batté la pista anarchica (e ieri, quelli del Ponte della Ghisolfa hanno protestato), vennero presi Giuseppe Pinelli (per la morte del quale furono gettati sospetti sul commissario Calabresi, in seguito ucciso) e il ballerino Pietro Valpreda (subì diversi processi prima dell'assoluzione). Tre anni dopo la strage i giudici D'Ambrosio e Alessandrini arrestarono i neofascisti Freda e Ventura (prosciolti a Bari). Nel '74 la Cassazione sottrasse l'inchiesta a Milano trasferendola a Catanzaro. Al termine, tutti gli imputati vennero assolti. Ma nei primi anni '90, il giudice Guido Salvini riaprì l'inchiesta (anche con atti arrivati da Bologna) in base alle dichiarazioni dei pentiti Carlo Digilio e Martino Siciliano che rivelarono l'organizzazione delle cellule di "Ordine nuovo" veneto e gli obiettivi politici della strage, sullo sfondo delle complicità dei servizi segreti ma anche della Cia. E le nuove indagini chiamano in causa, ancora una volta,Freda e Ventura che, secondo il Pm Meroni "non si limitarono ad acquistare ma si fecero spiegare da un elettricista padovano come usare i timer della strage".

1 luglio - "Il Mattino"
IL PROCURATORE CAPO
D'Ambrosio: già allora eravamo vicini alla verità
FRANK CIMINI
"È la sentenza che era nelle previsioni della vigilia. Ce l'aspettavamo proprio così. Il risultato è abbastanza chiaro, la strada che avevamo imboccato già nel 1972 il collega Emilio Alessandrini e io era quella giusta. Ed è una considerazione che faccio adesso con grandissima amarezza". Il procuratore capo di Milano Gerardo D'Ambrosio che fu giudice istruttore dell'inchiesta sulla strage di Piazza Fontana commenta così i 3 ergastoli che la corte d'Assise ha inflitto agli neofascisti veneti.
Gerardo D'Ambrosio in questa vicenda di Piazza Fontana è considerato una sorta di memoria storica. Da giudice cercò la verità scontrandosi con investigatori e magistrati di altre città, con depistaggi. Da dirigente della procura di Milano ha appoggiato fin dall'inizio il lavoro dei suoi sostituti Massimo Meroni e Maria Grazia Pradella, avendo a che fare a tanti anni di distanza con nuovi depistaggi, tanto che tra i condannati dalla sentenza di ieri c'è Stefano Trigali, riconosciuto colpevole di favoreggiamento per aver tentato di inquinare le indagini nel 1996, a 27 anni dalla strage di Piazza Fontana.
Amarezza perchè?
"Perchè già allora eravamo molto vicini alla verità, ma il processo ci fu tolto e mandato a Catanzaro con una motivazione che io non esitai a definire abnorme e su cui poi la Cassazione mi diede ragione".
È stata fatta piena luce?
"Non lo so questo, siamo solo alla sentenza di primo grado e il risultato finale è ancora lontano. Però la sentenza appena emessa dà ragione a noi che già allora videro muoversi una strategia che cercò di fermare l'avanzata democratica del paese. Troppi centri di potere erano preoccupati da quell'avanzata. Noi capimmo subito che la prima pista imboccata dalle indagini, quella che puntava sugli anarchici era sbagliata e fuorviante".
L'ex capitano Gianadelio Maletti è venuto in aula a dire che la Cia quantomeno lasciò fare...
"Io mi meraviglierei se quei servizi segreti deviati non avessero agito anche con complicità internazionali".
Ma erano servizi deviati o servizi e basta?
"Questo è uno dei nodi. Ricordo che fu proprio Maletti insieme a La Bruna a toglierci Giannettini, agente del Sid, a farlo scappare all'estero e a pagarlo per lungo tempo. Se Maletti è venuto a dire certe cose in aula avrà avuto le sue buone ragioni".
Dottor D'Ambrosio, lei cosa pensa sui motivi per i quali ci sono voluti tanti anni per arrivare quantomeno a mettere un punto fermo in questa tragica storia?
"Adesso si comincia a mettere un punto fermo, ma aspettiamo i gradi successivi di giudizio, la prudenza non è mai troppa in vicende così delicate. La ragione è che la storia della bomba di Piazza Fontana con tutto quello che ne è conseguito è diventata un fatto storico. Questa sentenza, per dirla in parole povere, non avrà alcun riflesso sulla vita politica".
Ma in passato già una volta s'era arrivati alla condanna di appartenenti all'estrema destra. Freda, Ventura e Giannettini vennero condannati in primo grado e poi assolti...
"Infatti, bisogna aspettare. Allora la sentenza venne ribaltata perchè fu fatto a mio parere l'errore di celebrare un processo in cui erano imputati insieme i neofascisti e gli anarchici generando una grandissima confusione".
 

1 luglio - "Un ministro che giudica fantascientifiche e fantasiose le risultanze di una sentenza-ordinanza di un giudice della Repubblica sulla vicenda Ustica, un sottosegretario all' Interno che rispetto a tre condanne all' ergastolo di neofascisti per Piazza Fontana comminate da giudici della Repubblica, si permette di parlare di 'riscrittura della storia con la penna rossa': mi paiono esternazioni davvero inaccettabili". Lo ha detto la sen.Daria Bonfietti, presidentessa dell' associazione familiari delle vittime di Ustica e parlamentare dell' Ulivo. "E' chiaro il tentativo di delegittimare l' operato della magistratura - ha aggiunto Bonfietti - cosi' come estremamente pericolose sono le evidenti e indebite pressioni di un componente del governo su un tribunale. Sono dichiarazioni indegne di un paese civile che, anche se dopo troppi anni, tenta di onorare la memoria dei propri morti scrivendo finalmente la verita' giudiziaria su alcune delle pagine piu' nere ed oscure della nostra storia". "Assoluta assenza di sensibilita' istituzionale": cosi' Guido Calvi (Ds), membro della commissione Giustizia del Senato, giudica le reazioni alla sentenza di Piazza Fontana da parte di chi, come il sottosegretario all'Interno, Carlo Taormina, non rivestiva il ruolo di avvocato di nessuno degli imputati nel processo in questione. Il senatore Calvi, in sostanza, distingue la posizione "inammissibile" di Taormina da quella di Gaetano Pecorella, presidente della Commissione giustizia della Camera che e' legale di Delfo Zorzi: "Un avvocato che ha partecipato al processo - sostiene Calvi, in passato legale di Pietro Valpreda, l'anarchico accusato e poi prosciolto di essere l'autore materiale della strage - e' libero di esprimere rammarico nei limiti in cui la sua funzione glielo consente". Ma esercitare l'avvocatura nel momento in cui si riveste un ruolo istituzionale non comporta un 'conflitto di interessi', come sostenuto da piu' parti? "E' un problema di opportunita' e di sensibilita' - tiene a precisare Calvi - Non vi e' pero' incompatibilita'. Proprio per questo motivo nella legge sul conflitto di interessi approvata dal Senato alla fine della scorsa legislatura avevamo previsto anche che non si potessero ricoprire incarichi di governo esercitando allo stesso tempo l'attivita' forense. La vicenda di oggi - aggiunge - mi sembra che confermi la legittimita' di quella scelta". Entrando nel merito della sentenza, il senatore diessino ritiene che la condanna all'ergastolo di Zorzi, Maggi e Rognoni sia in linea con la prima sentenza della Corte di Assise di Catanzaro che, nel condannare Freda, Giannettini e Ventura, "delineo' uno scenario assai simile a quello accertato ora dai giudici di Milano: le responsabilita' della strage andavano cercate all'interno di un gruppo neofascista e nella connivenza che vi era stata con i servizi deviati". Per il resto, "il processo ha avuto un lungo corso, ma la sentenza va comunque rispettata. L'appello - conclude - sara' la sede dove verificare la fondatezza e la correttezza di questa decisione". "Parlare in questo modo di una sentenza di una Corte d'Assise, composta prevalentemente da giudici non togati che si sono sacrificati per la giustizia, delegittima le istituzioni, specialmente se questo avviene da parte di rappresentanti delle stesse istituzioni". Gerardo D'Ambrosio, procuratore della Repubblica di Milano, a 24 ore dalla sentenza sulla strage di piazza Fontana, commenta cosi' le dichiarazioni del sottosegretario all'Interno Carlo Taormina e del presidente della Commissione giustizia della Camera, Gaetano Pecorella, quest'ultimo anche uno dei difensori degli imputati condannati all' ergastolo. "Non e' giusto - aggiunge D'Ambrosio - nei confronti dei giudici popolari che sono estranei all'ambiente dei giudici togati. E' un fatto grave - ripete - proprio perche' delegittima le istituzioni. Se lo ritengono, grazie alla loro carica di governo, possono cambiare il sistema, se non gli va bene: come, ad esempio, pensare ad una giuria popolare del tipo di quella che esiste nel sistema americano, ma questo comporterebbe una serie di modifiche estremamente complesse". D'Ambrosio si chiede "come si fa a giudicare senza conoscere le motivazioni, senza sapere come la Corte d'Assise sia arrivata a quella sentenza. Dire che dei rappresentanti del popolo scrivono con la penna rossa mi sembra assurdo. Io accetto qualsiasi critica nei confronti del pubblico ministero ma non nei confronti dei giudici popolari". L'attuale procuratore della Repubblica di Milano conosce bene le vicende di piazza Fontana, non solo per la parte accusatoria in questo ultimo periodo seguita dal suo ufficio. Nel 1969, quando ci fu la strage, lui era giudice istruttore e si occupo' di quell'inchiesta, insieme a Guido Alessandrini, il magistrato poi ucciso da Prima Linea. Cosa ha provato ieri per questa sentenza a 32 anni dalla strage? "Mi sono sentito - risponde D'Ambrosio - nella stessa condizione di quando fu emessa la prima sentenza dai giudici di Catanzaro. Anche quella Corte era composta per la maggioranza da rappresentanti del popolo, e questo dimostra che quando a giudicare sono i cittadini, si arriva alle stesse conclusioni. Infatti fu espresso un giudizio identico. La sentenza di ieri conferma che eravamo allora sulla strada giusta e ci tolsero il processo perche' non volevano che si arrivasse alla verita'. Se non ci fossero state interferenze, come quelle dei servizi segreti, saremmo arrivati almeno alla verita' processuale gia' allora". E D'Ambrosio si chiede se quella di oggi, a cosi' tanti anni di distanza, sia anche "la verita' storica su piazza Fontana". Delfo Zorzi e' rimasto "sconvolto ed esterrefatto" alla notizia della sentenza che ieri lo ha condannato all'ergastolo per la strage di Piazza Fontana. Lo ha riferito l'avvocato veneziano Antonio Franchini, che lo difende insieme al collega milanese Gaetano Pecorella e che ieri per primo ha comunicato al telefono a Zorzi l'esito del processo. "Dalla sua voce ho capito che e' andata male", ha detto Zorzi al legale pochi secondi dopo aver risposto all' apparecchio. "Una camera di consiglio fulminea", ha sottolineato l'avv. Franchini annunciando il ricorso in appello: "la battaglia e' appena cominciata, la sentenza deve essere riformata e Zorzi vuole battersi fino in fondo per dimostrare la sua innocenza". "Il segnale dell'ingiustizia - ha proseguito il legale - e' l'ergastolo a Rognoni perche' contro di lui non c'e' assolutamente nulla. Quello appena concluso e' stato uno dei pochi processi in cui la difesa e' riuscita a dimostrare che il pentito mentiva su punti essenziali. Se fosse stato il primo processo per piazza Fontana - ha concluso l'avv. Franchini - avrebbero assolto tutti gli imputati, ma visto che era l'ultimo...". Carlo Maria Maggi, condannato all'ergastolo per la strage di Piazza Fontana, ai microfoni del Tg3, ipotizza "che volessero cosi' dare un avvertimento e dimostrare la tesi di Salvini, perche' quello che ha manovrato tutto inizialmente e' stato Salvini, che, lo sanno tutti, viene dalla sinistra piu' estrema. Politica io ne ho fatta poca - aggiunge Maggi - nelle ore libere perche' dal '65 all'80 io lavoravo come un cane come medico ospedaliero e come medico della mutua". "Digilio ha cominciato ad accusarmi - conclude - dopo che ha avuto l'insulto cerebrale, quando cioe' si era consegnato mani e piedi a della gente che lo manteneva, lo assisteva, lo foraggiava, perche' se non lo avessero pagato sarebbe su una strada". Pietro Valpreda, l'anarchico arrestato per la strage di piazza Fontana, tre anni di carcere e assolto definitivamente 20 anni dopo l' attentato, ha definito una mezza verita’ la sentenza con cui ieri i giudici della Corte d'Assise di Milano, a conclusione dell' ennesimo processo, hanno condannato all'ergastolo Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. Camicia aperta sul petto, seduto sull'erba davanti alla lapide di Giuseppe Pinelli, in memoria di quella che definisce la "diciottesima vittima", sistemata ai margini di un'aiuola di Piazza Fontana, Pietro Valpreda parla: "Siamo qui dopo trent'anni... questa non e' una sentenza giuridica ma storica". Il luogo dove incontrare i cronisti non e' stato scelto a caso. Si interrompe, alza lo sguardo verso l'edificio della Banca Nazionale dell' Agricoltura, la' dove il 12 dicembre 1969 quella bomba fece 17 morti e 84 feriti, inaugurando la strategia della tensione. Cede la parola a uno dei rappresentanti del Circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa, la riprende per precisare che la gente "dopo 32 anni accetta che Pinelli e' stato assassinato e che io sono innocente". Poi, fa ordine tra i pensieri, e spiega: "E' stata una strage che ha cambiato l' Italia, che ha segnato l'inizio della strategia del terrore. Ma ci sono tre punti che vorrei sottolineare". E li sottolinea, alternando italiano e dialetto milanese. Il primo: sono stati individuati tre colpevoli, ma uno e' latitante, l'altro "e' un malato cronico" e l'altro ancora "non puo' andare in galera: chi e' che mettiamo dentro?". Il secondo: in quei giorni ci sono stati altri attentati a Milano e a Roma di "cui non si sa niente". Il terzo: mancano "i mandanti, quelle che erano le complicita' ad alto livello nazionale e internazionale, le coperture". Tutto questo per concludere: "Dobbiamo accontentarci di questa giustizia, che e' una giustizia monca, un decimo di giustizia: chi si accontenta gode". Certo, per Valpreda, i giudici riconoscendo le responsabilita' dell'estremismo di destra hanno messo un punto fermo, "ma e' un punto di partenza. Ci sono voluti piu' di 30 anni pero' ci sono arrivati". Trent'anni in cui Valpreda, ha raccontato di aver vissuto "pericolosamente": "Umanamenente e psicologicamente se avessi seguito questa vicenda in tutti i suoi aspetti sarei in un ospedale psichiatrico, sarei morto prima". E le dichiarazioni di Carlo Taormina, il sottosegretario all'interno? "Non voglio dire nulla perche' la mia depravazione mentale arriva fino alla lettura di Diabolik". Infine il ricordo di Giuseppe Pinelli, l'anarchico che venne fermato qualche giorno dopo la strage e che mori' precipitando da una finestra della questura: "Non aveva alcun motivo di ammazzarsi: era un uomo con un passato da partigiano, nessuna turba, stava bene e aveva due bellissime bambine". E il Valpreda-pensiero e' condiviso anche dal "movimento" rappresentato da Mauro De Cortes del Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa che ribadisce:"Ieri e' emerso quello che da trent'anni l'opinione pubblica e la coscienza popolare e' andata affermando, pero' non e' stato messo in risalto chi erano i mandanti e che quella era una strage voluta dai poteri forti, dai servizi segreti sia italiani sia internazionali". La condanna in contumacia all' ergastolo per la strage di Piazza Fontana di Delfo Zorzi, alias Roi Hagen, pone in serio imbarazzo il Giappone, oggetto dal marzo 2000 di una richiesta di estradizione avanzata dall'allora governo di centrosinistra di Giuliano Amato. "Piu' che giuridico, il problema e' ora eminentemente politico - hanno detto oggi all'Ansa fonti bene informate giapponesi - Se anche l'attuale governo italiano riproporra' la richiesta di estradizione, rafforzata da una sentenza di condanna al massimo della pena per un reato di terrorismo, Tokyo non potra' che considerare sotto occhi diversi l'intero fascicolo riguardante il signor Roi Hagen". Tra Italia e Giappone non esistono trattati di estradizione (l'unico paese con il quale Tokyo ha un accordo del genere sono gli Stati Uniti, e, presto, la Corea del Sud) e per Delfo Zorzi, in Giappone dalla prima meta' degli anni '70 dove si e' sposato con una donna originaria di Okinawa, dalla quale ha avuto due figli, trasformandosi in uomo d'affari di successo nel settore dell'import di prodotti anche di alta moda, c'e' l'ostacolo della cittadinanza giapponese ottenuta nel 1989 con la nuova identita' di Roi Hagen. "La legge in generale non ammette l'estradizione di cittadini giapponesi - hanno spiegato le fonti - Ma Zorzi non e' cittadino giapponese dalla nascita, come e' invece il caso dell'ex presidente peruviano Alberto Fujimori, e la cittadinanza, come gli e' stata concessa cosi' puo' essere revocata, se ne esistono gli estremi". Secondo ambienti familiari con la pratica, l'estradizione del neofascista italiano definito dalla sentenza di Milano come l'esecutore materiale della strage di Piazza Fontana, in un primo momento sembrava sul punto di essere accolta ma si e' poi arenata dietro le continue richieste di documentazione supplementare da parte del ministero della giustizia giapponese. " In parole povere - hanno detto fonti informate - il Giappone voleva prove sicure e inoppugnabili per poter estradare il signor Hagen. Un compito pressoche' impossibile prima della sentenza". "Ma ora sul piano giuridico la questione e' diversa - questa l'opinione delle fonti giapponesi - La sentenza di condanna all'ergastolo, anche se in contumacia, ha molto piu' peso e cosi' gli argomenti italiani di vizi di forma nella concessione della cittadinanza a Zorzi". Tra le condizioni per diventare cittadini del Sol Levante, sono comprese la " buona condotta precedente" e "la rinuncia formale" alla cittadinanza originaria. Condizioni entrambe non rispettate, secondo Roma, dal signor Hagen che fino al 1997 mantenne e uso' piu' volte il passaporto italiano.  Zorzi, che risiede in uno dei quartieri residenziali piu' prestigiosi di Tokyo, a Omotesando, ha rotto il silenzio comparendo in pubblico una sola volta la scorsa estate. Circondato dai suoi avvocati (il suo collegio di difesa comprende avvocati molto affermati sia in Giappone sia in Italia, tra cui Gaetano Pecorella), nego' recisamente tutte le accuse in una conferenza stampa dove defini' "politico e ispirato dai comunisti" il processo di Milano. Il ministro di Grazia e Giustizia Roberto Castelli e' "per una netta separazione tra i poteri dello Stato" e di conseguenza ritiene che "le dichiarazioni rilasciate da alcuni esponenti politici" siano affermazioni fatte "a titolo personale e che non impegnano il governo". Questi i punti cardine di una sua dichiarazione al termine di una giornata polemica per il mondo politico dopo le dichiarazioni di diversi esponenti in merito alle sentenze di alcuni processi, come quello di Piazza Fontana e a carico del giudice Carnevale."Le dichiarazioni rilasciate in questi giorni da alcuni esponenti politici - sostiene in particolare Castelli riprendendo in parte quanto gia' affermato ieri in merito alla posizione assunta dal sottosegretario alla Giustizia Michele Vietti - sono da considerarsi come affermazioni rilasciate a titolo personale nell' ambito della loro liberta' di espressione di cittadini e di parlamentari. Queste affermazioni – dice Castelli - non impegnano il governo: la mia linea, come ho piu' volte spiegato, e' quella di una netta separazione tra i poteri dello Stato". "Sulle sentenze di questi giorni - conclude - non intendo quindi esprimere commenti".

1 luglio – In un’ intervista al “Corriere della sera” Carlo Maria Maggi dice che "Il giudice Salvini e' comunista, viene da Lotta continua. Anni fa ha aperto questa inchiesta pagando profumatamente il pentito Martino Siciliano e poi ha continuato su questa strada". Maggi, condannato all'ergastolo come 'mente' dell'attentato di Piazza Fontana, continua a proclamarsi innocente, vittima di una congiura. "In un certo senso - spiega - la mia vicenda e' simile a quella di Adriano Sofri. Contro di me c'e' solo la parola di un pentito, che per vent'anni ha taciuto, si e' risvegliato all'improvviso, dipende economicamente dagli inquirenti e l'ha passato liscia". L'ultimo processo e' stato "preparato": "avevano gia' deciso - ribadisce Maggi - i giudici e l'opinione pubblica. Ci sarebbe stato un colpevole e l'hanno trovato. Non importa a nessuno che io sia innocente". Si illude chi crede che con questa sentenza si sia fatta giustizia, conclude, "la verita' non la sapremo mai, ne' io ne' voi". In un’ intervista a “La Repubblica” Carlo Taormina, penalista e sottosegretario all'Interno, non modera i toni della polemica nata dopo la sentenza su Piazza Fontana, anzi rincara:"I processi d'appello sono la piazza privilegiata per il rilancio dell'offensiva del partito dei giudici". Taormina prevede che anche il processo a Calogero Mannino, l'ex ministro democristiano accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, andrà a finire con una condanna: "si tratta di pentiti sostanzialmente coincidenti con quelli del processo Carnevale, sara' difficile pensarla diversamente". Quella vicenda, conclude Taormina, ha dimostrato del resto che le cariche di giudice e pm devono restare assolutamente separate: "i giudici devono guardare ai pm con la stessa diffidenza con cui guardano gli avvocati difensori". In un'intervista rilasciata dal Giappone a “Il Giornale”, Delfo Zorzi, condannato all'ergastolo come esecutore della strage di Piazza
Fontana, definisce il verdetto di ieri "un gravissimo errore giudiziario". "Le pressioni dell'ambiente, e in primo luogo della potente e arrogante procura ambrosiana, - insiste – hanno avuto la meglio sullo spirito di indipendenza che dovrebbe ispirare i giudizi di chi ha in gioco la vita degli uomini". Zorzi continua a proclamare la sua innocenza ed estraneita' all'attentato, vittima di un "teorema" appositamente modellato su di lui, "organizzato sfruttando certi squalificanti personaggi che hanno reso grottesco l'intero processo": Carlo Digilio, che parlo' di un ordigno che non era piu' in produzione", ma soprattutto Martino Siciliano, che negli anni ha avuto "rapporti economici" con il Sismi e il giudice che lo aveva persuaso a collaborare con la giustizia. "Con tanti bugiardi in giro come avrebbe potuto un cittadino qualunque sperare in un'assoluzione? - conclude Zorzi - La mia battaglia giudiziaria e' appena iniziata, faro' di tutto per dimostrare la mia innocenza".

2 luglio - Enzo Fragala', Nino Lo Presti e Basilio Catanoso, deputati di Alleanza Nazionale, alle critiche provenienti dall'opposizione sulla sentenza per la strage di Piazza Fontana, ribattono che si tratta di "Una sentenza costruita sul nulla dei collaboratori di professione, tralasciando la pista anarchica per seguire, dopo 32 anni, il solito tritume delle trame nere al servizio della Cia". Secondo gli esponenti di An, i recenti processi che vedono protagonista Silvio Berlusconi, il sequestro dei cantieri Tav, la condanna del giudice Carnevale e ora Piazza Fontana rientrano in un tentativo della sinistra, che ha perso il potere politico, di utilizzare quello giudiziario per abbattere il legittimo governo di centrodestra. "Lanciamo un appello al presidente Ciampi, in qualità di massimo esponente del Csm, affinche'vigili per evitare che s'inneschi un pericolosissimo scontro tra poteri costituzionali". E sulla richiesta fatta dal centrosinistra di portare la questione in Parlamento dicono: "Ben venga la discussione in aula cosi' potremo ricostruire i punti salienti dell'indagine tra i quali spicca il versamento di bonifici personali del giudice Salvini al pentito Siciliano per convincerlo a collaborare". Una nota dell'ufficio stampa di Alleanza Nazionale pero’ precisa poi che "Il giudizio sulla sentenza sulla strage di piazza Fontana espresso dai deputati Enzo Fragala', Nino Lo Presti e Basilio Catanoso e' chiaramente espresso a titolo personale e non coinvolge An".

2 luglio - Il sottosegretario all'Interno Carlo Taormina, in un'intervista al “Giornale”, torna a ribadire la sua opinione sulla sentenza per la strage di Piazza Fontana:"Ribadisco tutte le mie analisi sulle sentenze di questi giorni. E se avessi la possibilita' di spiegare, atti alla mano (che fra l'altro conosco perfettamente), le storture di quei processi, direi di peggio". Le polemiche in atto non fermano "A questi imputati di destra - afferma - e' stata attribuita una colpa sulla base di elementi probatori fatiscenti, costruiti con circomlocuzioni incredibili. Si fonda su due pentiti. Uno, Digilio, non ha neanche fatto chiamate in correita' concrete; l'altro, Siciliano, da tempo e' scappato. E' una sentenza che nasce senza certezze, e per questo la ritengo politica".
 

3 luglio – In un’ intervista al “Giornale”, Franco Freda dice:"Ha ragione il Tao. Si', il professor Carlo Taormina, quando dice che il verdetto di condanna al processo per piazza Fontana e' stato vergato con la penna rossa. Condivido e aggiungo che la sentenza era gia' scritta". "Le accuse ai tre imputati - afferma - sono tutte basate su dicerie, bugie conclamate, sulle versioni dei pentiti pagati profumatamente o pacificamente arruolati al soldo delle potenze straniere. Al di la' delle chiacchiere e dei teoremi, non c'e' una prova certa".

3 luglio – In un’ intervista a “L’ Opinione” Enzo Fragala', deputato di An, difende le critiche da lui espresse alla recente sentenza su piazza Fontana, dalle quali il suo stesso partito ha preso le distanze. Fragala' ha detto che "sull' inchiesta di Salvini per la strage di Piazza Fontana e sul suo acritico recepimento da parte della Corte d'Assise di Milano che ha pronunciato la sentenza di condanna ho espresso, anzi ribadito, una posizione sempre sostenuta dal Polo in Commissione stragi e che e' stata condivisa dalla maggioranza degli italiani, che con il voto alla Cdl hanno voluto dire basta all'uso politico della giustizia". Quanto alle critiche del centro-sinistra ai sottosegretari Vietti e Taormina per le loro dichiarazioni dopo la sentenza, Fragala' ricorda il caso della sentenza che porto' alla scarcerazione di Erich Priebke, quando da parte della sinistra "non furono semplicemente espresse delle critiche, ma fu addirittura aggredito e annullato il provvedimento dei magistrati con un decreto di Palazzo Chigi. Senza che – conclude Fragala' - le attuali vestali della separazione dei poteri proferissero sillaba".

3 luglio – In un’ intervista al “Giornale”, Franco Freda dice:"Ha ragione il Tao. Si', il professor Carlo Taormina, quando dice che il verdetto di condanna al processo per piazza Fontana e' stato vergato con la penna rossa. Condivido e aggiungo che la sentenza era gia' scritta". "Le accuse ai tre imputati - afferma - sono tutte basate su dicerie, bugie conclamate, sulle versioni dei pentiti pagati profumatamente o pacificamente arruolati al soldo delle potenze straniere. Al di la' delle chiacchiere e dei teoremi, non c'e' una prova certa".

3 luglio – In un’ intervista a “L’ Opinione” Enzo Fragala', deputato di An, difende le critiche da lui espresse alla recente sentenza su piazza Fontana, dalle quali il suo stesso partito ha preso le distanze. Fragala' ha detto che "sull' inchiesta di Salvini per la strage di Piazza Fontana e sul suo acritico recepimento da parte della Corte d'Assise di Milano che ha pronunciato la sentenza di condanna ho espresso, anzi ribadito, una posizione sempre sostenuta dal Polo in Commissione stragi e che e' stata condivisa dalla maggioranza degli italiani, che con il voto alla Cdl hanno voluto dire basta all'uso politico della giustizia". Quanto alle critiche del centro-sinistra ai sottosegretari Vietti e Taormina per le loro dichiarazioni dopo la sentenza, Fragala' ricorda il caso della sentenza che porto' alla scarcerazione di Erich Priebke, quando da parte della sinistra "non furono semplicemente espresse delle critiche, ma fu addirittura aggredito e annullato il provvedimento dei magistrati con un decreto di Palazzo Chigi. Senza che – conclude Fragala' - le attuali vestali della separazione dei poteri proferissero sillaba".

3 luglio - La VI sezione penale della Cassazione ha accolto il ricorso della Procura di Brescia contro la decisione con la quale il Tribunale della liberta' aveva detto 'no' alla richiesta del pubblico ministero di emettere un provvedimento di cattura nei confronti di Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi in relazione alla strage di Piazza della Loggia. Adesso il Tribunale del riesame di Brescia dovra' valutare nuovamente gli elementi in base ai quali aveva ritenuto – con ordinanza emessa il primo dicembre 2000 - di non dover emettere la misura cautelare. In particolare la richiesta della Procura bresciana e' stata condivisa - durante l'udienza al Palazzaccio - dal pg Giuseppe Veneziano che, con una lunga requisitoria, ha criticato l'operato dei giudici di merito che non hanno tenuto in considerazione le dichiarazioni accusatorie contro Maggi e Zorzi (indicati come ideatori e mandanti della strage avvenuta nel maggio del 1974) provenienti da Carlo Digilio e Maurizio Tramonte. Per quanto riguarda quest'ultimo, la Cassazione ha respinto il suo ricorso contro le misure cautelari. Sulla decisione della Cassazione e' intervenuto l'avvocato Marcantonio Bezicheri, difensore di Maggi, secondo il quale l'ordinanza della Cassazione non puo' essere interpretata come un assenso alla richiesta di arresto. "La Suprema Corte - ha osservato il legale - ha solo accertato e rilevato dei vizi logico-giuridici nell'esposizione della motivazione del Tribunale di Brescia, che ora dovra' riesaminare il tutto, e non e' entrata nel merito, cioe' nella questione dell'opportunita' e necessita' dell'emissione degli ordini di cattura". Secondo Bezicheri, il Tribunale del Riesame di Brescia "potra' ritenere, come ha gia' fatto, che tali esigenze cautelari non sussistano e potra' ribadire il suo diniego alla richiesta della Procura, motivandola in maniera piu' efficace e corretta". Il legale ha concluso polemizzando con i giudici della Corte di Assise di Milano che, sabato scorso, hanno condannato Maggi all'ergastolo per la strage di Piazza Fontana. "Faccio osservare che, comunque, - ha detto Bezicheri – la Suprema Corte, per decidere di una questione puramente incidentale, ha impiegato un' intera giornata cioe' il lasso di tempo che la Corte di Assise di Milano, evidentemente dotata di facolta' paranormali, ha impiegato per deliberare, in una camera di consiglio brevissima, rispetto alla mole del processo, la sentenza di condanna di tutti gli imputati per il terzo processo di Piazza Fontana". La decisione della Cassazione dimostra, per il procuratore della Repubblica di Brescia Giancarlo Tarquini, che l' inchiesta sulla strage di Piazza della Loggia "ha imboccato la via giusta". Il magistrato non ha voluto entrare nei dettagli dell' inchiesta, ma ha ribadito che il procedimento, nato nel 1993, "e' ora in un momento decisionale importante". "Ci vorra' ancora molto lavoro da parte della Procura – ha affermato Tarquini - ma la decisione della Cassazione dimostra che la via imboccata e' quella giusta".

3 luglio – Ansa:
Si incrociano le inchieste sulla strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 (8 morti un centinaio di feriti) e quella di piazza Fontana. Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, condannati all'ergastolo sabato scorso, per la strage alla Banca Nazionale dell'Agricoltura del 12 dicembre 1969, avrebbero avuto una parte attiva anche nell'eccidio di Brescia. Contro di loro, anche per questa inchiesta, il maggiore accusatore e' Carlo Digilio, detto Zio Otto, l'artificiere di Ordine nuovo che, per la sua collaborazione,al processo per piazza Fontana, ha ottenuto la prescrizione del reato. Digilio ai magistrati bresciani ha raccontato che pochi giorni prima della strage di Brescia, Marcello Soffiati, un estremista di destra veronese, da tempo deceduto, venne inviato a Mestre da Carlo Maria Maggi, dove si incontro' con Delfo Zorzi il quale gli diede una valigetta del tipo 24 ore, con una quindicina di candelotti "non so se di gelignite o di dinamite". Oltre all'esplosivo, secondo il racconto di Digilio, Zorzi avrebbe fornito a Soffiati anche un congegno per innescare l'esplosione: "Un pila da 4,5 volt e una sveglia grossa di tipo molto comune con dei bilancieri che facevano rumore. I fili erano gia' collegati tra la pila e la sveglia e quest'ultima aveva gia' il perno sistemato sul quadrante e le lancette con le punte piegate in alto per facilitare il contatto". Digilio ha raccontato che Soffiati era terrorizzato e che inizio' a temere Delfo Zorzi: "Ebbe la netta sensazione che Zorzi intendesse eliminarlo e quando si trovo' in qualche occasione a Mestre ebbe cura di tenere una pistola alla cintola". C'e' anche un'intercettazione ambientale del 1995, disposta dal pm di Venezia, Felice Casson, nella quale due ordinovisti veneti, Battiston e Raho, si rallegrano del fatto che Digilio, che gia' aveva iniziato a collaborare, non aveva raccontato che Soffiati si era recato a Brescia con la valigia piena di esplosivo. Di questo fatto, Digilio ne parlera' solo in seguito. Contro Maggi, inoltre, c'e' la testimonianza di Maurizio Tramonte, ex ordinovista veneto e spia nell'organizzazione per conto del Sismi. Tramonte, per il quale i magistrati bresciani hanno chiesto l'arresto, il 6 luglio del '74, una decina di giorni dopo la strage, aveva riferito al Sismi di una riunione alla quale aveva partecipato Maggi. "Nella riunione, nel commentare i fatti di Brescia - aveva raccontato Tramonte che in codice era conosciuto come fonte Tritone - Maggi aveva affermato che quell'attentato non doveva rimanere un fatto isolato". "Il sistema - aveva detto Maggi, secondo il racconto di Tramonte - va abbattuto mediante attacchi continui che ne accentuino la crisi. l'obiettivo e' aprire un conflitto interno risolvibile colo con lo scontro armato". Maggi, secondo Tramonte, aveva espresso anche l'intenzione di stilare un comunicato per annunciare altre azioni terroristiche.

4 luglio - Nasce a Milano, dopo le polemiche sulla sentenza per la strage di Piazza Fontana, l'associazione 'La Ragione-Osservatorio per la difesa della giustizia e dei diritti di liberta' e solidarieta' sociale'. L' iniziativa ha avuto un'ampia adesione di avvocati del capoluogo lombardo. Il comitato provvisorio e' composto da Giorgio Covi, Giovanni Panzarini, Carlo Gilli, Achille Cutrera, Laura Hoesch e Franco Ceccon. In un breve dibattito seguito alla costituzione dell'associazione, l'assemblea ha espresso all' unanimita' il proprio disagio di fronte a dichiarazioni di avvocati oggi investiti di responsabilita' politico-istituzionali rispetto a sentenze emesse in processi penali nei quali gli stessi sono difensori di alcuni imputati.

5 luglio - Il ministro della Giustizia Roberto Castelli sta portando avanti la richiesta di estradizione per Delfo Zorzi condannato per la strage di piazza Fontana. Lo ha detto al Senato nel corso del question time. "Sul mio tavolo c'e' una richiesta di sollecito alla richiesta di estradizione gia' portata avanti qualche mese fa; credo risalga al febbraio 2001". "La sentenza su Piazza Fontana – aggiunge Castelli - e' una sentenza di primo grado, quindi non e' stata ancora raggiunta la verita', perche' non e' la sentenza definitiva e, come dice la Costituzione, un imputato deve essere considerato innocente fino alla sentenza definitiva". "Non e' vero - sostiene ancora il ministro - che e' stata raggiunta la verita' dopo 32 anni. Forse di anni ce ne vorranno 40: vi invito dunque a considerare il quadro completo della situazione e non solo le sfaccettature che interessano".

5 luglio – Ansa:
E' sempre stato ottimista sull' esito del processo ma sabato, quando il suo legale gli ha comunicato che i giudici della Corte d'Assise di Milano lo avevano condannato all' ergastolo con Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, e' stato preso dallo sconforto al punto di meditare di accettare la decisione e non ricorrere neppure in appello. Giancarlo Rognoni, ex responsabile del gruppo di destra 'La Fenice' di Milano, ritenuto l'uomo che diede il supporto logistico ai fascisti veneti nell' organizzazione della strage di piazza Fontana, a distanza di qualche giorno ha, pero', deciso di continuare la battaglia per dimostrare la sua innocenza. "Ho parlato a lungo con le persone a me care e con i miei legali - dice Rognoni - e mi sono convinto a continuare questa battaglia. Mi hanno spiegato, tra l'altro, che dal punto di vista procedurale anche se non avessi fatto appello io, sarei stato trascinato nell'appello degli altri coimputati". Non si rassegna, quindi, alla sentenza Giancarlo Rognoni il quale, a differenza degli altri imputati e di alcuni opinionisti, non crede che la decisione dei giudici della Corte d'Assise sia il frutto di un complotto. "Non credo - dice – che gli attori di questa tragedia abbiano organizzato un complotto. Non credo che dei giudici popolari abbiano aderito a una macchinazione contro di noi. Non penso neppure che ci sia stato un grande vecchio che abbia eterodiretto gli investigatori". Non e' stata quindi un' inchiesta politica? "Credo – spiega Rognoni - che ci siano stati degli input ai quali qualcuno abbia reagito con riflessi pavloviani". Giancarlo Rognoni proclama la sua innocenza ma afferma anche l' estraneita' della destra nella strage di piazza Fontana: "In passato - dice - e' stato formulato un giudizio storico secondo il quale la strage era opera di noi fascisti. Si e' partiti da questo giudizio storico sbagliato". Quindi, parlando del mondo dell' estrema destra, del quale si sente ancora parte, dice: "Penso che una volta tramontata la pista anarchica ci siano stati movimenti strani, infiltrazioni nei nostri gruppi, per attribuire a noi la responsabilita' della strage". Eppure nel mondo carcerario, tra la fine degli anni '70 e i primi anni '80, era stato aperto un dibattito sulla responsabilita' della destra nello stragismo e in particolare per piazza Fontana. Molti testimoni, anche al processo che si e' appena concluso, hanno dichiarato che all' interno delle carceri speciali era prevalsa la convinzione che la strage di 3mpiazza Fontana fosse "cosa" della destra. "Il dibattito in carcere - sostiene Rognoni - c'e' stato. Io sono stato a lungo in carcere e le assicuro che spesso cio' che esce dal quel mondo va preso con le pinze. Qualcuno si forma delle convinzioni per vivere. Circola la droga e molte chiacchiere vengono enfatizzate e poi rivendute dai pentiti". Rognoni, ripensa quindi alla sentenza che lo condanna all' ergastolo: "Sono amareggiato, sono stupefatto, non so proprio cosa dire". Ma cio' che lo amareggia di piu' e' che e' convinto che durante il processo, contro di lui, non sia emersa la benche' minima prova. "Nel processo c'e' un pentito principale che e' Carlo Digilio. Di me non parla quasi mai e quando ne parla non mi attribuisce alcuna responsabilita' nella strage. L'altro pentito, Martino Siciliano, ha affermato di avermi conosciuto in una certa occasione: era la notte dell' allunaggio nel luglio del '69. La mia difesa ha dimostrato la falsita' di quella testimonianza". Ora ricorrera' in appello una volta che saranno rese pubbliche le motivazioni: "Si' mi hanno convinto di ricorrere in appello anche se devo dire che non sono molto fiducioso che ci sia un giudice eroe in grado di cambiare questa sentenza".

6 luglio - Jole Santelli, sottosegretario alla Giustizia, rispondendo ad alcune interrogazioni, dice che i sottosegretari che hanno commentato le sentenza su Piazza Fontana e sul giudice Carnevale lo hanno fatto a titolo personale. "Non spetta infatti al governo – dice - come gia' detto dal ministro Castelli, formulare commenti su provvedimenti adottati dalla magistratura nell'esercizio della funzione giurisdizionale ad essa demandata" e aggiunge che il governo "si atterra' allo scrupoloso rispetto del principio della separazione dei poteri dello Stato". "Il rispetto dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura - ha detto ancora Santelli - sara' infatti il baluardo essenziale della sua azione unito alla rivendicazione delle prerogative proprie dell'esecutivo nell'esercizio dell'azione governativa sottoposta esclusivamente al controllo del Parlamento". I commenti sulle sentenze, ha sottolineato, sono "dichiarazioni rese a titolo personale e nell'ambito della liberta' di espressione riconosciuta costituzionalmente a ciascun cittadino italiano in merito alla quale non puo' certo intravedersi alcun conflitto di interessi". Immediata la replica di Francesco Bonito, responsabile Giustizia dei Ds: "Le dichiarazioni dei rappresentanti del governo non possono considerarsi rese a titolo personale perche' e' inaccettabile la tesi di una scissione fra il loro ruolo istituzionale e il diritto di critica riconosciuto ad ogni cittadino. Le motivazioni addotte dal governo per respingere le accuse del conflitto di interessi appaiono inconsistenti proprio in considerazione della funzione difensiva espletata in particolare da Carlo Taormina in processi di rilevanza nazionale nei quali risultano imputati esponenti di rilievo della politica italiana".

6 luglio - Carlo Maria Maggi presenta in procura a Venezia, insieme al suo avvocato bolognese Marcantonio Bezicheri, un esposto denuncia per alcune dichiarazioni rese agli inquirenti da Carlo Digilio su presunti sequestri di persona che lo stesso Maggi, insieme ai carabinieri, avrebbe compiuto a Venezia tra il 7 e l'8 dicembre 1970, nella notte del "Tora Tora", quella del presunto golpe Borghese. L'obiettivo, hanno spiegato l'avv. Bezicheri e il collega veneziano Renato Alberini, e' quello di dimostrare che si tratta di una calunnia mettendo in discussione la credibilita' dell'ex "Zio Otto", che ha accusato Maggi di aver preso parte alle stragi milanesi di via Fatebenefratelli e di piazza Fontana (per le quali e' stato condannato in primo grado all'ergastolo) e a quella bresciana di piazza della Loggia (per la quale Maggi e' indagato). Durante alcuni interrogatori dello scorso aprile in sede di incidente probatorio davanti al gip di Brescia, nell'ambito dell' inchiesta sulla strage di piazza della Loggia, Digilio ha sostenuto che in quella notte del 1970 egli era tra coloro che si trovarono all'Arsenale pronti per il Golpe e che poi i carabinieri, preceduti da Maggi che suonava i campanelli delle abitazioni per tranquillizzare gli inquilini, prelevarono un certo numero di persone all'isola della Giudecca, tanto da caricare tre motoscafi, portandole a Padova. Dell' azione, guidata dal defunto colonnello dell'esercito Campolongo e attuata per frenare la delusione del contrordine sul Golpe, sarebbe stato inviato un rapporto anche alla questura e alla magistratura. Secondo i due legali, si tratta di un episodio inedito ma del tutto infondato, come ha confermato anche, in una dichiarazioni raccolta con le nuove indagini difensive, Renato Rizzo, dirigente provinciale del Pci dal 1940 al 1989, con 'giurisdizione' proprio sull'isola della Giudecca. "All'epoca dell'episodio richiamato dal Digilio - ha confermato Rizzo precisando di non averlo mai conosciuto - noi comunisti veneziani fummo allertati perche' circolavano voci di un presunto tentativo di colpo di Stato. Di conseguenza qualsiasi cosa di qualche rilievo fosse accaduta non ci sarebbe sfuggita. La realta' dell'episodio raccontata dal signor Digilio non sussiste e posso smentirlo in maniera assoluta". Un fatto che comunque, hanno aggiunto i due avvocati, non sarebbe certo passato inosservato, e che sarebbe stato denunciato o dagli stessi sequestrati o dai loro familiari e amici. "La dichiarazione, ribadita e confermata, di un fatto cosi' grave da parte di un personaggio che si tende a presentare come una 'bocca della verita' - sostiene nell'esposto l'avv. Bezicheri - non puo' essere 'glissata' e non approfondita, perche' delle due l'una: o quanto detto da Digilio corrisponde al vero, e allora siamo in presenza di un gravissimo fatto-reato, che sarebbe sfuggito all'attenzione dell'autorita' giudiziaria...oppure quello che il Digilio ha detto e' puro parto di fantasia e allora egli dovra' rispondere del reato di calunnia". I due legali hanno inoltre detto che "chi vuole difendere la credibilita' di Digilio ha sempre sostenuto, di fronte alle sue numerose contraddizioni, che sono passati molti anni, che ha ricordi confusi; ma in questo caso no, un episodio del genere e' vero o falso, non sono ammesse confusioni". Maggi (sessantaseienne medico in pensione della Giudecca, dove ha l'obbligo di dimora) e l'avv. Bezicheri hanno infine chiesto che l'indagine sia affidata al Pm Felice Casson "non solo perche' al di sopra di ogni sospetto ma anche per la sua pregressa esperienza di inchieste di questo genere".

6 luglio - "Panorama"
Chi osa incastrare Zorzi-san?
Un nome nuovo, un indirizzo fantasma, un misterioso business nel mondo della moda. Così, protetto da personaggi potenti, vive a Tokyo il superlatitante condannato per la strage di piazza Fontana. Che, nonostante l'ergastolo, non si dà per vinto. E giura: "Sono innocente".
di MAURIZIO TORTORELLA
Eccolo, Hagen Roy. È quel signore corpulento e molto stempiato, sui 55 anni, che esce dalla sua abitazione in blocchi di pietra grigia: un edificio che è insieme un po' casa e un po' bunker, con quelle cupe finestre a forma di feritoia. Eccolo, con il perenne, sottile sigaro cubano nella mano e la borsa nera sotto il braccio, mentre cammina a passo svelto per le vie del quartiere Aoyama, l'elegante zona di Tokyo dove Hagen ha casa e lavoro. Eccolo, infine, mentre si infila nel portone del suo ufficio: la Vega, una ricca società di importazioni nella quale Hagen figura come consulente.
Ma non ha gli occhi a mandorla, Hagen. Perché è giapponese solamente dall'89. In realtà il suo vero nome è Delfo Zorzi, nato ad Arzignano (Vicenza) nel 1947: l'uomo che il 30 giugno la Corte d'assise di Milano ha condannato all'ergastolo come esecutore materiale della strage di piazza Fontana e che la procura generale di Brescia vorrebbe fosse arrestato anche per l'eccidio di piazza della Loggia.
Le fotografie che vedete in queste due pagine sono un'esclusiva mondiale. Fino a oggi di Zorzi i giornali pubblicavano un'immagine dei primissimi anni Settanta, scattata quando il giovane Delfo stava per espatriare in Giappone, inseguito dalle prime indagini sul terrorismo nero: adesso l'antico ciuffo, lo sguardo penetrante, il golf a grandi fiori geometrici sono un ricordo.
Hagen, subito dopo la sentenza milanese, ha dichiarato: "Ingiustizia è fatta. Sono la vittima predestinata di testimoni bugiardi. Ma i giudici sappiano che farò di tutto per dimostrare la mia innocenza". Anche a Tokyo ha fatto di tutto: lo scorso aprile, quando tre settimanali e una televisione giapponesi hanno osato accostare per la prima volta il suo volto alla strage milanese del 12 dicembre 1969, ha scelto cinque tra i migliori avvocati del posto e ha presentato richieste di risarcimento miliardarie. Poi, in una conferenza stampa convocata in tribunale all'inizio di giugno, ha protestato la sua innocenza e minacciato di ritorsioni legali ogni giornalista che avesse ancora voglia di scrivere una riga su di lui.
Tanta pubblicità deve essere stata un trauma per Zorzi, che ha sempre scelto di vivere nell'ombra. La sua società, la Vega, che negli anni Ottanta è esplosa insieme alle importazioni di prodotti italiani di moda, non espone nemmeno la targa fuori dall'edificio. E il suo domicilio all'anagrafe è diverso dall'indirizzo della residenza reale: per un periodo, sulla piccola casa bianca dove Zorzi risulta abitare ufficialmente, ha campeggiato una strana targa con la scritta "Comitato di quartiere per l'ordine pubblico". Perfino il nome sulla buca delle lettere della vera residenza è diverso da quello che Zorzi ha assunto quando ha chiesto il passaporto giapponese: ha voluto chiamarsi Hagen, come l'eroe nibelungico che nel Crepuscolo degli dei pianta una lancia nella schiena di Sigfrido, ma sulla cassetta della posta quel nome è stato scritto "Haguen".
Il mistero, insomma, protegge ancora l'uomo che nel 1995 era in grado, in sole 24 ore e in contanti, di prestare 30 miliardi di lire a Maurizio Gucci che stava per affogare nei debiti. La riservatezza continua a nascondere il lavoratore indefesso che da quattro anni vive solo per il business: la moglie giapponese, il cui nome forse è Yoko Shimoyi, e i due figli (la primogenita sui 19 anni e il secondo sui 16) vivono a Londra. Il segreto copre il pupillo di tre personaggi potenti, che in Giappone lo hanno aiutato a inserirsi: il suocero, un alto burocrate originario di Okinawa; Romano Vulpitta, ricco uomo d'affari di cui si favoleggia sia figlio della governante di Benito Mussolini ai tempi della Repubblica di Salò; e Ryoichi Sasagawa, morto l'anno scorso, uomo di spicco della destra giapponese legato, si mormorava, ai servizi segreti.
Sono stati questi tre ad aiutarlo nell'impresa, quasi impossibile, di ottenere la cittadinanza giapponese che oggi impedisce l'estradizione in Italia. La richiesta di consegnare Zorzi ai suoi giudici, firmata dal ministro della Giustizia Oliviero Diliberto il 23 marzo 2000, è rimasta inascoltata. "È la costituzione giapponese a vietare l'estradizione di un cittadino nipponico" spiega Antonio Franchini, uno degli avvocati di Zorzi. "E a Tokyo non ci sono precedenti di revoca della cittadinanza".
Lo ha ammesso a denti stretti anche il successore di Diliberto, Piero Fassino: "Zorzi non è estradabile". È probabilmente così, anche se Zorzi un giorno dovesse perdere la cittadinanza giapponese. Sono troppe le differenze giuridiche fra i due paesi: il reato di strage, in Giappone, è punito con la pena di morte ma si prescrive in 15 anni; e in quel paese non si processa nessun imputato in contumacia. Inoltre non esistono trattati fra Roma e Tokyo, quindi prevale il principio di reciprocità: e poiché nessun giapponese condannato nel suo paese potrebbe essere riconsegnato dall'Italia, che ripudia la pena di morte, nessun italiano oggi potrebbe essere estradato a Roma.
Neanche Hagen Roy, presunto stragista italiano, che continuerà a nascondersi nella sua cupa casa dalle lunghe feritoie di pietra, come dietro a un vero scudo nibelungico.

10 luglio - Paolo Guzzanti, senatore di Forza Italia, esprime soddisfazione per la recente sentenza su piazza Fontana, ma afferma che il centrosinistra «blocco' piu' volte le indagini del giudice Salvini» titolare dell' inchiesta. «Ho espresso la mia piu' grande soddisfazione per la sentenza di piazza Fontana anche dalle colonne del mio giornale - dichiara Guzzanti - ma tutti sembrano essersi dimenticati di un clamoroso paradosso: un giudice indipendente, ma di sinistra, come Salvini, fu bloccato, piu' volte, dal centrosinistra. Le sue indagini, infatti, vennero considerate, per vari motivi, scomode per il governo. In troppi se lo sono dimenticato ed e' giusto ricordarlo ora».

10 luglio - “La Stampa”
L’ESTREMISTA DI DESTRA DA MOLTI ANNI IN GIAPPONE «L’ESTRADIZIONE? NON SO COSA DECIDERA’ QUESTO GOVERNO»
«Piazza Fontana, ingiustizia è fatta»
Zorzi: condannato perché non inventai rivelazioni
IL processo per la strage di piazza Fontana si è concluso con tre condanne all’ergastolo. I giudici della corte d'assise di Milano hanno inflitto la massima pena a lei, Delfo Zorzi, a Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. Pensava che finisse così?
«La sentenza mi ha profondamente amareggiato e deluso. Una pronuncia ingiusta anche perché ha reso evidente come fosse impossibile per la giustizia italiana prendere decisioni serene e obiettive, che tengano conto delle responsabilità individuali al di là del trovare comunque dei colpevoli solo per rafforzare ipotizzate responsabilità politiche. Come se la storia venisse scritta dai giudici sulla pelle degli imputati e non dagli storici sulle pagine dei libri».
Concorda quindi con le dichiarazioni del suo avvocato, Gaetano Pecorella, che parla di «sentenza politica»?
«Diciamo che all'inizio del processo avevo fiducia nella corte. Nel procedere dell'istruttoria dibattimentale a fronte di decisioni come l’aver acquisito le dichiarazioni di Martino Siciliano, nonostante si sia sempre sottratto agli interrogatori incrociati dei miei difensori, la fiducia è andata scemando. Un altro elemento ha rafforzato questa sfiducia: il rifiuto di sentire la deposizione di Carmelo Coglitore, un teste che ricorda la mia presenza a Napoli nei giorni precedenti al 12 dicembre '69, mentre Digilio, che mi accusa, mi colloca in quel di Mestre con gli ordigni che secondo lui sarebbero stati poi utilizzati per gli attentati».
Non si sono neanche ascoltate alcune testimonianze per cui sarebbe stata necessaria la rogatoria internazionale, come il generale americano McCallister.
«Chiaro che a un certo punto mi sono fatto la convinzione che la conclusione sarebbe stata come in effetti è stata».
L’avvocato Taormina, sottosegretario all’Interno, ha parlato di «sentenza rossa».
«Non sono in grado di commentare le dichiarazioni dell'avvocato Taormina perché non conosco gli elementi di fatto su cui poggia le proprie affermazioni. Non posso dire se è una sentenza scritta con l'inchiostro rosso, posso solo dire che è una sentenza sbagliata indipendentemente dal colore».
Qual era il clima politico alla fine degli Anni 60, visto da un militante di destra come lei?
«Ricordo quegli anni come un tempo di forte contrapposizione ideologica e politica, ma non ho una memoria particolare del periodo. Poi non ho militato ma semplicemente simpatizzato: i veri militanti sono sempre stati più a sinistra che a destra. C'era la tensione, una notevole tensione, questo sì. Una forte contrapposizione ideologica, ma Hannibal ante portas , da fermare con le bombe, no. Semmai, vista dal Giappone, la tensione mi sembrò molto più forte
in Italia nel '77-’78».
Valpreda ha detto che per dichiarare che «giustizia è fatta», bisognerebbe scoprire i mandanti della strage. Lei ha qualche idea?
«Ho le mie idee, come tutti, ma siccome non faccio il magistrato in Italia, non posso costruire dei teoremi fondati sulle mie convinzioni».
Chi muoveva i fili della strategia della tensione?
«Non mi sono mai occupato di stragi, nonostante il diverso avviso della corte di Milano. Quanto alla cosiddetta strategia della tensione, ancora oggi mi sembra più una creazione artificiosa storico-giornalistica che una realtà di fatto attraverso la quale leggere la storia d'Italia degli ultimi 30 anni. Da parte mia, non ho certamente vissuto qualcosa che per me non è avvenuto».
Sulla prescrizione del reato e sulle attenuanti attribuite a Carlo Digilio ha qualche commento?
«Digilio è l'emblema della giustizia delegata ai collaboratori. L'unico imputato che, pur avendo ammesso il proprio coinvolgimento negli attentati di piazza Fontana, sia stato esentato da qualsiasi pena mentre gli altri sono stati condannati. Non avendo niente da raccontare e non volendo inventare come ha fatto Digilio, sono stato condannato. Tutto ciò per la giustizia Italiana mi pare un risultato veramente paradossale».
Non è stato «messo dentro» nessuno: vista la sentenza, non pensa sarebbe stato meglio essere in Italia a difendersi?
«Non è vero che non è stato messo dentro nessuno perché Maggi tra custodia cautelare e arresti domiciliari è stato privato per parecchi mesi della propria libertà personale e ancora oggi ha l'obbligo di dimora a Venezia, se non sbaglio. Io vivo in Giappone da quasi trent’anni e sono cittadino giapponese. Qui lavoro e ho i miei affetti. Perché mai avrei dovuto consegnarmi all'Italia con la certezza di non poter rientrare in Giappone se non dopo l'esito di un lungo processo e sempre nel caso venissi assolto? Inoltre non avrei potuto fare diversamente, dato che non sono mai stato convocato per un interrogatorio dalla procura di Milano; nei miei confronti è stata emessa un'ordinanza di custodia cautelare: quindi se fossi venuto in Italia sarei stato immediatamente arrestato. Tengo a precisare che mi sono presentato al procuratore della Repubblica di Milano, dottoressa Pradella, nel dicembre del '95 e per tre giorni completi a Parigi ho reso le mie dichiarazioni su tutti i fatti di mia conoscenza. Non avevo quindi assolutamente nulla di nuovo da aggiungere a quello che avevo dichiarato allora».
C’è qualche domanda che le piacerebbe fare?
«Non so a chi mi rivolgerei, ma chiederei di poter essere giudicato da una corte serena e obiettiva, lontana da ogni possibile condizionamento ambientale. Domanderei a chi ha tanto strepitato per vedermi estradato ancor prima che nei miei confronti sia pronunciata la sentenza definitiva, cosa intende fare per assicurare alla giustizia italiana Pietrostefani, Casimirri e Lojacono, condannati da anni con sentenza definitiva».
Il governo giapponese cosa farà riguardo la sua estradizione?
«Non ho idea».
Ha messo lei la bomba in piazza Fontana?
«Non so più come dirlo, devo forse dirlo in giapponese? Con la bomba di Piazza Fontana non ho nulla a che vedere. Non so neppure se sia una bomba di destra, anche se alcuni vogliono far credere che lo sia».
Se non è lei, chi è il colpevole?
«Se l'avessi saputo, l'avrei detto prima».

17 luglio -  L' Italia rinnova alle autorita' giapponesi la richiesta di estradizione di Delfo Zorzi, alias Roi Hagen, condannato all'ergastolo il 30 giugno scorso dalla Corte di Assise di Milano per la strage alla Banca dell' Agricoltura di Piazza Fontana il 12 dicembre 1969. La richiesta e' stata ribadita al ministro della giustizia giapponese Mayumi Moriyama nel corso di un incontro chiesto dall'Ambasciatore d'Italia Gabriele Menegatti che ha informato ufficialmente dell'avvenuta condanna all'ergastolo dell'ex militante di Ordine Nuovo, residente in Giappone dalla meta' degli anni '70 e dal 1989 cittadino nipponico con il nome di Roi Hagen. Secondo fonti informate, si e' trattato non solo di un passo procedurale ma anche di una prima presa di contatti a livello ufficiale sul problema, dopo i cambi di governo avvenuti sia in Italia con la nuova formazione di centrodestra guidata da Silvio Berlusconi sia in Giappone con la nomina a primo ministro il 26 aprile scorso di Junichiro Koizumi. La richiesta di estradizione di Zorzi era stata presentata nel marzo 2000 dal governo di centrosinistra di Giuliano Amato al primo ministro giapponese Yoshiro Mori. Finora il Giappone non ha ancora dato una risposta definitiva alla richiesta italiana. Tra i due paesi non esiste un trattato di estradizione e la legge nipponica non prevede in teoria la consegna di un suo cittadino ad un altro paese. Ma fonti bene informate hanno fatto notare che giuridicamente si procede 'caso per caso' e che la cittadinanza giapponese acquisita puo' essere revocata qualora vengano accertati vizi di forma nel suo ottenimento. Cosa che, secondo l' Italia, sarebbe avvenuta per Zorzi, che, tra l'altro, non rinuncio' alla cittadinanza italiana, mantenuta fino al 1997, come richiesto invece dalla legge nipponica. Sul piano politico inoltre, stando alle fonti, il caso Zorzi ha una sua rilevanza dal punto di vista del comune impegno, ribadito piu' volte, dei due paesi nella lotta al terrorismo.

18 luglio – In un incontro alla Farnesina tra i ministri degli esteri italiano, Renato Ruggiero, e giaponese, signora Makiko Tanaka, si parla anche del “caso Zorzi", per il quale e' stato assicurato, secondo un comunicato, “un approfondito esame da parte delle autorita' giapponesi, anche alla luce dell'intensa collaborazione esistente fra i due paesi nella lotta al terrorismo e nel quadro delle convenzioni in vigore, in questa materia, nell' ambito delle Nazioni Unite.

22 luglio - "Tenko suo", ci penseremo. "Perche' mi rendo conto che e' un affare grosso". Anche il nuovo premier giapponese, Junichiro Koizumi, ha usato l' espressione che da due anni le autorita' nipponiche utilizzano circa la richiesta delle autorita' italiane di revocare la cittadinanza giapponese a Delfo Zorzi, condannato all'ergastolo per la strage di Piazza Fontana. "Capisco che, purtroppo, quest'espressione puo' voler dire sia si' che mai", ha spiegato il premier nel corso del briefing con la stampa al termine del G8 di Genova, "ma posso solo dire che esamineremo in modo approfondito il caso, perche' mi rendo conto che e' una vicenda grossa, un'accusa molto importante. Ma non ne conosco i dettagli, che vanno approfonditi: e non posso farlo adesso", ha concluso.

31 luglio - Manlio Milani, presidente dell' Associazione Familiari delle vittime della strage di piazza della Loggia, dichiara: "Vogliamo che il Governo chieda l'estradizione di Delfo Zorzi. Ma per poterlo fare, dovra' prima risolvere le proprie contraddizioni interne", facendo espresso riferimento alla posizione dei parlamentari e avvocati Gaetano Pecorella e Carlo Taormina. Milani si e' chiesto "come potra' accadere che il Governo chieda l'estradizione di Zorzi, quando un importante esponente istituzionale, Gaetano Pecorella, presidente della Commissione Giustizia della Camera, e' un suo difensore? E questo anche nell' inchiesta in corso sulla strage di Brescia. Con che credibilita' si puo' a questo punto chiedere al Giappone l' estradizione di Zorzi? E' una posizione simile a quello del sottosegretario all'Interno Carlo Taormina che, in alcuni processi, difende imputati di reati di mafia contro lo Stato che si e' costituito parte civile".

1 agosto - Il presidente della commissione giustizia della Camera, Gaetano Pecorella, di Forza Italia, respinge le accuse rivolte a lui e al sottosegretario Carlo Taormina, da Manlio Milani, presidente dell'Associazione Familiari delle vittime della strage di piazza della Loggia. Milani, replica Pecorella, "ha diffuso insinuazioni prive di fondamento, delle quali dovra' rispondere davanti l'Autorita' giudiziaria". "La mia posizione all'interno del parlamento non ha nulla a che vedere con le scelte del governo", precisa Pecorella, che respinge la "grave insinuazione" di aver usato della "mia posizione istituzionale a fini privati". Dopo aver precisato che, da quel che gli risulta, "il governo ha gia' assunto le iniziative necessarie nei confronti delle autorita' giapponesi", Pecorella nota che "il signor Milani e' cosi' poco informato che non sa che la questione non riguarda l'estradizione, bensi' la cittadinanza di Delfo Zorzi, che in quanto cittadino giapponese non puo' essere consegnato all'Italia". "Fa specie - conclude Pecorella - che il signor Milani, che dovrebbe rappresentare coloro che sono alla ricerca della verita', si presti a diffondere notizie che, come si e' visto, dalla verita' sono assai lontane".

26 agosto - "La Repubblica"
La culla di Ordine Nuovo che terrorizzò l'Italia anni '70
Fu opera di veneti la strage di piazza Fontana
Venezia - La storia dell'estrema destra veneziana ha un indelebile marchio d'origine: Ordine Nuovo. Sarebbe stata proprio la cellula veneta, con la sua articolazione veneziana, a compiere la strage di piazza Fontana nel 1969, come ha stabilito la recente sentenza di primo grado di Milano: ergastolo per il vicentino Delfo Zorzi, che vive in Giappone da decenni, ergastolo per il veneziano Carlo Maria Maggi, ergastolo per Giancarlo Rognoni del gruppo "La Fenice" di Milano. Per l'accusa, la bomba in piazza Fontana fu messa proprio da Zorzi su ispirazione di Maggi, mentre Rognoni avrebbe fornito l'appoggio logistico all'attentatore giunto dal Veneto. Veneti anche i due "ordinovisti" che hanno collaborato con la giustizia: Carlo Digilio, detto "zio Otto", l'artificiere di "On", e il mestrino Martino Siciliano.
Fu proprio negli anni '60 che Ordine Nuovo segnò profondamente gli ambienti dell'estrema destra veneta, tanto che dopo il suo scioglimento vi fu chi tentò di resuscitarlo negli anni '80. E fu lo stesso Felice Casson, all'epoca "giudice ragazzino", a istruire l'inchiesta sulla ricostituzione di questa nuova aggregazione fascista, imbattendosi in molte delle stesse persone che avevano militato in Ordine Nuovo, da Maggi a Digilio, fino a Marcello Soffiati e al colonnello veronese Amos Spiazzi, quello della "Rosa dei venti". Quest'associazione avrebbe mantenuto contatti sia con alcuni noti esponenti neofascisti (da Stefano Delle Chiaie a Giancarlo Rognoni, da Massimiliano Facchini a Elio Massagrande, solo per fare alcuni nomi) sia con l'ala violenta del movimento costituita dai Nar, da Terza Posizione e in particolare dalla banda CavalliniFioravanti. Pare che l'attività non fosse limitata alla pura teoria: a Venezia, Verona, Colognola ai Colli e altrove furono sequestrate numerose armi, molte munizioni ed esplosivo. In casa del veneziano Digilio fu anche rinvenuta una completa attrezzatura per modificare le armi e per fabbricare munizioni riempendo bossoli usati. In questo contesto si sarebbero inseriti i rapporti mantenuti in particolare da Spiazzi e Soffiati con i servizi segreti. Fu poi sempre Casson, negli anni '80, a indagare sull'attività irregolare del poligono di tiro al Lido di Venezia, dove gravitavano elementi di estrema destra con coperture di pezzi dello Stato. Ma l'ultima bomba "nera" a Venezia risale al '78, quando in un attentato alla sede del "Gazzettino", all'epoca ospitata a Cà Faccanon a San Luca, morì il custode Franco Battagliarin.
Negli anni '90 il mondo dell'estrema destra si è consistentemente ridotto a Venezia, città tradizionalmente "rossa". Sono ormai in disparte i "grandi vecchi" di "On", come l'anziano medico Carlo Maria Maggi, che vive ancora nella sua isola della Giudecca, condannato all'ergastolo (la sentenza non è ancora definitiva) per la strage di piazza Fontana e di via Fatebenefratelli, e indagato insieme a Zorzi per la strage di piazza della Loggia a Brescia. I naziskin a Venezia sono pressoché assenti, mentre agli investigatori risulta qualche sparuto aderente a Forza nuova, che però ha i suoi punti di forza a Verona e a Padova. I due giovani indagati per la bomba al tribunale di Venezia graviterebbero intorno alle nuove formazioni giovanili di estrema destra, quelle che simpatizzano per Haider, ma non sono certo esponenti di prima fila.
(c.sal.)

4 settembre - La strage di Piazza Fontana e' il tema centrale della puntata di “Diario di un cronista” di Sergio Zavoli, in onda su Raiuno. Ospiti gli storici Paul Ginsborg e Lucio Villari, i giudici Salvini e Pradella e l'ex presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino. "Non vi e' stato nella storia d'Italia - dice Guido Salvini, il magistrato che ha ridato vita all'inchiesta sulla strage - altro singolo episodio delittuoso che abbia tanto condizionato la vita politica del Paese e il rapporto tra cittadini e istituzioni. La percezione immediata del fatto che una parte dello Stato non solo non aveva protetto la collettivita', ma era coinvolto nelle manovre per occultarne la verita', ha creato per molti anni una profonda incrinatura nel rapporto di fiducia tra molti cittadini e le istituzioni e dando un impulso non secondario all'esplosione del terrorismo di estrema sinistra". In questo senso, sottolinea Salvini, la sentenza "ha un profondo valore riparatorio: contribuisce a ricostruire una memoria condivisa sulla nostra storia". Per Pellegrino, "la sentenza di Milano e' importante perche' conferma che una prova storica sui fatti e sul periodo in questione e' da tempo venuta a formarsi". La parola ora passa ai successivi gradi di giudizio, "a se una verita' storica si cristallizzasse anche in una verita' giudiziaria, a me sembra che, come disse una volta Martinazzoli, 'il tempo della giustizia e' scaduto, quello che puo' restare e' il tempo della verita’". Villari rileva che "dal punto di vista del giudizio storico la drammaticita' di quegli eventi e' come rafforzata dal pertinace mistero politico e ideologico che ancora lo circonda. La strage di Piazza Fontana, infatti, rappresenta un caso unico non solo nella Storia italiana ma anche in quella mondiale, e sin dal mondo antico, rispetto ad un episodio di questa natura non ancora realmente svelato". "Restituire attraverso la tv, e con un programma come questo, questo tragico episodio significa far comprendere meglio soprattutto ai giovani il mondo nel quale stanno crescendo".

9 settembre - Il ministro della Giustizia Roberto Castelli dice che la pratica per l'estradizione di Delfo Zorzi "sta andando avanti". "C'e' in piedi una pratica avviata ancora da Fassino - precisa Castelli a margine del workshop Ambrosetti di Cernobbio - sta andando avanti e fa il suo corso". Tocchera' invece direttamente al governo nipponico, sottolinea il ministro, chiarire la questione della regolarita' della cittadinanza giapponese ottenuta da Zorzi.

2 ottobre - "Il Corriere della sera"
Oggi i giudici di Firenze decideranno se concedergli la semilibertà
Tuti: "In Italia il terrorismo è morto"
LIVORNO - "Alleanze tra terroristi italiani e gruppi islamici sono impossibili. Intanto perché il terrorismo in Italia è morto e poi perché le distanze sarebbero inconciliabili. Anche nell'omicidio D'Antona secondo me il terrorismo non c'entra. Ad uccidere il sindacalista è stato qualcos'altro. La stessa oscura entità delle stragi di Bologna, di Piazza Fontana e dell'Italicus. Ma non chiedetemi cosa. Ho condotto indagini dal carcere dove vivo da 27 anni. Adesso siete voi, uomini liberi, che dovete cercare la verità". L'ex terrorista nero Mario Tuti, 54 anni, oggi ergastolano, parla a ruota libera. L'occasione è un concerto nel carcere di Livorno del pianista Ilio Barontini. Tuti, insieme ad alcuni detenuti ha curato le scenografie e una straordinaria proiezione multimediale dedicata a Beatles. Stamani i giudici di Firenze decideranno se concedere e all'ex terrorista la semilibertà, ma a lui sembra non interessare. "Dopo quasi trent'anni di galera - spiega -, fuori c'è solo la realtà virtuale". Tuti rifarebbe tutto quello che ha fatto.
"Cercherei, forse, di non uccidere. Prima di essere arrestato, dovevo assassinare a sangue freddo un avversario. Non l'ho fatto".

26 ottobre – In un’ intervista a “Radio 24”, l’ ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga dichiara che "La strategia della tensione e' una vera 'cazzata’". Cossiga non esclude che "vi possano essere stati settori dell' apparato statale che volevano contrastare il comunismo". Tuttavia questo non significa che sia esistita una vera e propria strategia della tensione. Per confermare la sua tesi il senatore a vita ricorda la strage della Banca dell' Agricoltura del '69: "non mi meraviglierei se fosse avvenuta perche' avevano sbagliato l'orario di apertura della banca". Cossiga parla anche del caso Moro: "Le Br non hanno capito che avevano vinto perche' se non avessero ucciso Aldo Moro quel giorno la Dc avrebbe deciso di aprire le trattative". Per Cossiga poi "dietro le Br c'erano solo le Br". Cossiga racconta di aver conosciuto personalmente i componenti del comando strategico di quel gruppo armato e di aver constatato che avevano "un livello culturale tale da permettere loro di concepire le azioni che hanno intrapreso". Degli amici colpiti dalle Br il senatore a vita dice: "quei morti mi pesano nel cuore. Ma debbo anche chiedermi cosa abbiamo fatto per quei ragazzi che, usciti dal liceo, hanno pensato di aiutare il loro paese dandosi alla guerriglia".

2 novembre - "Il Corriere della sera"
"In Italia manca la volontà politica di estradare Zorzi"
Biondani Paolo
Piazza Fontana, il pm accusa "In Italia manca la volontà politica di estradare Zorzi" MILANO - "Oggi, in Italia, non c' è la volontà politica di ottenere l' estradizione di Delfo Zorzi. Io non posso sapere, anche se posso immaginare, quali motivazion i spingano l' attuale governo a disinteressarsi della procedura che potrebbe finalmente assicurare alla giustizia il terrorista condannato come esecutore della strage di piazza Fontana. So con certezza, però, che l' estradizione di questo latitante si è di nuovo arenata tra cavilli e formalismi che, in questo momento storico di guerra al terrorismo, mi sembrano inconcepibili e pericolosi". Il pm Massimo Meroni ha rappresentato la pubblica accusa al processo per l' eccidio che il 12 dicembre 1969 sprofondò l' Italia nel terrorismo politico. Per 31 anni, due maxiprocessi si chiusero con condanne minori (per gli attentati preparatori e per i depistaggi dei servizi), ma senza nessun colpevole di strage. Il 30 giugno scorso, a Milano, la corte d ' Assise ha inflitto l' ergastolo a tre estremisti di destra. A collocare la bomba, secondo la giuria popolare, fu l' "ordinovista" Delfo Zorzi, che dai primi anni ' 70 vive da miliardario in Giappone, dove ora è il "cittadino Hagen Roi". Zorzi, nonostante l' ordine d' arresto internazionale, è tuttora libero. E proprio la sentenza di quattro mesi fa è la "svolta mancata" che fa insorgere Meroni. "La procedura di estradizione - spiega il pm - era rimasta ferma fino all' inverno scorso, quando ab biamo registrato una brusca accelerazione in coincidenza con importanti interventi del governo in carica in quel momento. In primavera, per la prima volta, le autorità giapponesi inviarono in Italia una delegazione ufficiale: in via informale, ci dissero chiaramente che avevano bisogno di una sentenza di condanna. Ebbene, il verdetto c' è stato e io l' ho trasmesso subito al ministero. Eppure, ora siamo tornati al vecchio tran tran: a ogni sollecito, ci arriva una nuova richiesta di atti; e quan do rispondiamo, ne servono altri". Per Meroni, il problema è più politico che giudiziario: "Per chiedere all' Afghanistan di consegnare Bin Laden, gli Usa non si limitano a una domandina burocratica o mi sbaglio?". Ma come spiega il disinteresse italiano? La domanda punge sul vivo Meroni: "Il motivo più banale è anche il più evidente: Zorzi ha lo stesso difensore del presidente del consiglio, ovvero l' avvocato Pecorella. Mi auguro davvero che non esistano ragioni politiche ulteriori. Altrimenti i familiari delle vittime avrebbero motivo di pensare che, se il colpevole è di estrema destra, 16 italiani morti non contano nulla".

2 novembre - Il senatore Gianfranco Pagliarulo (Pdci) commenta le dichiarazioni del pm milanese Massimo Meroni che ha dichiarato che in Italia "non c'e' la volonta' politica di ottenere l'estradizione dal Giappone del terrorista Delfo Zorzi e la richiesta di Mario Serio, consigliere di Forza Italia nel Csm, per un'indagine non sulla mancata estradizione di Zorzi ma sul pm Massimo Meroni". "Com'e' ormai prassi da quando governa Silvio Berlusconi, davanti ad una denuncia di magistrato, si apre la caccia a quel magistrato. Rimane il fatto che, sul caso Zorzi, il ministro della Giustizia non si e' mosso. Il presidente del Consiglio non ha posto il problema ai rappresentanti del governo giapponese durante l'incontro del G8. Berlusconi ha bruciato le tappe per far approvare leggi che hanno cancellato processi a suo carico e non ha fatto nulla sul caso Zorzi. Il difensore di Zorzi, l'avv. Pecorella e' anche il difensore di Berlusconi, ed e' stato eletto deputato di Forza Italia".

3 novembre - La senatrice dell' Ulivo Daria Bonfietti afferma che "E' inaccettabile e offensivo, proprio per la dignita' stessa della nazione, che mentre operano azioni di guerra contro terroristi, viva indisturbato fuori d' Italia Delfo Zorzi, condannato all' ergastolo per la strage di piazza Fontana". Il ministro della Giustizia - secondo Bonfietti - "dovrebbe sentire l' esigenza di informare il Parlamento dell' attuale situazione dei rapporti tra Italia e Giappone riguardo l' estradizione di tale terrorista e, proprio nel rispetto dei sentimenti veri e profondi che hanno accomunato i cittadini del nostro Paese ai cittadini americani colpiti dal terrorismo e in nome dell' impegno per i valori di convivenza civile e per una lotta totale al terrorismo, trovare nuove forme di impegno perche' chi ha tanto duramente colpito con azioni di terrorismo le nostre popolazioni sia assicurato alla giustizia".

5 novembre - Il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, acquisira' le dichiarazioni rilasciate dal sostituto procuratore milanese Massimo Meroni, Pm nel processo per la strage di Piazza Fontana, che nei giorni scorsi aveva accusato le autorita' italiane di inerzia nel chiedere l' estradizione del neofascista Delfo Zorzi, condannato all'ergastolo e da anni imprenditore in Giappone. "Acquisiro' le sue dichiarazioni - ha detto Castelli in visita al nuovo carcere milanese di Bollate - che mi sembrano fuori luogo". Castelli ha confermato che, riguardo all' estradizione di Zorzi, "c'e' una pratica che va avanti". "Attribuire al nostro Governo comportamenti di competenza solo di quello giapponese - ha detto - e' fuori luogo; le dichiarazioni di questo magistrato sono meritevoli di approfondimento". Il guardasigilli ha anche detto che il Governo giapponese, nella vicenda, "pone dei problemi". "Abbiamo fornito tutte le carte che ci hanno chiesto - ha spiegato - questo ministro non ha il potere di fare leggi internazionali come vuole". Sollecitato dai cronisti sui tempi di un' eventuale estradizione, Castelli ha risposto con una battuta: "Abbiamo dato tutto quello che ci hanno chiesto - ha concluso - se volete, invaderemo il Giappone". Per il il capogruppo di An in commissione giustizia della Camera Enzo Fragala', le dichiarazioni del pm Meroni sull' estradizione di Delfo Zorzi "dimostrano che e' un incompetente o ha smania di protagonismo, visto che dovrebbe sapere che e' impossibile l' estradizione di Zorzi, ormai cittadino giapponese". "Il ministro Castelli - sottolinea il parlamentare - dimostra piu' serieta' nel modo di interpretare il suo ruolo a fronte invece del protagonismo di certi Pm come Meroni che, pur di uscire sui giornali attacca il governo sull' estradizione di Delfo Zorzi che e' a tutti gli effetti cittadino giapponese. Il magistrato dovrebbe sapere che la difficolta' nel processo di estradizione risiede nel fatto che la Costituzione giapponese non consente di estradare un proprio connazionale. Le cose sono due: il pm Meroni non conosce il problema, e sarebbe grave dal momento che e' un tecnico, oppure lo conosce, come e' piu' probabile, ma cerca facile fama e celebrita' parlando a vuoto". "Noi - conclude Fragala' - riteniamo quindi che l' acquisizione delle dichiarazioni del pm Meroni dovrebbe essere fatta anche dal Csm per aprire un fascicolo disciplinare. Riflettano poi certi magistrati quando si parla di estradizioni, sul fatto che la lista delle richieste dei latitanti brigatisti non viene mai sollecitata da nessuna procura. E' evidente che esistono sensibilita' a senso unico".

12 novembre - I presidenti delle associazioni dei familiari delle vittime delle stragi di piazza Fontana e di piazza della Loggia, Luigi Passera e Manlio Milani, hanno scritto al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per chiedere a che punto e' la pratica per l'estradizione del neofascista Delfo Zorzi, condannato all'ergastolo per la strage della Banca dell'Agricoltura del 12 dicembre '69 (17 morti e un centinaio di feriti) e indagato per la strage di Brescia del 28 maggio '74 (8 morti e un centinaio di feriti). In una conferenza stampa a Palazzo di Giustizia di Milano, alla quale ha partecipato anche l'avvocato Federico Sinicato, i due presidenti delle associazioni hanno poi annunciato di avere chiesto sulla questione a nome di tutte le associazioni dei familiari delle vittime delle stragi un incontro con il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Nella lettera, i familiari delle vittime hanno ripreso le dichiarazioni rilasciate giorni fa dal pm Massimo Meroni, che ha denunciato come il Governo italiano non stia facendo niente per ottenere l' estradizione di Delfo Zorzi. Nella lettera Milani e Passera, dopo aver ricordato l' interessamento del Governo di centrosinistra attraverso i ministri Oliviero Diliberto e Piero Fassino per ottenere l'estradizione di Zorzi, hanno anche ricordato che il governo giapponese, dopo aver chiesto tutti gli atti dell'inchiesta, aveva sostanzialmente fatto sapere che era necessaria una sentenza di condanna. I familiari delle vittime hanno dedicato una lunga parte della lettera al ruolo dell'avvocato Gaetano Pecorella, difensore di Delfo Zorzi e presidente della Commissione Giustizia della Camera. "Una situazione - hanno scritto - che ci preoccupa moltissimo, che da' spazio a congetture di vario tipo tanto piu' possibili se pensiamo che il difensore di Zorzi nei due procedimenti per strage e' l'attuale presidente della Commissione Giustizia della Camera. Al di la' dell'aspetto formale ci pare che una commistione tra funzione pubblica e attivita' privata possa porre interrogativi non infondati sulla reale disponibilita' del suo governo ad agire con forza e credibilita' nei confronti del governo giapponese, perche' Zorzi venga finalmente consegnato alla giustizia italiana". "Noi - hanno scritto ancora - riteniamo che il pm Meroni abbia compiuto pienamente il suo dovere richiamandoci pubblicamente tutti, Governo e opinione pubblica, alle rispettive responsabilita', ricordandoci come quei tragici atti terroristici abbiano segnato profondamente la storia e la democrazia di questo Paese in quanto atti contro lo Stato". La lettera si conclude con un auspicio: "Compete in primo luogo al suo Governo agire tempestivamente e pubblicamente perche' l' estradizione di Delfo Zorzi abbia a compiersi, cosi' come compete al suo Governo togliere ogni dubbio di disinteressarsi di tale problema e cosi' oggettivamente favorire interessi processuali di parte".

13 novembre - In una interrogazione al ministro della Giustizia Roberto Castelli dieci senatori dell'Ulivo tra i quali Gavino Angius, Daria Bonfietti, Nando Dalla Chiesa, Massimo Bonavita e Walter Vitali chiedono che il governo italiano rinnovi il suo impegno per assicurare alla giustizia i colpevoli di alcuni atti di terrorismo che "hanno insanguinato il nostro Paese e sono tuttora latitanti, a cominciare da Delfo Zorzi". "E' anche nel ricordo di tanti italiani che a causa di un terrorismo piu' lontano  nel tempo hanno sofferto in prima persona - spiegano i senatori - che l'unanime voce dei cittadini del nostro Paese ha espresso il grande dolore, la piu' totale condanna e il piu' sincero sentimento di amicizia con il popolo americano, chiedendo un totale e fermo impegno contro il terrorismo".

13 novembre - Il governo giapponese non ha ancora risposto in maniera definitiva alla richiesta italiana di estradizione di Delfo Zorzi, condannato in primo grado all'ergastolo per la strage di Piazza Fontana, ma ha chiesto per l' ennesima volta altra documentazione supplementare all'Italia. Lo rendono noto a Tokyo fonti bene informate precisando che la questione dell' estradizione di Zorzi, dal 1989 cittadino giapponese con il nome di Roi Hagen, "resta aperta perche' in Giappone non esistono vincoli costituzionali all'estradizione dei connazionali, ma una legge ordinaria che ne vieta la consegna a quei paesi con i quali non esistono trattati di estradizione. Nel caso specifico di Zorzi, inoltre, l'Italia ha chiesto, tra l'altro, che gli venga revocata la cittadinanza, cosa ammessa dalla legge giapponese qualora ne esistano, a giudizio della magistratura, gli estremi". Le fonti hanno aggiunto che dopo la sentenza di condanna all'ergastolo le autorita' giapponesi hanno chiesto nuova documentazione all' Italia, relativa non solo al processo di Piazza Fontana ma anche ad altri procedimenti riguardanti Delfo Zorzi. "A quanto ci risulta, l'Italia sta valutando se e in che misura accettare la richiesta". Subito dopo la sentenza di condanna di Zorzi in primo grado alla fine dello scorso giugno, le fonti citate avevano sottolineato che il problema, oltre che strettamente giuridico, era anche, e forse soprattutto, politico, non esistendo in Giappone una cogente disposizione di legge in un senso o nell'altro. "Dipende dalle autorita' italiane - avevano detto - scegliere se fare o no pressioni a livello politico". Le condizioni in Giappone per la concessione della cittadinanza ad uno straniero comprendono tra l'altro la rinuncia alla cittadinanza di origine e la buona condotta precedente. Condizioni non rispettate, secondo la richiesta italiana di estradizione, da Roi Hagen, alias Zorzi, che mantenne fino al 1997 il passaporto italiano e aveva precedenti con la giustizia italiana. "La revoca della cittadinanza e' un percorso difficile in Giappone, ma possibile", hanno detto le fonti. L'unico paese con il quale il Giappone ha un trattato di estradizione sono gli Stati Uniti ed e' prevista in questo caso la consegna di cittadini nipponici alle autorita' americane. Sono in corso trattative per un altro trattato di estradizione con la Corea del sud. Analogo, ma solo in parte, al caso Zorzi, e' quello dell'ex presidente peruviano Alberto Fujimori, riparato in Giappone dopo essere stato deposto nel suo paese. Tokyo finora ha respinto la possibilita' di estradare Fujimori , appellandosi al fatto che l'ex presidente ha avuto fin dalla nascita la cittadinanza giapponese.

3 dicembre - Alla Libreria Feltrinelli di piazza Duomo a Milano e' presentato un Cd-Rom sull' ultimo processo per la strage di piazza Fontana, concluso il 30 giugno con la condanna all'ergastolo dei neofascisti di Ordine Nuovo Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. Realizzato da Saverio Ferrari e Ketty Carraffa per l' 'Osservatorio democratico sulle nuove destre', il Cd-Rom contiene, oltre al sonoro della lettura della sentenza di condanna, la cronaca dell'ultimo processo, le schede degli imputati e dei principali protagonisti, la galleria fotografica e dei giornali degli anni '60, la requisitoria completa del pm Massimo Meroni, oltre a numerosi documenti processuali.

11 dicembre - Gli anarchici del Circolo Ponte della Ghisolfa, con l' aiuto di alcuni studenti dell'Accademia di Brera, hanno restaurato la lapide nei giardini di piazza Fontana, davanti alla Banca nazionale dell'Agricoltura, intitolata a Giuseppe Pinelli, l'anarchico morto precipitando dal quarto piano della questura di Milano, mentre veniva interrogato nell'ambito delle indagini per la strage del 12 dicembre 1969. Con i pennellini e la vernice, aiutati anche da Pietro Valpreda, l'anarchico accusato della strage e poi assolto, hanno riverniciato la scritta che, con il tempo, si era sbiadita: "A Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, ucciso innocente nei locali della questura. Gli studenti e i democratici milanesi". La lapide a Pinelli venne collocata nei giardini di piazza Fontana durante una manifestazione nel 1977. Recentemente e' stata oggetto di polemiche in quanto da parte di alcuni rappresentanti della destra milanese si e' sostenuto che andrebbe modificata la scritta "uccisosi" al posto di "ucciso". La sentenza della magistratura, infatti, ha stabilito che Pinelli, sottoposto a due giorni di interrogatori senza sosta, precipito' dalla finestra a causa di un malore. L'allora commissario Luigi Calabresi venne prosciolto dall'accusa di omicidio volontario mentre per l'abuso d'arresto il reato venne giudicato prescritto. Qualche anno fa un sindacato autonomo di polizia aveva minacciato la rimozione della lapide ma il consiglio comunale di Milano ha votato una delibera secondo la quale, anche in caso di rifacimento dei giardini, la lapide deve rimanere al suo posto.

12 dicembre - Un migliaio di persone con le bandiere dei Ds, di Rifondazione Comunista, della Margherita e dell'Anpi sfilano per le vie del centro di Milano, da piazza Scala fino a Piazza Fontana, per ricordare le vittime della strage alla Banca Nazionale dell'Agricoltura del 12 dicembre 1969. Alle 16.30, ora dello scoppio della bomba, in piazza Fontana si e' recato anche il sindaco di Milano, Gabriele Albertini, per deporre una corona di fiori davanti alla lapide che ricorda le vittime. Il sindaco si e' fermato pochi istanti e prima di ritornare a Palazzo Marino ha stretto la mano ai familiari delle vittime. Luigi Passera, presidente dell'Associazione familiari delle vittime della strage di Piazza Fontana, ha ricordato l'importanza della sentenza dei giudici della Corte d'assise di Milano che il 30 giugno scorso hanno condannato all'ergastolo per la strage i neofascisti di ordine Nuovo Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. "Siamo soddisfatti per la sentenza - ha detto Passera -. Pero' sappiamo bene che c'e' ancora il processo d'appello e poi la Cassazione". Gli anarchici, per ricordare Giuseppe Pinelli, morto precipitando dalla finestra del quarto piano della questura di Milano dopo due giorni di interrogatorio, hanno lasciato sulla piazza un grosso cartellone con il disegno di una finestra e di un uomo che precipita e la scritta: "Gli anarchici sbadati precipitano dalle finestre". Alla manifestazione e’ presente anche Vittorio Agnoletto, leader del movimento no global, che ha spiegato di essere in piazza per ricordare la strage di 32 anni fa ma anche l'uccisione a Genova di Carlo Giuliani e per rilanciare la lotta contro la globalizzazione. "Sono qui per due motivi fondamentali - ha detto Agnoletto -: prima di tutto vorrei ricordare che ci sono voluti 30 anni perche' venisse appurata la verita' sulla strage di piazza Fontana. Il movimento di allora aveva subito individuato la matrice fascista e il coinvolgimento dei servizi segreti". "Non vorrei ora che ci volessero altri 30 anni perche' si appuri la verita' anche su quanto e' successo a Genova. E' davvero una strana coincidenza che proprio oggi emergano verita' che dimostrano che le cose quel giorno non sono andate come si voleva far credere, come avevano raccontato i carabinieri, le forze dell'ordine. Vogliamo sapere chi ha sparato. Chi ha sparato non lo ha fatto solo per legittima difesa".

12 dicembre - A Mestre gli amministratori comunali di Venezia e Brescia presentano l’ iniziativa del "12 dicembre, giornata della memoria delle vittime di tutte le stragi", presenti il giudice istruttore di Milano Guido Salvini e il presidente Associazione caduti strage di Brescia col. Manlio Milani. "Le stragi - ha detto Salvini - sono un filo nero che ci ha accompagnato fin dalla seconda guerra mondiale". Il giudice ha ricordato "i molteplici tentativi di occultare la verita': non ci sono soltanto gli ostacoli ai magistrati che investigavano sulle stragi negli anni settanta, ma anche il fatto che siano stati addirittura fatti sparire interi fascicoli riguardanti stragi commesse durante la guerra, come l' eccidio di Cefalonia". Il giudice milanese ha sottolineato, in particolare, il "carteggio tra ministro della Difesa e degli Interni che chiedeva l' archiviazione di quei fascicoli perche' proseguire le indagini avrebbe danneggiato, in quel caso, i rapporti con la Germania, a quel tempo importante tassello della Nato. Si e' trattato - ha spiegato - di 'ragion di Stato' politica". Salvini, intervenuto in rappresentanza di "tutti i magistrati che negli ultimi dieci anni hanno cercato di riannodare i fili delle stragi", ha poi ribadito che "la strategia stragista ha fortemente condizionato il nostro futuro come generazione: per questo le giovani generazioni potranno trovare nella ricorrenza del 12 dicembre una fonte di verita’". Manlio Milani, da parte sua, ha fatto presente che molte stragi sono ancora impunite e attendono giustizia: "nella giornata del 12 dicembre - ha auspicato - ogni anno continuera' la costante rielaborazione dei fatti accaduti". "La manomissione della verita' da piazza Fontana del 1969 alla strage del treno del 1984 - ha rilevato invece il sindaco di Brescia Paolo Corsini - fa pensare ad arcani imperi, a un potere invisibile, ma le stragi si spiegano di riflesso l' una all' altra, da piazza Fontana si stanno aprendo squarci di verita' su piazza della Loggia". "Non si e' trattato di stragi e basta - ha detto nel corso dell' incontro il prosindaco di Mestre Gianfranco Bettin - ma di stragi compiute con la partecipazione attiva di settori dello Stato, dove chi doveva difendere la democrazia e' stato invece complice di un attacco mortale alla stessa democrazia". "Il cuore di tenebra della nostra storia - ha proseguito - cioe' la complicita' tra responsabilita' istituzionali e iniziative eversive non e' ancora stato svelato del tutto". "Mestre – ha aggiunto il prosindaco - e' chiamata in causa come citta' che ha visto crescere l' iniziativa che ha portato a piazza Fontana, la strage per antonomasia". "A Mestre - ha spiegato - c'era, ma oggi non c'e' piu', una rete di istituzioni che agivano in chiave antisindacale e antidemocratica e che ha garantito l' impunita' e l' apprendistato di coloro che divennero stragisti, consentendo loro di crescere e collegarsi alle reti deviate". "In questa zona di frontiera dove vi era un forte radicamento operaio e sindacale - ha concluso il giudice Salvini - si e' innescata per reazione la strategia che poi ha colpito Milano".

19 dicembre – In una interrogazione l' on. Walter Bielli (Ds) ai ministri della Giustizia, degli Esteri e dell' Interno a che punto e' l' iter della pratica di estradizione dal Giappone di Delfo Zorzi, indicato come il responsabile della strage di Piazza Fontana, dopo l' ulteriore ordine di arresto da parte del tribunale del riesame di Brescia. «Con il pronunciamento del tribunale di Brescia – afferma Bielli - e con la sentenza su Piazza Fontana si sta delineando con chiarezza il quadro e le responsabilita' per le stragi fasciste che dal 1969 al 1974 caratterizzarono gli anni della cosidetta 'strategia della tensione'. Le tre 'stragi storiche', Piazza Fontana, Questura di Milano e Piazza della Loggia, alla luce di questi pronunciamenti, evidenziano responsabilita' del gruppo neofascista di Ordine Nuovo e i rapporti tra questo gruppo, apparati italiani e apparati Usa, come affermato dal 'pentito' Digilio nelle sue testimonianze processuali. Ministri e sottosegretari che si sono avvicendati nei governi di questi anni si sono poronunciati favorevolmente per avviare la pratica di estradizione di Zorzi dal Giappone, dove vive ed e' divenuto facoltoso uomo d' affari».
 
 
 


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