Almanacco dei misteri d' Italia


Delitti 'politici' di mafia
le notizie del 2001
6 gennaio - Nella chiesa di santa Lucia a Palermo si celebra la messa in suffragio di Piersanti Mattarella, il Presidente della Regione e membro della direzione della DC ucciso dalla mafia 21 anni fa. Don Paolo Turturro, il parroco che ha celebrato il rito, nell' omelia ha affermato che la mafia e' tutt' altro che sconfitta e che non bisogna rallentare l' impegno per la legalita'. La cerimonia religiosa e' stata preceduta in via Liberta' dalla deposizione di fiori nel luogo dell' agguato, con l' intervento di autorita'. Una corona e' stata posata a nome della citta' dal commissario straordinario del Comune Guglielmo Serio. Fra i presenti anche il procuratore della Repubblica Pietro Grasso che la mattina del 6 gennaio 1980, subito dopo il delitto, coordino' le indagini.

8 gennaio - Il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, accusato di avere ordinato l' omicidio del parroco Pino Puglisi, ricusa per la seconda volta il presidente della corte d' assise Innocenzo La Mantia davanti al quale si svolge il processo per l' uccisione del sacerdote. L' imputato aveva gia' avanzato la proposta in novembre sostenendo una presunta inimicizia del magistrato nei suoi confronti. Adesso Graviano sostiene che La Mantia si e' gia' espresso sulla sua appartenenza alla commissione di Cosa Nostra, che decide gli omicidi eccellenti. E tra questi rientra anche quello del parroco di Brancaccio. In questo modo, in sostanza, La Mantia avrebbe anticipato il proprio giudizio. L' istanza di ricusazione avanzata nei mesi scorsi era stata respinta. La seconda sara' discussa dalla Corte d' appello il 31 gennaio.

8 gennaio - Commemorato a Palermo, nell' aula consiliare di Palazzo delle Aquile, il giornalista Beppe Alfano, corrispondente di “La Sicilia”, assassinato il 5 gennaio 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Al dibattito, moderato dall' inviato del Corriere della Sera, Felice Cavallaro, hanno preso parte l' eurodeputato di An Nello Musumeci, presidente della provincia di Catania, che era amico di Alfano, ed il vice presidente della Commissione antimafia Nichi Vendola (Prc). Erano presenti la moglie di Alfano ed i due figli, oltre che a numerosi giornalisti e politici. “Non ho alcun imbarazzo a ricordare la figura di Beppe Alfano - ha detto Vendola - l'imbarazzo e' che siamo a Palermo e non a Barcellona Pozzo di Gotto, dove questa manifestazione sarebbe considerata una vera provocazione dall' intera classe politica”. Vendola si e' detto “pessimista” perche' c' e' “un diffuso interesse da una parte e dall' altra a non parlare piu' della mafia”. Il vice presidente dell' antimafia ha aggiunto che Beppe Alfano “rappresentava una eccezione” ed ha sostenuto che “in Sicilia ci sono potentati giornalistici che in qualche caso rappresentano una stampella del potere mafioso”. Vendola ha poi citato il contesto in cui Alfano si trovava ad operare a Barcellona, da lui definita “una retrovia fondamentale di Cosa nostra”, ricordando collusioni fra magistratura e boss mafiosi e citando l' esempio dei depistaggi sull' inchiesta per l' uccisione di Graziella Campagna, una diciassettenne assassinata per sbaglio da due boss allora latitanti. Il parlamentare di Rifondazione comunista infine ha affermato che numerosi studi legali della Puglia, sua regione di origine, “sono stati contattati da personaggi siciliani, intenzionati a scrivere un libro bianco contro di me. Quello che gli da piu' fastidio - ha concluso - non sono tanto le cose che dico, ma lo sberleffo”.

9 gennaio - I sostituti procuratori Giuseppe Fici e Laura Vaccaro chiedono la condanna a 30 anni di reclusione per gli otto boss mafiosi accusati dell' omicidio del giornalista Mario Francese, assassinato a Palermo il 26 gennaio 1979. Gli imputati avevano chiesto ed ottenuto di essere giudicati con il rito abbreviato. Secondo la procura, mandanti dell' agguato furono i componenti della "commissione" di Cosa nostra Salvatore Riina, Francesco Madonia, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco e Giuseppe Calo'. "La cupola mafiosa - ha detto in aula il pm Fici, ribadendo la validita' del cosiddetto teorema Buscetta - non poteva non sapere. Come tutti gli omicidi eccellenti anche quello di Francese fu deliberato dai capimafia". Se a volere l' assassinio furono i vertici di Cosa nostra al completo, ad eliminare materialmente il giornalista - per l' accusa - sarebbero stati Leoluca Bagarella, cognato di Riina e Giuseppe Madonia. Per Matteo Motisi, capo mandamento del quartiere palermitano Pagliarelli, i pm hanno invece chiesto l' assoluzione. All' epoca dell' omicidio il boss non sarebbe stato alla guida della famiglia mafiosa, non ancora costituita, e quindi non avrebbe partecipato alla deliberazione dell' agguato.

11 gennaio - Negli atti della commissione Antimafia sul caso Impastato i magistrati potrebbero individuare notizie di reato che riguardano uomini dello Stato. Ne e' convinto il presidente, Beppe Lumia, che a Cinisi ha consegnato la relazione al consiglio comunale in seduta straordinaria per discutere sull' uccisone di Peppino Impastato, il militante di DP, trovato morto l' 8 maggio '78 lungo la strada ferrata Palermo-Trapani all' altezza di Cinisi. E' la prima volta che il consiglio comunale di questo paese, che per anni e' stato il regno del boss Gaetano Badalamenti, si riunisce per affrontare il caso Impastato. "La nostra relazione - ha detto Lumia - e' stata inviata anche alla Procura: e' suo il compito di verificare se vi sono le condizioni per intervenire su quegli uomini delle istituzioni che secondo noi non hanno fatto bene il proprio lavoro. C' e' un processo in corso, i nostri documenti sono a disposizione dei giudici: e' importante che accanto alla verita' d' inchiesta della commissione ci sia una verita' giudiziaria". Lumia ha aggiunto che "la Commissione fa una lettura sul boss Badalamenti, sulla magistratura che ha avuto grossissime responsabilita' e su alcuni uomini dell' Arma dei carabinieri dando un giudizio severo sul lavoro che svolsero e spiegando i rapporti che c' erano allora tra istituzioni e mafia". Per Lumia "Impastato capi' per primo la pericolosita' della mafia che ruotava attorno a Badalamenti ed e' grave non solo che lo Stato non capi' ma che alcuni suoi settori depistarono". A Cinisi sono giunti anche il vicepresidente dell' Antimafia Nichi Vendola, i senatori Michele Figurelli, Giovanni Russo Spena e il deputato Carmelo Carrara. Al consiglio comunale hanno partecipato anche Felicia Bartolotta e Giovanni Impastato, la madre e il fratello di Peppino. "Questo evento - ha detto Giovanni Impastato - e' importantissimo perche' mai come in questo periodo la memoria storica assume un enorme valore. A 23 anni dalla morte di mio fratello finalmente il consiglio comunale si riunisce in seduta straordinaria: un fatto importantissimo, un impegno di civilta' e democrazia". "Per la prima volta - ha aggiunto - nella storia d' Italia la Commissione antimafia ha messo in evidenza che in una vicenda come quella di Impastato ci sono stati depistaggi. Un segnale che andrebbe seguito anche per tante altre vicende oscure avvenute in Italia". Per il sindaco di Cinisi Salvo Mangiapane "il paese riceve dallo Stato l' ammissione dell' errore compiuto per tanti anni". "Cinisi - ha aggiunto - si attende dal processo che sia fatta verita' soprattutto per i giovani che, anche grazie al film 'I cento passi' hanno conosciuto e apprezzato la figura di Peppino Impastato". Con una punta polemica, Giovanni Impastato, fratello del militante di Dp ucciso l' 8 maggio 1978, di fronte al consiglio comunale riunito in seduta straordinaria per ricevere la relazione della commissione antimafia sul caso Impastato e a tanti cittadini e amici di Peppino, dice: "Credo che questo consiglio comunale avrebbe dovuto riunirsi 22 anni fa, un anno dopo la morte di Peppino. Abbiamo dovuto aspettare 23 anni per questa riunione. Un anno dopo la morte di mio fratello organizzammo la prima manifestazione antimafia d' Italia ma il consiglio non si riuni"'. "Qualcuno - ha proseguito ha impedito a Peppino di sedere in questo consiglio: ricordo che dopo la sua morte venne eletto". "Ringrazio - ha concluso - la commissione per il lavoro che ha svolto. Anche se Badalamenti dovesse essere assolto voi avete scritto una pagina importante. Nessuno potra' dire che Peppino era un terrorista: era un uomo impegnato nella lotta alla mafia che aveva scoperto i collegamenti tra politica e mafia, che ha operato una rottura non solo nell' ambiente in cui viveva ma nella sua stessa famiglia che era mafiosa".

13 gennaio - Il Ministero dei Lavori Pubblici e l' Anas, "al fine di onorare e commemorare Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta", hanno deliberato la realizzazione di un opera alla loro memoria nel luogo in cui furono uccisi dalla mafia a Capaci sull' autostrada Palermo-Punta Raisi. Ad indicare il luogo della stage del 23 maggio 1992 per ora c' e' soltanto un tratto di vernice rossa sul guard rail. Il Ministero dei Lavori Pubblici e l' Anas istituiranno un premio riservato agli studenti del 3/o, 4/o e 5/o anno delle facolta' di Architettura delle Universita' siciliane, e presenteranno progetti per la realizzazione del monumento.

15 gennaio - La Corte d' assise d' appello di Caltanissetta, presieduta da Rosario Luzio, conferma in appello l' ergastolo a Salvatore Riina e Salvatore Pillera, reggente dell' omonimo clan catanese, per il duplice omicidio di Giuseppe Di Fede e Carlo Napolitano, ritenuti guardaspalle del boss di Riesi Giuseppe Di Cristina uccisi il 21 novembre del 1977. I due sono stati condannati Condannati anche per l' uccisione di Francesco Madonia, padre del boss della provincia nissena Giuseppe. Per il delitto Madonia e' stata invece confermata l' assoluzione del gioielliere di Riesi, Gaetano Di Bilio. In primo grado furono condannati al carcere a vita anche Bernardo Brusca e Antonino Marchese, ma per il primo adesso e' stato disposto il non luogo a procedere in quanto deceduto mentre il secondo non aveva impugnato la precedente sentenza.

15 gennaio - Il presidente della Camera Luciano Violante, intervenendo a un incontro con gli studenti del liceo scientifico "Ernesto Basile", nel quartiere palermitano di Brancaccio, dice:"Tutti i latitanti che sono stati catturati erano a casa loro, e non credo che Provenzano faccia eccezione. Ritengo che non sia molto lontano da qui, da questa parte della Sicilia". Il presidente della Camera ha parlato nell' auditorium intitolato al piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio di un pentito prima sequestrato e poi ucciso e disciolto nell' acido su ordine di Giovanni Brusca. "Per combattere la mafia - ha concluso Violante - bisogna impoverirla delle sue ricchezze, che devono essere poi utilizzate produttivamente".
 

15 gennaio - Il collaboratore di giustizia Vincenzo La Piana, deponendo nel processo a Marcello Dell' Utri, il deputato di Forza Italia accusato di concorso in associazione mafiosa, che si svolge davanti ai giudici di Palermo, dice che "Era diventata una barzelletta tra i mafiosi il fatto che Mangano faceva lo stalliere ad Arcore". "Noi sapevamo che Vittorio Mangano - ha detto La Piana - in realta' non faceva lo stalliere nella villa di Berlusconi, perche' era un uomo dal forte carisma fra i mafiosi e sapeva bene come fare i soldi". Proseguendo ha poi aggiunto: "Non ho mai approfondito - ha detto il pentito - il motivo che lo aveva spinto a lavorare ad Arcore, ma ritengo che lo abbia fatto per stare vicino ad alcune persone". La Piana ha raccontato di alcuni incontri avuti in carcere e poi a Milano e a Palermo con Vittorio Mangano, deceduto lo scorso anno, ritenuto un capomafia di Cosa nostra. Rispondendo alle domande del pm Nico Gozzo, La Piana ha spiegato che nel corso di una conversazione avuta nel '94 con Mangano, quest' ultimo gli disse che aveva lasciato il posto di lavoro ad Arcore, "ma i contatti con Dell' Utri li poteva sempre avere". "Mangano mi disse inoltre - ha detto il collaboratore - che i corleonesi gli avevano tolto il compito di fare da mediatore e il suo posto di lavoro venne dato a Pullara' e a un altro catanese, entrambi di Cosa nostra". Per mandar via Mangano da Arcore, ha spiegato La Piana, era stata diffusa la voce del tentativo di sequestro del figlio di Berlusconi da parte della mafia. "Non era vero - ha detto il pentito - Mangano mi disse che era tutto falso, perche' si trattava di storie inventate dai giornali per fare in modo che lui lasciava il posto". Il pm ha dunque chiesto a La Piana se avesse parlato a Mangano degli attentati alla Standa di Catania. "Certo, e mi spiego' - ha risposto il collaboratore - che era un attentato combinato, perche' nessuno si sarebbe permesso di bruciare la Standa di Berlusconi". Nel corso della deposizione durata circa tre ore, il pentito, che non e' apparso sicuro nel collegare le date ai fatti, ha ricostruito storie che riguardano traffici di stupefacenti, in particolare quella in cui secondo l' accusa Dell' Utri avrebbe fornito somme di denaro (due miliardi di lire) per l' acquisto di una partita di droga. "Con Enrico Di Grusa, genero di Vittorio Mangano - ha detto La Piana - siamo andati in un capannone a Rozzano, vicino Milano, per ottenere i soldi per l' acquisto di stupefacenti. Non partecipai all' incontro ma solo alla fine sono andato a salutare Dell' Utri". "Non so - ha spiegato La Piana - se Dell' Utri sapeva a cosa sarebbero serviti i soldi. Non so nemmeno se li ha tirati fuori lui. All' incontro c' erano anche i fratelli Nino e Natale Curro', messinesi, coinvolti in traffici di droga".
Marcello Dell'Utri definisce "fatti del tutto inventati" le dichiarazioni di Vincenzo La Piana. "In relazione alla gravita' delle dichiarazioni rilasciate a varie Autorita' giudiziarie da Vincenzo La Piana - sostiene Dell'Utri in una dichiarazione -, devo ribadire ancora una volta che si tratta di fatti del tutto inventati, per i quali ho gia' dato incarico ai miei legali perche' procedano penalmente, giacche' non mi sembra giusto che io debba essere vittima di queste false ed infamanti accuse per il solo fatto della loro pubblicita'".
 

18 gennaio - Il presidente della Camera Luciano Violante, in un'intervista a “La Repubblica”, sottolinea di nuovo con forza, dopo le dichiarazioni dei giorni scorsi in una scuola del quartiere Brancaccio di Palermo, la necessita' di arrestare al piu' presto il "capo di Cosa Nostra", Bernardo Provenzano, e spiega che "Nei prossimi sei anni saranno investiti in Sicilia 16mila miliardi. Sono fondi comunitari dell'agenda 2000 che potrebbero rivoluzionare positivamente tutta la Sicilia. Nel 2010, inoltre, nascera' nel Mediterraneo l'area euromediterranea di libero scambio, un'area di 600 milioni di persone, la piu' grande mai costituita al mondo". Il centro di questo asse di interessi, aggiunge Violante, potrebbe essere proprio la Sicilia: "E quale Sicilia? Una Sicilia in cui il tessuto economico-finanziario e' finito nelle mani di Cosa Nostra di Provenzano o una Sicilia e un'Italia che hanno compreso come le questioni della legalita' e della competitivita' sono facce della stessa medaglia perche' se non risolvi la prima non cogli le opportunita' della seconda?". Secondo il presidente della Camera, infatti, la mafia sta cambiando: "Sta scegliendo la convivenza fondata non piu' nel patto con lo Stato, come per il passato, ma in una sorta di patto con l'economia caratterizzato da un ingresso morbido e insinuante nelle imprese legali attraverso gli appalti, il racket, l'usura". Quindi, per Violante, "arrestare Provenzano e togliere soldi ai mafiosi", sono "grandi questioni che non riguardano piu' soltanto la mafia ma la legalita' e la competitivita' italiane". Il presidente della Camera ripete poi che Provenzano si trova in Sicilia e sottolinea l'importanza di mettere in rilievo l'impegno delle forze dell'ordine, per motivarle ancora di piu': "Rilevo - dice Violante - che oggi coloro che stanno cercando Provenzano potrebbero non sentirsi al centro di un'attenzione solidale. Ripetere che l'arresto di quel latitante e' una priorita' essenziale per il nostro Paese credo possa far sentire quei poliziotti e carabinieri impegnati in un compito fondamentale per la sicurezza del Paese". Il presidente della Camera, infine, non apprezza lo scontro politico nato dalle sue dichiarazioni alla scuola di Palermo: "Non ci si divide - afferma - sull'arresto di un criminale come Provenzano. Sarebbe necessario definire ora, prima della campagna elettorale, che cosa e' dentro e fuori della competizione per il voto". Secondo Violante, infatti, "la lotta contro la mafia deve stare fuori dello scontro politico perche' le nostre divisioni renderebbero piu' forte Cosa Nostra".

19 gennaio - Giuseppe Lumia, presidente della Commissione Antimafia, come il presidente della Camera Luciano Violante, e’ convinto che "Provenzano non e' a Corleone ma sicuramente e' in Sicila". "Da tempo - ricorda il presidente dell'Antimafia - sostengo che su Provenzano bisogna concentrare le migliori energie per catturarlo e per bloccare la sua devastante strategia collusiva nei confronti delle istituzioni e nei confronti del sistema delle imprese". Le istituzioni e le imprese: sono infatti queste le realta' piu' a rischio, soprattutto in Sicilia, di infiltrazione mafiosa e Provenzano e' tra i nemici da battere per garantire la legalita' proprio laddove il fiume di denaro pubblico tra breve si trasformera' in un ineasauribile serbatoio di potenziale arricchimento illegale. Ma come catturare il superlatitante? "Il suo modello va analizzato bene perche', secondo quanto si puo' intendere dalle analisi degli investigatori - dice Lumia - Provenzano sta ricostruendo una mafia piu' chiusa, resa ermetica da legami familiari vincolanti". E, questo, "puo' rendere piu' difficile seguire le sue tracce". "Cionostante si sta facendo il massimo dello sforzo possibile per arrivare alla sua cattura". Lumia, pero' non crede all' ipotesi, che giudica "fantasiosa", formulata, oggi, dall' avvocato Palazzolo, in un processo a Palermo, di un Provenzano "delatore dei carabinieri". Bernardo Provenzano, 67 anni, e' inserito nella lista dei 30 latitanti di "massima pericolosita"'. E' ricercato dal 1992, per associazione di tipo mafioso, la strage di Capaci, l'attentato di via Fauro a Roma, strage, detenzione e porto di materie esplodenti, furto; concorso in omicidio ed altro. Dal 1990 le ricerche sono state diramate anche in campo internazionale.
 

19 gennaio - Per il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo Antonio Ingroia, il boss Bernardo Provenzano non sarebbe piu' “da solo” al vertice di Cosa Nostra. “Rispetto alla dittatura di Toto' Riina che si era stabilita alla fine degli anni Ottanta - spiega Ingroia  - nella Cosa nostra ristrutturata da Provenzano non c'e' un capo supremo ma una sorta di direttorio”. Secondo il Pm, infatti, la 'primula rossa' di Corleone gestirebbe l' organizzazione criminale insieme a capimafia come Salvatore Lo Piccolo, Nino Giuffre', Benedetto Spera e Matteo Messina Denaro. “Provenzano - sostiene Ingroia - si circonda di un gruppo di collaboratori molto stretti, che prendono decisioni. Ritengo, in base alle indagini che sono state fatte, che c' e' una verticalizzazione forte delle decisioni, che probabilmente si tratta di una commissione piu' stretta dove non ci sono piu' tutti i capi mandamento, ma solo persone fidate”.

19 gennaio - L' avvocato Salvatore Traina, difensore di Provenzano, critica le dichiarazioni del presidente della Camera Luciano Violante e afferma: “Provenzano oggi potrebbe essere un cittadino comune e rispettabile, lontano del mondo dei mafiosi”. “E' possibile - dice Traina - che Provenzano non venga catturato perche' da trent' anni vive lontano dagli interessi mafiosi del cui ambiente si ritiene sia il capo. Potrebbe essere un onesto lavoratore...”. “Ho stigmatizzato le affermazioni dell' on. Violante - aggiunge il difensore del boss - che dall' alto della sua carica getta ombra sulle istituzioni, e in particolare sulle forze dell' ordine che non meritano certamente tale discredito”. Secondo il legale il suo cliente non e' mai stato visto da nessuno dei boss mafiosi. “A Provenzano - spiega Traina – non e' mai stato attribuito alcun fatto concreto, tanto che per ricostruire le sue fattezze si e' dovuto ricorrere all' elaborazione di una sua vecchia foto al computer”. Le condizioni economiche in cui versa la famiglia Provenzano sono un altro tema su cui batte Traina, il quale sottolinea di non avere pagate le spese e che proprio a causa di cio' non puo' sostenere come vorrebbe la difesa del boss, tanto che in molti processi i giudici sono costretti a nominare un avvocato d' ufficio.

20 gennaio - Insediandosi a Palermo nel comando della regione carabinieri Sicilia, il generale Carlo Gualdi dice:“Ho preso Cesarano a Napoli e cerchero' di prendere Provenzano qui. Non e' impossibile”. Al Tg3 il gen. Gualdi ha anche detto che “tutti i capi sono ben mimetizzati”, ma ha aggiunto che nonostante non sia facile riuscire a catturarli cio' non e' impossibile. “Capi ne sono stati presi tanti”, ha anche sottolineato il generale Gualdi che e' subentrato al generale Giorgio Piccirillo nominato comandante della scuola ufficiali dell' arma dei carabinieri. In precedenza, quale capo di gabinetto, il generale Gualdi e' stato impegnato nella Dia, la direzione investigativa antimafia.

22 gennaio - La seconda sezione penale della Cassazione decide che e' da rifare il processo agli imprenditori Giuseppe Li Pera, Vito Buscemi, Rosario Cascio e Alfredo Falletta coinvolti nel procedimento sulla mafia e gli appalti in Sicilia scaturito nel '91 da un rapporto del Ros. E' la seconda volta che la Suprema corte dispone che sia rifatto il primo filone dei procedimenti nati dalle dichiarazioni del pentito Angelo Siino, indicato come il ministro dei lavori pubblici di cosa nostra. Solo per lui la Cassazione aveva in passato confermato la pena a otto anni di reclusione. In particolare, la Cassazione nell' aprile del '97 aveva confermato la condanna per Angelo Siino e aveva invece rinviato nuovamente alla Corte d'appello di Palermo il processo agli imprenditori Falletta, Buscemi, Cascio e Li Pera, condannati in primo grado per associazione per delinquere finalizzata alla turbativa d' asta. Successivamente la Corte d'appello li aveva assolti. Per questo motivo il pg palermitano aveva fatto ricorso in Cassazione. E stasera i supremi giudici hanno disposto la ripetizione del processo a carico degli imprenditori avvalorando in questo modo le richieste della pubblica accusa che si e' battuta affinche' venga riconosciuta l' imputazione di associazione per delinquere a carico degli imputati. Quando sara' nota la sentenza sara' possibile conoscere l' ampiezza della forbice del rinvio, che va dal 416 (associazione per delinquere) al 416 bis (associazione per delinquere di stampo mafioso). Gli imputati si erano difesi sostenendo che la mafia nell' acquisizione degli appalti ad alti livelli non era mai entrata e che le cosche gestivano soltanto i cantieri e le forniture di materiale. A Palermo e' in corso il secondo filone di questo processo con un alto numero di imputati.

22 gennaio – “La Repubblica” pubblica un servizio che sostiene che Bernardo Provenzano sarebbe riuscito, nel dicembre scorso, a sfuggire alla cattura:
“Se lo sentivano in pugno questa volta. Erano certi che sarebbe finito in trappola, tradito dall'eccessiva sicurezza di un uomo che per più di un anno era stato pedinato in mezza Sicilia. Ma è sfuggito ancora Bernardo Provenzano, è sfuggito alla cattura probabilmente solo per un soffio il capo della mafia siciliana che è latitante dal settembre del 1963. L'hanno cercato a colpo sicuro a Cinisi, il paese di Gaetano Badalamenti ma anche il paese dove è nata e dove ha vissuto a lungo sua moglie Saveria Benedetta Palazzolo. L'hanno cercato ad appena una cinquantina di chilometri dalla sua Corleone. Ma lui non c'era. Una notte di un paio di mesi fa hanno sfondato porte e finestre di tre case, hanno circondato una masseria, poi si sono spinti fino a una cava di pietra. Niente, il blitz è andato a vuoto, di Bernardo Provenzano da quelle parti c'era solo l'"odore". Come era già accaduto altre volte in passato, come è accaduto sempre. Eppure i finanzieri dei reparti speciali di Caltanissetta erano convinti che si nascondesse proprio lì, a Cinisi, nel regno della mafia più antica del Palermitano, protetto dai suoi uomini più fidati. Anche l'ultima caccia a quel "fantasma" che ormai è diventato il boss dei boss del clan dei corleonesi è finita male. Solo tracce fresche del vecchio Bernardo, l'uomo più imprendibile di tutta la storia di Cosa Nostra. L'operazione finale per arrestare "Binnu il trattore" o "Binnu il ragioniere" come lo chiamavano ai tempi della guerra con i Bontate e gli Inzerillo o in quelli del "sacco" edilizio di Palermo, è partita tra il novembre e il dicembre del 2000, alla conclusione di un'indagine su certi movimenti di denaro che era stata avviata nel 1999. Tutto aveva avuto inizio con un'investigazione bancaria e con una microspia che "ascoltava" anche i sospiri di un uomo ritenuto prestanome di Provenzano e in stretto contatto con lui. L'investigazione bancaria (c'era una "fonte", un confidente di alto livello che tra l'altro aveva raccontato di una complicatissima vicenda di riciclaggio che portava fuori dall'Italia) si è intrecciata ad un certo punto con un'inchiesta dei finanzieri del Gico, cominciata tra le pieghe di un procedimento di "misure di prevenzione" al Tribunale di Caltanissetta e tutta concentrata su un personaggio di Cinisi che aveva acquistato grandi feudi in quella provincia. L'uomo è stato seguito come un'ombra, le sue conversazioni registrate giorno e notte, tutti i suoi movimenti e tutte le sue attività intercettati e analizzate per mesi e mesi. Gli investigatori si erano accorti che non avevano individuato un semplice prestanome del boss, uno che era in rapporti d'affari e solo tramite terzi con Bernardo Provenzano, ma erano certi che quell'uomo conosceva bene il capo dei Corleonesi e anche che lo incontrava. Così hanno cominciato a chiudere ogni altra indagine e a inseguire una sola "pista", quella del personaggio di Cinisi che era diventato improvvisamente un grande proprietario terriero della provincia di Caltanissetta. Una sessantina di giorni fa i segugi della Finanza si sono sempre di più "avvicinati" all'uomo e, mano a mano che le indagini scavavano, il cerchio si stringeva intorno al paese di Gaetano Badalamenti e dei "Cento passi" di Peppino Impastato. Era soltanto là che portavano le orme di Bernardo Provenzano. Portavano in particolare a quattro o cinque soggetti tra cui due fratelli, tutti ritenuti fedelissimi del vecchio don Tano, tutti considerati fino a qualche tempo fa appartenenti a quella "vecchia guardia" mafiosa nemica da sempre dei Corleonesi. Poi, una notte è scattato il blitz. Nelle case del paese di quei due fratelli e contemporaneamente nelle loro tenute tra l'aeroporto di Punta Raisi e le creste di Montagnalonga. Obiettivo mancato, operazione fallita. La caccia a Cinisi per il momento è finita ma l'indagine che si è sviluppata ha evidenziato clamorose novità, innanzitutto sugli assetti di Cosa Nostra. Il vecchio Corleonese avrebbe amici fidati proprio nella tana di quello che all'inizio degli anni Ottanta era stato il suo più grande avversario dentro le "famiglie" siciliane, Gaetano Badalamenti. Una risultanza investigativa che porta allo scoperto elementi che gli investigatori giudicano "estremamente interessanti" sugli ultimi fatti di mafia accaduti nella parte occidentale della provincia di Palermo, si parla di patti che sarebbero stati sottoscritti dal padrino corleonese e dai "colonnelli" del boss che è rinchiuso da molti anni nel carcere americano di Fayrton. Ma c'è anche un altro fronte ancora tutto da scoprire, quello delle attività economiche gestite dagli uomini di Provenzano insieme agli uomini di don Tano. A seguire queste investigazioni sono due autorità giudiziarie, la Procura di Palermo e la Procura di Caltanissetta. Il "motore" dell'ultima indagine sulla ricerca di Bernardo Provenzano - per come tecnicamente è nata l'indagine su quel personaggio di Cinisi che acquistava terre nel centro Sicilia - più che Palermo sembra proprio Caltanissetta. C'è il Gico della Finanza di quella città che segue direttamente le investigazioni, una delega è stata affidata anche alla sezione del Ros dei carabinieri del capoluogo nisseno. E' comunque tempo di caccia grossa per tutti, in queste ultime settimane. E' tempo di caccia aperta in ogni angolo della Sicilia. Poliziotti, carabinieri, Dia, Ros, Gico, Squadre mobili e reparti operativi, tutti ormai con un solo scopo, un solo bersaglio da centrare: individuare e catturare l'uomo che alla fine di un'estate di trentasette anni fa sparì nel nulla. Proprio come fanno i fantasmi”.
In un altro articolo, “La Repubblica” ricostruisce la caccia a Provenzano:
“Un paio di anni fa lo cercavano a Genova. Un confidente dei carabinieri raccontò: "Bernardo Provenzano è stato molto male, è appena uscito da un ospedale e tra qualche giorno si imbarcherà sul traghetto per la Sicilia...". Il porto di Genova fu invaso da decine di falsi operai, da falsi marinai, da falsi camionisti. Telecamere dappertutto. Ogni passeggero fu scrupolosamente controllato. E così anche al porto di Palermo. Giorni e giorni di attesa. Ma il vecchio corleonese non lo vide nessuno. Fu anche quella una delle "quasi" catture del capo dei capi di Cosa Nostra. Di certo anche allora si seppe soltanto che era malato, molto malato. Come avevano confessato prima il pentito Balduccio Di Maggio e poi anche Angelo Siino. Camminava con il bastone, aveva anche problemi ai reni. Siino disse pure dove "probabilmente" aveva trovato rifugio "dopo avere abbandonato Bagheria". Provenzano era nelle campagne tra Enna e Caltanissetta, forse tra i paesi di Pietraperzia e Barrafranca. Un giorno di tre anni fa fu lo stesso Siino, al volante di un'Alfetta, ad accompagnare i poliziotti per un sopralluogo nella zona: l'automobile fuse il motore sui tornanti di una montagna. Raccontò sempre in quel periodo Angelo Siino ai magistrati di Palermo: "Tempo fa Provenzano è stato fermato vicino ad Enna da una pattuglia di poliziotti a un posto di blocco... non l'hanno riconosciuto e se lo sono lasciati scappare...". Un'altra "soffiata" è di tre o quattro mesi fa. Una vecchia signora ha creduto di averlo visto in una clinica di Palermo. Anche lei ha descritto un Provenzano malatissimo. E prima ancora - nel dicembre del 1999 - gli agenti della "catturandi" della Squadra mobile arrivarono in Germania dopo avere seguito per mesi la moglie Saveria Benedetta e i suoi figli Angelo e Francesco Paolo. Fecero un blitz a casa del fratello di Bernardo Provenzano che vive da anni vicino a Francoforte, ma anche quel blitz andò a vuoto. In tanti in questi ultimi anni hanno parlato del boss, di come si muove, di come è fatto. Ma uno degli ultimi pentiti ha anche rivelato: "Tutti sostengono di conoscerlo, di averlo visto di qua e di là, però una volta Provenzano scherzando mi disse: "Se fosse davvero così, a quest'ora sarei in carcere da vent'anni..."".

22 gennaio - Il presidente della Commissione parlamentare antimafia, on.Giuseppe Lumia, che ha partecipato a Bari ad incontri con il comitato ordine e sicurezza e con i rappresentanti della Procura e della Dda, commentando le notizie giornalistiche secondo cui Provenzano stava per essere catturato, dice:“La migliore risposta a tentativi andati a vuoto e' la cattura di Provenzano”. “E' importante - ha proseguito - perche' 37 anni di latitanza sono troppi per una democrazia e soprattutto perche' Provenzano rappresenta una strategia collusiva che e' devastante per le istituzioni e per la societa’”.  Il procuratore aggiunto di Caltanissetta Francesco Paolo Giordano conferma, sia pure indirettamente, l' indiscrezione pubblicata dal quotidiano “La Repubblica” che Bernardo Provenzano sarebbe sfuggito alla cattura nello scorso dicembre. “Ci sono tante indagini in corso, - ha detto - patrimoniali e non, da parte nostra e di altre autorita' giudiziarie. Su Provenzano oggi certamente abbiamo maggiori informazioni e notizie rispetto a qualche anno fa, anche se la strada e' ancora lunga”. Il tentativo di arrestare Provenzano, latitante dal 1963, secondo “La Repubblica” sarebbe avvenuto a Cinisi, roccaforte di quel Tano Badalamenti avversario irriducibile dei corleonesi negli anni '80. Le tracce del boss sarebbero state individuate dalla guardia di finanza, coordinata dalla procura di Caltanissetta, nell' ambito di una serie di accertamenti su alcuni personaggi di Cinisi che avrebbero investito ingenti capitali per l' acquisto di terreni nel nisseno. Attraverso indagini mirate e meticolose, gli investigatori avrebbero maturato la convinzione che sullo sfondo vi fosse proprio Provenzano. In particolare l' attenzione degli inquirenti si sarebbe concentrata su un personaggio di Cinisi che avrebbe curato le operazioni di acquisto. Non un semplice prestanome ma una persona fidata, che avrebbe piu'volte incontrato il boss ritenuto ormai il capo di Cosa Nostra. Seguendo questa pista, gli investigatori avrebbero individuato alcuni possibili “covi” dove il latitante avrebbe trovato rifugio: una masseria nelle campagne di Cinisi intestata a due fratelli e una cava di pietra. Ma quando i militari della Guardia di Finanza hanno fatto irruzione nel casolare, di Provenzano non avrebbero trovato traccia. Sempre secondo la ricostruzione del quotidiano, l' inchiesta avrebbe tra l' altro consentito di ridisegnare il circuito delle alleanze e delle cointeressenze, approdando a conclusioni sorprendenti: nel tempo si sarebbe riproposta una imprevedibile ricucitura dello strappo tra Badalamenti (da anni in carcere negli Stati Uniti) e Provenzano, sfociato nella guerra di mafia di vent' anni fa e “vinta” dai corleonesi. Il procuratore della repubblica di Palermo Piero Grasso precisa che gli uffici giudiziari di Caltanissetta e Palermo seguono in sintonia gli spunti investigativi delle forze dell' ordine dei due capoluoghi nell' ambito delle indagini per la cattura di Bernardo Provenzano. Grasso ribadisce quindi che le “inchieste sono collegate” e oppone un “no comment” alla richiesta di chiarimenti su elementi specifici, come, per esempio, sul perche', data per acquisita la localizzazione dell' ultimo covo del boss, non si sia proceduto all' arresto delle persone eventualmente intestatarie dell' immobile.

22 gennaio - Il Comitato provinciale per l' ordine e la sicurezza pubblica ha disposto la riduzione delle scorte ai magistrati antimafia di Palermo e l' eliminazione della vigilanza fissa sotto la loro abitazione. In particolare verranno eliminate 13 postazioni fisse sistemate nei “punti sensibili”, cioe' davanti alle abitazioni dei Pm della Direzione distrettuale antimafia e anche di tre giudici del Tribunale. La circolare del ministro prevede inoltre la riduzione delle scorte ai magistrati, mentre rimarranno inalterate quelle del procuratore e di alcuni aggiunti. Nel corso della riunione, alla quale hanno partecipato il procuratore Pietro Grasso e l' avvocato generale Vittorio Aliquo', sono state evidenziate perplessita' e dubbi sul nuovo sistema di sicurezza. Il Ministero ha previsto, infatti, che il controllo debba essere effettuato dalle 'volanti'; i magistrati evidenziano pero' che non si e' provveduto a rafforzare i sistemi di sicurezza a protezione delle loro abitazioni e non sono state installate le telecamere a circuito chiuso, cosi' come prevedeva la circolare. “Ci hanno abbandonati - ha dichiarato uno dei magistrati della Dda - lo Stato ci chiede di combattere la mafia senza assicurarci un adeguato sistema di protezione”. Come nel resto d' Italia la circolare del ministro Bianco avrebbe dovuto essere attuata anche a Palermo alla fine dello scorso settembre. Nel capoluogo siciliano, pero', si era avuto un rinvio in vista dell' eccezionale impegno del dispositivo di sicurezza in occasione della conferenza dell' ONU sulla lotta alla criminalita' transnazionale tenuta in dicembre. Per effetto delle decisioni adottate dal Comitato provinciale per l' ordine e la sicurezza pubblica, che si e' riunito sotto la presidenza del prefetto Renato Profili, saranno anche abolite alcune “zone rimozione” nelle adiacenze delle abitazioni di alcuni magistrati. Erano state istituite nel timore che la mafia facesse scoppiare altre auto con esplosivi, come nelle stragi di via D' Amelio e in precedenza di via Pipitone Federico. I meccanismi di tutela in sostituzione della vigilanza fissa dovrebbero scattare con sollecitudine e per ovvii motivi di riservatezza, negli uffici preposti, non sono stati forniti particolari. E' stato comunque assicurato che, ad esempio, sulle auto blindate vi saranno piu' uomini di scorta degli attuali e che nel complesso i magistrati continueranno a essere tutelati
adeguatamente.

23 gennaio – Il sottosegretario agli Interni Massimo Brutti precisa che non e' vero che Bernardo Provenzano sia ricercato da 37 anni, ma solo da alcuni anni e in particolare dal '90-'92. Secondo Brutti, che ha risposto alle domande dei giornalisti nel corso di una conferenza stampa con il presidente della Commissione Antimafia, Giusepe Lumia a San Macuto - “vi sono molte leggende su Cosa Nostra, ma sono leggende costruite da Cosa Nostra e - ha aggiunto - fino ad ora le abbiamo tutte spezzate”. La cattura di Provenzano e' comunque una priorita':“colpire Provenzano - ha detto precisando che pero' da colpire vi sono anche altri boss mafiosi - significa dare un colpo importante a tutto l'assetto dell'organizzazione mafiosa”. Una organizzazione che ha “scelto la strada dell'occultamento ma non per questo ha smesso di operare soprattutto sul fronte delle estorsioni e della penetrazione degli appalti”. Il sottosegretario si e' detto convinto che non vi sia una “strategia di protezione di Provenzano all'interno delle istituzioni”. Dopo tutti questi anni di latitanza “non e' immaginabile”, ha osservato. L'unica protezione, ha aggiunto, il boss “la riceve dall'omerta' che lo circonda, nell'ambiente, la Sicilia, nel quale vive”. D’ accordo con Brutti Lumia secondo cui Provenzano “si e' circondato di uomini che agiscono sotto copertura, conosciuti solo da lui e che garantiscono la mediazione con l'esterno”. Lumia ha aggiunto che “una volta catturato Provenzano sarebbe il caso di rifare la storia di come ci si e' mossi in questi anni”. Anche perche', gli ha fatto eco Brutti, “la storia dei latitanti e' la storia delle impunita”' dove “latitanti, anche pericolosi come Provenzano sono stati coperti e curati (il riferimento e' alla presunta malattia di cui soffrirebbe Provenzano) in cliniche specializzate”. Provenzano e' sicuramente superprotetto dai suoi complici ma “in Cosa Nostra - ha fatto notare Brutti - non c'e' pace”. E lo dimostrano i 16 omicidi degli ultimi anni, dei quali 8-9 riguardano proprio imprenditori a lui molto vicini. Un fatto che fa capire come comunque Provenzano non viva tranquillo. Ora “nostro compito - ha aggiunto - e' sostenere le forze di polizia, creando nuclei specializzati e dando loro i mezzi per agire in modo efficace”. Anche perche' - ha ribadito Lumia “Provenzano va catturato per distruggere quel 'modello Provenzano' che puo' contaminare altre mafie e che e' quello collusiva con le istituzioni e affaristico con la societa’”.

23 gennaio - Sono depositate le motivazione della sentenza del processo per il fallito attentato dell' Addaura al magistrato Giovanni Falcone, il 20 giugno 1989. Con la sentenza emessa il 27 ottobre scorso sono stati inflitti 26 anni ciascuno a Toto' Riina, Antonino Madonia, Salvatore Biondino, 10 anni al pentito Francesco Onorato e 3 anni all' altro collaborante Giovan Battista Ferrante. Sono stati assolti, invece, Vincenzo e Angelo Galatolo, zio e nipote. Secondo l' accusa, Cosa nostra voleva uccidere Falcone e i magistrati elvetici che dal 18 al 21 giugno del 1989 erano a Palermo per indagini sul riciclaggio di denaro sporco della mafia siciliana in Svizzera. I giudici erano Carla Del Ponte e Claudio Lehman che furono invitati dal loro collega palermitano per la mattina del 20 giugno del 1989 a fare il bagno all' Addaura. Cosa nostra colloco' sulla scogliera una sacca da sub contenente 58 candelotti di dinamite collegati ad un radiocomando. Quel giorno, pero', la gita di Falcone e dei magistrati svizzeri slitto', pertanto la carica non venne mai azionata. Nella motivazione della sentenza, il presidente della Corte d' assise di Caltanissetta Pietro Falcone scrive che il movente dell' attentato dell' Addaura e' certamente ancorato all' attivita' professionale di Giovanni Falcone, ma e' piu' complesso e si inserisce in una strategia che ha portato alla sistematica eliminazione di quanti si sono impegnati nella lotta a “Cosa nostra”. “La palese ed oltraggiosa delegittimazione operata attraverso le cosiddette lettere del corvo - si legge nelle motivazioni - non e' l' unico episodio di attacco subito da Giovanni Falcone nell' arco della sua vita professionale. Meno eclatanti, forse, ma sicuramente altrettanto offensivi ed inquietanti, appaiono altri attacchi subiti da Falcone in ambiti per cosi' dire istituzionali, come quello in occasione della sua candidatura per le elezioni del Csm, come quello in occasione della copertura del posto di consigliere istruttore dopo il pensionamento di Antonino Caponnetto, o ancora come quello in occasione della designazione dell' Alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa”. “Anche tali attacchi - proseguono i giudici - hanno contribuito sotto il profilo oggettivo ad alimentare quel contesto di delegittimazione che attraverso l' isolamento istituzionale favorisce le azioni delittuose eclatanti della criminalita' mafiosa”. Nelle motivazioni si ricorda inoltre che nel corso del dibattimento e' emerso che “Giovanni Falcone nel corso della sua carriera ha subito pesanti bocciature, assolutamente immeritate, che hanno certamente appannato la sua immagine professionale, che lo hanno esposto alla vendetta mafiosa e che hanno provocato in lui profonda amarezza per i comportamenti di soggetti istituzionali e persino di amici da cui si e' sentito sostanzialmente tradito”. Dalle motivazioni emerge anche la certezza che a tradire Giovanni Falcone fu una talpa, qualcuno che gli stava talmente vicino da poter conoscere, in tempo reale, i suoi programmi e i suoi spostamenti. Scrivono i giudici di Caltanissetta: «Dalle dichiarazioni sostanzialmente convergenti rese dai componenti della delegazione svizzera risulta che proprio dopo la pausa pranzo del 20 giugno era stata programmata la possibilità di recarsi all’Addaura, accettando l’invito del giudice Falcone. Tale straordinaria coincidenza temporale tra il momento in cui l’ordigno è sicuramente rimasto attivo sulla piattaforma dell’Addaura ed il tempo in cui si sarebbe potuto concretizzare il programmato bagno, poi sfumato solo per una serie di coincidenze ed impegni di lavoro, induce a ritenere provato che gli attentatori possano avere sfruttato proprio la notizia dell’invito del giudice Falcone per organizzare l’attentato, con quelle modalità esecutive ed in un giorno non festivo in cui non si poteva ragionevolmente prevedere una discesa al mare della vittima designata, poiché la notizia dell’invito poteva essere stata facilmente carpita dalla organizzazione mafiosa». Nelle motivazioni emerge anche “il sospetto, particolarmente inquietante, che l’attentato dell’Addaura possa essere stato strumentalmente preceduto da una ben orchestrata campagna di delegittimazione nei confronti del giudice Falcone a cui hanno sicuramente partecipato soggetti estranei a Cosa nostra e che, pertanto, la decisione di uccidere il predetto valoroso magistrato possa essere frutto di una convergenza di interessi non riconducibili alla sola organizzazione mafiosa». Emergono anche sospetti e perplessita' anche sull' intervento dell' artificiere dei carabinieri Francesco Tumino, che disinnesco' l' ordigno. Il brigadiere Tumino fu il primo ad intervenire sulla scogliera dell' Addaura. Per impedire l' esplosione fece saltare con una microcarica il collegamento tra l' esplosivo contenuto in una sacca da sub e il meccanismo di innesco. Parti del timer mancarono poi al controllo e il carabiniere disse che a prelevarle era stato il funzionario di polizia Ignazio D' Antone. Per questa accusa, rivelatasi falsa, Tumino e' stato condannato per calunnia. Era gia' stato condannato per falso ideologico e false dichiarazioni al pm perche' il suo racconto sulle fasi successive al disinnesco non fu creduto. Secondo la Corte l' intervento non sarebbe stato tecnicamente ineccepibile e lo stesso Tumino “ha mentito ripetutamente” sia su cio' che ha fatto, sia su cio' che ha visto. “Tumino - si legge nella motivazione - ha mentito in maniera piuttosto infantile correggendo continuamente le sue dichiarazioni in una perversa spirale di piccole menzogne che lo ha portato perfino a prospettare un misterioso intervento per far sparire reperti, calunniando una persona 'falsamente incolpata’”.

24 gennaio – L’ on Enzo Fragala’, di An, commenta: “Brutti e' incorso nello stesso infortunio in cui incorse il governo quando nel settembre del 1999 fu divulgato dagli inglesi l' archivio Mitrokin” aproposito della data dell'inizio della latitanza di Bernardo Provenzano. “Al contrario della superficiale dichiarazione di Brutti - ha dichiarato Fragala' - che dimostra essere assai poco informato Provenzano era uno dei protagonisti in negativo delle indagini di Giovanni Falcone e del primo maxi processo tanto da essere chiamato in causa piu' volte nella famosa dichiarazione dibattimentale di Luciano Liggio”. “E' impossibile o colposamente grave - sostiene il deputato di An - che il Governo ritenga Provenzano latitante soltanto dal 1992 in quanto tutta la maxi inchiesta di Borsellino e Falcone aveva gia' presente Provenzano come uno dei piu' feroci capi di Cosa Nostra da tantissimi anni”. “Se fosse vera la gaffe di Brutti - ha concluso Fragala' - sarebbe ancor piu' grave che gli apparati investigativi non abbiano considerato latitante un pericoloso pregiudicato colpito da tanti provvedimenti giudiziari. Per il sito Internet della Polizia Bernardo Provenzano e' ricercato dal 1992, e dal gennaio del 1990 “sono state diramate le ricerche in campo internazionale, per arresto ai fini estradizionali”. In realta' Bernardo Provenzano e' latitante dal settembre 1963 colpito da un mandato di cattura per omicidio, ma si era reso irreperibile gia' dal maggio precedente. Il boss e' dunque uccel di bosco da 37 anni. “C'e' grande confusione, a partire dalla data in cui e' latitante”, sostiene l' avvocato Salvatore Traina, difensore del capo di Cosa nostra. “E' un errore sostenere che Provenzano e' latitante da dieci anni - spiega Traina - Provenzano prima non era cercato con l' intensita' di oggi, per il ruolo che gli viene attribuito. Fino a quando Salvatore Cancemi non lo ha accusato di aver preso il posto di Riina non gli veniva data alcuna importanza”. Nel 1987 il boss venne condannato a soli dieci anni nel maxiprocesso a Cosa Nostra, istruito dal giudice Giovanni Falcone. La corte, infatti, ritenne il solo Riina rappresentante nella cupola per la famiglia di Corleone. Subito dopo la stagione delle stragi i pentiti delinearono il ruolo del boss, fautore della strategia della 'sommersione'

25 gennaio - L' ex collaboratore di giustizia Balduccio Di Maggio, il pentito che accuso' Giulio Andreotti di essersi incontrato con Toto' Riina e di averlo “baciato”, e' tornato nuovamente in carcere. L' ordine di custodia cautelare e' stato emesso dalla Corte d' Assise di Palermo, per violazione degli obblighi degli arresti domiciliari e pericolo di fuga. Secondo la Procura, nei mesi scorsi Di Maggio avrebbe ricevuto in casa Alberto Cappello, legato da rapporti di parentela con il boss di San Giuseppe Jato, Salvatore Genovese. I due avrebbero parlato di un traffico di droga e di alcuni piani criminali. Di qui la richiesta avanzata del Pm Salvatore De Luca, di ripristinare la custodia cautelare in carcere. Di Maggio era agli arresti domiciliari, dopo essere stato bloccato nell' ottobre del 1997 dagli investigatori della Dia con l' accusa di essere tornato “in armi” in Sicilia, mentre era ancora sotto protezione, per riorganizzare la sua cosca. Secondo gli inquirenti, il pentito avrebbe ordinato una serie di omicidi nella zona di San Giuseppe Jato. Per questo motivo al pentito, arrestato su richiesta della Procura di Palermo, era stato revocato lo status di collaboratore. Il tribunale della liberta' gli aveva poi concesso il beneficio della detenzione domiciliare per motivi di salute. Gli atti del processo sono attualmente all' esame della Corte Costituzionale. Di Maggio e' stato condotto nel carcere di San Vittore a Milano. L' arresto e' stato eseguito dalla direzione investigativa antimafia che, da mesi teneva sotto controllo l' abitazione, in cui l' ex collaboratore di giustizia si trovava agli arresti domiciliari. Secondo gli investigatori Di Maggio stava per lasciare l' Italia. Gli agenti sono arrivati sotto la sua abitazione, a Buti, a circa 7 chilometri da Pontedera, in Toscana, con un' autoambulanza della Croce Rossa con la quale l' hanno trasportato. La sua scarcerazione aveva seguito un iter tormentato a causa dei problemi legati alla sicurezza della compagna, che aveva rinunciato al programma di protezione. Il provvedimento era stato ordinato dalla Corte di assise di Palermo, presieduta da Renato Grillo, per ragioni di salute. L' ex pentito era stato infatti colpito da una misteriosa paralisi progressiva, che lo aveva inchiodato su una sedia a rotelle. Secondo tre periti nominati dai giudici, Di Maggio sarebbe rimasto vittima di una manifestazione psicosomatica, reagendo con il sintomo della paralisi a quello che viveva come un “tradimento” da parte dello Stato. Nella consulenza veniva inoltre sottolineato che il detenuto aveva bisogno dell' ambiente familiare per ricostruirsi uno stabile equilibrio emotivo.

25 gennaio – Sta per uscire in libreria, per la Universale Economica Feltrinelli, “I cento passi” che ripropone la sceneggiatura, scritta da Marco Tullio Giordana, che ne è stato anche il regista, insieme con Claudio Fava, giornalista e deputato Ds, e con la sceneggiatrice Monica Zapelli. Nell’introduzione di Giordana viene ricostruita la storia del testo, nato nella versione definitiva dopo ben diciassette differenti stesure realizzate «a sei mani», e successivamente modificata ancora durante la lavorazione.
 

26 gennaio – Il quotidiano “La Repubblica” pubblica con grande rilievo un servizio di Attilio Bolzoni e Francesco Viviano sull’ uccisione di Mauro De Mauro, che sarebbe legata non al caso Mattei, ma al legame della mafia con il principe Junio Valerio Borghese per il tentato colpo di Stato del 1970.
Il titolo del servizio e’:"De Mauro è stato ucciso perché sapeva del golpe - Il capomafia: "Lo sepellimmo alla foce dell'Oreto"
Scrive “La Repubblica”:“Dice il capomafia di Altofonte, Francesco Di Carlo: "E' qui, alla foce dell'Oreto, il cadavere di Mauro De Mauro. Io so chi lo ha ucciso, so perché è stato ucciso. Ora vi racconto...".  Così è in fondo a questa gola dove il fiume scende lentamente verso il mare di Palermo - si vedono le case popolari del villaggio di Santa Rosalia e più su le guglie della Cattedrale - che si chiuse la vita e oggi il mistero di Mauro De Mauro. Il suo cadavere è da qualche parte qui tra le alte felci e le cavità della roccia, gli antri e i cunicoli scavati dall'acqua, sepolto tra i piccoli massi trascinati dalla corrente, nascosto dentro la terra e la melma di quella che fu la Conca d'Oro. A tre chilometri dalle stanze gonfie di fumo de "L'Ora", il suo giornale in piazzale Ungheria. A sei chilometri dalla sua casa in via delle Magnolie. A due chilometri dalla strada dove poi ritrovarono la sua Bmw color blu notte. Trent'anni fa morì Mauro e aveva tra le mani lo scoop "che - diceva - avrebbe fatto tremare l'Italia" e che invece lo trascinò all'inferno. Scoop. Bisogna essere cronisti per conoscere il sapore aspro che ti dà anche soltanto la parola. Scoop. Mauro De Mauro era uno tosto, se si parla di notizie. Un paio di generazioni di cronisti in Sicilia e in Italia è cresciuta nella sua leggenda. Raccontano che, quando ancora i "pezzi" si dettavano al telefono e i giornalisti si dividevano in chi aveva dettato e chi non lo aveva ancora fatto, Mauro non lasciava chances ai concorrenti. Ora dovete immaginare Mauro De Mauro in quell'estate del 1970. Lo hanno confinato allo sport e il suo ultimo titolo a nove colonne era sul "libero" Alberto Malavasi, ingaggiato dal Palermo per 18 milioni di lire. In redazione c'era chi diceva: "Povero Mauro...". Mauro se la rideva tra sé e tirava diritto. Stava già lavorando da settimane sul suo scoop. Lo scoop era questo: i fascisti di Junio Valerio Borghese avrebbero tentato il colpo di Stato con l'aiuto di Cosa Nostra. La dannazione di notizie come queste è che hai bisogno di riscontri e di conferme e di dettagli. E, per averne, devi scoprirti. Devi fare domande in giro e sei consapevole che più domande fai, più è facile per chi ti ascolta conoscere che cosa hai già saputo e che cosa puoi già scrivere. Mauro sapeva dove cercare ciò di cui aveva bisogno. A quel tempo il Circolo della Stampa di Palermo era, più o meno, una bisca e gli "uomini d' onore" ci andavano a giocare a poker, eleganti come damerini. Mauro li avvicinò. Distrattamente buttò lì qualche domanda. Quelli avvertirono subito i loro capi. "C'è quel De Mauro che fa troppo domande sul 'fatto di Roma'". Mauro fu trascinato in una masseria a Santa Maria del Gesù. La borgata è appena dopo un antico monastero diroccato, trecentocinquanta metri dal fiume, viottoli polverosi, i confini degli orti segnati dai muretti di pietra viva, cortili, piccole piazze deserte, case basse che si confondono tra i mandarini. Lì, nel baglio di una tenuta ai piedi di monte Grifone, Mauro fu torturato e "interrogato". Lui sapeva, ma chi altro sapeva? Poi ci fu chi gli scivolò alle spalle e lo strangolò. Il corpo di Mauro fu seppellito lungo il letto del fiume, in fondo alla gola. La storia della morte di Mauro De Mauro, scomparso la sera del 16 settembre del 1970, è stata raccontata per la prima volta una settimana fa da un mafioso che lo aveva conosciuto, un mafioso che ha svelato i retroscena di quella clamorosa notizia annunciata dal "segugio" de "L'Ora" di Palermo. Mauro De Mauro sapeva del golpe, sapeva che cosa stava progettando in quei mesi il "principe nero" Borghese e, con lui, alcuni boss di Cosa Nostra. Le prime voci le aveva ascoltate negli ambienti militari e in quelli neofascisti, magari gliele aveva "soffiate" un suo compagno d' armi o un vecchio "camerata". Era un mondo, quello, che De Mauro conosceva di diritto e di rovescio. Era stato un repubblichino della Decima Mas, prima di venire a vivere in Sicilia nel 1946 con sua moglie Elda. "Fu ucciso perché aveva scoperto che Borghese e la mafia si erano alleati per il golpe... il giornalista si fece scappare qualcosa con uno dei tanti boss che allora frequentavano il Circolo della Stampa che era dentro il teatro Massimo", ha ricordato giovedì 18 gennaio ai procuratori palermitani Francesco Di Carlo, il padrino di Altofonte che è in qualche modo invischiato anche nella misteriosa morte del banchiere Roberto Calvi e che ora ha deciso di vuotare il sacco. Di Carlo ha fatto i nomi dei mandanti dell'uccisione di Mauro De Mauro. E anche quelli degli assassini. C'era anche Bernardo Provenzano quella sera in via delle Magnolie, il corleonese latitante dal 1963. Era una caldissima sera di settembre, era il sedici, lo scirocco soffiava a 65 l'ora. Mauro sbrigò il suo lavoro in redazione e, come sempre solo, lasciò il palazzo di vetro dell'Ora. Si fermò a un bar di via Pirandello, comprò due etti di caffè macinato, tre pacchetti di "nazionali" senza filtro e la solita bottiglia di bourbon. Sua figlia Franca - che si sarebbe dovuta sposare il mattino seguente - stava aprendo la porta di casa e lo vide vicino alla sua Bmw "parlare con due o tre uomini". Un paio di minuti dopo, via delle Magnolie era deserta. E nessuno - fino a sette giorni fa - ha saputo più nulla di lui. Con chi andò via? Chi lo uccise, e dove? Perché fu ucciso? Mauro De Mauro parlottava sotto casa con quegli uomini e poi la sua Bmw improvvisamente ripartì. Spiega Di Carlo nel suo verbale: "Si è sempre detto che fu rapito. Non fu rapito invece né prelevato con la forza. Non ce ne fu bisogno. De Mauro conosceva bene uno di quei tre uomini, era Emanuele D'Agostino, mafioso di Santa Maria del Gesù. Gli altri due erano Bernardo Provenzano e Stefano Giaconia". Forse Mauro non si insospettì più di tanto, quando i tre gli chiesero di seguirlo. Aveva lavorato duro, alle 7 del mattino in redazione, all'una al lido dell'hotel "La Torre" di Mondello per mangiar qualcosa, nel pomeriggio ancora in redazione. Valeva la pena di lavorare ancora per ore, per tutta la notte se necessario: quell'amico - Emanuele D'Agostino - gli prometteva il pezzo mancante della "sua" storia, del suo scoop. Mauro li fece salire sulla sua auto. Si diressero dal lato opposto della città. Scesero da via Sciuti, poi da via Terrasanta, forse a quel punto svoltarono in piazza Diodoro Siculo e abbandonarono la Bmw di Mauro in via Pietro D'Asaro. Su un'altra macchina puntarono verso i giardini di Santa Maria del Gesù, verso il regno di quello che era allora il più potente mafioso della Sicilia: Stefano Bontate. I ricordi di Francesco Di Carlo sono molto nitidi: "Quando Emanuele D'Agostino seppe al Circolo della Stampa che De Mauro era a conoscenza del golpe, raccontò tutto a Stefano Bontate che era il suo capo. Stefano avvertì gli altri boss della Commissione, tra cui Giuseppe Di Cristina di Riesi e Pippo Calderone di Catania. Tutti volarono subito a Roma insieme a uno che chiamavano "l'avvocato", non esercitava la professione ma era laureato... Andarono a Roma per parlare con il principe Borghese, con un certo Miceli (il generale Vito Miceli, capo del Sid, il Servizio informazioni difesa? ndr) che forse era un militare e forse con un certo Maletti (il generale Gianadelio Maletti, capo dell'ufficio "D" del Sid? ndr)...". Generali e mafiosi si incontrarono, parlarono per ore, cercarono di saperne di più su che cosa aveva scoperto Mauro De Mauro e convennero che era troppo pericoloso per troppi di loro tenere in circolazione "quello lì". A quel punto, era chiaro a tutti i presenti quale sarebbe sato il passo successivo dell'affare. Di Carlo svela ancora chi decise di uccidere il giornalista: "Da Roma partì subito l'ordine di chiudergli la bocca... I miei amici mafiosi, quando ritornarono a Palermo, mi raccontarono che quella gente era molto preoccupata, mi dissero che avevano paura, che se fosse uscita anche la più piccola delle notizie sull'operazione che stavano preparando, loro sarebbero stati tutti arrestati...". Così morì Mauro De Mauro. Cominciò a morire al Circolo della Stampa nei saloni bui del teatro Massimo. Dove c'era sempre Tommaso Buscetta. Dove andava Masino Spadaro, che allora era il più grosso contrabbandiere di "bionde" del Mediterraneo. Dove c'era sempre Emanuele D'Agostino che era l'autista di Stefano Bontate. Era esuberante Mauro De Mauro. Curioso della vita, ciondolava in quei saloni, tra quella gente e chiacchierava volentieri, chiedeva sempre qualcosa ("Ci sono novità?") e rideva e scherzava e sapeva dar fiducia e farsi rispettare come "uomo con una sola faccia" e anche voler bene come un amico sincero. Poi tornava in redazione, infilava la testa nello stanzone della cronaca e ripeteva l'altro suo grido di guerra ai più giovani che pestavano apprensivi i tasti della macchina per scrivere: "Minchiate...sono tutte minchiate...". Mauro era scuro, alto, claudicante e con il naso ricucito per le ferite di un incidente stradale nei pressi di Verona o, come sosteneva qualcuno, per le legnate prese da un gruppo di partigiani. Un suo fratello aviatore era morto in guerra e un altro, Tullio, (l'attuale ministro della Pubblica istruzione) era già allora un autorevole linguista. Sua moglie Elda era stata anche lei braccata dai partigiani del Pavese, alla seconda figlia avevano dato il nome di Junia come quello di Borghese che era stato il suo comandante alla Decima Mas. Aveva 49 anni Mauro De Mauro, la sera che incontrò D'Agostino, Provenzano e Giaconia sotto casa. Aveva lo scoop della vita tra le mani, ma non intuì che era stato già tradito. "Gli interessi in gioco erano troppo grossi e dentro Cosa Nostra non tutti erano d'accordo con quel golpe", ha precisato meglio il mafioso Di Carlo venerdì 19 gennaio, nel suo secondo giorno di interrogatorio sul mistero della scomparsa del giornalista con il procuratore Pietro Grasso, l'aggiunto Guido Lo Forte e il sostituto Vittorio Teresi. La notizia che il principe Borghese stava progettando un colpo di Stato e che aveva chiesto un appoggio alla mafia, Mauro De Mauro la venne a sapere da un suo vecchio amico di estrema destra, uno che conosceva tutti i dettagli dell'operazione "Tora Tora", nome in codice del piano insurrezionale che sarebbe dovuto scattare la notte tra il 7 e l'8 dicembre del 1970. Mauro De Mauro aveva scoperto tutto tre mesi prima. Seppe che il principe Borghese aveva "arruolato" anche Cosa Nostra. In cambio di un aiuto aveva promesso di cancellare ergastoli e processi per gli uomini d'onore in gabbia. Lo torturano, ma non fece il nome di chi per primo gli "soffiò" la notizia. Ricorda Francesco Di Carlo: "Ci avevano assicurato che nessuno di noi sarebbe più andato al soggiorno obbligato né avrebbe più subito provvedimenti tipo la sorveglianza speciale, il nuovo governo avrebbe dato un colpo di spugna al passato... ma non tutta Cosa Nostra vedeva di buon occhio il piano dei fascisti". Una parte era d'accordo, altri non volevano sentire ragione di quelle promesse di Junio Valerio Borghese. Il principe pretendeva che alla vigilia del golpe la mafia consegnasse ai generali una "lista" di tutti i mafiosi dell'isola, poi per farsi riconoscere durante il colpo di Stato gli stessi mafiosi avrebbero dovuto portare una fascia al braccio. Ci fu un summit a Milano per decidere cosa fare. C'era tutta la Cupola. E c'era anche Francesco Di Carlo quel giorno con gli altri boss. Il golpe non ci fu più, ma anche Mauro De Mauro non c'era più. Era stato inghiottito nel nulla. Là dove le acque dell'Oreto seguono le colline e poi, lentamente e sempre più torbide, finiscono nel mare di Palermo”.

26 gennaio – La Procura di Palermo ha chiesto all' ufficio del gip la riapertura dell' inchiesta sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. L' iniziativa e' collegata ad alcuni fatti nuovi, tra cui l' acquisizione delle dichiarazioni del pentito Francesco Di Carlo riportate dal quotidiano "La Repubblica". Il procuratore Pietro Grasso non ha voluto commentare la pubblicazione del verbale di Di Carlo: "Coerentemente con il mio ruolo non posso violare il segreto istruttorio, contrariamente a quanto fanno i giornalisti". Quasi contestualmente la magistratura di Pavia, che indaga sull' incidente aereo di Bescape' nel quale mori' nel 1962 il presidente dell' Eni Enrico Mattei, ha inviato alla procura palermitana atti della propria inchiesta: verbali, testimonianze e rapporti. L' indagine di Pavia ipotizza un collegamento tra la caduta dell' aereo, che sarebbe stato sabotato, e la scomparsa di De Mauro: il giornalista dell' Ora se ne era occupato per la sceneggiatura di un film di Francesco Rosi. Le dichiarazioni di Francesco Di Carlo, boss di Altofonte, riaprono invece un' altra pista investigativa che conduce al golpe tentato nel 1970 dal principe Junio Valerio Borghese. Del caso Borghese avevano parlato in precedenza sia il boss Luciano Liggio in un udienza del maxiprocesso a Cosa nostra sia Tommaso Buscetta. Con diverse sfaccettature il loro racconto concordava sul fatto che i golpisti avevano chiesto l' appoggio militare della mafia. L' accordo pero' sfumo' per quella che la mafia giudico' una richiesta "molto strana": gli uomini d' onore dovevano portare una fascia verde come segno di riconoscimento. La pista Borghese, che a quanto pare sfiora anche due professionisti palermitani (uno e' morto qualche anno fa), e' stata a lungo scandagliata ma senza costrutto dalla magistratura assieme ad altre ipotesi investigative. Tanto che i giudici avevano archiviato l'inchiesta, dopo avere acquisito anche la sentenza di Roma sul tentativo di colpo di Stato. Ora le dichiarazioni del pentito Di Carlo e l' arrivo di nuovi documenti da Pavia inducono la Procura a ritornare su uno dei piu' impenetrabili misteri italiani degli anni '70.

26 gennaio - Rita Borsellino, sorella di Paolo, nella scuola media Leonardo da Vinci, dove ha partecipato ad una conferenza col presidente della Camera Violante, dice:"Sono rimasta ad abitare in via D' Amelio per custodire la memoria. Presi questo impegno preciso sulla bara di mio fratello". In quella strada abitavano la madre e la sorella del magistrato. Il procuratore aggiunto era andato li' proprio per incontrare i familiari quando esplose l' autobomba. "Mio figlio mi prese per le spalle - ha ricordato - e mi disse: dobbiamo rimanere per conservare la memoria di quanto e' accaduto. Poi sono stata tutta una notte nella sacrestia dov' era sistemata la bara di Paolo. Parlai con lui accarezzando la bara e mi ritrovai a sorridere". "Era la speranza - ha concluso - che qualcosa aveva inizio. Da li' avviai quel percorso che mi porta ad incontrare tante persone per quella che definisco educazione alla memoria".

26 gennaio - Per problemi tecnici nel collegamento in videoconferenza via satellite con gli Stati Uniti e' stato rinviato al prossimo 30 gennaio il processo per l' assassinio di Peppino Impastato. Un guasto, dunque, ha fatto slittare il  dibattimento a carico di Tano Badalamenti, boss di Cinisi accusato di essere mandante dell' omicidio. Badalamenti, che sta scontando in un carcere federale degli Usa una condanna per traffico di stupefacenti, e per cui gli Stati Uniti non hanno mai concesso l' estradizione in Italia, ha chiesto ed ottenuto di assistere al processo a suo carico attraverso la videoconferenza.

27 gennaio - I Gico della Guardia di Finanza arrestano Maria Rosa Palazzolo, sorella del latitante Vito Roberto Palazzolo, il marito Vito Motisi, l' imprenditore Salvatore D'Anna, ritenuto vicino al boss Gaetano Badalamenti, il consigliere comunale di Cinisi Giuseppe Pizzo, gli imprenditori edili Antonio Giannusa e Giuseppe Leone. L'inchiesta, partita nel giugno 1998 dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, avrebbe consentito di accertare contatti tra la sorella del superlatitante in Sudafrica Palazzolo e il capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. Da un'intercettazione ambientale, infatti, emerge che Bernardo Provenzano avrebbe comunicato con la signora Palazzolo con un bigliettino, mediatore Salvatore D'Anna. Gli investigatori sottolineano, inoltre, che nell'edificio dove abita Antonio Giannusa, risiedeva anche Caterina Palazzolo sorella di Saveria Palazzolo, compagna di Provenzano. Il pentito ha parlato di riciclaggio del denaro da parte di Cosa Nostra facendo riferimento al legame di fiducia che per molti anni aveva avuto con Toto' Riina, di cui era divenuto prestanome. L'indagine si e' avvalsa della collaborazione del Sisde. I fatti presi in esame dagli investigatori hanno aperto uno scenario definito 'interessante' in ordine agli attuali assetti ed alle alleanze interne alle famiglie mafiose di Cinisi, Terrasini e Partinico. E' emerso, tra l'altro, il ruolo di sempre maggior rilievo assunto dal latitante Salvatore Lo Piccolo. Nell'inchiesta emerge anche il ruolo della famiglia mafiosa di Terrasini, guidata secondo l' accusa, da Salvatore D' Anna, arrestato questa mattina. Per gli inquirenti il coinvolgimento di D' Anna, legato al boss Gaetano Badalamenti, detenuto negli Stati Uniti, farebbe ipotizzare una ricucitura di vecchi dissidi tra i corleonesi di Provenzano ed i gruppi vicini al vecchio patriarca di Cinisi. Agli atti dell' inchiesta i magistrati hanno depositato intercettazioni ambientali e telefoniche fra alcuni degli indagati ed esponenti politici del Polo delle liberta'. Gli investigatori del Gico della Guardia di Finanza, in particolare, hanno registrato incontri fra alcuni degli arrestati e personaggi politici che sono state inserite nelle informative consegnate alla direzione distrettuale antimafia. L' inchiesta e' stata denominata "Libia" per via della destinazione di alcuni investimenti. I provvedimenti cautelari sono stati firmati dal gip Florestano Cristodaro su richiesta dei sostituti Franca Maria Imbergamo, Salvo De Luca e Fernando Asaro. E' fuggito all' arresto il principale indagato, l' uomo indicato dagli inquirenti come il probabile prestanome di Provenzano. Si tratta di Giuseppe Palazzolo, un bancario in pensione che da alcuni anni si sarebbe trasferito a Caltanissetta dove ha acquistato alcuni feudi. Sono stati gli agenti del Sisde, che indagavano su di lui, a segnalarlo al Gico di Caltanissetta. Le indagini, in seguito, hanno avuto il contributo delle dichiarazioni del pentito Giuseppe Ferrante, si sono spostate nel palermitano, fra Cinisi e Terrasini.

27 gennaio - Sulla vicenda Provenzano, "Il Messaggero" pubblica un articolo di Rita Di Giovacchino:
"In una Palermo, chiusa a riccio nella diffidenza, che reagisce con fastidio agli input di chi chiede la cattura di Provenzano in tempi stretti, la caccia ai Boss si stempera tra veleni e polemiche. Il Capo dei capi "Binnu" è certo il primo della lista. Duecento, trecento uomini lo stanno braccando, lo cercano nelle masserie abbandonate delle campagne circostanti, nei bagli disseminati dei feudi ancora controllati dalla mafia, da Cinisi a Belmonte, da Castellamare a Partinico. Ma anche, dov'è più probabile che stia, nei condomini anonimi ed eleganti del centro storico dove certamente vive protetto da un pugno di fedelissimi anche loro senza volto. Un gruppetto di incensurati, ignoti alla polizia e perfino a Cosa Nostra. Un servizio "segreto" personale attraverso cui comunica con il mondo esterno all'antica, bigliettini vergati a mano, messaggi che soltanto quando vengono ricomposti, come un puzzle, acquistano un significato. Se incontra la moglie e i figli, che dal '92, quando hanno fatto ritorno a Corleone, sono guardati a vista, nessuno lo sa e nessuno immagina come possa accadere. Non un errore, pochi i contatti con il mondo esterno, pochi i boss che lo hanno visto in faccia negli ultimi dieci anni. Non usa il telefonino. L'unico pentito che lo ha incontrato una sola volta a Belmonte Mezzagno nel '96 è Giovanni Brusca. È questa l'arma segreta della lunga latitanza di Bernardo Provenzano, potente tra i potenti. È dura per gli inquirenti penetrare lo scudo di quella trentina di boss che nella Sicilia occidentale son tornati a farla da padrone ai suoi ordini, controllando racket e appalti. "Non c'è neppure un mattone che viene posato e che non frutti a Cosa Nostra almeno mille lire, come vent'anni fa", dice un investigatore. Ma ora c'è un nuovo pentito che avrebbe contribuito a ricostruire la rosa di quelli che comandano almeno a Palermo. Provenzano, non solo lui. Nella hit-parade dei ricercati, spiccano sei fedelissimi. Il suo braccio destro è Salvatore Lo Piccolo, capomandamento di San Lorenzo-Resuttana, la zona a maggior densità mafiosa di Palermo, un tempo dominata dai Madonia, che Totò Riina "aveva nel cuore". Ora c'è lui, fedelissimo di Provenzano. Prenderlo sarebbe un duro colpo alla latitanza del boss, tempo fa ci provò la squadra catturandi dei carabinieri che fecero irruzione nella casa dell'amante. C'era soltanto l'anziana madre della donna, 74 anni, ma abbastanza lucida da nascondere nella vagina una lettera in cui Lo Piccolo dava precise disposizioni per indurre alcuni commercianti "insolventi" a pagare il pizzo. Al secondo posto c'è Matteo Messina Denaro, suo luogotenente nella provincia di Trapani. E poi Benedetto Spera, che cura i suoi interessi nella roccaforte di Belmonte Mezzagno (dove però si registrano oscuri delitti trasversali che minacciano la pax mafiosa). E ancora Giovanni Bonomo a Partinico, e Carmelo Virga a Castellamare. Quest'ultimo, detto Manuzza per via di una paralisi al braccio, pochi mesi fa è scampato ad un agguato che ancora disturba i sonni di Provenzano. Il Boss è sempre più solo, diffidente e guardingo. A preoccuparlo non sono soltanto i duecento uomini dello Stato quanto i fermenti interni a Cosa Nostra. "Catturarlo? Forse è più facile che ci venga consegnato. Quella con i corleonesi di Riina è una diarchia fatta di omicidi e di spartizioni che a lungo non regge", dice un magistrato. "C'è sempre stato il sospetto che dietro la cattura di Riina possa esserci stato il tradimento di Provenzano. Una sorta di patto con lo Stato che avrebbe accolto una proposta di questo tipo: io ve lo tolgo di mezzo questo pazzo sanguinario e stiamo bene tutti, noi ci facciamo i nostri affari e voi state tranquilli, niente più stragi", dice un giovane avvocato, Giangiacomo Palazzolo di Cinisi, paese natale di Tanu Badalamenti, parte civile nel processo di Peppino Impastato e che sostituisce l'avvocato Taormina nella tutela della famiglia Lombardo. Trent'anni appena che gli fanno dire cose che in tanti sussurrano: "Non è un mistero che il maresciallo Lombardo ha avuto un ruolo decisivo nella cattura di Riina grazie ai suoi confidenti che facevano parte dello schieramento avverso alla linea stragista. E Provenzano si sa che era contrario a far guerra allo Stato. Due giorni prima di morire, uno di questi, Brugnano, gli fu fatto trovare incaprettato davanti casa, un episodio che lo scosse. Ma Brugnano stava collaborando alla cattura di Brusca, per Riina la fonte era più alta". Quanto alta? Palazzolo scuote la testa: "Nessuno lo sa, certo è che Lombardo aveva un rapporto confidenziale di altissimo livello con Badalamenti com'è emerso dal processo Andreotti. Un biglietto da visita di cui uno come Provenzano può aver tenuto conto"".

30 gennaio - Gli agenti della squadra mobile di Palermo arrestano il boss latitante Benedetto Spera, considerato il braccio destro del capomafia Bernardo Provenzano. I poliziotti della "sezione catturandi" sono entrati in azione nelle campagne di Mezzojuso, nel palermitano, poco dopo le 10 del mattino. Spera e' il capomafia di Belmonte Mezzagno ed e' ricercato da quasi nove anni. E' stato condananto per le stragi di via D' Amelio, per quella di Capaci ed a suo carico ha pendenti diversi processi per omicidio. Nel corso dell' operazione e' stato arrestato anche Vincenzo Di Noto, 68 anni, primario in pensione di medicina interna nell' Ospedale Ingrassia di Palermo.(che doveva curare Spera il quale avrebbe disturbi alla prostata). Proprio seguendo i suoi movimenti gli investigatori sono riusciti a localizzare il casolare nelle campagne di Mezzojuso, a 40 chilometri da Palermo, dopo vari mesi di intercettazioni con microspie. Gli agenti della squadra mobile hanno seguito il medico e lo hanno controllato giorno e notte perche' sapevano che i due erano in contatto. Il procuratore della repubblica di Palermo Pietro Grasso osserva che "e' stata tolta dallo scacchiere mafioso una pedina fondamentale” e che "Spera e' ritenuto uno dei componenti del direttorio mafioso guidato da Provenzano. Si e' occupato della gestione degli appalti pubblici e dalle indagini ci risulta essere uomo di fiducia del capo dei Cosa Nostra". Vincenzo Di Noto era gia' stato indagato dalla Procura di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Era accusato di avere curato un altro latitante, Bernardo Brusca. Un fratello del primario, Francesco Di Noto, sospettato dagli investigatori di essere affiliato alla cosca di Palermo centro, era stato assassinato in un agguato nella guerra di mafia all' inizio degli anni '80. Spera e’ considerato uno dei principali collaboratori di Provenzano. L’ amicizia tra Spera e Provenzano si sarebbe cementata negli anni delle scorrerie per le campagne: anche la lunga fedina penale di Spera, infatti, non fa eccezione, e si apre con un reato simbolo della mafia di quegli anni: pascolo abusivo, contestato alla fine degli anni '50. Determinazione, ferocia e fedelta' alla famiglia corleonese sono i tratti distintivi del suo curriculum criminale, che da semplice soldato lo ha condotto al vertice di uno dei mandamenti piu' importanti, quello di Belmonte Mezzagno. E se i giudici lo hanno condannato all'ergastolo per la stagione delle stragi del '92 come componente della cupola mafiosa, dalle stragi del '93 Spera si e' tenuto prudentemente alla larga: alleato di Riina in quella zona era Piero Lo Bianco, capo della famiglia di Misilmeri, che  Riina, proprio per sottrarlo alla 'giurisdizione' di Spera, aveva 'affidato' al controllo dei fratelli Graviano. Ma quando nel '94 i due fratelli di Brancaccio vengono arrestati, la stella di Lo Bianco smette di brillare e verra' definitivamente spenta, con il metodo della lupara bianca, nell'agosto del '95 proprio su ordine di Spera, adesso imputato di quell'omicidio. Fu il delitto che segno' l'inizio dell'era Provenzano, non piu' di attacco frontale allo Stato, ma di pacifica e fruttosa (per Cosa Nostra) convivenza, la prima di una serie di 'operazioni chirurgiche' per riportare le 'famiglie' allo sbando per gli arresti in massa sotto la guida di Bernardo Provenzano.

30 gennaio - Al processo per la morte di Peppino Impastato, Tano Badalamenti parla in videoconferenza e dice:"Mai trafficato in droga, lo ha detto anche Buscetta". Dopo le dichiarazioni di Badalamenti, depongono alcuni impiegati delle ferrovie dello stato in servizio a Cinisi la notte in cui Impastato fu ucciso. I resti del giovane vennero trovati lungo la linea ferrata. Tutti hanno riferito che la sera dell'uccisione si verificarono guasti ai binari e problemi alla circolazione ferroviaria. Il processo riprendera' il 15 febbraio.

30 gennaio - Il procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna, a margine di un seminario contro la tratta di donne organizzato dal dipartimento per le Pari opportunita', commentando l'arresto di Benedetto Spera, dice:"Provenzano perde un punto di riferimento forte. Anzi, gli consiglierei di consegnarsi". "Visto come si stanno mettendo le cose - ha affermato Vigna riferendosi a Provenzano - ho l'impressione che ci sia in Cosa Nostra chi avrebbe meno attenzioni garantiste di quelle che avrebbero gli organi dello Stato nei suoi confronti". Secondo il procuratore nazionale antimafia, l'arresto di Spera e' da iscrivere "fra le maggiori catture degli ultimi anni, come quelle di Riina, Bagarella e Brusca". "E' importante - ha sottolineato - perche' Spera era latitante da circa nove anni, in quanto condannato per le stragi di Capaci e via D'Amelio; perche' era un uomo di spicco di un forte mandamento di Cosa Nostra e, da ultimo ma non ultimo, perche' e' un uomo molto legato a Provenzano. Si spera – ha proseguito Vigna - che si aprano delle crepe nella barriera protettiva di Provenzano, anche perche' negli ultimi tempi ci sono stati vari attentati a persone che svolgevano attivita' imprenditoriali e che erano molto legate a Spera e Provenzano". Quindi, ha concluso Vigna, "sembra che questo muro di infrangibilita' possa creparsi".

30 gennaio - Marisa La Torre, vedova del sostituto procuratore Giangiacomo Ciaccio Montalto, assassinato nel 1983 a Valderice, che nei giorni scorsi e' stata designata da An vicesindaco di Trapani, in una conferenza stampa con il coordinatore regionale di Alleanza nazionale Guido Lo Porto e con il presidente dell'Ars Nicola Cristaldi, dice: "Negli omicidi di molti magistrati siciliani la mafia e' stata solo il braccio armato di un intreccio tra politica, massoneria e interessi economico-finanziari". "Il monopolio dell' antimafia - ha aggiunto - e' servito spesso a creare coperture. Da quando sono stata nominata avverto intorno a me un clima di intimidazione perche' molti hanno paura di me".

31 gennaio - L' avvocato Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani, la piu' antica istituzione Massonica operante in Italia, ribatte:"Abbiamo sempre condannato la mafia" alle affermazioni di Marisa La Torre, vedova del sostituto procuratore Giangiacomo Ciaccio Montalto. "Comprendiamo e rispettiamo il suo dolore -aggiunge Raffi - ma non possiamo consentire neppure a lei, in campagna preelettorale, di lanciare accuse infondate e generalizzate contro la Massoneria, riciclando falsi teoremi su presunti intrecci tra Massoneria, politica, affari e Mafia. I Liberi Muratori, quando non sono vittime in prima persona, sono solidali con le vittime, ma giammai con gli autori dei crimini, ragione per cui la condanna e il rifiuto dei fenomeno mafioso sono fermi, inequivocabili e senza appello". "Invitiamo, pertanto, il vice-sindaco a chiarire - aggiunge - assumendosi ogni responsabilita' civile e penale, se il riferimento attiene al Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani e, in caso affermativo, a specificare nomi, cognomi, ruoli e circostanze".

31 gennaio - La zona di contrada Giannino, a Mezzojuso, in cui e' stato arrestato Benedetto Spera, era al centro da tempo delle indagini finalizzate alla cattura del boss Bernardo Provenzano e dei suoi fedelissimi. Sono stati i pentiti Angelo Siino e Giovanni Brusca, in due verbali redatti tre anni fa e immediatamente secretati, ad indicare agli investigatori la zona di Mezzojuso come il crocevia piu' importante di grossi latitanti mafiosi. La Barbera era infatti sotto controllo assiduo da tempo: gli investigatori di Caltanissetta si erano imbattuti in lui gia' sei anni fa, seguendo le indicazioni di Luigi Ilardo, il mafioso che condusse i carabinieri del Ros ad un passo da Provenzano e poi pago' con la vita la sua scelta di informatore. E che Ilardo non era un millantatore il Ros l' aveva capito il 31 ottobre del 1995: quel giorno guido' i carabinieri fino allo svincolo di Mezzojuso, sulla Palermo-Agrigento, proprio dove e' stato arrestato ieri Spera. Da li' sarebbe stato condotto da altri mafiosi in un casolare dove Provenzano aveva riunito i suoi fedelissimi per annunciare che la tregua tra le cosche sarebbe dovuta durare almeno 5-7 anni: poi Cosa Nostra, promise, sarebbe tornata come prima, ricca ed invincibile. Era il primo incontro ravvicinato tra Provenzano ed il Ros grazie ad Ilardo, ma non ci sarebbe stato il secondo: Ilardo venne ucciso il pomeriggio del 10 maggio 1996 dopo avere incontrato un' ora prima il colonnello della Dia Michele Riccio, al quale aveva promesso che la cattura di Provenzano era imminente.

2 febbraio - L' avv. Domenico La Blasca, difensore di Toto' Riina, chiede la riapertura delle indagini sull' omicidio del giornalista siciliano Mario Francese, ucciso dalla mafia nel 1978. "Di Carlo - sostiene La Blasca - riferisce di avere avuto notizia sul delitto Francese nel 1979. Questo contrasta con quanto detto da Brusca e La Barbera, secondo i quali Di Carlo, a quell' epoca, era stato gia' estromesso da Cosa nostra". "Chi avrebbe riferito notizie su un omicidio - si chiede il legale - a un uomo che non faceva piu' parte dell' ambiente mafioso?". Sulla richiesta di La Blasca, la corte d'assise titolare del processo Francese decidera' alla prossima udienza del 6 febbraio.

3 febbraio - La Carovana antimafia, organizzata da Libera, l'associazione fondata da don Luigi Ciotti e dalle Acli lombarde, conclude il suo giro per la Lombardia davanti agli studenti del liceo Galilei di Ostiglia (Mantova). Con Rita Borsellino, c'erano don Luigi Ciotti e l'allenatore della nazionale di Pallavolo Andrea Anastasi. "La mafia e' tra noi - ha detto Rita Borsellino - al Nord come al Sud. Per sconfiggerla bisogna rinunciare al silenzio e unire tutte le forze in un impegno comune teso al cambiamento".

3 febbraio - Su Raiuno va in onda uno speciale Tv7 sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, con interviste a Graziano Verzotto, segretario della Dc siciliana e presidente dell' Ems negli anni '70, a Bruno Contrada, il funzionario di polizia ai vertici investigativi siciliani per oltre venti anni, a Vittorio Nistico', che e' stato direttore del quotidiano palermitano L' Ora. Il giornalista Giuseppe Crapanzano ricostruisce la vicenda di De Mauro basandosi sulle testimonianze di chi lo ha conosciuto, di articoli di giornale e del diario di un giornalista palermitano, Gianni Lo Monaco, amico dei De Mauro, che per conto de L' Ora segui' la vicenda subito dopo la scomparsa di quello che era uno dei piu' noti cronisti siciliani. Nello speciale vengono ipotizzati collegamenti tra la scomparsa di De Mauro e l' omicidio del procuratore Pietro Scaglione e viene messa a fuoco la figura del commercialista Nino Buttafuoco, unico indagato per la scomparsa di Mauro De Mauro. Per Bruno Contrada, Mauro De Mauro forse aveva scoperto tanti anni prima, rispetto a investigatori e magistrati, il ruolo dei cugini Nino e Ignazio Salvo che avevano la gestione delle societa' per la riscossione dei tributi. "Dopo l'uccisione del procuratore Pietro Scaglione - dice Contrada - nel maggio '71, scoprimmo che De Mauro nell'estate del '70 era andato a trovare il magistrato e i due avevano parlato per venti minuti. Scaglione a noi investigatori non parlo' mai di quel colloquio. Lo apprendemmo dopo la sua morte dal vicebrigadiere D'Agostino che era il suo uomo di fiducia". La Mobile scopri' anche che De Mauro era andato nella cancelleria commerciale del tribunale per esaminare fascicoli delle societa' che si occupavano dei tributi. Non e' escluso, secondo Contrada, che De Mauro scopri' una maxievasione fiscale dei cugini Salvo che solo nell'84 vennero incriminati per mafia da Giovanni Falcone. "Il giudice istruttore Rocco Chinnici - aggiunge Contrada - ci disse che una volta De Mauro s'incontro' con lui nel caffe' Nobel e gli disse di aver scoperto 'intrallazzi negli uffici tributari'. Chinnici consiglio' a De Mauro di parlare di quelle cose con Scaglione". "Ricordo - continua - che quando arrestammo Nino Buttafuco, che aveva uno degli studi tributaristi piu' importanti di Palermo, Scaglione organizzo' una conferenza stampa in cui disse che quella pista era quella giusta. E' stata la prima e unica volta che il procuratore ha fatto dichiarazioni pubbliche alla stampa. Non aveva mai parlato". La polizia esamino' tutta la vita di De Mauro "dalla nascita fino al giorno del rapimento". "Sapevamo quasi tutto - dice - Ricordo che seguimmo tutte le piste possibili, tutti i moventi. Le indagini piu' serie erano tre: golpe Borghese, caso Mattei, la mafia. Mi occupai della pista Mattei: il regista Rosi che aveva incaricato De Mauro di fare un'indagine sulla morte del presidente dell'Eni minimizzo' dicendo che il giornalista doveva solo fargli un informativa sull'ultimo giorno di Mattei. Non ho mai creduto alla pista del golpe Borghese e non credo neanche alle ultime rivelazioni del pentito Di Carlo". "Nei mesi successivi al rapimento - conclude - arrivarono in questura centinaia di anonimi. Riempii tre faldoni con quei fogli e con quelli delle indagini che facemmo su ogni segnalazione".

6 febbraio - "La Repubblica" scrive che il boss mafioso Stefano Biondino, uomo di fiducia di Toto' Riina, avrebbe incontrato a gennaio il procuratore nazionale antimafia Piero Luigi Vigna, al quale, su incarico dei capimafia, avrebbe offerto la loro dissociazione in cambio di sconti di pena e migliori condizioni di detenzione. Sempre secondo il quotidiano, Vigna avrebbe informato le procure di Palermo e Caltanissetta. "Repubblica" riferisce anche di una riunione tra i boss, di quel "direttorio" che avrebbe sostituito la "cupola", nel corso della quale si sarebbe deeciso di affidare a Biondino l' incarico di condurre le trattative: non una proposta di collaborazione, ma solo di 'dissociazione', ammettendo quindi le proprie colpe, ma senza accusare altri. Tra i boss che sarebbero pronti alla dissociazione, sempre secondo il quotidiano romano, oltre a Biondino, ci sarebbero Pietro Aglieri, Carlo Greco, Salvatore Buscemi, uno dei fratelli Graviano di Brancaccio e Giuseppe "Piddu" Madonia. l' avvocato Rosalba Di Gregorio, difensore di Pietro Aglieri commenta che "Il mio cliente non sta trattando con nessuno". Il legale del boss parla di una "pseudo trattativa" e aggiunge: "Non mi risulta che Vigna si sia incontrato con Aglieri". L' avvocato De Gregorio sostiene inoltre che il suo assistito "sul piano personale non ha alcun interesse a trattare. Dalla carte giudiziarie che sono in nostro possesso relative ai processi per le stragi si trova la strada per l' assoluzione di Aglieri". Il procuratore nazionale antimafia, Pierluigi Vigna, intervistato dal Gr Rai sulla presunta trattativa di resa con lo stato da parte della mafia, come anticipato da Repubblica, commenta: "Mi fa schifo la parola trattare". "Non faccio nomi e non faccio nulla. Io faccio - spiega Vigna - decine di colloqui investigativi con detenuti che lo chiedono. Dopo di che scrivo verbali, faccio firmare e torno a casa. Tutto qui". Anche il procuratore di Palermo Pietro Grasso commenta:"Posso escludere che sia in atto qualsiasi trattativa". "Escludo - ha aggiunto - che attivita' di istituto di altri uffici, come ad esempio i colloqui investigativi, possano costituire parte di qualsiasi prospettiva di accordo con capi di Cosa Nostra detenuti". Per il presidente della commissione antimafia, Giuseppe Lumia, i mafiosi "hanno una sola via di fronte, quella della collaborazione". "Non ci puo' essere nessuno spazio per delle trattative con i mafiosi,- ha aggiunto Lumia - e' giusto che i magistrati abbiano colloqui investigativi con i detenuti, ma e' chiaro che lo Stato non puo' trattare. I mafiosi hanno una sola via di fronte, quella della collaborazione, prevista dall legge. I mafiosi debbono capire che hanno di fronte uomini delle istituzioni che impedirebbero ogni tentativo di contatto per ammorbidire la loro posizione, lasciandoli in condizione di continuare ad essere capi". "Il commento di Vigna, 'la parola trattativa mi fa schifo', - ha continuato il presidente dell' Antimafia - e' da apprezzare anche nella sua crudezza. I mafiosi debbono dire tutto e non porre nessuna condizione. I capimafia debbono scontare l' ergastolo, se condannati a quella pena, essere sottoposti al 41bis, e per noi della Commissione antimafia debbono essere aggrediti nel patrimonio e confiscati i loro beni".

6 febbraio - L' avv. Salvatore Traina, difensore di Bernardo Provenzano, intervistato da Tmc sulla possibilita' che il suo assistito possa consegnarsi, risponde: "Se mi accusassero di aver rubato la Torre di Pisa, scapperei piu' lontano possibile e poi mi difenderei". "A mio modo di vedere - ha aggiunto l' avv. Traina - Provenzano non e' certamente quel personaggio che si dice egli sia, cioe' il capo di Cosa Nostra, un'organizzazione terribile e criminale. Se Bernardo Provenzano avesse potuto difendersi nei suoi processi, avrebbe continuato ad essere assolto come fu assolto nel primo maxiprocesso. Evidentemente a qualcuno puo' far comodo riversare il tutto su Provenzano, su questa figura evanescente, inafferrabile e inesistente sotto il profilo che si vuole egli abbia".

6 febbraio - Processo per l' uccisione del giornalista Mario Francese: Antonio Subranni, che negli anni '70 comandava il Nucleo operativo dei carabinieri di Palermo, dice che "Francese era un giornalista autentico, uno che faceva il suo lavoro con coraggio: per questo lo hanno ucciso". "Francese - ha aggiunto Subranni - conduceva un' inchiesta serrata sugli interessi mafiosi nella costruzione della diga Garcia e aveva subito intuito che si trattava di un affare che stava molto a cuore ai corleonesi di Toto' Riina". Subranni ha sottolineato come il cronista del Giornale di Sicilia avesse capacita' tali da giungere spesso a conclusioni, in vicende di mafia, del tutto analoghe e coeve a quelle degli uffici investigativi. "Spesso - ha ricordato Subranni - lo invitai a ritardare la pubblicazione dei suoi articoli, temendo che potesse intralciare la definizione di inchieste in corso". La Corte d' assise rigetta la richiesta presentata dall' avvocato Domenico La Blasca, difensore di Toto' Riina, che aveva chiesto la riapertura delle indagini sul caso per alcune contraddizioni emerse nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo, Giovanni Brusca e Gioacchino La Barbera. Il processo, che continuera' nelle forme del rito abbreviato, e' rinviato al 14 febbraio per le arringhe difensive.

11 febbraio - "Il Giorno", "La Nazione" e "Il Resto del Carlino" pubblicano un' intervista al comandante dei Ros Sabato Palazzo:
""In questo momento le nuove brigate rosse costituiscono il pericolo più serio". Annusa l'aria il comandante del Ros Sabato Palazzo. Affila lo sguardo e incrocia le mani. Poi, come un ufficiale sul campo di battaglia, illustra la strategia. "Stiamo scavando a fondo nel mondo dell'estremismo di sinistra". Il generale, che dal primo febbraio del '98 guida il raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, è stato ascoltato nei giorni scorsi dalla Commissione stragi. Argomento: lo stato dell'eversione in Italia. E lo si legge quasi nei suoi occhi che lui vorrebbe dare la buona novella. Dire che i suoi uomini contano di arrivare presto, molto presto alla cattura dei killer di D'Antona. Ma prudentemente si trattiene. Generale, stiamo tornando alla stagione degli anni di piombo?  "Non ci sono più le condizioni per fare proseliti. Il clima è cambiato. Ma i gruppi dell'estrema sinistra sono un pericolo concreto. Mi riferisco alle Br, ai Carc, i comitati di appoggio resistenza al comunismo, al Partito comunista combattente, nonché ai Nuclei territoriali antimperialisti e agli anarchici insurrezionalisti. Al momento l'estrema destra ci preoccupa di meno. Forse è presto per dirlo, ma l'episodio della bomba al Manifesto potrebbe anche essere un fatto soggettivo, che non si inquadra in una strategia. Mentre c'è un filo preciso che unisce le azioni delle nuove Br fin dall'omicidio Ruffilli. Però non ci sono solo estrema destra ed estrema sinistra. Dobbiamo considerare anche un altro fronte".
Quale?
"Quello del terrorismo internazionale. Nei mesi scorsi abbiamo sgominato alcune cellule di integralisti ramificate sul territorio e legate al Gia. Si erano specializzate nella produzione di documenti falsi e nella raccolta di danaro per finanziare la guerra in Algeria. Questi 'soldati' restano un pericolo, perché un domani potrebbero essere utilizzati da gente come Bin Laden per colpire obiettivi occidentali o istituzionali in Italia".
Ora, però, le vostre forze sono concentrate soprattutto in Sicilia. Si arriverà presto alla cattura di Provenzano?
"Stiamo facendo un grosso investimento di uomini e mezzi. Ma non me la sento di dire che la cattura è vicina".
Perché Binnu u trattori, come lo chiamano in Sicilia, è imprendibile?
"La mafia ora è organizzata in compartimenti che non comunicano tra loro. Lo stesso Provenzano non usa certo il telefono o il computer per parlare con i suoi. Bisogna fargli terra bruciata attorno".
Provenzano è davvero il boss dei boss?
"E' il numero uno, anche se riteniamo che si avvalga di un direttorio ristretto, costituito da Denaro, Lo Piccolo e Spera, fino a quando non è stato arrestato. Tanto per parlare dei più noti".
Violante ha detto recentemente: lo cercano male, dovrebbero cercarlo a casa sua...
"E io do ragione al presidente della Camera. Nel senso che anche noi crediamo che Provenzano sia in Sicilia. Forse è proprio a Palermo.Ciò non toglie che debba guardare anche altrove".
Si dice che Ultimo fosse arrivato quasi ad arrestare Provenzano...
"Non mi risulta".
Certo è che ci stava lavorando da tanti anni.
"Ultimo è un bravo ufficiale, un grosso professionista. E se fosse stato per me io l'avrei trattenuto al Ros. E' lui che se ne è voluto andare. Quando era in Sicilia io gli ho dato tutto quello che potevo dargli in termini di uomini e mezzi. Ma credo che per contrastare Cosa Nostra non servano gli individualisti, ma lo spirito di gruppo".
Si dice sia in corso una trattativa tra lo Stato e la mafia per la consegna di Provenzano...
"Trattativa è una parola del tutto fuori luogo. Il procuratore Vigna lo ha spiegato molto bene. Ci sono stati, come sempre, colloqui investigativi con i pentiti. Nessuna trattativa".
Che cosa pensa della nuova legge sui pentiti?
"Il limite dei sei mesi per chi intende pentirsi e ha qualcosa da raccontare mi sembra una cosa molto seria".
La cattura di Provenzano, se avverrà, costituirà un colpo mortale per Cosa Nostra?
"Procurerà certo degli squilibri e l'alimentazione di nuovi rapporti di forza". I Ros, come gli altri reparti speciali, erano stati depotenziati dalla circolare Napolitano. Poi c'è stato l'intervento del ministro degli interni Bianco, che ha in parte ripristinato la situazione precedente, consentendo a questi reparti di svolgere indagini in tutta Italia.
"Già, e tanto ci basta per lavorare bene".

13 febbraio - La corte di assise di appello di Firenze, presieduta dal giudice Arturo Cindolo, conferma 15 dei 16 ergastoli inflitti in primo grado ai presunti organizzatori delle stragi con le autobombe della primavera-estate 1993. La sedicesima condanna all' ergastolo (quella per Cristofaro Cannella) e' stata ridotta alla pena di 30 anni di reclusione perche' l' imputato e' stato prosciolto per l' attentato di via dei Georgofili a Firenze. Fra i 15 imputati per cui e' stato confermato l' ergastolo figurano Toto' Riina, Leoluca Bagarella, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e i boss latitanti Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro che, insieme al pentito Giovanni Brusca (per cui e' stata confermata la condanna a 20 anni di reclusione), sarebbero stati i mandanti della strategia di terrorismo mafioso del 1993. I giudici di appello hanno sostanzialmente confermato le sentenze dei processi di primo grado, che si erano conclusi il 6 giugno 1998, con 14 condanne all' ergastolo, e il 21 gennaio 2000, con l' ergastolo anche per Riina e Giuseppe Graviano. L' unica modifica di qualche rilievo, oltre al prosciogilmento di Cannella per la strage di via dei Georgofili (27 maggio 1993), riguarda la posizione di Riina e Giuseppe Graviano in relazione al fallito attentato a un pullman dei carabinieri allo stadio Olimpico, a Roma, progettato per la fine del 1993. I giudici d' appello hanno dichiarato la nullita' della sentenza di primo grado relativamente a quella imputazione. La sentenza ha disposto il rinvio degli atti relativi a quell' episodio alla corte d' assise di primo grado e ha ridotto di quattro mesi per i due boss - da tre anni a due anni e otto mesi - la pena accessoria dell' isolamento diurno. Anche il processo d' appello, cominciato il 23 ottobre scorso, ha quindi accolto le tesi della procura. Il pg Gaetano Ruello, nella sua requisitoria, aveva sostenuto che la strategia di attacco terroristico al patrimonio culturale del paese sarebbe stata decisa dai vertici di Cosa Nostra gia' alla fine del 1992, sulla base, in particolare, di una sollecitazione di Toto' Riina. L' obbietivo, secondo l' accusa, era duplice: “rinsaldare all' interno dell' organizzazione i vincoli di appartenenza, che rischiavano di saltare dopo la crisi determinata dal pentitismo, e lanciare all' esterno un duro messaggio alle istituzioni: o ammorbidite la vostra linea, in particolare sul 41 bis, o Cosa nostra alzera' sempre piu' il tiro con una escalation di violenza e brutalita'”.

13 febbraio - Il film italiano "I Cento Passi" di Marco Tullio Giordana sulla vicenda di Peppino Impastato e' escluso dalla cinquina dei candidati all'Oscar per il miglior film straniero. "E' una grande soddisfazione - dice Giovanni Impastato, fratello di Peppino - essere arrivati quasi alle nomination per l' Oscar. Siamo contenti lo stesso. Il nostro risultato l' abbiamo ottenuto". "Per noi - ha aggiunto - il film era lo strumento per far conoscere la figura di Peppino. E ci siamo riusciti. Oggi sono a Vicenza dove l' associazione Libera ha organizzato la proiezione del film ed un dibattito. Siamo a 2 mila km da Cinisi a parlare di mio fratello. E' un grande successo". "Certo mi dispiace - ha concluso - per il regista e tutti quanti hanno lavorato al film. Per i professionisti del cinema l' Oscar e' 'il' traguardo. Ma anche loro devono essere soddisfatti sapendo di aver fatto un opera bellissima di grande valore culturale, storico e sociale".

13 febbraio - Giorgio Bongiovanni, direttore di "ANTIMAFIA Duemila" invia alla Procura della Repubblica di Palermo e al Comando del Ros dei carabinieri il seguente comunicato:
"LA CATTURA
 La vera storia dell'arresto di Riina e della mancata perquisizione del suo covo

 di Giorgio Bongiovanni

 La cattura del capo di Cosa Nostra Totò Riina e la mancata perquisizione del covo dove trascorreva la sua latitanza fanno certamente parte dei tanti misteri d'Italia. Come si arrivò a catturarlo? Perché la villa di via Bernini non è stata sorvegliata in modo da impedire che venisse ripulita dai vari gregari del boss? Tutti hanno dato la loro versione lasciando spazio ad ogni tipo di teorema: il complotto, la collusione, la copertura e il semplice malinteso. Abbiamo indagato e condotto molte interviste che oltre ad aggiungere preziosi elementi, vanno a confermare quanto il Capitano Ultimo ha dichiarato nel libro di Maurizio Torrealta Ultimo. Il capitano dei carabinieri Ultimo, allora parte dei ROS (Raggruppamento operativo speciale), oggi maggiore in servizio al NOE (Nucleo operativo ecologico) e suoi uomini si sono insediati per mesi all'interno del centralissimo mandamento della Noce e per ventiquattro ore su ventiquattro hanno spiato e ascoltato, con l'ausilio dei pochi mezzi tecnici a disposizione, i movimenti degli uomini d'onore legati al boss. E' stata però la giusta intuizione di seguire da vicino i Ganci a portarli dritti al covo di Riina in via Bernini, nel cuore di Palermo. Era proprio in una di quelle ville che si nascondeva "u' zu Totò", lo aveva confermato il tanto discusso collaboratore di giustizia Balduccio Di Maggio che aveva riconosciuto in un filmato di sorveglianza Ninetta Bagarella, fedele moglie del boss, il giardiniere di fiducia e uno dei figli. Sarà lui ad identificare il volto di Riina. Pronti per entrare in azione, hanno atteso che il capo di Cosa Nostra uscisse di casa con il suo braccio destro e uomo d'onore tra i più fidati, Salvatore Biondino. I due hanno percorso qualche centinaia di metri quando, al primo stop, si sono ritrovati assediati dagli uomini di Ultimo. Li hanno immobilizzati e trascinati alla centrale dei carabinieri di Palermo mettendo così fine ad una latitanza di 25 anni e assestando un duro colpo a Cosa Nostra. Una ricostruzione lineare, un'operazione da manuale. Perfetta. E di routine, per i servizi speciali se non si fosse trattato del boss dei boss.

 MISTERO NEL MISTERO

 Innanzitutto la villa di via Bernini. Ultimo chiese espressamente ai suoi superiori di non procedere alla perquisizione della casa, voleva prendere anche gli altri: capi di Cosa Nostra e fiancheggiatori, come i Sansone, incensurati e insospettabili prestanome per gli affari miliardari degli appalti. Ma Ultimo e i suoi uomini hanno smontato di guardia il pomeriggio stesso, lasciando ad alcuni colleghi l'onere di sorvegliare l'abitazione. Per quel famoso quanto misterioso malinteso tra la procura e i carabinieri però, dopo solo un giorno, la casa viene lasciata incustodita e i soldati di Riina hanno avuto ben 18 giorni a disposizione per svuotare tutto e persino imbiancare i muri. All'interno anche il vano predisposto per una cassaforte, poteva contenere alcuni dei segreti di Cosa Nostra? Secondo quanto dichairato da Ultimo nel libro, per sua esperienza un capo mafia non tiene documenti importanti nello stesso luogo dove risiede con la sua famiglia, piuttosto, al momento dell'arresto, portava nelle tasche alcuni bigliettini con indizi importanti che sono poi passati al vaglio della magistratura di Palermo. Ma è veramente questo il mistero della cattura di Riina? Sia durante i primi appostamenti che nei giorni precedenti l'operazione, venne suggerito a Ultimo e ai suoi uomini di spostarsi altrove, e se non fosse stato per una precisa e ferma presa di posizione del capitano, sicuro della pista che avevano seguito fino a quel momento, oggi probabilmente Riina sarebbe ancora latitante. Chi non voleva che gli uomini del Crimor prendessero il capo di Cosa Nostra? Chi ha voluto depistarlo? Sono forse le stesse persone che garantiscono a Provenzano la sua incredibile latitanza? Sono coloro che hanno fatto sì che Ultimo lasciasse Palermo e si dedicasse ad altro? A parte la mancata perquisizione sul cui caso sta indagando la magistratura, forse sarebbe il caso di occuparsi anche di rispondere a queste domande, soprattutto se si pensa che tra i vari riscontri e accertamenti effettuati sul campo Ultimo e i suoi avevano documentazioni filmate e registrate che non fanno altro che infittire il mistero nel mistero. Macchine della polizia entrare nel cantiere di Ganci e fermarsi amichevolmente a parlare in presenza del boss Raffaele e persone scendere da macchine del Ministero di Giustizia di via Arenula e della presidenza della regione Sicilia ed entrare nella macelleria "di famiglia". Una cosa è certa. Se non sono riusciti ad impedire a Ultimo di catturare Riina, hanno fatto sì che non prendesse Provenzano.

 DESTABILIZZAZIONE INTERNA

 Secondo le deposizioni dei collaboratori di giustizia Riina aveva uomini infiltrati ovunque ed era in grado di disporre di informazioni molto riservate con un margine di anticipo tale da consentirgli un ampio spazio di manovra. E' per questo che la sua cattura si è rivelata così imprevista da suscitare dubbi e sospetti tanto nelle istituzioni quanto all'interno Cosa Nostra. Era preciso intento di Ultimo creare all'interno dell'organizzazione una sorta di destabilizzazione interna per cui non perquisendo la casa di Riina, nei mafiosi si insinuasse il sospetto che qualcuno potesse aver venduto il capo per prenderne il posto. Salvatore Cancemi, boss mafioso reggente del mandamento di Porta Nuova, oggi collaboratore di giusitzia, non appena si fu consegnato ai carabinieri di Palermo, chiese di vedere Ultimo. Lo voleva avvertire che Provenzano durante una riunione della Commissione aveva dichiarato di aver l'opportunità di prendere il capitano vivo per torturarlo e fargli rivelare come era riuscito a prendere Riina. Secondo la ricostruzione di Brusca come riportata nel libro Ho ucciso Giovanni Falcone (ediz. Mondadori) a cura di Saverio Lodato, effettivamente si creò all'indomani del blitz un clima di diffidenza tra le varie fazioni interne a Cosa Nostra. Dice Brusca "Bagarella pensò subito a Salvatore Cancemi, di cui non si è mai fidato fino in fondo; a me invece, venne in mente Balduccio di Maggio". Una delle ipotesi più quotate è senza dubbio la possibilità che sia stato Bernardo Provenzano, il suo successore a fare in modo che Riina venisse arrestato. Brusca però non ci crede "Io non credo che Provenzano abbia venduto Riina.Che l'arresto gli abbia fatto comodo, questo sì. Ma che abbia avuto contatti diretti con i carabinieri è una tesi che non sta in piedi". Per la maggiore Brusca crede alla versione di Ultimo " è una pista autentica. Ecco la ricostruzione a cui credo sino in fondo". Ma se a indicare la macelleria giusta, secondo Brusca, sarebbe stato il maresciallo Lombardo, Maurizio Torrealta attribuisce al capitano l'intuizione. Quindi Brusca si domanda chi a sua volta potrebbe aver dato il suggerimento a Lombardo. "Una fonte potrebbe essere stata Francesco Lo Jacono di Partinico, amico personale di Provenzano... Non era uno a conoscenza di dove si nascondesse Riina, ma era uno che sapeva che, seguendo i Ganci, lo si poteva individuare." Trame e teorie, collaborazioni e confidenze, tra le solite metodologie d'Italia il parere più autorevole ed affidabile rimane senza dubbio quello del capitano Ultimo e dei suoi uomini. Oggi l'unica vera domanda da porsi realmente su Riina e Provenzano è, per dirla con Masino Buscetta: "qualcuno ha fatto un nuovo patto con la mafia?"

 L'OPINIONE DEL PROCURATORE ROVELLO

 Nelle ultime dichiarazioni prima di lasciare il suo incarico di Procuratore generale a Palermo per andare in pensione, Vincenzo Rovello commenta gli eventi più salienti della sua carriera. La cattura di Riina è sicuramente tra i più incisivi. <<Penso che ci sia un filo nero che laga la mancata perquisizione del covo di Riina, il maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo e le contrapposizioni giudiziarie del caso Lo Forte - De Donno sfociate poi in un procedimento a Caltanissetta. Il caso Riina si inscrive proprio nella tradizione italiana dei misteri, appare chiaro che qualcuno possiede il suo archivio e, quindi, le prove delle sue relazioni con soggetti esterni a Cosa Nostra. E' davvero singolare che nessuno abbia predisposto microspie e telecamere per documentare i contatti, anche fisici, che si svilupparono attorno alla villa di via Bernini nei giorni immediatamente precedenti quell'arresto. Un ruolo decisivo è stato giocato dal generale Francesco Delfino che riuscì a far parlare Balduccio di Maggio>>. E sul tema della trattativa tra pezzi dello Stato e corleonesi <<quella trattativa dopo le stragi siciliane la volle Totò Riina in persona; poi abbiamo anche saputo che il generale Mori ebbe contatti con Vito Ciancimino. Ma attenzione: Ciancimino non si pentì né aveva intenzione di farlo. Ecco perché penso che certe trattative siano sempre deleterie... e alcune sono state al limite della rilevanza penale>>."

15 febbraio - La seconda sezione del tribunale di Palermo, presieduta da Giuseppe Prestipino, respinge la richiesta di proscioglimento di Canale presentata dall’ avv. Carlo Taormina. Secondo i giudici, non vi sono gli estremi per l' assoluzione anticipata invocata dal difensore sulla scorta della recente decisione della Corte Suprema. Dopo che il tribunale ha sciolto la riserva, e' interrogato il colonnello Nicolo' Gebbia che negli anni '80 comando' la compagnia dei carabinieri di Marsala dov' era in forza Canale, stretto collaboratore del procuratore Paolo Borsellino poi ucciso dalla mafia con cinque poliziotti della scorta, nella strage di via D' Amelio a Palermo nove anni fa. Il colonnello Gebbia ha ricordato le indagini svolte con Canale e ha detto: "Lo considero il mio piu' stretto collaboratore di quel periodo e non conosco fatti concreti che possano suffragare le accuse a lui rivolte". Gebbia, su domanda del pm Massimo Russo, ha dichiarato di avere saputo da Canale di suoi rapporti con fonti confidenziali legate ad ambienti mafiosi. "La sentenza di una sezione della Corte di Cassazione non puo' vincolare le decisione del tribunale". E' questa la motivazione addotta dai giudici ai quali l' avvocato Taormina replica: "E' un atto gravissimo perche', per quanto le sentenze della Cassazione non sono vincolanti, hanno comunque autorita' giuridica indiscutibile". "La Suprema Corte- aggiunge il legale - e' l'organo di vertice della magistratura e ha il compito di indicare l' interpretazione piu' corretta della legge". Taormina va oltre e parla di "tentativo di delegittimazione in linea con l'atteggiamento tenuto dalla procura di Palermo che ha accusato di mafia Corrado Carnevale". Alle critiche di Taormina replica Massimo Russo, il pm che rappresenta la pubblica accusa nel processo a Canale. "Mi sono formato in una scuola - dice - che mi ha insegnato a non commentare le sentenze dell' autorita' giudiziaria".

16 febbraio - Al processo ai presunti favoreggiatori di Benedetto Spera, in corso davanti ai giudici della seconda sezione del tribunale di Palermo, il maggiore dei carabinieri Gianni Damiano dice che la latitanza di Spera e quella del capomafia Bernardo Provenzano avrebbero avuto in comune le stesse persone e gli stessi luoghi. L' ufficiale, risponendo alle domande del pm Nino Di Matteo, ha ricordato di avere svolto indagini nel '96 su Nicolo' La Barbera, l' allevatore arrestato nelle scorse settimane per favoreggiamento di Spera. L' uomo e' titolare della masseria in cui la polizia ha bloccato il boss, ed e' anche il "postino" di Provenzano. Gli agenti gli hanno trovato addosso quattro lettere che i figli del capomafia avevano scritto al padre. Damiano ha ricordato che il confidente Luigi Ilardo, assassinato il 10 maggio del '96 a Catania, aveva raccontato al colonnello Michele Riccio di una riunione con Provenzano alla quale era presente anche Nicolo' La Barbera. Agli investigatori Ilardo racconto' che questo allevatore di Mezzojuso aveva una gran confidenza con il boss, tanto da conoscere nei particolari i suoi gusti culinari. Il confidente ritenne che La Barbera era la persona che preparava da mangiare al latitante. L' incontro al quale Ilardo prese parte sarebbe avvenuto il 31 ottobre 1995. I carabinieri dopo l' uccisione del confidente avviarono indagini su La Barbera. "Gli investigatori scoprirono - ha detto Damiano - che l' uomo raggiungeva quasi ogni giorno a pranzo, a bordo di una Fiat 'campagnola', una villetta che si trova ad un centinaio di metri dal cascinale in cui e' stato arrestato Spera". In quella casa i carabinieri del Ros, guidati dal capitano "Ultimo", riuscirono a piazzare una microspia che dopo dieci giorni smise di funzionare. Gli investigatori ritennero attendibili le dichiarazioni di Luigi Ilardo, che aveva fatto arrestare quattro latitanti ed aveva messo il colonnello Riccio sulle tracce di Provenzano. Il maggiore Damiano ha ricordato inoltre che nei primi di maggio di cinque anni fa Ilardo partecipo' a Roma ad una riunione alla quale presero parte investigatori del Ros, magistrati di Palermo e Caltanissetta. L' incontro avvenne alla vigilia del suo ingresso nel programma di protezione. In quell' occasione fu deciso che Ilardo, una volta tornato in Sicilia, avrebbe tentato di incontrare ancora una volta Provenzano, per favorire cosi' la cattura del boss latitante. Il confidente venne pero' assassinato dopo sette giorni.

19 febbraio - "Il Corriere della sera" pubblica un' intervista al gen. Mario Mori, il fondatore del Ros, ora alla guida dei carabinieri in Lombardia:
"Dimenticare Palermo? No, per il generale Mario Mori è impossibile. Si è appena insediato nel comando regionale di Milano, in quell'ufficio di via Moscova che controlla tutta la Lombardia. Ora si sta dedicando a un tour de force d'incontri per sondare gli umori e i problemi delle province dove più forte è la richiesta di sicurezza. Ma prima di tuffarsi nel nuovo incarico, l'ufficiale che ha combattuto il terrorismo al fianco di Dalla Chiesa e che dalle ceneri di quell'esperienza ha costruito il Ros, Raggruppamento Operativo Speciale, vuole chiudere i conti con l'ultimo attacco partito dalla Sicilia. Il generale vive come un colpo basso le dichiarazioni fatte poco prima della fine dell'anno dal Procuratore generale di Palermo Vincenzo Rovello. Al centro sempre l'arresto di Totò Riina, quell'operazione del 15 gennaio 1993 che ha segnato il momento più importante nella riscossa dello Stato contro la mafia. Ma che col passare del tempo anima discussioni sempre più affilate: "La mancata perquisizione del covo di Riina - ha detto il Procuratore generale Rovello nel discorso d'addio prima della pensione - è uno dei misteri d'Italia, legato con un unico filo nero ad altri episodi oscuri che riguardano il Ros". Mori ha taciuto per oltre un mese, sperando in una rettifica. Poi ha deciso di controbattere. "Un magistrato dovrebbe parlare esclusivamente con gli atti dell'ufficio - dichiara Mori scandendo le parole -, specialmente per vicende che sono oggetto della sua sfera giurisdizionale. Il dottor Rovello, legando fatti ben distinti tra loro e oggetto di procedimenti giudiziari diversi, ha invece ipotizzato la solita tesi del complotto, frutto delle sinistre attività di soggetti istituzionali deviati. Ipotesi questa non avallata da nessun dato oggettivo e in contrasto con le conclusioni di specifiche inchieste penali".  Perché ritiene che Rovello abbia sentito la necessità di attaccare il Ros proprio nel momento di chiudere la sua carriera?  "Non lo so proprio. Quei fatti sono stati definiti attraverso inchieste penali. Altro invece è fare delle valutazioni che comunque si devono fermare davanti a un dato oggettivo: l'Arma, come sempre, ha dato prova di essere pienamente dalla parte delle Istituzioni, operando bene e con continuità anche nel settore della criminalità organizzata".  L'arresto di Riina è stato gestito dal Ros in totale autonomia o le azioni sono state concordate con la magistratura?  "Tutta la complessa vicenda che ha portato alla cattura di Riina è stata condotta di concerto con i magistrati della Procura di Palermo". E chi decise di non perquisire la casa di Riina?  "Il capitano "Ultimo" prospettò questa ipotesi investigativa, con finalità precise e chiare per noi che facevamo questa attività sul campo. Si voleva cioè far decantare la situazione per dare l'impressione di una cattura casuale, e così proseguire nell'attività investigativa. A distanza di anni è difficile da spiegare, ma in quei momenti, di fronte a un primo e così grande successo, si cercava di sfruttare a pieno l'occasione. Sono ancora convinto che l'equivoco tra noi e i magistrati fu un malinteso verificatosi nell'assoluta buona fede delle parti. Sull'argomento il procuratore Caselli chiese una relazione scritta che fu fornita subito dall'allora comandante del Ros".  Secondo Rovello l'archivio di Riina oggi è nelle mani di qualcuno che lo sta usando per il suo potere personale...  "Non vi sono notizie fondate sull'esistenza di un archivio di Riina. Ma se esisteva, di sicuro non era lì, dove abitava con la moglie e i figli. Non lo poteva tenere nella casa dove la figlia faceva i compiti assieme ai compagni di scuola. Se non si è in grado di comprendere questo, significa che non si è capito nulla della mafia e di come combatterla. Uno come Riina sapeva ben distinguere tra la sua attività e la famiglia".  Pochi giorni dopo l'arresto, lei descrisse Riina citando Mastro Don Gesualdo di Verga, attaccato alla "roba" concreta e privo di interlocutori diretti nella politica e nell'imprenditoria ...  "Non ho cambiato le mie idee su Riina, sul suo modo di essere e di porsi in relazione con il mondo che lo circondava. Resto convinto che, comunque, i rapporti che aveva con gli interlocutori esterni a Cosa nostra erano tutti mediati".  Invece di Bernardo Provenzano ci sono due immagini opposte. C'è chi lo descrive  come un astuto mediatore, capace di investire in Borsa, e chi come un contadino ancora più rozzo degli altri boss...  "Provenzano è molto diverso caratterialmente da Riina. Riina aveva una aggressività personale, sfociata poi in un confronto diretto con lo Stato che ha portato alla sua sconfitta. Provenzano, per contro, usa un sistema insinuante, indiretto, fondato sul dialogo: ricorre alla violenza solo quando questa è assolutamente necessaria. Rappresenta cioè il modo tradizionale di essere mafioso".  Provenzano oggi è il capo di Cosa nostra?  "Non è un capo assoluto come Riina. Per usare un termine moderno, è un personaggio che fa opinione . Gode di un ascendente indiscusso e forte all'interno di Cosa nostra, può vantare un prestigio che la stessa lunghissima latitanza contribuisce ad accrescere". Perché è così difficile catturarlo?  "Perché forse più di tutti gli altri boss è meglio inserito nel contesto socio-culturale proprio delle province di Palermo, Trapani e Caltanissetta. Un triangolo dove è riuscito a crearsi una collocazione personale credibile e dove dispone di una cerchia ristretta di persone incensurate, scelte fuori dal normale circuito mafioso, che riescono a sfuggire al controllo e si sottraggono all'attenzione delle forze dell'ordine. Ammetto che è deprecabile per tutti noi che Provenzano sia sfuggito per tanto tempo alla cattura. Come investigatore devo riconoscere che è uno smacco grave".  Finora siete riusciti a mettere le mani solo su dei rifugi abbastanza caldi. In due occasioni avete persino messo le mani sulla sua corrispondenza...  "Non ci sono solo quelle due operazioni. Anche in altre occasioni siamo stati molto vicini alla sua cattura. Per ora il destino è stato dalla sua, sembra quasi protetto dalla sorte. Ma la fortuna può anche cambiare".  Nel 1994 a un imputato di Mani pulite venne sequestrato un appunto: "Mori deve essere trasferito dal Ros e non va sostituito". Mori ora è stato trasferito e sostituito. Cosa sarà adesso del reparto che lei ha costruito?  "Continuerà a fare la sua parte; altrimenti vorrebbe dire che io e i miei collaboratori abbiamo sbagliato costruendo una struttura non efficiente. Un reparto che si rispetti deve funzionare a prescindere da chi lo dirige".  Nei momenti più difficili della lotta al terrorismo e di quella alla mafia, quanto ha pesato la ragione di Stato nel vostro lavoro?  "Non ha mai pesato sull'impegno dei reparti da me diretti. In certi momenti abbiamo sentito la società vicina, in altri abbiamo avvertito un sostegno minore. Posso aggiungere che, nell'ultima fase della lotta al terrorismo degli anni '80 e subito dopo le morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, c'è stata la maggiore sintonia con la società civile". Oggi c'è un forte calo di tensione nella lotta alla mafia?  "Una società non può vivere in eterna tensione su un fenomeno specifico. L'importante è che gli organi preposti al contrasto siano sempre vigili e determinati; questo peraltro è anche l'unico modo per essere dei professionisti nel settore".  Sul fronte del terrorismo, giudica più pericolosa la rinascita dell'eversione di sinistra o le formazioni islamiche?  "La grande minaccia attuale è il terrorismo internazionale. Il terrorismo interno non può contare oggi sul consenso ideologico del contesto sociale, estraneo a queste tendenze estremistiche. Certo l'attività di pochi esaltati può sempre rappresentare un pericolo per il singolo, ma difficilmente, in questa fase, potrà configurarsi come una minaccia per le istituzioni". Eppure si discute molto delle nuove Brigate rosse, dei loro rapporti con la fase storica del terrorismo. Un dibattito che avviene soprattutto nelle Commissioni parlamentari, spesso accompagnato da critiche e rivelazioni sul comportamento dell'Arma in alcuni episodi chiave...  "Durante la mia lunga carriera ho operato in reparti che avevano il compito di contrastare i due aspetti criminali più significativi del dopoguerra e nei momenti della loro maggiore aggressività: il terrorismo e la mafia. Osservo ora, in una fase in cui questi fenomeni sembrano attraversare un periodo di ripiegamento, il fiorire di opinionisti dell'ultima ora, pronti ad analizzare e interpretare ogni episodio di quelle vicende, condannando e assolvendo senza mai il beneficio di un personale dubbio e proponendo soluzioni per lo più molto lontane dalla realtà. Io, peraltro, la quasi totalità di quei critici, negli anni caldi, non li ho mai incontrati, perché non c'erano. I pochissimi intravisti erano defilati e silenti, così da non compromettersi e passare indenni la bufera". Chi sono questi critici defilati e silenti: magistrati o politici?  "Non individuo categorie, mi riferisco a opinionisti variamente collocabili. Dico solo che in questa materia non si possono fare illazioni o considerazioni superficiali, perché si tratta sempre di vicende tragiche e con precisi riflessi penali. E auspicherei che tutti, a riguardo, conservassero il beneficio del dubbio, perché nessuno ha la Verità, quella con la v maiuscola"."

19 febbraio - I giudici della prima sezione della corte d' assise d' appello di Palermo condannano all' ergastolo Filippo Graviano, boss del rione Brancaccio, accusato di aver fatto assassinare il parroco Pino Puglisi, il 15 settembre del 1993. In primo grado era stato assolto, mentre al fratello Giuseppe era stato inflitto il carcere a vita. Il processo era contro i mandanti dell'omicidio. Quello agli esecutori materiali si e' gia' concluso con varie condanne fra le quali quella del killer Salvatore Grigoli, reo confesso e che, dopo essersi pentito, ha rivelato i retroscena del delitto. La posizione di Grigoli era stata stralciata e giudicata ora insieme con quella dei fratelli Graviano indicati come i capi assoluti del clan mafioso nel quartiere Brancaccio. Grigoli oggi ha avuto confermata la condanna a 16 anni di reclusione, come l' ergastolo e' stato nuovamente deciso per Giuseppe Graviano.

20 febbraio - Gli investigatori hanno appreso di essere arrivati ad un passo dalla cattura di Provenzano ascoltando la voce di uno degli indagati, captata da una microspia:"da matina iddu era dda (quella mattina lui era la)" e' stata la frase che ha fatto drizzare le orecchie di un funzionario di polizia che con i suoi uomini si e' precipitato di nuovo nella zona di campagna ad un un chilometro dalla 'veloce' Palermo-Agrigento. Il 'covo caldo' del boss e' stato individuato in una villetta lontana qualche centinaio di metri con tracce di presenze recenti. Quella mattina il boss era li', ha visto i poliziotti irrompere nella villetta, e' rimasto nascosto per un po' e poi si e' allontanato indisturbato. La latitanza quarantennale del capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, rischia di diventare leggenda: la mattina del 30 gennaio scorso il boss e' sfuggito per un soffio alla cattura durante le fasi del blitz della Squadra Mobile di Palermo che ha condotto all' arresto del suo braccio destro Benedetto Spera. E' stato il caso a salvarlo: Provenzano, infatti, era nella zona, probabilmente stava raggiungendo un casolare lontano qualche centinaio di metri dalla villetta in cui sono stati sorpresi Spera ed il vivandiere Nicola La Barbera. E quando i poliziotti hanno abbandonato il territorio, portando con loro la preda meno ambita, ha potuto lasciare la casa indisturbato. L' indiscrezione, che ha trovato conferma in ambienti investigativi, rischia adesso di alimentare nuove polemiche tra le forze dell' ordine, polizia e carabinieri, che controllavano quel gruppo di casolari, ad un chilometro dallo svincolo di Mezzoiuso. Il boss e' fuggito, ma un bandolo della matassa investigativa e' rimasto saldamente nelle mani di agenti e funzionari della Mobile: la caccia continua, dicono, con il medesimo ottimismo. Alimentato, anche, da nuovi particolari appresi sulla vita del boss latitante: quella mattina, insieme con Spera, e' stato arrestato un primario in pensione, che era li', si pensava, per curare il capo della famiglia di Belmonte. Ma Spera non e' malato, e dunque adesso gli investigatori ritengono che l' assistenza sanitaria servisse proprio a Provenzano, sofferente alla prostata.

20 febbraio - "La Repubblica" pubblica un articolo di Francesco Viviano intitolato "Provenzano, il Ros accusa 'La polizia l'ha fatto fuggire'":
"L'unica pista concreta, faticosamente costruita per mesi e mesi, per catturare l'uomo più ricercato d'Italia, il capo dei capi di Cosa nostra, è stata bruciata. E adesso è guerra durissima tra chi da anni cerca, ma non trova, la primula rossa di Corleone. I carabinieri accusano la polizia: "Avete fatto fuggire Bernardo Provenzano". Con una lettera secca, due pagine dattiloscritte, inviate al procuratore di Palermo, Pietro Grasso, ed a quello di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, il Ros, il Reparto Speciale dell'Arma dei carabinieri, spara a zero sulla squadra mobile di Palermo, per avere "vanificato" la cattura di Bernardo Provenzano. A firmare la pesantissima accusa ai "cugini" della polizia, è il numero uno dei Ros, il generale Domenico Sabato Palazzo, successore di Mario Mori, il "regista" della cattura di Totò Riina. Un'accusa che mette nero su bianco la "guerra" tra due corpi investigativi dello Stato che, pur puntando allo stesso obiettivo, non si parlano tra loro e si danneggiano a vicenda.
Il generale Palazzo non usa giri di parole. La cattura di Nicola La Barbera, l'uomo arrestato il 30 gennaio scorso con il boss Benedetto Spera nelle campagne di Mezzojuso, ha "vanificato" l'unica pista che avrebbe portato alla fine della latitanza del capo dei capi di Cosa Nostra. In quei giorni, stando alla lettera del comandante dei Ros, i carabinieri seguivano La Barbera, sapevano che in tasca aveva alcune lettere (scritte dai familiari di Bernardo Provenzano) che avrebbe dovuto consegnare al capo di Cosa nostra, latitante da ben 37 anni. Ma la "sovrapposizione" della polizia che ha arrestato Spera e La Barbera, ha "vanificato" la cattura del boss corleonese.
Quella "pista bruciata" ha fatto infuriare il capo dei Ros che il 5 febbraio scorso, cinque giorni dopo il blitz della squadra mobile di Palermo nel casolare di Mezzojuso dove ritenevano di trovare Provenzano, ha preso carta e penna e ha chiesto garbate spiegazioni ai Procuratori di Palermo e di Caltanissetta.
Ecco cosa scrive il capo dei Ros nella lettera inviata a Grasso e Tinebra che ha per "oggetto" la "ricerca del latitante Provenzano Bernardo ed indagini collegate". "Il 30 gennaio scorso la Polizia di Stato ha arrestato il mafioso Spera e l'indagato La Barbera... L'intervento (della Polizia ndr) ha avuto luogo a breve distanza dall'area sottoposta ad osservazione tecnica ed ascolto da parte del Ros, impegnato nella ricerca di Provenzano e, soprattutto, ha interessato il menzionato La Barbera, soggetto centrale ed unificante dell'indagine collegata tra codeste Procure della Repubblica". La lettera del generale Sabato ricorda poi che a Mezzojuso, due anni prima, era stato seguito il mafioso Giuseppe Ferro che stava organizzando un incontro con Bernardo Provenzano. Quel luogo era stato già indicato dal nipote del boss Piddu Madonia, Luigi Ilardo, aspirante pentito che alla vigilia della sua collaborazione ufficiale, era stato assassinato. "In seguito a questi fatti - scrive il generale Palazzo - era stata avviata una complessa manovra operativa comprendente progressivi servizi tecnici (microspie, intercettazioni, filmati ndr) necessari, da un lato, per seguire le mosse del Ferro, dall'altro, per sorvegliare i luoghi toccati. Prima dall'Ilardo e, successivamente, dal Ferro". "E tale interesse investigativo - sottolinea il comandante dei Ros - era stato ovviamente incentrato sulla figura di Nicola La Barbera, usuraio e gestore del rustico che ospitata i convegni mafiosi". Ma è al terzo e quarto punto della lettera che il Generale Palazzo, dopo avere ricordato che l'indagine per la cattura di Provenzano era stata "coordinata" dalle Procure di Palermo e di Caltanissetta, spara a zero sulla squadra mobile di Palermo. "L'arresto di La Barbera ha vanificato tale opportunità (la fine della latitanza del capo di Cosa nostra ndr), peraltro in una promettente fase prodromica registrata a Caltanissetta, in virtù di una sostanziale sovrapposizione operativa sull'obiettivo d'indagine già coltivato dal Ros ed in assenza di una condivisa valutazione della situazione venutasi a determinare". La pesantissima lettera del generale Palazzo si conclude con un invito ai procuratori Grasso e Tinebra ai quali, dopo avere ribadito la propria disponibilità a continuare la ricerca di Bernardo Provenzano, chiede di assicurare in futuro "un coerente e puntuale sostegno al progetto investigativo concordato". Come dire: si ricomincia da zero."
La pubblicazione dell' articolo provoca naturalmente un' ondata di polemiche. Immediate le reazioni dei destinatari della lettera, i procuratori Pietro Grasso e Gianni Tinebra, che non nascondono il loro disappunto per la pubblicazione di un atto riservato, respingendo al mittente anche le accuse: "Proprio nelle ricerche per catturare il latitante Provenzano lo scambio di informazioni e il coordinamento tra i due uffici ha funzionato come non mai". E il questore di Palermo Agatino Pappalardo puntualizza: "Abbiamo svolto la nostra attivita' investigativa sotto la direzione dell' autorita' giudiziaria e non ci siamo mai rifiutati ad alcun rapporto di collaborazione con le altre forze di polizia, all' interno del coordinamento svolto dalla magistratura". Il comandante generale dell' Arma Sergio Siracusa si affretta a smentire qualsiasi contrasto: "Non ci sono problemi di coordinamento tra carabinieri e polizia, sia a livello centrale che periferico. Abbiamo un perfetto accordo". Un concetto ribadito nel suo intervento all' inaugurazione della scuola ufficiali, presenti il capo della polizia e il comandante della Guardia di Finanza, "cui mi unisce - sottolinea Siracusa scandendo le parole - un profondo e sentito spirito di collaborazione". La Barbera, un pastore nella cui masseria la polizia ha catturato, un mese fa, Benedetto Spera latitante da otto anni, per gli inquirenti non era certo uno sconosciuto: di lui aveva parlato cinque anni fa ai carabinieri del Ros un confidente, Luigi Ilardo, assassinato alla vigilia del suo ingresso nel programma di protezione. Ilardo aveva indicato il pastore come il 'vivandiere" di Provenzano, con il quale si sarebbe incontrato in una masseria di Mezzojuso, la stessa zona dove e' stato poi intercettato Spera. Gli uomini del Ros, guidati dal capitano "Ultimo" (lo stesso ufficiale che catturo' Toto' Riina nel 1993), riempirono di microspie il casolare frequentato da La Barbera, ma dopo dieci giorni le "cimici" smisero di funzionare. Nessuno le sostitui' e dopo pochi mesi la "pista" fu abbandonata. Il generale Palazzo, definita "irresponsabile" la pubblicazione della lettera (e' stata aperta un' inchiesta per la fuga di notizie), cerca di gettare acqua sul fuoco delle polemiche:"Non esiste nella maniera piu' assoluta contrasto con la Polizia di Stato", ribadendo pero' che "con l' arresto di Nicolo' La Barbera si e' bruciato un segmento investigativo". "Da parte mia, con quella lettera - ha spiegato Palazzo - c'e' stata una prospettazione della situazione delle indagini a Palermo, su cui eravamo impegnati anche con attivita' tecniche rilevanti. E visto che si e' bruciato un segmento investigativo importante, ho fatto presente ai magistrati competenti l'esigenza - che era mia, del mio comando - di ricominciare, rivedendo l'impianto investigativo riconducibile a Provenzano". Ma come e' stato possibile che si sia bruciato un pezzo d'indagine? "La Barbera era l'elemento che ci avrebbe potuto portare a Provenzano e La Barbera e' stato arrestato". Quindi, per colpa della polizia e' sfumata la cattura di Provenzano? "Io non mi lamento. Dico solo che quell'arresto ha bruciato un segmento importante delle indagini condotte dal Ros. Indagini che potevano portare a Provenzano. Noi eravamo convinti che quell'obiettivo si sarebbe potuto raggiungere. Si tratta adesso di ricominciare, in maniera collaborativa, tutti insieme, affinche' l'arresto di questo latitante avvenga prima possibile. Le speranza non sono perse e c'e' spazio per tutti". Ma il via all'arresto di La Barbera e' stato dato dalla magistratura, o e' stata un'iniziativa della polizia?, hanno chiesto i giornalisti a Palazzo. "Io sono convinto che la procura sia stata informata. Comunque dovete chiederlo a chi ha proceduto, dovete chiederlo ai magistrati di Palermo", ha risposto il comandante del Ros. Che poi, a proposito della conoscenza delle indagini di polizia e carabinieri da parte dei magistrati, ha aggiunto: "La procura di Palermo sa tutto. Certo, puo' anche darsi che sia stato un fatto estemporaneo. Del resto, quando si fa irruzione in un casolare non sempre si sa chi si trova". Le indagini del Ros su Provenzano ricominciano dunque da zero? "E' andato perso quel segmento, ma non era l'unico", ha risposto il generale, secondo cui il superlatitante di Cosa Nostra prima o poi sara' catturato. "Io sono molto ottimista", ha affermato. Il comandante del Ros e' infine tornato sui rapporti tra polizia e carabinieri. "Si e' parlato di un forte contrasto. Niente di tutto questo, nessun contrasto, nessuna mancanza di coordinamento. La mia lettera va interpretata nel senso giusto. Comunque - ha concluso Palazzo - duole il fatto che anche lettere riservate, destinate a rimanere tali, finiscano sui giornali".

21 febbraio - Il capomafia latitante Vincenzo Virga, ritenuto il boss di Trapani, e' arrestato dalla Squadra Mobile di Trapani in contrada Fulgatore. I poliziotti sono entrati in azione poco prima di mezzanotte, hanno circondato il casolare e hanno fatto irruzione bloccando il boss, che in quel momento era da solo. Secondo gli investigatori, Vincenzo Virga e' ritenuto uomo di fiducia di Bernardo Provenzano, la persona che si occuperebbe per conto di Cosa nostra della gestione degli appalti, e' accusato, inoltre, degli omicidi del giudice Alberto Giacomelli e del sociologo-giornalista Mauro Rostagno. Virga era ricercato dal 1994, ed il suo nome e' inserito fra i primi 10 latitanti d'Italia. Vincenzo Virga aveva con se' 16 milioni di lire in banconote da 100 mila lire e lettere sulle quali gli investigatori mantengono per il momento il massimo riserbo. Lo scorso anno la procura di Trapani gli aveva sequestrato beni che ammontavano complessivamente a diversi miliardi di lire. Il capo della Squadra mobile di Trapani, Giuseppe Linares, che ha guidato l'operazione, ha detto che "Abbiamo preso la mente imprenditoriale di Bernardo Provenzano. La latitanza di Virga e' stata possibile grazie al sostegno di poteri forti, sia a livello sociale che politico". Linares ha rivelato che nel covo del boss e' stato trovato materiale "molto interessante che dimostra, tra l'altro, come Virga sia stato a strettissimo contatto con altri mafiosi latitanti". "Virga - ha proseguito il capo della mobile - e' stato abilissimo  nel turbare le aste per gli appalti pubblici nel trapanese ed ha saputo tenere i contatti tra imprenditori, politici e altri poteri impegnati nel riciclaggio del denaro sporco". Al momento dell'arresto il boss non era armato, e' apparso sorpreso dell'arrivo degli agenti e non ha opposto alcuna resistenza. Con lui questa notte e' stato fermato il suo presunto vivandiere e la posizione dell'uomo viene attentamente vagliata in queste ore. Piu' tardi Linares spiega:"Per poteri forti intendo riferirmi a complicita' gia note tra mafia, politica ed imprenditoria". "Mi riferisco a nomi gia' noti - ha aggiunto Linares - contenuti nell'ordinanza di custodia cautelare emessa nel 1998 nell'ambito dell'operazione Rino 3". Ed anche il procuratore della Dda di Palermo Pietro Grasso, presente alla conferenza stampa di Trapani per illustrare i risultati dell'operazione, ha confermato che i nomi sono gia' venuti fuori nell'inchiesta "Rino 3". "Se dovessero saltarne fuori altri - ha detto Grasso - ne terremo conto". Nel corso dell'operazione 'Rino 3' vennero arrestate quattordici persone accusate di associazione mafiosa, truffa aggravata ai danni della Regione, turbativa d' asta, abuso d' ufficio e frode nelle pubbliche forniture. Virga, negli anni 70 era un contadino indigente, 15 anni dopo un ricco rispettato ed insospettabile imprenditore, con interessi in vari settori, dall'edilizia allo smaltimento dei rifiuti e una moglie titolare di una delle piu' eleganti gioiellerie di Trapani. Poi, nel 1994, la scomparsa dalla  vita pubblica, con l'ingresso in latitanza: ad accusarlo per primo e' stato il pentito Pietro Scavuzzo e le sue accuse, seguite da quelle di numerosi altri collaboratori, gli costeranno la prima condanna a 12 anni di carcere seguita da un'altra all'ergastolo, inflitta nel processo cosiddetto "Rino" . L'ascesa nella gerarchia mafiosa di Vincenzo Virga, 59 anni, passa attraverso la sua abilita' nel muoversi nella ragnatela di interessi finanziari che hanno trasformato Trapani nella citta' d'Italia dove e' piu' alto il numero delle societa' finanziarie e degli sportelli bancari in rapporto alla popolazione. "E' un mago nel pilotare gli appalti", sostiene il capo della Mobile, Giuseppe Linares, che da ottobre dell'anno scorso indaga su tutti gli appalti banditi da enti pubblici nel trapanese. E la sua abilita' criminale e' misurata anche dal patrimonio accumulato in 15 anni di dominio mafioso a Trapani:negli ultimi 4 anni gli investigatori hanno sequestrato un numero elevatissimo di societa' a lui riconducibili e beni mobili e immobili per svariati miliardi, arrestando numerosi prestanome. Una ricchezza che non gli ha impedito di continuare a percepire una regolare pensione dell'Inps relativa ai suoi anni di lavoro; vero o fittizio nei campi. I pentiti lo descrivono come un boss attentissimo alla gestione degli affari mafiosi nel territorio, con legami anche nel mondo della politica. Virga, tra l'altro, e' imputato di tentata estorsione insieme con il deputato di Forza Italia Marcello Dell'Utri in un procedimento recentemente trasferito da Palermo ai giudici di Milano. Secondo le accuse dell'ex senatore repubblicano, Vincenzo Garraffa, il boss sarebbe intervenuto su sollecitazione di Dell'Utri per indurre Garraffa a versare una tangenti di 700 milioni a Publitalia come prezzo di una sponsorizzazione ricevuta dalla Pallacanestro Trapani; della quale era il presidente. La polizia e' convinta che Vincenzo Virga si nascondesse da non piu' di due settimane nel covo della frazione Fulgatore. Il casolare era dunque il suo piu' recente nascondiglio e gli investigatori hanno confermato che i latitanti della mafia, per eludere le ricerche, cambiano spessissimo i loro rifugi. Cio' presuppone la protezione da parte di una fitta rete di complicita'. Il dirigente della squadra mobile trapanese, Giuseppe Linares, ha detto che l' operazione e' stata perfezionata nelle ultimissime ore dopo che "si era avuto sentore che Virga si nascondesse nel caseggiato rurale e dopo che era stato notato il suo vivandiere". Gli inquirenti trapanesi, che gli davano la caccia da sette anni, sono sicuri che Virga abbia messo su - come ha detto Linares - un sistema di scatole cinesi e che avesse realizzato con Bernardo Provenzano una specie di joint-venture per la gestione di affari in svariati settori e soprattutto per il controllo di appalti pubblici. In questo senso, al di la' delle accuse che gli sono state mosse anche per le uccisioni dell' ex presidente di sezione del Tribunale Alberto Giacomelli e del giornalista e sociologo torinese Mauro Rostagno, Virga non e' ritenuto dell' ala stragista, ma un mafio-affarista. "Le forti connessioni di Virga con una parte della borghesia imprenditoriale e una parte della classe politica di questa citta' non sono state ancora recise". Lo ha detto il pm della Dda di Palermo Massimo Russo durante la conferenza stampa a Trapani sulla cattura del boss latitante Vincenzo Virga. Secondo Russo, "dietro la latitanza di Virga ci sono persone insospettabili ed incensurate". "L'arresto del boss - ha proseguito il magistrato - ci ricorda che la mafia controlla l'economia, stringendo rapporti con politici. Altri latitanti dai loro rifugi continuano a controllare il territorio. E non sono state recise le forti connessioni che Virga ha cominciato a tessere sin dalla meta' degli anni '80". Secondo il pm, il boss "si e' sempre defilato dalle espressioni militari di Cosa Nostra" ed il suo arresto dimostra che "la mafia c'e', vive e vegeta e continua a fare affari ma e' quasi scomparsa dalle pagine dei giornali e anche dall'agenda della politica". "Virga e' un vero capomandamento - ha detto il procuratore Pietro Grasso - e rappresenta il centro di tutta una serie di rapporti e di affari, e di tutto questo c'e' traccia in tante indagini condotte negli ultimi anni dalla squadra mobile coordinate dall'aggiunto Sergio Lari". Nel covo dove si nascondeva, gli investigatori hanno trovato anche un biglietto indirizzato ai familiari: "Vi prego, fatemi avere la pentola per preparare il couscous di pesce". Nel mirino degli investigatori c'e' anche un appalto la cui indagine ha condotto in carcere, quattro mesi fa, l' assessore comunale alla Nettezza Urbana Vito Conticello (Forza Italia), sorpreso con una tangente di cinque milioni e accusato di concussione. L' "ecomafia" e' infatti uno dei settori preferiti da Virga, che dal 1988 al 1994 avrebbe controllato attraverso societa' intestate ai figli o ad alcuni prestanome, i sub appalti per la discarica dei rifiuti urbani. Un business da mezzo miliardo l' anno, al quale partecipo' anche il boss catanese Nitto Santapaola, attraverso una societa' che, ironia della sorte, si chiamava Lex. Le connivenze a livello politico-imprenditoriale con il boss furono individuate nel '98 grazie all' operazione "Rino 3", che porto' all' arresto di 14 persone accusate di associazione mafiosa, truffa aggravata ai danni della Regione, turbativa d' asta, abuso d' ufficio e frode in pubbliche forniture. In quell' occasione finirono in carcere, tra gli altri, il deputato regionale Francesco Canino, ex Dc eletto in una lista "fai da te" poi entrato a far parte del gruppo del Ccd all' Assemblea Siciliana, e l' ex parlamentare Dc alla Camera Francesco Spina. E proprio di un parlamentare Dc che sarebbe "nelle mani" di Vincenzo Virga, parla in un' intercettazione ambientale acquisita agli atti del processo "Prometeo" il figlio del boss, Pietro, poi arrestato e condannato a 14 anni di reclusione: "Mio padre gli ha detto: come ti abbiamo fatto eleggere ti facciamo cacciare". Pietro Virga, 27 anni, e' una "testa calda": due settimane dopo la rescissione dell' appalto per la raccolta dei rifiuti tento' di incendiare l' impianto di riciclaggio. Anche il fratello Francesco, 30 anni, titolare di gran parte delle societa' di "famiglia", tutte confiscate dalla magistratura, e' stato condannato a 11 anni per associazione mafiosa. La provincia di Trapani, spiega il capo della squadra mobile Giuseppe Linares, era "governata" da Vincenzo Virga e da Matteo Messina Denaro, che si erano spartiti il territorio e gli affari. Un equilibrio reso "instabile" dalla scalata di un altro latitante mazarese, Andrea Mangiaracina.

21 febbraio - Sono stati revocati, per scadenza dei termini della custodia cautelare, gli arresti domiciliari a Vito Palazzolo che comunque per il momento non sara' liberato. Con il capomafia di Cinisi Gaetano Badalamenti in carcere negli Stati Uniti, nel processo in corso a Palermo, Palazzolo e' accusato dell' omicidio di Peppino Impastato nel 1978. A Palazzolo e' stata applicata la misura dell' obbligo di dimora. Per la Procura, pero', nonostante la revoca degli arresti, non vi e' alcun rischio che il boss torni in liberta' almeno fino ad aprile, quando finira' di scontare otto anni di reclusione ai quali e' stato condannato, per associazione mafiosa, dai giudici del maxi-quater. La corte d' assise si ritirera' in camera di consiglio per la sentenza il 5 marzo.

22 febbraio - "L' Espresso" scrive che uno dei progetti su cui stavano lavorando gli uomini di Provenzano era un affare da 35 miliardi: la costruzione di un ipermercato a Cinisi, insieme a Maurizio Zamparini, presidente del Venezia calcio, e proprietario del gruppo Emmezeta. "Per questo - scrive il settimanale - gli uomini del superlatitante Provenzano per quasi due anni avevano lavorato nell' ombra, stringendo accordi economici, politici e mafiosi. Giuseppe Leone, il presunto capomafia di Carini, un paesino a un tiro di schioppo da Cinisi, aveva discusso con gli altri boss e alla fine avevano siglato quello che lui stesso definiva il 'superpatto'. Un alleanza di ferro tra famiglie di rispetto che prevedeva la spartizione, tra uomini d' onore e amministratori locali, una tangente del 10 per cento, 3 miliardi e mezzo, sull' importo dei lavori, il diritto per Leone di scegliere l' impresa che avrebbe realizzato l' ipermercato e l' acquisto, da parte 'di quelli di Venezia' (il gruppo Zamparini), di alcuni terreni intestati a dei familiari di Tano Badalamenti. Provenzano aveva dato il suo placet - scrive sempre 'L' Espresso' - attraverso Pippo Palazzolo, un insospettabile prestanome che per conto del capo dei capi era proprietario nel nisseno di un 'feudo' di 100 ettari. Una segnalazione del Sisde, a meta' del '99, aveva pero' spinto il Gico della Guardia di Finanza a piazzare delle microspie nelle auto di Palazzolo e di Leone. Da quel momento le procure di Palermo e di Caltanissetta seguono cosi' in diretta l' attivita' degli uomini del boss di Cinisi". Al termine delle indagini, concluse il 27 gennaio con otto arresti, il quadro, riferisce il settimanale, "e' impressionante. Se in manette finisce un uomo di centrosinistra, il consigliere comunale di Cinisi Giuseppe Pizzo, le intercettazioni portano alla luce rapporti veri o presunti con parlamentari nazionali e regionali del Polo. Leone si vanta con il suo braccio destro Antonio Giannusa di controllare 500 voti a Terrasini, e di aver contribuito in maniera determinante all' elezione del parlamentare del Ccd Carmelo Carrara. Secondo Leone, la mafia avrebbe anche appoggiato alle ultime elezioni europee la candidatura di Ciccio Musotto, l' ex presidente della provincia asssolto tre anni dall' accusa di concorso esterno in associazione mafiosa". "Nelle intercettazioni - continua L' Espresso - compare anche il nome di Gianfranco Micciche', coordinatore regionale di Forza Italia. A dire di Leone, avrebbe una vecchia amicizia con il presunto capobastone di Terrasini, Salvatore D' Anna".

23 febbraio - La Procura di Palermo ha inviato le intercettazioni in cui si parla di alcuni politici, alla commissione parlamentare antimafia. Si tratta degli atti giudiziari dell'inchiesta sui presunti favoreggiatori del boss Bernardo Provenzano, arrestati nelle scorse settimane fra Cinisi e Terrasini, due comuni del palermitano. Era stata la stessa commissione a chiedere gli atti dell'inchiesta ai magistrati palermitani. L'indagine sfociata il 27 gennaio nell'arresto di otto persone, riguarda anche un consigliere comunale di Cinisi del centrosinistra Giuseppe Pizzo mentre nelle intercettazioni si parla di presunti rapporti con parlamentari nazionali e regionali della Casa delle liberta'. Nel 1999 gli inquirenti puntano l'attenzione su Giuseppe Leone, presunto capomafia di Cinisi, e su Giuseppe Palazzolo, 51 anni, latitante, accusato di essere il prestanome di Provenzano. Gli investigatori registrano le conversazioni dei due indagati. Leone si vanta con il suo braccio destro Antonio Giannusa, arrestato il 27 gennaio, di "controllare 500 voti a Terrasini" e di aver contribuito in maniera determinante all' elezione del parlamentare del Ccd Carmelo Carrara. Nelle intercettazioni che la Procura ha inviato all' antimafia compare anche il nome di Gianfranco Micciche', coordinatore regionale di Forza Italia che secondo Leone avrebbe una vecchia amicizia con il presunto capomafia di Terrasini, Salvatore D' Anna.

27 febbraio - Il tribunale della liberta' respinge la richiesta di scarcerazione presentata da Balduccio Di Maggio, perche' sussistono le esigenze cautelari e c' e' il rischio che l' ex pentito tenti un' altra volta di fuggire.

27 febbraio - La Corte d' Assise di Palermo, accogliendo l' istanza dei familiari di Peppino Impastato, decide di acquisire agli alli la recente relazione della commissione parlamentare antimafia. La richiesta era stata formalizzata dal legale di parte civile, avvocato Vincenzo Gervasi. La Corte, presieduta da Claudio Dell' Acqua, interroga Angelo Izzo, uno dei torturatori del Circeo che sconta l' ergastolo per il delitto del giudice Vittorio Occorsio. Citato dal pm Franca Imbergamo, il teste ha riferito che seppe dal militante di ordine Nuovo Pierluigi Concutelli (anche lui all' ergastolo) che Impastato era stato ucciso su richiesta della  mafia da estremisti neri. Ma subito dopo Concutelli, smentisce: "Izzo millanta confidenze che non gli ho mai fatto", ha affermato Concutelli che ha aggiunto: "In memoria del prefetto Mori, facciamola finita". Il comandante del tempo della stazione carabinieri di Cinisi, maresciallo Alfonso Travali, interrogato dalla Corte a sua volta ha detto: "Chiedemmo ai compagni di partito di Impastato e a suo fratello di darci le prove che dietro l' omicidio ci fosse Gaetano Badalamenti, ma loro allargarono le braccia". Questa dichiarazione e' stata contestata animatamente dall' avvocato Gervasi secondo il quale gli investigatori ebbero invece la massima collaborazione possibile.

1 marzo - "La Repubblica" edizione di Palermo pubblica un articolo dal titolo “Pronte rivelazioni bomba su personaggi eccellenti - Ai pm delle Procure di Palermo e Caltanissetta aveva fatto i nomi di molti politici - i verbali”. Nell’ articolo ci sono alcune accuse di un pentito a personaggi politici che noi riportiamo per dovere di documentazione, lasciando al quotidiano la repsponsabilita’:
“Il 16 febbraio scorso il pentito della Sacra Corona Unita Paolo Iacobazzi ha riferito ai pm di Caltanissetta: "Sono detenuto con Calogero Pulci fin dal novembre del 2000. Prima di allora non lo conoscevo. Al suo arrivo mi fu presentato da un altro detenuto, Massimo D'Amico (collaboratore della Dda di Lecce, ndr), e da allora egli si appiccicò a me. Veniva a trovarmi tutte le sere nella mia stanza. Dapprima mi rappresentò di essere in grado di fornire agli inquirenti indicazioni significative che investivano personaggi eccellenti delle istituzioni, quali politici e magistrati, in seguito egli mi fece esplicito riferimento alle persone di Mannino, Vizzini, Ajala, Andreotti, Gava, Andò, Scotti, Martelli, Dell'Utri e Cardinale, puntualizzando che in merito a questi profili aveva reso all'autorità giudiziaria di Caltanissetta dichiarazioni non approfondite ritenendo che la procura di Caltanissetta lo aveva abbandonato. Aggiunse che su questi temi scottanti aveva reso alle procure di Palermo e di Catania dichiarazioni ben più ampie e aveva fornito prova documentale delle sue affermazioni". In una occasione parlò di Scotti e Martelli, "come mandanti della strage Falcone", e di Borsellino che "sarebbe morto per la sua ingenuità consistita nell'aver rappresentato proprio a Scotti e a Martelli la sua determinazione a proseguire nelle investigazioni avviate dal collega Falcone". Il detenuto rivela anche che Pulci gli parlò del ministro Cardinale: "Mi disse che era affiliato al clan Madonia". Le rivelazioni del pentito avevano inquadrato nel mirino della calunnia anche Ajala. Iacobazzi racconta che Pulci gli parlò di un contributo elettorale da 50 milioni dati all'ex sottosegretario alla Giustizia. Sul punto però Pulci, riferisce sempre Iacobazzi, avrebbe ricevuto "un invito a dimenticarsi questo nome da parte dei magistrati di Catania". Al compagno di detenzione Pulci avrebbe poi ammesso esplicitamente di avere mentito sul coinvolgimento dei propri amici negli omicidi. Il racconto di Iacobazzi è confermato da Massimo D'Amico: "Pulci, sin dall'avvio della collaborazione ha elaborato una precisa strategia di depistaggio, ha elaborato accuse nei confronti di personaggi eccellenti al fine di accreditare il suo contributo". Sempre D'Amico rivela che Pulci avrebbe stimolato Giuseppe Trubia a scagionarlo dall'accusa di omicidio. Sentito a sua volta, Trubia conferma e rivela di aver saputo da un altro detenuto che Pulci era venuto in possesso dei nomi di quattro detenuti nel carcere di Prato ai quali era affidato il compito di ordire "una manovra per screditare Giuseppe Giuga". Si tratta del collaboratore che Pulci aveva coinvolto nelle accuse a Contrada e che successivamente aveva rivelato tutto. Affamato di notizie, Pulci avrebbe anche "cercato di acquisire notizie giudiziarie sui processi di altri collaboratori". D'Amico fa i nomi di Totuccio Contorno, Giulio Di Natale e Vincenzo Brusca. Dopo le prime dichiarazioni dello stesso Trubia, Pulci fu messo in isolamento e la popolazione dei collaboratori si divise sulla scelta di denunciarlo.”

5 marzo - La Corte d' assise di Palermo, presieduta da Angelo Monteleone, condanna a 30 anni di reclusione il boss Vito Palazzolo, accusato dell' omicidio di Peppino Impastato. Dello stesso omicidio e' imputato, ma in un altro processo,il  boss di Cinisi Tano Badalamenti. Rinviato al giudice civile la liquidazione del risarcimento dei danni in favore delle parti civili. Impastato, attraverso i microfoni di Radio Aut, nelle sue trasmissioni denunciava anche i traffici di droga e le speculazioni edilizie di esponenti mafiosi della zona come Badalamenti e Palazzolo. Entrambi sono stati incriminati come mandanti del delitto nel 1996 e rinviati a giudizio due anni dopo. Le loro posizioni processuali hanno seguito pero' strade diverse: Palazzolo ha infatti scelto di essere processato con il rito abbreviato. Giovanni Impastato, fratello di Peppino, commenta:”Finalmente e' stata fatta giustizia”. “Sono emozionato - ha aggiunto - oggi oltre alla verita' storica e' emersa anche quella giudiziaria”. Per il pm Franca Imbergamo “il verdetto di stasera scrive una pagina da ricordare per l' amministrazione della giustizia. E' stato confermato il valore della prima istruttoria condotta dal giudice Rocco Chinnici che ha pagato con la vita il suo impegno contro la mafia”. “Sono senza parole - ha affermato Vincenzo Gervasi, legale di parte civile della famiglia Impastato - questo e' un caso che seguo dal 1978. Ora mi aspetto solo che chi ha depistato le indagini in questi ultimi anni sia chiamato a risponderne”. Per l' altro avvocato di parte civile Fabio Lanfranca “i trenta anni anziche' l' ergastolo inflitti a Palazzolo sono il risultato della scelta del rito abbreviato fatta dall' imputato e nulla tolgono alla valenza di questa sentenza”. “Le sentenze non si commentano si appellano”, ha invece liquidato con questa battuta, l' avvocato Paolo Gullo, legale di Palazzolo. Per Claudio Fava, sceneggiatore del film “I Cento Passi” e segretario regionale dei Ds, e’ “Una pagina di verita' tardiva ma indispensabile”. “La sentenza - aggiunge - afferma anche sul piano giudiziario una certezza che fino  ad ieri apparteneva solo alle nostre conoscenze e alla nostra memoria. Aspettiamo, con serena fiducia, la condanna di Gaetano Badalamenti”. Secondo Francesco Forgione, segretario regionale del Prc, “per la prima volta una sentenza riconosce che Impastato fu ucciso dalla mafia. Ora vogliamo tutta la verita' su chi ha occultato e depistato le prove non consentendo alla giustizia di riconoscere quanto i familiari da tempo denunciavano”.

7 marzo - Nel processo ter per la strage di via D' Amelio davanti alla corte d' assise d' appello di Caltanissetta, il pentito Calogero Pulci, 41 anni, accusato di calunnia per avere depistato indagini antimafia, dice che "Quando, dopo la strage di Capaci, Scotti e Martelli dissero in tv che il Csm doveva riaprire i termini per dare l' opportunita' a Borsellino di diventare procuratore nazionale, Madonia esclamo':"e mori' Borsellino". Ex consigliere comunale di Somatino (Caltanissetta), Pulci ha sostenuto di avere coperto la latitanza del boss nisseno Piddu Madonia, di avere incontrato Provenzano 'che chiamavano lo zio" e di avergli procurato documenti falsi, cosi' come 'per due volte, a Riina e a Madonia'. Il pentito ha poi parlato delle stragi di Capaci e via d' Amelio. "Prima della strage di Capaci fui avvisato da Madonia di non frequentare la zona di Palermo perche' avrei avuto problemi, perche' loro stavano preparando l' 'attentatone' - ha esordito - mi e' stato detto di limitarmi a parlare di questi fatti perche' sono in corso accertamenti. Ai magistrati ho parlato di politici ancora in carica". E su via D'Amelio ha detto:"Chiesi a Murana in carcere: come fate a fidarvi di Scarantino? Lui mi rispose che ha fornito solo la macchina".

7 marzo - Lo stato delle indagini per la cattura di Bernardo Provenzano e le esigenze di coordinamento investigativo tra le forze di polizia impegnate nella caccia ai latitanti sono stati al centro di una riunione congiunta tra i magistrati delle Direzioni distrettuali e antimafia di Palermo e Caltanissetta alla quale ha partecipato il procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna. Erano presenti il procuratore di Palermo Pietro Grasso, l'avvocato generale Vittorio Aliquo', il procuratore generale ed il procuratore della Repubblica di Caltanissetta Salvatore Celesti e Giovanni Tinebra, i questori e i dirigenti delle Squadre Mobili di Palermo, Agrigento, Trapani e Caltanissetta, i comandanti provinciali e dei reparti operativi dei carabinieri delle stesse citta', i vertici della Guardia di Finanza e del Ros di Palermo e Caltanissetta e il direttore della Dia Angiolo Pellegrini. "E' stata una riunione molto, molto positiva". Cosi' il Procuratore Nazionale Antimafia Pierluigi Vigna ha commentato il vertice. Vigna ha spiegato di avere raccolto "le indicazioni provenienti dai procuratori della Repubblica e dai procuratori generali di Palermo e Caltanissetta" e ha sottolineato che "si e' realizzata una forte azione di coordinamento tra tutte le forze di polizia" impegnate nella caccia ai mafiosi latitanti. Soddisfatto anche il procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra, il quale ha sottolineato che "da diverso tempo esiste una perfetta sintonia" per quanto riguarda il coordinamento tra magistratura e forze dell' ordine. "Abbiamo tuttavia ritenuto utile - ha aggiunto il procuratore - fare il punto sulla situazione e confrontarci su quelli che devono essere i criteri guida nella caccia ai latitanti". Secondo Tinebra "dalla riunione e' emersa una volonta comune di collaborare, in modo sinergico e coordinato, oltre a una identita' di vedute sugli obiettivi e sui metodi da perseguire".

7 marzo - Una consulenza tecnica depositata dalla difesa di Marcello Dell'Utri, imputato di calunnia insieme con i pentiti Vincenzo Chiofalo e Cosimo Cirfeta sostiene che Marcello dell'Utri non e' mai entrato nella casa del pentito Vincenzo Chiofalo, come attestato dalle indagini della Dia, ma si e' limitato a restare in giardino. La difesa ha inoltre chiesto al gip Alfredo Montalto di considerare inutilizzabili, disponendone la distruzione, le intercettazioni telefoniche e i tabulati telefonici relativi al parlamentare e acquisiti agli atti del processo. Era stata la Camera ad autorizzare l'utilizzo processuale delle intercettazioni, realizzate sull'utenza del pentito. Il gip si e' riservato di decidere alla prossima udienza prevista per il 14 marzo. Secondo l'accusa il deputato di Forza Italia avrebbe organizzato un depistaggio di indagini inducendo alcuni pentiti a dichiarare il falso allo scopo di erodere la credibilita' dei collaboratori che lo accusano. Nell' udienza preliminare, la difesa del parlamentare produce anche il decreto di archiviazione con il quale il gip di Palermo Gioacchino Scaduto ha archiviato la posizione del deputato di Forza Italia, Marcello Dell' Utri, dall' accusa di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e associazione per delinquere semplice. Il giudice ha archiviato anche la posizione di Fabio D' Agostino per il quale era stata ipotizzata l' associazione per delinquere per traffico di stupefacenti. E' stata la Procura della Repubblica a chiedere le due archiviazioni. Dell' Utri era stato accusato di essere coinvolto in un traffico di droga dopo dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo La Piana.
Secondo l' accusa Marcello Dell' Utri avrebbe dato nel '96 ad Enrico Di Grusa, genero di Vittorio Mangano, la sua disponibilita' economica per finanziare un traffico di cocaina. La vicenda e' stata raccontata dal collaboratore di giustizia Vincenzo La Piana. Il pentito ricorda che gli incontri con il parlamentare sarebbero avvenuti in un capannone situato a Rozzano, in provincia di Milano, ma il testimone non partecipo' mai alla discussione che gli venne riferita da Di Grusa. Il traffico, per una serie di imprevisti legati anche ad alcuni arresti, ha spiegato La Piana, non venne mai portato a termine e Dell' Utri non avrebbe versato la somma di denaro. La circostanza lo scorso gennaio e' stata raccontata in aula dal collaboratore nel corso del processo che si svolge a Palermo e vede Dell' Utri imputato di concorso in associazione mafiosa. La procura ha chiuso l' inchiesta, con la richiesta di archiviazione, sostenendo che non vi era stato l' acquisto della cocaina, e dunque e' escluso il coinvolgimento del parlamentare. L' avvocato Giuseppe Di Peri, difensore di Marcello Dell' Utri, ha dichiarato che "la Procura di Palermo non ha affatto archiviato l' inchiesta nei confronti dell' onorevole Dell' Utri relativamente all' imputazione sulla droga perche', secondo quanto riferisce La Piana, non vi sarebbe stato acquisto di cocaina, ma perche' nei suoi confronti non sono stati rinvenuti elementi che potessero minimamente sostenere l' accusa. Tant' e' vero che per gli altri imputati si sta celebrando l' udienza preliminare". "Pertanto possiamo ben dire - ha concluso il legale - che l' estraneita' di Dell' Utri e' riconosciuta dal pm a prescindere da quanto ha riferito La Piana".

8 marzo - Marcello Dell'Utri, deputato di Forza Italia, prende la parola a fine seduta mentre i deputati stanno uscendo dall' aula, e dice:"Trovo significativo e augurale che questo evento di giustizia coincida con la fine della legislatura. La Camera, il 13 aprile del '99, decise di respingere la domanda di autorizzazione a procedere all'arresto nei miei confronti avanzata dalla procura della repubblica di Palermo. Oggi, a due anni di distanza quella vicenda si e' sovvertita grazie a un decreto di archiviazione per l'accusa piu' infamante che riguardava il traffico internazionale di stupefacenti. Sento il dovere di informarne il Parlamento dando atto dell'opera di giustizia compiuta in quella occasione sia pure in un difficile perdurante clima di contrapposizione politica e personale che tante sofferenze ha procurato a me e ai miei familiari, ai miei amici". "Vorrei - ha aggiunto Dell'Utri - che questa vicenda servisse da monito e da esperienza a tutti noi e a quanti anche in buona fede hanno creduto di poter puntare sul discredito politico e sull'annientamento morale dell'avversario. E' importante che "questo evento di giustizia coincida con la conclusione della legislatura nella quale queste strategie inique si sono manifestate. Speriamo che nelle prossime legislature il Parlamento rifiuti questi scadimenti partigiani della lotta politica e che principi costituzionali come quello della presunzione di innocenza non rischino di essere trasformati, ne' per chi gode della prerogativa parlamentare ne' per il comune cittadino in presunzioni di colpevolezza". L'intervento di Dell'Utri e' stato interrotto da Walter Bielli (Ds, componente della Giunta per le autorizzazioni a procedere) che ha gridato: "Non e' vero, sei un bugiardo". E dai banchi di Forza Italia un parlamentare ha urlato piu' volte all'indirizzo di Bielli: "Beria, Beria".

9 marzo – “Il Corriere della sera” pubblica alcune anticipazioni su un prossimo libro in cui l' ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli e il pm Ingroia rievocano gli anni successivi alla strage di Capaci:
“ROMA - L'inizio dell'avventura coincise con l'arresto più importante nella storia della lotta alla mafia. Un segnale di buon auspicio per il difficile lavoro appena cominciato, ma anche l'avvio di un nuovo mistero siciliano. L'ennesimo. "Certo, è un grande giorno quello", scrive Gian Carlo Caselli ricordando il 15 gennaio del 1993, quando lui s'insediò alla Procura di Palermo mentre i carabinieri mettevano le manette a Totò Riina. Ma poi aggiunge: "Non sapevo allora che nessuno aveva tempestivamente messo sotto controllo il suo rifugio. L'ho saputo dopo e ne sono rimasto sconcertato... Scopriremo in seguito che il covo era stato impunemente svuotato dai mafiosi, senza che vi fosse alcun osservatore a dare l'allarme. Una sorpresa che mi lasciò di sasso... Un brutto episodio, un esempio di insufficiente coordinamento fra magistratura e carabinieri e tra gli stessi carabinieri, certo un fatto gravissimo che ha lasciato un'ombra su un'operazione così decisiva".
IL PROCESSO - Frasi pesanti quelle dell'ex procuratore antimafia, sicuramente meditate a lungo, limate parola per parola e perciò tanto più significative, pubblicate a otto anni di distanza dai fatti e nonostante le ripetute spiegazioni dell'Arma. Sintomo di una ferita che ancora brucia e di una denuncia che si vuole riproporre. Va letto anche così, il libro scritto da Caselli e dal
sostituto procuratore palermitano Antonio Ingroia insieme al giornalista Maurizio De Luca, L'eredità scomoda. Da Falcone ad Andreotti, sette anni a Palermo (Feltrinelli, in libreria dal 16 marzo): duecento e più pagine di ricordi, riflessioni e analisi riferite con toni apparentemente diplomatici e rispettosi, ma dietro le quali traspare comunque la polemica e l'accusa. Come quella lanciata contro una politica "distratta" sui temi dell'antimafia, termine garbato utilizzato per accusare anche (ma non solo) chi non ha risparmiato critiche al lavoro di Caselli e dei suoi sostituti. A cominciare dalla gestione del processo Andreotti, finito con un'assoluzione che l'ex capo dell'ufficio - oggi a Bruxelles come rappresentante italiano di Eurojust, futura super-procura europea, dopo un anno e mezzo trascorso alla guida delle carceri - e il pm rimasto a Palermo non riescono ancora a spiegarsi. Un esito "per noi sorprendente e inaspettato", dice Ingroia. "Mi sono chiesto se per caso il tribunale, a forza di studiare le carte processuali del senatore Andreotti, non abbia finito per metabolizzarne gli atteggiamenti", aggiunge Caselli, il quale non manca di sottolineare il "dilagare del senatore sui media e le tantissime celebrazioni pubbliche, laiche e religiose, che l'avevano assolto anticipando i giudici. Una strategia intelligente, rientrante a pieno titolo nei diritti di chi deve difendersi, che ha potuto contare anche su significativi appoggi e sulle campagne di tipo maccartista condotte, in generale, contro l'azione di tante Procure italiane". Sul banco degli imputati soprattutto i politici, chiamati in causa con nomi e cognomi: molti prevedibili, qualcuno un po' meno. "E' stato per me sorprendente - commenta Caselli verso la metà del libro, scritto sotto la forma del dialogo tra lui e Ingroia - dover constatare che tra i principali detrattori dei collaboratori di giustizia c'è stato anche Ottaviano Del Turco, proprio quando aveva la responsabilità di presidente della Commissione parlamentare antimafia. Francamente, in non pochi casi, mi sarei aspettato da lui almeno qualche distinzione e precisazione in più". A volte il nome manca, ma il riferimento a Berlusconi è esplicito quando i due magistrati discutono degli "attacchi più gravi e sistematici" sferrati contro i giudici da "una certa cavalleria" che ha utilizzato in particolare - denunciano Caselli e Ingroia - Il Giornale , Il Foglio , Panorama e "per un lungo tempo la trasmissione televisiva Sgarbi quotidiani".
"ATTENZIONI" - Spiega l'ex procuratore: "E' un dato di fatto che tutte queste "attenzioni", provenienti da un'area omogenea, si sono infittite ogni volta che sono state assunte o falsamente attribuite, principalmente a Palermo e Milano, iniziative giudiziarie che potevano creare "fastidi", diretti o indiretti, al leader di quell'area o a persone a lui vicine". C'è una sferzata contro un vecchio leader siciliano dell'ex Pci come Emanuele Macaluso, spesso critico con la Procura guidata da Caselli che replica: "Non ho letto i suoi libri, mi sono bastati alcuni suoi interventi sui giornali così inspiegabilmente pieni di livore e così intrisi di pregiudizio ostile da convincermi subito che lì non c'era proprio niente da imparare". E c'è l'accusa, sempre dell'ex procuratore, nei confronti di un centrosinistra troppo incline ai compromessi in materia di giustizia, come ai tempi della Bicamerale: "Si è scelto come relatore Marco Boato che, dico io, non a caso poi insieme al parlamentare Marcello Pera, responsabile giustizia di Forza Italia, ha formato quel gruppetto di deputati che ha consentito al Foglio , diretto da Giuliano Ferrara e la cui proprietà pubblicamente viene assegnata alla moglie dell'onorevole Silvio Berlusconi, di poter richiedere il finanziamento di Stato".
IL CASO DI MAGGIO - I due magistrati dell'antimafia parlano anche dei possibili errori commessi da loro stessi; non tanto strategie processuali sbagliate o inopportune, quanto atteggiamenti o singoli episodi che potevano portare a scelte diverse. Sul "disagio crescente in vasti settori dell'opinione pubblica" verso le accuse di "concorso esterno in associazione mafiosa", ad esempio, Caselli ammette: "Avremmo dovuto impegnarci di più nel confronto, invece di arroccarci intorno alla "superba" convinzione di essere nel giusto". Ma Ingroia ribatte: quella "sorta di diffidenza nei confronti di ogni nostra iniziativa che non riguardasse soltanto i mafiosi con la coppola" è inevitabile quando si scopre "una società intrisa di illegalità", dove "condizionamenti, compiacenze, alleanze e complicità" si realizzano a tutti i livelli, anche nella "borghesia dei salotti buoni". Sul pentito Balduccio Di Maggio, quello del presunto "bacio" tra Riina e Andreotti, l'ex-procuratore rivela: "Anche a noi il particolare del bacio è parso immediatamente un particolare difficile da digerire, che avrebbe suscitato scalpore, scandalo, fin troppo interesse". Quello però aveva detto il collaboratore e quello fu verbalizzato e tentato di riscontrare. Poi si scoprì che, approfittando della quasi immediata libertà, Di Maggio era tornato in Sicilia per consumare le sue vendette di mafia, omicidi compresi. "Forse - commenta Caselli ricordando le discussioni con i due pubblici ministeri del processo - sarebbe stato meglio prendere atto della marea che era stata fatta montare e magari "tagliare" processualmente Di Maggio, rinunciando agli elementi d'accusa a lui riferibili nel processo Andreotti". Prevalse invece l'idea di andare avanti, perché in tanti altri procedimenti le dichiarazioni del pentito avevano retto e provocato ergastoli: "Per decidere diversamente avremmo dovuto essere più furbi o più tattici o più spregiudicati, ma non è questo il nostro mestiere". L'ex procuratore si rimprovera anche "una certa "disattenzione"" rispetto a episodi apparentemente minori "ma suscettibili di ripercussioni di ben più ampia portata". Così, sugli arrestati mostrati in tv con le manette ai polsi mentre vengono spinti dentro le auto di polizia e carabinieri, confessa: "Avrei dovuto rendermi conto (e compiere i passi conseguenti) che la ripetizione di queste immagini fino alla routine finisce per essere, per quel che di irrispettoso contiene della dignità e dei diritti delle persone, ingiusta e controproducente per le istituzioni". Alla fine, il bilancio di sette anni a Palermo, dalle stragi del '92 all'assoluzione di Andreotti, vissuti in prima linea tra angosce e speranze, successi e delusioni, entusiasmi e veleni, per i due magistrati è comunque positivo. "So che sarebbe ben grave se qualcuno pensasse che nostro dovere oggi sia quello di chiedere scusa. So che che io non chiederei mai scusa per quello che abbiamo fatto", conclude Ingroia. "Chiedere scusa? E perché? Nella sostanza, pur ammettendo che certi profili potrebbero anche essere rivisti, magari col senno di poi, rifarei le stesse cose. Perché non abbiamo fatto nient'altro che il nostro dovere, secondo legge e coscienza", conclude Caselli."

9 marzo - "La Repubblica" pubblica un’ intervista al presidente della commissione Antimafia Giuseppe Lumia:
“Catturarlo non basta. Se la trentennale latitanza di Bernardo Provenzano domina gran parte della relazione conclusiva della commissione parlamentare antimafia, il suo presidente, il diessino Giuseppe Lumia va oltre: "Bisogna catturarlo, certo, ma una volta preso, una democrazia forte deve sapere di quali collusioni, economiche e istituzionali, ha goduto. Lo dobbiamo al paese".
Se è per questo, anche sul tema dei rapporti tra mafia e politica c'è molto da scavare, non crede?
"Ne sono convinto. Sulle stragi, ad esempio, bisogna continuare a investigare sui rapporti tra i corleonesi e la politica".
Pensa all'inchiesta sui mandanti occulti?
"Penso a una risposta giudiziaria ma anche a un lavoro sul modello di quello che abbiamo fatto per il caso Impastato".
Intanto sul piano repressivo si è rischiata la cancellazione dell'ergastolo, sottovalutazioni o cosa?
"Abbiamo corretto quella distorsione e ci siamo incamminati verso il doppio binario: una legislazione studiata appositamente per il contrasto alla mafia".
Quali caratteristiche per la legislazione antimafia?
"Gli anni Novanta sono gli anni di Provenzano. La sua strategia ha fallito sul tema dell'ergastolo e sul tema del 41 bis. Sull'ergastolo abbiamo detto, il 41 bis è stato prorogato fino al 2002. Noi puntiamo a stabilizzarlo. Ma per la mafia il mito dell'impunità è crollato".
Racket, appalti e riciclaggio, quali interventi?
"Sul racket ottima è stata l'azione del commissario Tano Grasso: denunciare conviene. Noi diciamo che chi non lo fa è complice".
In tema di appalti puntate l'indice sui rischi connessi agli oltre 18 mila miliardi di fondi di Agenda 2000. Come assicurarli?
"Con la stazione unica appaltante. Su questo tema la Regione è totalmente inadempiente".
Poi c'è il riciclaggio ...
"Diciamo che va subito sottoscritta la convenzione Onu di Palermo. Poi c'è un profilo locale: mai più nessun imputato o indagato per mafia senza misure di prevenzione patrimoniali. Dobbiamo insistere sul tema della ricchezza mafiosa, io condivido le critiche e gli attacchi venuti su questo tema, siamo indietro".
C'è la legge sui collaboratori, ma 6 mesi per dire tutto non le sembrano pochi? Con una norma così il processo Impastato non si sarebbe fatto...
"Occorreva più rigore, la legge è la migliore possibile, ma non condividiamo affatto chi attacca lo strumento dei collaboratori. Diciamo che la legge è un passo in avanti, ma bisogna gestirla"."

9 marzo - All processo ai presunti affiliati a Cosa nostra che si svolge davanti ai giudici della corte d' assise di emerge che alcuni boss della cosca mafiosa di  Misilmeri avrebbero utilizzato fra il '93 ed il '94 il  telefonino di Giovanni La Lia, 37 anni, allora presidente del club Forza Italia di Misilmeri. La vicenda e' stata ricostruita dal consulente dell' accusa,  il vice questore Gioacchino Genchi, che ha deposto in aula. Rispondendo alle domande del pm Michele Prestipino, Genchi ha precisato che il cellulare intestato a La Lia sarebbe stato utilizzato dal gennaio '93 a febbraio del '94 dai boss Piero Lo Bianco, Pietro Correnti, Salvatore Benigno e dal macellaio Giovanni Tubato, quest'ultimo ucciso lo scorso anno dalla mafia. Secondo l' accusa dalla macelleria di quest' ultimo sarebbe transitato l' esplosivo utilizzato per le stragi del '93. La Lia, cugino del boss Lo Bianco, aveva sosenuto nel '94 che il cellulare era rimasto sempre in suo possesso. L' allora presidente del club 'azzurro' ha ricordato di aver conosciuto Angelo Codignoni, 'uomo di fiducia di Berlusconi e segretario nazionale dell' associazione nazionale Forza Italia, e il deputato Gianfranco Micciche', nei primi giorni di febbraio del '94, in occasione di un incontro dei presidenti dei club, tenutosi a Palermo, all' hotel San Paolo'.

9 marzo - Al processo ai  presunti esecutori materiali dell' uccisione del gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, il figlio del prefetto ucciso, Nando Dalla Chiesa, dice:“Mio padre sollecito' a lungo le  isituzioni affinche' gli concedessero  poteri di coordinamento investigativo in materia di lotta alla mafia”. Ai giudici della seconda sezione della corte d' assise di Palermo, presieduta da Giuseppe Nobile, Dalla Chiesa ha ricordato la lunga esperienza antimafia acquisita dal padre. Per tre volte in Sicilia, la prima negli anni '50, il generale dell' Arma si era occupato di lotta alla criminalita' organizzata. “Proprio per il bagaglio di conoscenze acquisito in materia- ha detto il teste- tra i tanti incarichi che gli vennero offerti decise di accettare quello di prefetto di Palermo”. Dalla Chiesa ha poi ricordato i giudizi confidatigli dal padre su alcuni politici siciliani. “Definiva la corrente andreottiana- ha continuato il testimone- la famiglia politica piu' inquinata dell'isola”. Il processo, che si svolge con il rito abbreviato, e' il primo dei due dibattimenti a carico degli esecutori materiali del delitto. Alla sbarra, Antonino Madonia e Vincenzo Galatolo e i due collaboratori di giustizia Calogero Ganci e Francesco Paolo Anselmo. L'altra tranche, celebrata nelle forme ordinarie, comincera' il prossimo 24 aprile.

10 marzo – “Il Corriere della Sera” pubblica una reazione di Andreotti e Macaluso alle affermazione del giudice Caselli:
“ROMA - Giulio Andreotti sorride: «Be’, vuol dire che appena esce mi comprerò il libro per leggerlo». Del libro scritto da Gian Carlo Caselli, il senatore a vita Andreotti ha già letto le anticipazioni pubblicate ieri dal Corriere. E non gli è sfuggito certo il passaggio dove l’ ex procuratore capo di Palermo definisce «sorprendente e inaspettata» la sua assoluzione al processo che lo vedeva imputato di associazione mafiosa. «Ma io non ci credo che fosse davvero così inattesa», commenta Giulio Andreo tti. E aggiunge: « Secondo me prima Caselli e poi i suoi sostituti hanno avuto davanti tutto il tempo per convincersi che le loro accuse contro di me non potevano tornare». Dopo aver lasciato Palermo per dirigere le carceri, oggi Gian Carlo Caselli è il rappresentante italiano di Eurojust, futura super-procura europea. Nel libro scritto a quattro mani con il magistrato Antonio Ingroia (che uscirà con Feltrinelli il prossimo 16 marzo) rievoca gli anni che seguirono la strage di Capaci. E non risparmia critiche verso coloro che, a parer suo, avrebbero ostacolato il suo lavoro di magistrato nella procura di Palermo. Lascia intendere Caselli nel suo libro: ci hanno attaccato perché facevamo indagini su Berlusconi. E non esita a criticare anche un vecchio leader siciliano dell’ex Pci come Emanuele Macaluso. Che replica: «Ho letto quello che ha scritto Caselli. Ebbene posso affermare con assoluta decisione che io non ho mai e, ripeto, mai pronunciato una sola parola livorosa nei confronti di Caselli». L’ex procuratore capo, al contrario, ha parlato proprio di interventi di Macaluso sui giornali pieni di livore. «Ed il fatto che Caselli consideri livore tutto ciò che è dissenso sul terreno della giustizia è francamente inquietante».

12 marzo - E' morta a Roma Saveria Antiochia, la madre di Roberto, il giovane agente di polizia assassinato col vicequestore Ninni Cassara' a Palermo il 6 agosto 1985. La signora Antiochia e' stata per anni una delle donne che a Palermo e in Sicilia hanno portato avanti l' impegno antimafia e numerose battaglie per la legalita'. Saveria Antiochia era nata a Torino il 15 luglio 1921. Aveva altri due figli, Alessandro, assunto come familiare di vittima della mafia dalla Regione Sicilia, e Corrado. Da due anni era affetta da un male incurabile che pero' non le impedive di intervenire nel dibattito sul fenomeno mafioso. Molti giornalisti si sono rivolti per anni a lei per avere commenti o spunti critici su temi d' attualita'. Il figlio Roberto, 23 anni, gia' trasferito alla questura di Roma dalla squadra mobile di Palermo, era in ferie quando torno' per stare a fianco del suo ex capo e amico, Ninni Cassara' dopo l' uccisione dell' altro dirigente di polizia Beppe Montana. Quando il commando di una ventina di sicari mafiosi mise a segno l' agguato di via Croce Rossa Antiochia cadde insieme al vicequestore. Si salvo' l' agente Natale Mondo che anni dopo venne ucciso all' Arenella. Per l' uccisione di Antiochia e Cassara' sono stati condannati i boss della cupola mafiosa, tra cui Toto' Riina, ed i sicari tra cui Nino Madonia ed i pentiti Anzelmo, Ganci, Ferrante e la Marca anche loro componenti del commando. Saveria Antiochia ha sempre seguito, da parte civile, le fasi di tutti i processi. L' impegno civile di Saveria Antiochia si tradusse anche in attivita' politica con la sua candidatura alle comunali nel '90 nella lista “Insieme per Palermo”. La lista era formata dal Pds e da altre associazioni e movimenti cittadini. La madre di Roberto si dimise dopo alcuni anni perche' non risiedeva stabilmente in citta' e non poteva seguire, come avrebbe voluto, la vita politica cittadina. Nel dicembre 1985 Saveria Antiochia e' stata tra i fondatori del circolo Societa' Civile di Milano ,e nel 1995 di 'Libera - associazioni, nomi e numeri contro le mafie'. “Chi ha avuto la fortuna di conoscerla - affermano le due associazioni – non potra' dimenticare questa donna intelligente e appassionata, la cui vicenda umana e' esemplare per coerenza e impegno civile”.

12 marzo - La corte d' Assise d' Appello di Palermo, presieduta da Biagio Insacco, accoglie l' istanza dei difensori di Toto' Riina e revoca la misura dell' isolamento diurno nei confronti del boss. Riina potra' trascorrere le cosiddette “ore d' aria” o di “socializzazione” con uno o piu' detenuti che saranno scelti dall' amministrazione del carcere in cui e' recluso, quello di Ascoli Piceno. La misura non incidera' sul regime del 41 bis cui e' sottoposto il boss corleonese in cella dal 15 gennaio 1993. Non e' la prima volta che all' ex capo di Cosa nostra viene tolta la misura dell' isolamento: in passato la Cassazione aveva annullato, su istanza dei difensori, un precedente provvedimento della corte d' Assise palermitana. Su ricorso della procura generale, pero', l' isolamento diurno e' stato ripristinato. Secondo il legale di Riina, Domenico La Blasca, la Corte di Assise d' Appello uniformandosi ad un orientamento della Cassazione ha deciso che la pena accessoria - che per legge non puo' superare i tre anni - dell' isolamento va cumulata nel caso che le sentenze definitive riguardino reati commessi prima dell' arresto. Riina, condannato all' ergastolo 12 volte, attende ancora che passi in giudicato la sentenza all' ergastolo per le cosiddette stragi a Roma, Milano e Firenze nel '93. Qualora venisse condannato definitivamente potrebbe ancora una volta essere posto in isolamento diurno. Luca Tescaroli, sostituto procuratore di Roma e pm nel processo per la strage mafiosa di Capaci, commenta:”Purtroppo siamo un Paese che non ha memoria e saremo costretti a rivivere il nostro passato”. “Non a caso l'impegno di Cosa Nostra - ha proseguito il pm - e' sempre stato diretto a neutralizzare il 41 bis, che prevede il regime di carcere duro. Consentendo un contatto con altri detenuti si agevolano i canali di comunicazione con l'esterno. Con questa decisione, al di la' delle intenzioni, si agevola Cosa Nostra”.

14 marzo - Giuseppe Palazzolo, 56 anni, bancario in pensione originario di Cinisi (Palermo) e indicato come il prestanome di Bernardo Provenzano, e’ arrestato mentre passeggiava nel suo comune di residenza, San Cataldo, nel nisseno. Palazzolo e' accusato di associazione mafiosa per avere acquistato appezzamenti di terreno per conto del latitante corleonese Provenzano. Dall' inchiesta congiunta delle procure di Palermo e Caltanissetta e' emerso che l' ex bancario sarebbe stato l' anello di congiunzione tra imprenditori e il capo di Cosa nostra. Palazzolo lo scorso mese era sfuggito ad un blitz ordinato dalla Procura di Caltanissetta. L' ex bancario Giuseppe Palazzolo, che e' incensurato, ha rappresentato secondo gli inquirenti, il punto di snodo terminale fra gli imprenditori, gli affiliati a Cosa nostra e Bernardo Provenzano. Un uomo dal volto pulito, mai coinvolto in inchieste di mafia, che avrebbe gestito gli affari di Cosa nostra gia' dai primi anni Novanta. Il primo collaboratore di giustizia che fa il nome di Palazzolo e' stato Giovanbattista Ferrante il quale ha raccontato che undici anni fa l' ex bancario incontrava Toto' Riina, accompagnato dai boss Salvatore Biondo e Salvatore Biondino. Il capomafia e Palazzolo, secondo il pentito, avrebbero affrontato discussioni che riguardavano la gestione di mezzi agricoli e appezzamenti di terreno in provincia di Caltanissetta. Dalle intercettazioni ambientali dello scorso anno si evidenzia che Palazzolo avrebbe ricevuto “bigliettini” da parte di presunti mafiosi e imprenditori, destinati al latitante Bernardo Provenzano. In un caso, gli investigatori, avrebbero registrato una conversazione in cui si faceva riferimento alla presenza del capo di Cosa nostra in una localita' vicino contrada Trabona, dove si trova l' abitazione di campagna di Giuseppe Palazzolo. Per l' avvocato Salvatore Gugino, difensore di Palazzolo, “Quella di oggi non e' stata una brillante operazione di polizia: seguendo una precisa strategia processuale concordata con la difesa il mio cliente si e' semplicemente consegnato ai carabinieri”. “Lo hanno fermato alle cinque del mattino mentre si dirigeva in caserma, a pochi metri dalla stessa - ha proseguito il legale - barcollava dalla fatica, in una mano aveva una borsa con indumenti, nell'altra lo spazzolino ed il dentifricio. Ed ha subito declinato le sue generalita'“. “Rivendico la scelta della costituzione - conclude il legale - e' anche un modo per dimostrare la provenzienza lecita dei 100 ettari di terra sequestrati ma acquistati dal mio cliente con regolari cambiali che produrremo al piu' presto”. Ai carabinieri che lo hanno avvicinato alle cinque del mattino, in pieno centro storico, a San Cataldo, Giuseppe Palazzolo ha detto che stava andando in caserma a costituirsi “perche' mi sento stanco”. I giudici della sezione misure di prevenzione del tribunale di Caltanissetta, lo scorso 29 gennaio, hanno ordinato il sequestro dei beni di Palazzolo, fra i quali due appezzamenti di terreno di 117 ettari, in contrada Trabona, a pochi chilometri da San Cataldo. Palazzolo e' uno degli indagati dell'operazione “Libia” portata a termine sempre a gennaio nei confronti di presunti favoreggiatori del capo di Cosa nostra.
“L' arresto di Palazzolo - secondo il generale Carlo Gualdi, comandante dei carabinieri in Sicilia - costituisce un importante tappa di avvicinamento a Provenzano: l' operazione ha il doppio significato di attaccare il settore economico di 'cosa nostra' e di stringere di piu' il cerchio attorno al suo capo”. Per il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, “si indebolisce sempre di piu' l' anello di favoreggiatori di Provenzano, cui e' stata tolta una pedina preziosa”.

14 marzo - Il gup di Palermo Alfredo Montalto ha respinto la richiesta avanzata dalla difesa del deputato di Forza Italia, Marcello dell' Utri, di distruggere le intercettazioni telefoniche e ambientali acquisite nel processo che lo vede imputato di calunnia. Il parlamentare e' accusato di avere organizzato, con la complicita' di due ex pentiti, Cosimo Cirfeta e Giuseppe Chiofalo, un piano per screditare i collaboratori di giustizia usati dalla procura nel processo in cui e' imputato per concorso in associazione mafiosa. Il sostituto procuratore Antonio Ingroia si era opposto alla richiesta, definendola infondata. Il pm ha sostenuto che la difesa di Dell' Utri “potrebbe avere paura del valore probatorio delle intercettazioni”. Il gup, dopo aver respinto le eccezioni, ha rinviato l' udienza al 19 marzo prossimo.
Il capo centro ed un funzionario della Dia di Palermo hanno incontrato fuori dall' aula in cui si svolge l' udienza preliminare nei confronti di Marcello Dell' Utri, accusato di calunnia, il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, parte offesa nel procedimento. Il pentito, che assisteva all' udienza, e' stato chiamato dai due funzionari. I tre, quindi, si sono appartati in un angolo dell' atrio del piano terreno del palazzo di Giustizia, mentre gli agenti del servizio di protezione controllavano che nessuno si avvicinasse al collaboratore. L' incontro e' stato notato da avvocati e giornalisti stupiti del fatto che gli investigatori colloquiassero col collaboratore che una volta era il boss indiscusso di Altofonte. Negli ambienti della Direzione investigativa antimafia palermitana e' stato detto che l' incontro e' stato sollecitato da Di Carlo ed e' durato tre o quattro minuti per un saluto, poiche' il pentito a suo tempo collaboro' a Reggio Calabria con uno dei due funzionari della Dia stessa nelle indagini sul delitto Terranova-Mancuso. Per Marcello Dell’Utri l’incontro tra la Dia e Di Carlo e’ l’ “Ennesima distorsione” del sistema e fatto “anomalo”. “Apprendo da fonti di stampa - afferma Dell'Utri - che il collaborante Francesco Di Carlo si sarebbe appartato con funzionari della Dia in un atrio del Tribunale di Palermo durante un'udienza del processo che mi riguarda. Rilevo che cio', oltre che anomalo per le comprensibili ragioni di sicurezza, configura l'ennesima distorsione di un sistema in cui il medesimo fatto e' legittimo se posto in essere da chi accusa, mentre e' una combine per screditare i pentiti se compiuto da un imputato che cerca elementi a propria difesa”.

14 marzo - La decisione della Corte d' Assise d' Appello di Palermo di revocare la misura dell' isolamento diurno nei confronti di Toto' Riina comportera' solo, per il boss, la possibilita' di trascorrere le quattro ore d' aria in compagnia. Per il resto, permangono le “notevolissime e rigidissime prescrizioni” del regime del 41 bis. Mentre la direzione del carcere di massima sicurezza di Marino del Tronto aspetta le indicazioni del ministero per dare esecuzione all' ordinanza di revoca della misura, il giudice di sorveglianza Raffaele Agostini annuncia in questi termini la sostanza del provvedimento. “D' altra parte - spiega il magistrato - si tratta di applicare la norma: l' art. 72 del Codice pennale parla di un periodo massimo di isolamento di tre anni, ad eccezione dei casi in cui il condannato commetta reati nel corso dell' esecuzione, in sostanza dopo l' inizio della carcerazione. Ma non e' questo il caso di Riina, che ha riportato condanne per reati precedenti e ha fatto molti piu' anni di isolamento dei tre previsti”. Sette, per la precisione, essendo stato arrestato nel 1993. La misura dell' isolamento diurno era stata revocata gia' una volta nell' estate del 1999, e quindi ripristinata. Riina insomma restera' in carcere da solo e continuera' ad essere sottoposto alle restrizioni del 41 bis, come quelle, ad esempio, che regolano i rapporti con i familiari: un'ora di colloquio una volta al mese o una telefonata di 10 minuti, sotto rigorosissimi controlli. “Delle quattro ore d' aria - precisa poi il magistrato - due sono di passeggio nel cortile del carcere, due quelle in cui il detenuto puo' accedere, con altri, nei locali della biblioteca, della palestra, o in quelli in cui e' possibile giocare a carte”. Agostini non sa dire se le misure adottate per Riina prevedevano o meno la possibilita' di guardare la televisione in cella: “Se c' era questo divieto, ora non c' e' piu’”. Quanto ai futuri 'compagni' del boss, verranno individuati fra i detenuti che appartengono a un' altra area geografica, e non alla stessa associazione mafiosa o a un' associazione opposta.

14 marzo - Con la deposizione di Calogero Pulci, ex reggente di Cosa Nostra di Sommatino e per la Dda nissena falso dichiarante, riprende il processo d' appello “Borsellino bis”. Pulci ha mostrato di essere reticente su numerosi episodi di cui aveva parlato in passato con la Procura nissena, celandosi dietro il segreto istruttorio su “rivelazioni importanti”. Parlando delle stragi di Capaci e via D' Amelio ha detto che i mandanti sono stati Martelli e Scotti. Di questo ne avrebbe gia' discusso con il pentito Paolo Iacobazzi durante un periodo di codetenzione. A lui avrebbe detto che “Borsellino era stato ucciso per la sua ingenuita', in quanto aveva rappresentato a Scotti e Martelli la sua determinazione nel proseguire le indagini sulla morte di Falcone”. Iacobazzi ha anche detto che Pulci “fece riferimento alla figura del ministro Cardinale, rappresentandomelo quale affiliato al clan Madonia”. L' avv. Giuseppe Scozzola oggi ha chiesto l' audizione del pentito Iacobazzi a cui si e' opposta la Procura generale. La Corte si e' riservata per il 28 marzo. Respinta invece la richiesta della Procura di effettuare un riconoscimento in aula tra Pulci e numerosi imputati a piede libero come Cosimo Vernengo e Gioacchino Murana.

14 marzo - Processo per l'omicidio di Peppino Impastato: il generale dei carabinieri Antonio Subranni, ormai in pensione, che condusse le prime indagini, esclude qualunque depistaggio o inquinamento delle indagini:”Depistaggio nelle indagini sulla morte di Impastato? Se e' stata privilegiata la pista del suicidio e' solo perche' fu trovata una lettera della vittima che palesava un dolore intenso”. “Non perquisimmo le case dei mafiosi - ha aggiunto - perche' la pista mafiosa suggerita da un esposto dei compagni di Impastato non aveva retto ai primi vagli investigativi”. Le certezze di Subranni vacillano pero' negli anni '80, quando incontrando il consigliere istruttore di Palermo Antonio Caponnetto apprende che nuove indagini avevano imboccato con decisione la pista dell'omicidio di mafia. “Mi resi conto che avevamo dato troppo spazio alla tesi del suicidio - ha ammesso Subranni - ma in quel momento, con quegli elementi, non c'era alternativa”. Dopo Subranni hanno deposto il tenente dei carabinieri Carmelo Canale, imputato di concorso in associazione mafiosa, e altri due carabinieri, tutti impegnati nelle indagini quella mattina del 9 maggio 1978 quando venne scoperto a Cinisi il corpo di Peppino Impastato dilaniato da una bomba.

14 marzo – Presentato il libro “Don Puglisi, vita del prete palermitano ucciso dalla mafia”, del giornalista Francesco Deliziosi, edito da Mondadori. Raiuno nella seconda settimana di aprile trasmettera' la fiction ispirata alla figura del sacerdote di Brancaccio, interpretata da Ugo Dighero e Beppe Fiorello.

14 marzo - Daniele Luttazzi, durante la puntata di Satyricon, intervista Marco Travaglio, autore del libro “L'odore dei soldi”, parlando di lui come di “un uomo che ha coraggio” e definendo l' Italia “un paese di merda”. In un' intervista, che fara' probabilmente discutere come alcune delle precedenti andate in onda del programma di Raidue, Luttazzi ha dato spazio all' autore del libro in gran parte dedicato a Silvio Berlusconi. Fra le altre parti del suo libro, Travaglio ha ricordato quella in cui viene citata l' intervista di Paolo Borsellino in cui si parla anche dei rapporti tra Berlusconi e Mangano. Quell' intervista, secondo Luttazzi, se fosse stata fatta oggi avrebbe fatto guadagnare anche a Borsellino, che aveva notoriamente simpatie di destra, l' epiteto di toga rossa. Alla fine Luttazzi, rivolto a Travaglio, ha concluso: “In questo paese di merda tu sei uno che ha coraggio”.

15 marzo – Per Silvio Berlusconi, quelle lanciate nella trasmissione Satyricon sono accuse inverosimili, formulate in base a una "intervista manipolata" e di fronte alle quali non si "abbassa a rispondere", ma annuncia querele. Berlusconi chiede le dimissioni del presidente della Rai Roberto Zaccaria e subito dopo ribadisce: "Evidentemente la sinistra è alla disperazione e deve ricorrere a queste bassezze. Sono sicuri di perdere e questa trasmissione è un boomerang per la sinistra". Prima delle esternazioni serali il leader della Casa delle libertà aveva affidato i suoi giudizi a una lunga dichiarazione scritta. La Rai, sostiene Berlusconi, si è trasformata "in cassa di risonanza di un libercolo diffamatorio presentato come una raccolta di verità da un suo autore" e le "sconvolgenti verità" esposte nella trasmissione Satyricon sono "null'altro che tesi affacciate, scegliendo fior da fiore, e omettendo quanto non di comodo in sede giudiziaria: tesi tanto sballate da non aver mai portato neanche all'emissione di un avviso di garanzia" nei suoi confronti. La cassetta con l'intervista di Paolo Borsellino, dice il Cavaliere, "è stata manipolata". "Davanti all'accusa secondo la quale sarei tra i mandanti occulti delle stragi di Capaci, di via D'Amelio, degli Uffizi - insiste - non mi abbasso a risponderne. Dovranno invece renderne conto l'autore del libercolo, il conduttore della trasmissione e i vertici della Rai". "Con l'avvicinarsi delle elezioni - scrive ancora il leader di Forza Italia - ero stato facile profeta nel prevedere che ne avremmo viste delle belle. Quello che non potevo nemmeno immaginare era che l'azienda che gestisce il servizio pubblico dell'informazione si trasformasse in cassa di risonanza di un libercolo diffamatorio presentato come una raccolta di verità da un suo autore, già condannato per diffamazione, con la complicità di un conduttore che lo aizzava a dire di tutto, di più e anzi di peggio". Berlusconi annuncia quindi che "ovviamente" i suoi legali chiederanno conto nelle opportune sedi giudiziarie del loro operato "ai diffamatori autori del libercolo". "La qualità dell'aggressione, concertata in mio danno - aggiunge - può essere percepita da chiunque quando si consideri il modo in cui il diffamatore e il suo complice hanno sfruttato il nome di Paolo Borsellino e l'intervista, presentata come una sorta di testamento spirituale, da lui resa due giorni prima della strage di Capaci: tutti sanno, e soprattutto lo sa la Rai, che la mandò in onda nel settembre 2000, che quella cassetta è stata manipolata, come risulta dalla trascrizione integrale dell'intervista pubblicata da 'L'Espresso' dell'8 aprile 1994, a pagina 80-84".

15 marzo - Ecco la trascrizione dell'intervista rilasciata dal magistrato Paolo Borsellino il 19 maggio 1992 ai giornalisti Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi. Quattro giorni dopo Giovanni Falcone venne ucciso in un attentato a Capaci. Due mesi dopo (1l 19 luglio) lo stesso Borsellino fu ucciso nell'attentato di via D'Amelio a Palermo. L'intervista del magistrato, trasmessa da un canale satellitare Rai e rifiutata da altre tv nazionali, è al centro delle polemiche scatenate dalla trasmissione "Satyricon" andata in onda ieri sera. Il gruppo Ds della Camera ne ha diffuso il testo integrale:
Borsellino
Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxi-processo e precisamente negli anni fra il 1975 e il 1980, e ricordo di aver istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane. Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come "uomo d'onore" appartenente a Cosa Nostra.
Giornalista
"Uomo d'onore" di che famiglia?
Borsellino
L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia della quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accertò che Vittorio Mangano, ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io e risultava altresì da un procedimento cosiddetto procedimento Spatola, che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precdenti al maxi-processo, che Vittorio Mangano risiedeva
abitualmente a Milano, città da dove come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale del traffico di droga, di traffici di droga che conducevano le famiglie palermitane.
Giornalista
E questo Mangano Vittorio faceva traffico di droga a Milano?
Borsellino
Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti risulta l'interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo, nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio mafioso delle famiglie palermitane, preannuncia o tratta l'arrivo di una partita di eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio convenzionale che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come magliette o cavalli.
Giornalista
Comunque lei in quanto esperto, può dire che quando Mangano parla di cavalli al telefono, vuol dire droga.
Borsellino
Si, tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga, è una tesi che fu avanzata alla nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta al dibattimento, tanto è che Mangano fu condannato al dibattimento del maxi processo per traffico di droga.
Giornalista
Dell'Utri non c'entra in questa storia?
Borsellino
Dell'Utri non è stato imputato del maxi processo per quanto io ne ricordi, so che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano.
Giornalista
A Palermo?
Borsellino
Sì, credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari.
Giornalista
Marcello Dell'Utri o Alberto Dell'Utri?
Borsellino
Non ne conosco i particolari, potrei consultare avendo preso qualche appunto, cioè si parla di Dell'Utri Marcello e Alberto, di entrambi.
Giornalista
I fratelli
Borsellino
Sì.
Giornalista
Quelli della Publitalia?
Borsellino
Sì.
Giornalista
Perché c'è nell'inchiesta della San Valentino, un'intercettazione fra lui e Marcello Dell'Utri in cui si parla di cavalli.
Borsellino
Beh, nella conversazione inserita nel maxi-processo, si parla di cavalli da consegnare in albergo, quindi non credo potesse trattarsi effettivamente di cavalli, se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo o comunque al maneggio, non certamente dentro l'albergo.
Giornalista
C'è un socio di Marcello Dell'Utri, tale Filippo Rapisarda che dice che questo Dell'Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade.
Borsellino
Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano più numerose, si è parlato addirittura in un certo periodo almeno di duemila uomini d'onore con famiglie numerosissime, la famiglia di Stefano Bontade sembra che in un certo periodo ne contasse almeno 200, si trattava comunque di famiglie appartenenti a una unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti, e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera.
Giornalista
Lei di Rapisarda ne ha sentito parlare?
Borsellino
So dell'esistenza di Rapisarda, ma non me ne sono mai occupato pesonalmente.
Giornalista
Perché quanto pare, Rapisarda, Dell'Utri, erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia.
Borsellino
Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Rapisarda e Dell'Utri, non so fornirle particolari indicazioni, trattandosi ripeto sempre di indagini di cui non mi sono occupato personalmente.
Giornalista
Non le sembra strano che certi personaggi, grossi industriali come Berlusconi, Dell'Utri, siano collegati a uomini d'onore tipo Vittorio Mangano?
Borsellino
All'inizio degli anni Settanta, Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa, un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali, dei quali naturalmente cercò lo sbocco, perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza tra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali.
Giornalista
Lei mi dice che è normale che Cosa Nostra si interessi a Berlusconi?
Borsellino
è normale che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerchi gli strumenti per poter impiegare questo denaro, sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro.
Giornalista
Mangano era un pesce pilota?
Borsellino
Sì, guardi le posso dire che era uno di quei personaggi che ecco erano i ponti, le teste di ponte dell'organizzazione mafiosa nel nord Italia.
Giornalista
Si dice che abbia lavorato per Berlusconi?
Borsellino
Non le saprei dire in proposito o anche se le debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo, so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito. Non conosco quali atti siano ormai conosciuti, ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi, è una vicenda che la ricordi o non la ricordi, comunque è una vicenda che non mi appartiene, non sono io il magistrato che se ne occupa quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla.
Giornalista
C'è un'inchiesta ancora aperta?
Borsellino
So che c'è un'inchiesta ancora aperta.
Giornalista (in francese)
Su Mangano e Berlusconi a Palermo?
Borsellino
Sì."

15 marzo - Sulle polemiche innescate dall'intervista del giornalista Marco Travaglio a “Satyricon”, l' ex-procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, attualmente rappresentante italiano nel network europeo di magistrati Eurojust, dice che "L'intervista di Borsellino non e' una cosa da commentare, ma una cosa e' certa: va ascoltata. Poi ciascuno potra' esprimere le sue valutazioni al
riguardo". Da parte sua, la Procura di Palermo ha fatto sapere (cito da un articolo del quotidiano “La Stampa”) che "l'inchiesta sul riciclaggi, che vedeva indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, è stata archiviata per scadenza dei termini": "Gli accertamenti erano incompleti e insufficienti per processarli". Sempre dalla Procura si sottolinea che gli accertamenti sulle holding della Fininvest sono stati "travasati nel processo in corso contro Dell'Utri, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa": "Abbiamo chiesto che il consulente di Bankitalia e lo stesso Berlusconi siano sentiti al dibattimento". Sull'intervista a Paolo Borsellino, infine, la Procura di Palermo fa sapere che "la Rai non ha manipolato la cassetta mandata in onda".

15 marzo - La redazione di Satyricon, dopo aver registrato la puntata con il giornalista Marco Travaglio ha inviato ieri pomeriggio un fax all' on. Marcello Dell'Utri per invitarlo a partecipare alla prossima puntata del programma. "Illustre onorevole Dell'Utri - si legge nella missiva - abbiamo ospitato nella puntata di Satyricon che va in onda questa sera alle 22,50 su Raidue Marco Travaglio, giornalista e autore del libro 'L'odore dei soldi'. Volendo dare a lei, on. Dell'Utri, la possibilita' di replica, avremmo piacere di averla ospite nella puntata di Satyricon che andra' in onda mercoledi' 21 marzo e che viene registrata a Roma martedi' 20 presso la nostra redazione". L' avvocato Pietro Federico, legale di Marcello Dell'Utri, afferma che "sull' intervista del giudice Paolo Borsellino e' in atto una speculazione che non puo' non indignare chiunque abbia a cuore la verita’". "In qualita' di legale dell'on. Marcello Dell'Utri - continua l'avv.Federico - subito dopo la trasmissione dell' intervista il 21 settembre 2000 da parte di Rai News 24, ho presentato formale diffida alla stessa Rai e alla Commissione parlamentare di Vigilanza, e successivamente un atto di denunzia-querela alla Procura della Repubblica di Roma. In questi atti, viene documentato un semplice dato di fatto: l'intervista trasmessa dalla Rai nello scorso settembre non corrisponde all'originale, rilasciata dal valoroso magistrato due giorni prima della strage di Capaci, nel maggio 1992, e pubblicata integralmente sul numero 14 del settimanale l'Espresso dell8 aprile 1994". "O meglio - prosegue il legale - i tagli, le manipolazioni, le operazioni di intarsio compiute hanno completamente stravolto il senso delle dichiarazioni rilasciate dal magistrato. E le esigenze di sintesi invocate dalla Rai non possono giustificare l'eliminazione di passaggi fondamentali o addirittura lo spostamento in blocco di alcune risposte, che non corrispondono piu' alle domande rivolte dagli autori dell' intervista". In questo modo, sottolinea l'avv. Federico, viene stravolto "completamente il senso delle affermazioni". Due esempi: "Primo, l'intercettazione telefonica fra l'on. Dell'Utri e Vincenzo Mangano in cui si parla di 'cavalli'. Dall'intervista trasmessa dalla Rai, si potrebbe desumere che Borsellino accrediti il sospetto secondo cui con 'cavalli' si intendano in realta' partite di droga. Ma basta leggere il testo originale per capire che si tratta di un falso clamoroso: e' il risultato della manipolazione per cui si sostituisce un' intercettazione con un'altra, si sopprimono dichiarazioni chiarificatrici rese dall'intervistato, si ricompongono altre dichiarazioni secondo un ordine diverso dalla versione originale". Secondo esempio portato dall'avv. Federico: "Alla domanda sulla verosimiglianza di collegamenti tra Cosa Nostra e personaggi di rilievo del mondo imprenditoriale come l'on. Berlusconi e l'on. Dell'Utri, il dott. Borsellino nella versione originale risponde: 'A prescindere da ogni riferimento personale perche' ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorche' l' organizzazione mafiosa...', cui fanno seguito considerazioni, appunto, di carattere generale". "Ma la premessa del magistrato e il suo preciso rifiuto di fare ogni riferimento personale - sottolinea il legale - nell'intervista trasmessa dalla Rai sono stati cancellati. Credo che questi esempi siano sufficienti a qualificare il livello della speculazione che attorno all'intervista del dottor Borsellino si continua senza il minimo pudore a compiere".

15 marzo - Rai News 24 decide di ritrasmettere alle 18.10 lo speciale "Paolo Borsellino: una intervista smarrita", gia' trasmesso il 21 settembre dello scorso anno e citato ieri da Marco Travaglio durante "Satyricon". L' intervista, realizzata da due giornalisti francesi, venne registrata alla vigilia della strage di Capaci e due mesi prima dell'attentato in cui perse la vita lo stesso Borsellino. All'epoca, ricorda Rai New 24, l'intervista non venne mandata in onda. Rai News 24 la ritrovo' e la mando' in onda cosi' come i giornalisti francesi l'avevano editata.

15 marzo – Marco Travaglio reagisce alla bufera che si e'scatenata dopo l' intervista televisiva di Luttazzi a Satyricon dicendo:"Un risultato l' ho ottenuto: sono riuscito a sdoganare Borsellino". "Mi fa immensamente piacere - afferma - che oggi la Rai ritrasmetta integralmente l' ultima intervista televisiva rilasciata dal procuratore di Palermo, prima che venisse ucciso dalla mafia". Travaglio e' autore di altri pamphlet polemici, sempre sui temi della giustizia: "Il processo" ('97), sull' inchiesta che coinvolse Cesare Romiti, "Meno grazia e piu' giustizia", libro intervista al procuratore di Torino Marcello Maddalena, "Il manuale del perfetto impunito", uscito l' anno scorso. "E ne sto preparando uno - aggiunge - sulle sentenze che riguardano i potenti, sia di destra che di sinistra". La sua carriera giornalistica e' iniziata al Giornale, che lascio' nel 1994 per seguire Montanelli alla Voce. Poi e' stato free lance (collaborando a varie testate) fino al 1998, quando e' stato assunto da Repubblica. Da 15 mesi gli viene pignorato un quinto dello stipendio: deve risarcire 80 milioni a Previti che lo ha querelato e ha vinto la causa ("per ora in primo grado"). A chi gli fa notare che il suo libro su Berlusconi riporta solo le tesi accusatorie, risponde: "L' unico documento giudiziario e' un pezzo della requisitoria del pm Luca Tescaroli nel processo per la strage di Capaci". E sulla querela annunciata da Berlusconi afferma: "Il libro e' uscito un mese fa ed era stato presentato da vari giornali". Uno scritto diffamatorio? "Veltri ed io non siamo dei giudici, abbiamo letto dei documenti ritenuti interessanti e li abbiamo pubblicati". Sul fatto che sia stato intervistato sul suo libro proprio in campagna elettorale, replica: "E' proprio in campagna elettorale che si deve parlare di queste cose. In America i candidati vengono scarnificati, le elezioni devono svolgersi col massimo della trasparenza". Intervenendo alla trasmissione 'Prima Serata' su TeleLombardia, Marco Travaglio ha detto di non pentirsi di nulla: "Lo rifarei subito, io vado dove mi invitano e dove ho liberta' di parola". Alla domanda se si stupiva che il presidente dell'Ordine dei giornalisti, Petrina, avrebbe chiesto all'Ordine del Piemonte una verifica sulla correttezza del suo comportamento, Travaglio ha chiesto se era su 'Scherzi a parte' e poi ha ribattuto: "Quello che mi sorprende e' che Petrina sia presidente dell'Ordine dei giornalisti". "La Rai invita giornalisti che non parlano - ha concluso Travaglio - e dunque e' naturale che le domande di politica le facciano i comici satirici”.

16 marzo – L’ agenzia Ansa pubblica la presentazione del libro “L’ eredita’ scomoda”, di Giancarlo Caselli e Antonio Ingroia, edito da Feltrinelli.
“Un libro che riapre le mai chiuse ferite delle divisioni negli apparati dell'antimafia, questo colloquio tra due magistrati, Giancarlo Caselli (negli anni '80 giudice antiterrorismo a Torino, dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, procuratore di Palermo, oggi a Bruxelles alla guida della nascente superprocura europea) ed Antonio Ingroia (uno dei suoi sostituti in quei sette anni a Palermo), curato dal giornalista Maurizio De Luca. A far salire agli occhi lacrime di rabbia, a stringere lo stomaco, non del lettore comune, ma di chi quelle vicende ha vissuto, sono i passi che ricordano le riunioni del Csm che portarono a scegliere come successore di Caponnetto alla guida della procura di Palermo il piu' anziano Meli contro Giovanni Falcone e poi a tacitare di nuovo Falcone, Borsellino e quanti altri denunciavano lo smantellamento del pool antimafia ad opera del nuovo procuratore. Ancora, e' il ricordo, che nelle pagine di Caselli ed Ingroia manca, di altre riunioni nelle quali di nuovo i magistrati scelsero di bocciare Giovanni Falcone, candidato a rappresentarli, e dei sospetti che accompagnarono la sua partenza per Roma, allorche' fu chiamato da Claudio Martelli al ministero della giustizia. Incomprensioni, errori, divisioni tra le toghe, ed in particolare in seno alle correnti di sinistra, Md e Movimenti riuniti, cosi' violente che all'indomani della strage di Capaci il sostituto procuratore Ilda Boccassini, che con Falcone aveva collaborato a diverse inchieste, in un'assemblea alla procura di Milano, punto' il dito contro i colleghi gridando: "lo avete ammazzato voi!". La Boccassini parti' poi, volontaria, per la procura di Caltanissetta per guidare quell'inchiesta che, per la prima volta nella storia d'Italia, ha individuato e portato alla condanna degli esecutori di un delitto eccellente. Tutto questo non c'e' nel libro di Giancarlo Caselli, Antonio Ingroia e Maurizio De Luca, come sono sfumate le altrettanto violente contrapposizioni, i reciproci sospetti nel seno dell'antimafia che hanno fatto da contorno all'arresto di Riina, al processo Andreotti, al pentimento di Brusca. Eppure, anche se ogni frase e' ponderata e le asperita', se non rimosse, sono smussate, Caselli scrive di non riuscire "a dimenticare i tanti interrogativi, le perplessita', i problemi suscitati dall'indirizzo della commissione bicamerale prima che i suoi lavori si concludessero in un nulla di fatto. E' difficile dimenticare il clima" che si creo' durante i lavori e che "ha avuto riflessi non positivi sulla nostra situazione, sulle amnesie di stato, sulle distrazioni e il calare dell'impegno". Fa anche qualche nome per indicare chi ha attaccatto "le procure piu' attive, Palermo e Milano in testa":gli onorevoli di Forza Italia Tiziana Maiolo, Filippo Mancuso, Titti Parenti, "Il giornale nuovo", "Panorama", "Il Foglio", "Sgarbi quotidiani". E affonda: "E' un dato di fatto che tutte queste attenzioni, provenienti da un'area omogenea, si sono infittite ogni volta che sono state assunte o falsamente attribuite (principalmente a Palermo e Milano) iniziative giudiziarie che potevano creare fastidi diretti o indiretti al leader di quell'area o a persone a lui vicine". Ma ce n'e' anche per il centro sinistra. Caselli fa i nomi del presidente della Bicamerale Marco Boato e di quello della commissione parlamentare antimafia Ottaviano Del Turco. Perche', si chiede Caselli, si sono lasciate morire le inchieste su Tangentopoli e sulla mafia?: "E' avvenuto per semplice sottovalutazione? per errore d'analisi? perche' qualcuno e' caduto in un trabocchetto?". E conclude "Non e' il mio mestiere trovare risposte a queste domande. So pero' che anche questi fatti, anche queste interruzioni e distrazioni istituzionali, hanno aperto crepe contribuendo a portare all'attuale situazione non proprio esaltante...sul nostro lavoro e' scesa una nebbietta che ha finito con l'oscurare la direzione del nostro cammino e soprattutto molte lusinghiere prospettive concrete che sembravano a portata di mano".”

16 marzo - L'ex presidente di Publitalia Marcello Dell'Utri, intervistato da "Baobab" di Radio Uno Rai, dice:"Non c'e' da difendersi, ma solo da attaccare". Il parlamentare di Fi afferma di non aver mai saputo, all'epoca, che il giudice Borsellino si occupasse delle sue attivita'. A proposito della telefonata con lo stalliere della villa di Berlusconi ad Arcore, Vittorio Mangano, che secondo il magistrato era "un pesce pilota della mafia", Dell'Utri ripete che "e' gia' stata analizzata dai giudici ed e' stato chiarito che si parlava di un cavallo". All'obiezione che "si parlava di cavalli da consegnarsi in albergo", il deputato ammette di sapere che nel gergo mafioso il termine cavallo puo' riferirsi ad una partita di droga, ma sottolinea che l'intervista a Borsellino, cosi' come e' stata riferita da Luttazzi e Travaglio, e' stata "manomessa", in modo da riferire risposte date dal magistrato in tempi e luoghi diversi "per far pensare che il termine cavallo si riferisse a tutt'altro". "Io non sapevo - dice ancora Dell'Utri - che Mangano fosse in odore di mafia. Ad Arcore fu arrestato per assegni a vuoto". Quanto alle sue prossime azioni, Dell'Utri riferisce che intende anzitutto tutelarsi "vivendo tranquillo". "Sono tranquillo - dice - con la forza della verita'. Ma dal punto di vista legale non posso non agire per tutelare la mia immagine".

16 marzo - "L' Espresso" ripubblica il testo dell' intervista di Borsellino riportata dal libro di Travaglio e Veltri che ha provocato le polemiche sulla trasmissione Satyricon:
INCHIESTE
Esclusivo: il testo dell'ultima intervista a Borsellino Titolo: Un cavallo per Marcello. Gli autori: Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo. Così, sull'Espresso dell'8 aprile 1994, viene pubblicato il lungo testo dell'intervista rilasciata dal giudice Paolo Borsellino ai due giornalisti. Dopo il clamore suscitato dal programma di Raidue Satyricon, nel quale il giornalista Marco Travaglio ha ricordato alcuni passaggi-chiave di quell'intervista, ve ne riproponiamo il testo integrale
di Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo
Anni Settanta. La mafia porta al nord capitali. E uomini-ponte. Come Mangano. Che trova un posto grazie a Dell'Utri. Ecco l'analisi-racconto del magistrato di Palermo.
 "Gli imputati del maxiprocesso erano circa 800: furono rinviati a giudizio 475". Scelta l'inquadratura - Paolo Borsellino è seduto dietro la sua scrivania - Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi cominciano l'intervista domandando al giudice i dati sul maxiprocesso di Palermo del febbraio '86. Il giudice ricorda con orgoglio di aver redatto, nell'estate dell'85, la monumentale sentenza del rinvio a giudizio. Subito dopo, i due giornalisti chiedono notizie su uno di quei 475, Vittorio Mangano. E' solo la prima delle tante domande sul mafioso che lavorava ad Arcore: passo dopo passo, Borsellino - che con Giovanni Falcone rappresentava un monumentale archivio di dati sulle cosche mafiose - ricostruisce il profilo del mafioso. Racconta dei suoi legami, delle connessioni, e delle sue telefonate intercettate dagli inquirenti in cui si parla di "cavalli". Come la telefonata di Mangano all'attuale presidente di Publitalia, Marcello Dell'Utri (dal rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S. del 13 aprile 1981 che portò al blitz di San Valentino contro Cosa Nostra, ndr). E ancora: domande sui finanzieri Filippo Alberto Rapisarda e Francesco Paolo Alamia, uomini a Milano di Vito Ciancimino. Infine sullo strano triangolo Mangano, Berlusconi, Dell'Utri. Mentre di Mangano il giudice parla per conoscenza diretta, in questi casi prima di rispondere avverte sempre: "Come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo... qualsiasi cosa che dicessi sarebbe azzardata o non corrispondente a verità". Ma poi aggiunge particolari sconosciuti: "... Ci sono addirittura delle indagini ancora in corso... Non sono io il magistrato che se ne occupa...". A quali indagini si riferisce Borsellino? E se dopo quasi due anni non se n'è saputo nulla è perché i magistrati non hanno trovato prove sufficienti?
Quel pomeriggio di maggio di due anni fa, Paolo Borsellino non nasconde la sua amarezza per come certi giudici e certe sentenze della Corte di Cassazione hanno trattato le dichiarazioni di pentiti come Antonio Calderone ("... a Catania poi li hanno prosciolti tutti... quella della Cassazione è una sentenza dirompente che ha disconosciuto l'unitarietà dell'organizzazione criminale di Cosa Nostra..."); ma soprattutto, grazie alle sue esperienze di magistrato e come profondo conoscitore delle strategie di Cosa Nostra, l'unico al quale Falcone confidava tutto, Borsellino offre una chiave di lettura preziosa della Mangano connection che sembra coincidere con le più recenti dichiarazioni dei pentiti. Quella che segue è la trascrizione letterale (comprese tutte le ripetizioni e le eventuali incertezze lessicali tipiche del discorso diretto) di alcuni capitoli della lunga intervista filmata, quasi cinquanta minuti di registrazione.
Tra queste centinaia di imputati ce n'è uno che ci interessa: tale Vittorio Mangano, lei l'ha conosciuto?
"Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il '75 e l'80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L'indagine fu particolarmente fortunata perché - attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice - si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un'ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere - ora i miei ricordi si sono un po' affievoliti - di questa famiglia, che era stata autrice dell'estorsione. Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l'esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l'ho ritrovato nel maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d'onore appartenente a Cosa Nostra".
Uomo d'onore di che famiglia?
"L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo delle famiglie palermitane".
E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?
"Il Mangano, di droga... (Borsellino comincia a rispondere, poi si corregge, ndr), Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l'interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta l'arrivo di una partita d'eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come "magliette" o "cavallo". Il Mangano è stato poi sottomesso al processo dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico di droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa - beh, sì per associazione semplice - riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più ;700 milioni di multa... La sentenza di Corte d'Appello confermò questa decisione di primo grado...".
Quando ha visto per la prima volta Mangano?
"La prima volta che l'ho visto anche fisicamente? Fra il '70 e il '75".
Per interrogarlo?
"Sì, per interrogarlo".
E dopo è stato arrestato?
"Fu arrestato fra il '70 e il '75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l'ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po' sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni".
Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?
"A Palermo la prima volta (è la risposta di Borsellino; ai giornalisti interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, ndr)".
Quando, in che epoca?
"Fra il '75 e l'80, probabilmente fra il '75 e l'80".
Ma lui viveva già a Milano?
"Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo".
E si sa cosa faceva a Milano?
"A Milano credo che lui dichiarò di gestire un'agenzia ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità, perché anche nel processo, quello delle estorsioni di cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non "cavalli" per mascherare il traffico di stupefacenti".
Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?
"Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero...".
Ma lui comunque era già uomo d'onore e negli anni Settanta?
"... Buscetta lo conobbe già come uomo d'onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa di quell'estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata... Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d'incontro... ma tutti e due erano detenuti all'Ucciardone qualche anno prima o dopo il '77".
Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova...
"Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d'onore. Contorno tuttavia - dopo aver affermato, in un primo tempo, di non conoscerlo - precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade (uno dei capi dei corleonesi, ndr)".
Mangano conosceva Bontade?
"Questo ritengo che risulti anche nella dichiarazione di Antonino Calderone (Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che avrebbe parlato a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso dei Mille, gli Zanca, ndr)...".
Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c'è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un invitato (Luigi D'Angerio, ndr) che usciva dalla casa di Berlusconi.
"Non sono a conoscenza di questo episodio".
Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un'avanguardia?
"Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le "teste di ponte" dell'organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n'erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono (altri mafiosi coinvolti nell'inchiesta di San Valentino, ndr) credo Alfredo Bono che nonnostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c'è dubbio comunque che... è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po' diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone (nel '76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr) lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all'interno dell'organizzazione mafiosa...".
Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?
"Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone".
Dunque quando Mangano parla di "cavalli" intendeva droga?
"Diceva "cavalli" e diceva "magliette", talvolta".
Perché se ricordo bene c'è nella San Valentino un'intercettazione tra lui e Marcello Dell'Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol: "Mangano parla con tale dott. Dell'Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli chiede di Tony Tarantino. L'interlocutore risponde affermativamente... il Mangano riferisce allora a Dell'Utri che ha un affare da proporgli e che ha anche "il cavallo" che fa per lui. Dell'Utri risponde che per il cavallo occorrono "piccioli" e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare dal suo amico "Silvio". Dell'Utri risponde che quello lì non "surra" [non c'entra, ndr]").
"Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare (Borsellino guarda le sue carte, ndr). No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo... Tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant'è che Mangano fu condannato".
E Dell'Utri non c'entra in questa storia?
"Dell'Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano".
A Palermo?
"Sì. Credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari".
Dell'Utri. Marcello Dell'utri o Alberto Dell'Utri? (Marcello e Alberto sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della Venchi Unica, oggi tutti e due sono dirigenti Fininvest, ndr).
"Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto (Borsellino guarda le carte, ndr), cioè si parla di Dell'Utri Marcello e Alberto, entrambi".
I fratelli?
"Sì".
Quelli della Publitalia, insomma?
"Sì".
E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell'Utri?
"Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla".
Sì, ma nella conversazione con Dell'Utri poteva trattarsi di cavalli?
"La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo (Borsellino sorride, ndr). Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l'albergo".
In un albergo. Dove?
"Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Plaza (l'albergo di Antonio Virgilio, ndr) di Milano".
Ah, oltretutto.
"Sì".
C'è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti Mangano e Dell'Utri?
"Non mi dovete fare queste domande su Dell'Utri perché siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena... dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi".
Sono di Palermo tutti e due...
"Non è una considerazione che induce alcuna conclusione... a Palermo gli uomini d'onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero".
C'è un socio di Dell'Utri tale Filippo Rapisarda (i due hanno lavorato insieme; la telefonata intercettata di Dell'Utri e Mangano partiva da un'utenza di via Chiaravalle 7, a Milano, palazzo di Rapisarda, ndr) che dice che questo Dell'Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade (i giornalisti si riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver conosciuto con il boss dei corleonesi, Bontade, ndr).
"Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia di Pippo Calò... Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose - almeno 2000 uomini d'onore con famiglie numerosissime - la famiglia di Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si trattava comunque di famiglie appartenenti a un'unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera... So dell'esistenza di Rapisarda ma non me ne sono poi occupato personalmente".
A Palermo c'è un giudice che se n'è occupato?
"Credo che attualmente se ne occupi..., ci sarebbe un'inchiesta aperta anche nei suoi confronti...".
A quanto pare Rapisarda e Dell'Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia (Francesco Paolo Alamia, presidente dell'immobiliare Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7, ndr).
"Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Dell'Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente".
Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.
"Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla".
Ma c'è un'inchiesta ancora aperta?
"So che c'è un'inchiesta ancora aperta".
Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?
"Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia concernenti anche Mangano".
Concernenti cosa?
"Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento".
Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell'Utri e uomini d'onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s'interessa all'industria, o com'è?
"A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l'organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All'inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa. Un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all'industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso".
Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s'interessi a Berlusconi?
"E' normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l'organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali".
E uno come Mangano può essere l'elemento di connessione tra questi mondi?
"Ma, guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un'attività commerciale. E' chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti".
Però lui si occupava anche di traffico di droga, l'abbiamo visto anche in sequestri di persona...
"Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni - siamo probabilmente alla fine degli anni '60 e agli inizi degli anni '70 - appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c'è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona".
A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai giornalisti 12 fogli, le carte che ha consultato durante l'intervista: "Alcuni sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, alcuni non lo so...". Non sono documenti processuali segreti ma la stampa dei rapporti contenuti dalla memoria del computer del pool antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell'intervista: Mangano, Dell'Utri, Rapisarda, Berlusconi, Alamia.
E questa inchiesta quando finirà?
"Entro ottobre di quest'anno...".
Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?
"Certamente...".
Perché ci servono per un'inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria...
"Passerà del tempo prima che...", sono le ultime parole di Paolo Borsellino. Palermo, 21 maggio, 1992.

16 marzo - Il boss mafioso Giovanni Brusca chiamato come teste della difesa al processo sulle presunte coperture di Cosa Nostra nel Nord Italia e che vede imputati per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti Antonino Curro' e Natale Sartori e due loro collaboratori, Daniele Formisano e Ottone Cesario, dice che a Milano non esisteva alcuna cellula di Cosa Nostra ma c'erano solo uomini d'onore come i fratelli Bono, Fidanzati e Martello "che andavano e venivano": alcuni "erano residenti" nel capoluogo lombardo, per altri "era uno dei luoghi che frequentavano". Secondo l'accusa Curro' e Sartori sono ritenuti punti di riferimento milanesi per i presunti esponenti mafiosi Enrico Di Grusa e Vittorio Mangano, l'ex stalliere di Arcore.  E proprio di Mangano, Brusca, collegato in videoconferenza dal carcere in cui e' rinchiuso, ha detto che apparteneva a Cosa Nostra ma che non ha mai costituito alcuna filiale mafiosa ne' a Milano ne' in altre parti d'Italia e che non ha mai fatto alcuna affiliazione. Brusca ha anche spiegato di aver voluto che Mangano, nel luglio del '93, sostituisse Salvatore Cancemi a reggere Porta Nuova, uno dei mandamenti di Palermo. Giovanni Brusca per piu' di mezz'ora ha spiegato ai giudici la sua storia di uomo d'onore, dall'iniziazione nel '75-'76 a quando e' diventato capofamiglia. Rispondendo alle domande di uno dei difensori, l'avv. Franco Marasa', Brusca ha detto: "C'era una cellula mafiosa su Roma e una su Napoli", ma non a Milano, dove pero' risiedevano alcuni personaggi che conosceva. "I fratelli Bono, i Fidanzati, i Martello: andavano e venivano a Milano perche' facevano parte di Cosa Nostra, ma li' non c'era una cellula". Giovanni Brusca ha spiegato in aulacome e' strutturata Cosa Nostra e ha ripartito in tre periodi la sua appartenenza alla grande famiglia; ha escluso che gli imputati (e anche Di Grusa) siano stati uomini d'onore e ha bollato Vincenzo La Piana, uno dei pentiti nel processo, come un "calunniatore".

16 marzo - In un comunicato, gli Editori Riuniti ringraziano Daniele Luttazzi e gli autori della trasmissione "per il coraggio dimostrato" nell'invitare Marco Travaglio alla puntata di lunedi' scorso. "Il clamore suscitato dalla trasmissione - sottolinea la casa editrice - ha fatto impennare le vendite del libro e, quel che per noi e' estremamente importante, la diffusione di informazioni serie e documentate". Gli Editori Riuniti hanno anche deciso di mettere sul proprio sito (www.editoririuniti.it) tutto il primo capitolo del libro di Travaglio e Veltri: alle 14.30 di oggi gli accessi al sito sono stati oltre 20.000. Attualmente la media degli acquisti e' di circa 20 all'ora. La casa editrice ha poi annunciato che e' in corso una ristampa di 60.000 copie che saranno disponibili a partire da lunedi' 19 marzo nelle grandi citta' ed entro giovedi' 22 su tutto il territorio nazionale. Alla presentazione del libro lunedi' 26 marzo a Milano alla libreria Feltrinelli, oltre a Nando Dalla Chiesa e Massimo Fini, saranno presenti anche Dario Fo e Franca Rame.

17 marzo - "Il Corriere della sera" pubblica una breve scheda sul libro "L'odore dei soldi"
"Il volume di Marco Travaglio ed Elio Veltri al centro delle polemiche dopo Satyricon , si basa soprattutto su atti provenienti dalle inchieste contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Bisogna ricordare che - in base al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale - le procure sono costrette ad aprire un procedimento ogni qual volta ci sono accuse dirette dei "pentiti". Finora però tutte le indagini per fatti collegati alla criminalità organizzata contro il Cavaliere si sono chiuse con la richiesta di archiviazione. Diversa la posizione di Dell'Utri, contro il quale si sta svolgendo a Palermo il processo di primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma ecco nel dettaglio le ricostruzioni contenute nel libro - citate anche nell'intervista di Satyricon - e gli esiti giudiziari che hanno avuto. Le stragi di mafia. E' il capitolo che ha innescato il dibattito più acceso. Le indagini sugli attentati del 1992-1993 hanno portato la magistratura nissena a definire uno scenario di "mutamento istituzionale". In pratica, Cosa Nostra avrebbe cercato di eliminare i vecchi referenti nei partiti e di trovare un patto con nuovi alleati. I primi "pentiti" hanno descritto un progetto volto a creare una serie di formazioni federaliste o secessioniste, ispirate al modello della Lega Nord e appoggiate dalla massoneria. Successivamente invece alcuni collaboratori di giustizia hanno indicato - sempre riferendo discorsi appresi da altri mafiosi - in Berlusconi e Dell'Utri i nuovi interlocutori della Cupola. E' stata acquisita agli atti anche l'intervista del giudice Borsellino. Nella requisitoria del processo d'appello per l'eccidio di Capaci il pm Luca Tescaroli, poi, ha esplicitato questa ricostruzione. E nel 1997 Berlusconi e Dell'Utri vennero iscritti nel registro degli indagati proprio nell'ambito del procedimento sui mandanti delle stragi. Ma nello scorso dicembre - allo scadere del termine concesso dalla legge per completare gli accertamenti - la Procura di Caltanissetta ha chiesto di archiviare le ipotesi contro i due parlamentari di Forza Italia. Non solo: il pm ha domandato di processare Filippo Alberto Rapisarda, un uomo d'affari che aveva accusato di riciclaggio il fondatore della Fininvest, per calunnia ai danni di Berlusconi. (Nota del curatore del sito: In realta' il giudice Tescaroli, ora pm a Roma, dichiara: "Non ho mai inoltrato, ne' inteso inoltrare alcuna richiesta di rinvio a giudizio per il reato di calunnia nei confronti di Filippo Rapisarda ai danni dell'on. Berlusconi. Non risponde dunque a verita' quanto pubblicato stamane dal Corriere della Sera"). L'ultima parola spetta ora al gip.
Lo stalliere di Arcore. La vicenda di Vittorio Mangano resta invece centrale nel dibattimento palermitano contro Dell'Utri. Mangano, morto un anno fa, era ritenuto dagli inquirenti esponente di spicco della famiglia mafiosa di Porta Nuova ed erede di Pippo Calò. Nel '74-'75 venne assunto da Dell'Utri - che lo conosceva da tempo - come responsabile delle stalle della villa di Arcore. All'epoca lo stalliere era già stato segnalato dalla Questura di Milano, aveva subìto tre arresti e numerosi procedimenti penali. Durante la residenza ad Arcore venne arrestato almeno un'altra volta, poi il Cavaliere decise di allontanarlo. Dell'Utri ha sempre detto che negli anni Settanta ignorava i legami criminali dello stalliere, ma ha mantenuto contatti con lui fino al 1995. Arrestato alla fine di quell'anno, Mangano è stato poi condannato in primo grado all'ergastolo per omicidio, associazione mafiosa, estorsione e traffico di droga.
Il processo di Palermo. La Procura di Palermo sotto la guida di Gian Carlo Caselli ha svolto indagini su Berlusconi e Dell'Utri. Nell'ottobre 1996 - dopo due anni di accertamenti - ha chiesto di archiviare ogni ipotesi nei confronti del Cavaliere e di processare invece Dell'Utri. Da allora, il giudizio di primo grado contro il deputato di Forza Italia va avanti con grande lentezza: la prossima udienza ci sarà solo a fine mese. Le accuse sono basate sulle dichiarazioni di 18 "pentiti": gli viene contestato anche di avere aiutato a nascondere dei latitanti nella villa di Arcore. Per la difesa si tratta di "un affastellarsi confuso e contraddittorio di elementi tutti irreali". Nel marzo 1999 la Procura di Palermo chiese alla Camera di arrestare Dell'Utri: secondo i pm, il parlamentare aveva organizzato un piano, incontrando e contattando alcuni "pentiti", per delegittimare gli accusatori e così inquinare le prove. Dell'Utri replicò di avere avuto solo contatti leciti per costruire la sua difesa. La Camera si oppose all'arresto con 22 voti di scarto.
Le altre archiviazioni. Nel 1996 un "pentito" ha detto che Dell'Utri si sarebbe offerto di finanziare il traffico di droga del genero di Mangano. E' stata aperta un'indagine chiusa dai pm di Palermo con la domanda di archiviazione, accolta dal gip una settimana fa. Diverse le convinzioni della Procura di Palermo per l'inchiesta sull'ipotesi di riciclaggio: era stato chiesto il rinvio a giudizio. Ma nel marzo 2000 il gip Gioacchino Scaduto ha ritenuto insufficienti gli indizi raccolti in circa centomila pagine e ha archiviato tutto. Nel corso di questa istruttoria sono state analizzate le origini dei capitali usati dalla Fininvest. Si tratta soprattutto di una perizia svolta da un dirigente della Banca d'Italia sul meccanismo delle 22 holding che controllano la Fininvest e sulle altre società utilizzate nei primi anni di vita del Biscione. Anche sulla base di questa perizia, la Dia ha concluso che dei duecento miliardi transitati attraverso le 22 holding negli anni tra il 1978 e il 1985, 114 sono di provenienza ignota. Questi documenti sono allegati anche al processo in corso contro Dell'Utri, dove le difese hanno annunciato le loro repliche."

17 aprile - Ancora "Il Corriere della sera" riporta le dichiarazioni di Giovanni Brusca su Mangano:
"MILANO - "Mangano era un uomo d'onore già negli anni '70. Nel 1993, quando Salvatore Cancemi si consegnò ai carabinieri, io e Leoluca Bagarella lo nominammo reggente del mandamento mafioso di Porta Nuova. Poi gli affiancammo Salvatore Cucuzza, che diventò reggente quando Mangano fu arrestato". Mentre a Roma divampa la polemica su Satyricon , a Milano l'ex boss mafioso Giovanni Brusca, oggi collaboratore di giustizia, viene interrogato in tribunale proprio sul ruolo in Cosa Nostra di Vittorio Mangano, lo "stalliere" (anzi, "fattore") palermitano che Marcello Dell'Utri fece assumere da Silvio Berlusconi, a metà anni '70, nella villa di Arcore. Anche ieri Dell'Utri ha ripetuto da Roma che all'epoca non poteva certo sospettare che quel suo conoscente fosse "in odore di mafia". E nessuna sentenza lo ha mai smentito. Eppure l'ombra dello stalliere continua a perseguitare il manager di Berlusconi, che oggi è parlamentare di Forza Italia. L'occasione per un nuovo accostamento è venuta con gli interrogatori chiesti dagli avvocati Marasà e Di Gregorio, che dopo la morte di Vittorio Mangano ora difendono suo nipote Daniele Formisano, arrestato nel '99 a Milano per mafia e droga. E così, oltre a Brusca, ieri hanno deposto "in videoconferenza" Totuccio Contorno, Pippo Zanca e il vecchio boss Gerlando Alberti "u' paccarè". Tutti chiamati a parlare di Mangano. Per una strategia difensiva che ha portato a convocare lo stesso Dell'Utri, che si è avvalso della facoltà di non rispondere. In questo processo i principali imputati sono due imprenditori messinesi, Natale Sartori e Antonino Currò, che secondo il pm Romanelli avrebbero costituito una "filiale della famiglia mafiosa di Mangano, attiva a Milano fino al 1999". Questo, però, Brusca in parte lo smentisce: "Cosa Nostra aveva cellule a Roma e a Napoli, mentre a Milano c'erano singoli uomini d'onore". L'inchiesta nasce dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo La Piana, che l'accusa considera riscontrate anche "in diretta". In almeno due casi ritenuti decisivi. Nel '97 il collaboratore sostiene che Enrico Di Grusa, genero di Mangano, si nasconderebbe dai due messinesi; e nel '98 quel latitante per mafia e droga viene arrestato proprio pedinando i due imprenditori. Il pentito anticipa pure che Sartori, benché socio delle due figlie di Mangano, avrebbe rapporti con Dell'Utri. E il 12 ottobre '98 la polizia lo fotografa mentre viene ricevuto appunto da Dell'Utri. Per che motivo? Secondo Dell'Utri, perché Sartori voleva metterlo in guardia dalle "false accuse di La Piana". Secondo Sartori, per una questione più innocua: il suo amico Currò voleva essere "segnalato a Dell'Utri per un appalto della Fininvest".

17 marzo - "La Repubblica" pubblica un articolo sulle ipotesi di manipolazione dell' intervista al giudice Borsellino:
"ROMA - "Manipolata? Noi di Rainews24 non l'abbiamo toccata, l'abbiamo mandata in onda così come l'abbiamo avuta". Roberto Morrione continua a ripetere questo concetto. Anche di fronte a Paolo Guzzanti che lo accusa di avere tagliato ad arte l'intervista a Paolo Borsellino. Un querelle in diretta tv, da Santoro, finita in querele reciproche. Una disputa che ruota attorno ad un'intervista e ad una registrazione di cui oggi nessuno, ufficialmente, sa più nulla. Fabrizio Calvi, il giornalista francese che insieme a Jean Pierre Moscardo, intervistò il magistrato nel maggio del '92, dice che la casa che doveva produrre il suo film sulla mafia europea è fallita e nessuno sa dove siano finiti i materiali. Ricorda che l'intervista era lunga, 20, 25 minuti e che era stata ridotta a 10, 11 minuti. Dunque fu Calvi a operare i tagli che la rendono un po' diversa dalla trascrizione dell'Espresso pubblicata nell'aprile del '94. Oggi il giornalista francese dice, visto il tempo passato, di non essere certo che non ci siano stati altri tagli, ma ritiene il testo trasmesso da Rainews24 fedele a pensiero di Borsellino. Ma quali sono le parti che, secondo il Polo, sarebbero state alterate? Vediamo. Borsellino parla a lungo di Mangano e ad un certo punto, nella trascrizione integrale, gli viene chiesto se "quando Mangano parla di cavalli intendeva droga". Nella versione tagliata questa domanda viene riformulata e associata ad una risposta diversa, relativa all'operazione San Valentino. In pratica salta la parte in cui Borsellino dice che l'intercettazione sui cavalli che ha sul tavolo era relativa ad un colloquio fra Mangano e uno della cosca Inzerillo e non fra Mangano e Dell'Utri. Ma nella versione integrale c'è una domanda chiara su Dell'Utri e i cavalli e Borsellino risponde che l'intercettazione sta nel maxiprocesso e dice sorridendo che sarebbe strano vedere consegnare cavalli in un albergo. Nella versione tagliata la stessa risposta viene riproposta sotto una domanda inserita ad hoc, ma che non stravolge il senso della conversazione. Sotto accusa, infine la parte finale, dove i giornalisti chiedono notizie di indagini su Mangano e Berlusconi a Palermo. Borsellino risponde di sì su Mangano. Il semplice sì della seconda versione farebbe, in effetti, pensare che anche Berlusconi fosse indagato. Ma nel complesso i tagli dei giornalisti francesi sembrano funzionali al montaggio. Rainews24 ha trasmesso quindi un testo attendibile e sembra sicuro, senza toccarlo. Ma da chi lo ha avuto? Morrione parla prima della procura di Caltanissetta, poi dice che da quella procura ha solo ricevuto l'assenso a mandarla in onda. Da dove arriva allora a Saxa Rubra la cassetta? Il direttore non può dirlo, "copre" giustamente i suoi giornalisti che hanno fatto uno scoop. Ma è quasi certo che a farla avere alla Rai sia stata Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato. Dunque: sembrerebbe che la cassetta con l'intervista voli in Francia e torni a Palermo tagliata. Ma c'è un altro passaggio. Perché Calvi torna in Francia, lavora sull'intervista, la taglia, la usa in vista di un film sulla mafia finanziaria europea. Ma di questo film, spiega il giornalista francese, non si fece nulla, la società di produzione fallì. Allora Calvi chiama L'Espresso e offre la trascrizione integrale dell'intervista. E per dimostrare che è veritiera l'accompagna con la cassetta. Da Milano parte la giornalista Chiara Beria di Argentine, vede la cassetta tagliata e la trascrizione integrale in italiano e francese, giudica il materiale interessante e lo riporta in Italia. Viene pubblicato la settimana successiva al 27 marzo 1994, data della vittoria elettorale di Berlusconi. Le foto dell'articolo vengono dalla cassetta tagliata con i sottotitoli in francese. La giornalista, successivamente, chiama la famiglia Borsellino perché vuole donare la cassetta: i Borsellino accettano e la ricevono durante un viaggio a Milano. Il prezioso oggetto torna quindi a Palermo, una copia finisce alla procura di Caltanissetta, un'altra approda a Roma, alla Rai. Restano però delle zone oscure. Per esempio: perché non si trova l'originale della cassetta? Beria D'Argentine spiega che la copia tagliata fu offerta a diversi tg, ma fu ritenuta priva di interesse o di difficile gestione visto che non era integrale. Giornalisti interessati alla vicenda, come Enrico Deaglio, hanno tentato nel corso degli anni di acquisire l'originale, ma di fronte agli ostacoli hanno rinunciato. Spiegazione da una fonte che preferisce l'anonimato: sembra che i diritti sulla cassetta appartengano a Canal +, che l'acquisì al tempo in cui Fininvest aveva una partecipazione nella società. E da allora se ne sono perse le tracce.

17 marzo - Ecco una serie di articoli sull' intervento di Silvio Berlusconi alla trasmissione "Il raggio verde" di Michele Santoro:
LA REPUBBLICA
Berlusconi scende dall'Aventino - è scontro in diretta con Santoro
Il leader del Polo telefona e contesta le accuse sulle sue holding e le ombre di mafia
ALESSANDRA LONGO
Roma - Alle dieci della sera, Silvio Berlusconi rompe l'Aventino televisivo e si materializza da Michele Santoro con una telefonata che prende subito una piega tempestosa: "Complimenti per questi processi in diretta. Siamo allibiti per come la Rai usi questi programmi che dovrebbero essere di approfondimento politico. Sono trasmissioni trabocchetto costruite per fare processi che dovrebbero svolgersi nei tribunali". Gli trema la voce, anche perché il conduttore di "Raggio Verde", pur contento dello scoop, non sembra soffrire di complessi di inferiorità: "Parli pure, onorevole, ma senza insultare noi...". Mai sentite cose del genere: un giornalista Rai che tratta così il Cavaliere, il politico migliore del mondo! Lui non ci vede più, vuol chiarire che la sua telefonata non è un atto di debolezza: "Posso anche chiudere subito, se lei va avanti così. Sia chiaro che non intervengo da politico, continueremo a non venire alle trasmissioni trappola finché non ci saranno date precise garanzie!". A questo punto va in scena il meglio. Santoro si rivolge alla regia: "Allora mi dispiace, chiudete il collegamento telefonico!". Berlusconi scoppia: "Santoro, si contenga! Lei è un dipendente del servizio pubblico". L'autore di Samarcanda reagisce stoicamente: "Ma non sono un suo dipendente!". Finito qui? Naturalmente no. Berlusconi ha chiamato per dire la sua, invocando "il fatto personale". No, non può stare zitto di fronte a quello che sente dire da Antonio Di Pietro, ospite in studio. L'ex pm parla delle ventuno società offshore, da cui nasce il potere economico del Cavaliere. "Perché mai - accusa Di Pietro - sono state costituite in denari contanti e attribuite a prestanome? Lo si può chiedere o no a un aspirante presidente del Consiglio? Finora c'è stato troppo silenzio su di lui". Ed ecco finire, come per magia, l'Aventino. Berlusconi quasi giura sui suoi figli: "Le società in questione sono regolari, italianissime, e pagano le tasse. Lo abbiamo chiarito in molte sedi. Sono state fondate nello studio Minna di Milano. Secondo una prassi in uso, il commercialista, per evitare al cliente i tempi di registrazione, le aveva già pronte e intestate alla moglie e alla segretaria... I versamenti non sono stati fatti in contanti ma con assegni circolari, non con il bonifico. Ad anni di distanza, le banche non hanno più la documentazione, l'hanno mandata al macero". Peccato. Contento Di Pietro? Niente affatto. L'ex pm definisce Berlusconi "faccia di tolla". "Per lui - dice - la prescrizione è come Sant'Antonio". Santoro non ha finito. Ancora una domanda, onorevole Berlusconi: Le è mai stato chiesto dai giudici di Palermo di venire a testimoniare sui soldi della Fininvest? Risposta secca, sicura: "Non ho dovuto interporre alcuna attività di difesa. Questi magistrati non hanno mai ritenuto di sentirmi. L'indagine è finita con un'archiviazione, come è accaduto anche a Caltanissetta, dove però sono andato per denunciare persone che mi avevano calunniato". Visto che l'Aventino è abortito così, il leader dell'opposizione si consente anche una precisazione sul tema della serata, i rapporti dello stalliere mafioso di Arcore, Mangano, con Marcello Dell'Utri, l'intervista di Borsellino: "Santoro, lei non ha colto le distinzioni che fa il giudice Borsellino tra quando Mangano parla di cavalli con un certo Inzerillo e quando, ed è tutt'altra cosa, lo stesso Mangano discute di cavalli con Dell'Utri...". Finisce nel gelo. "Sappiamo distinguere benissimo, onorevole, adesso la salutiamo". E lui, sull'acido: "Buona trasmissione". Sandro Ruotolo, inviato di Santoro, smentisce subito dopo il Cavaliere: "La procura di Palermo lo ha cercato come persona informata dei fatti...". Serata tesa in Rai. Marco Travaglio in prima serata era stato ospite de "Il Fatto" di Enzo Biagi. Poi tocca a Santoro. Della serie: caro Silvio, la rotativa gira, non la puoi fermare... Il Polo fa lo schizzinoso e non partecipa, manda, ad entrambe le trasmissioni, il suo legale di fiducia, il vicedirettore del "Giornale", Paolo Guzzanti. Ma a Berlusconi non basta, non resiste e telefona in diretta. "Il Raggio Verde" riceve seicentomila telefonate di telespettatori. Chiudere o no la trasmissione di Luttazzi che ha così offeso il Cavaliere? Il 66 per cento dice di no.
LA STAMPA
LA LITE CON IL CAVALIERE: "VOLEVA FARE UN COMIZIO CONTRO DI ME"
Berlusconi-Santoro, scontro in diretta
"Basta con le trappole", "Si scusi, o chiudo il collegamento"
Antonella Rampino
ROMA Il telefono squilla alle dieci e un quarto in diretta televisiva: Berlusconi rompe la sua stessa consegna, il divieto per tutti gli esponenti del Polo ad intervenire in trasmissioni Rai. L'embargo scattato dopo il "Satyricon" di Luttazzi con la Berlusconi-story scritta da Marco Travaglio si volatilizza in un attimo, e proprio per la trasmissione di Michele Santoro di cui Berlusconi aveva detto "sarà un altro autogol per la sinistra". Il Cavaliere saluta con voce squillante, ma è furioso e attacca: "Complimenti, la Rai continua i suoi processi televisivi...". Prima di dargli la parola, Michele Santoro lo ha fatto aspettare per dieci minuti. Giusto il tempo di mandare in onda un'altra tranche della famosa e finora invisibile intervista a Paolo Borsellino. Una tranche importante, quella in cui il giudice siciliano spiega come si potuto mettere in collegamento con la mafia un imprenditore del calibro di Berlusconi: "Negli Anni Settanta - dice Borsellino - Cosa Nostra era diventata un'impresa essa stessa", ed era insomma naturale che s'interessasse di far fruttare i propri denari, che si occupasse di impresa e di politica. Berlusconi è furibondo anche per questo, ma s'infuria ancor più quando Santoro - per farlo parlare - vorrebbe imporgli una marcia indietro: "Ci dica che gli esponenti del Polo torneranno in video alla Rai". La replica è secca: "Noi vogliamo garanzie, per venire alle trasmissioni Rai, che non siano una trappola..." . Quello che va in onda è un battibecco aspro: Santoro minaccia "allora chiudo il collegamento", Berlusconi alza il tono "Lei è un dipendente pubblico, si contenga". E Santoro, duro: "Appunto, non sono un suo dipendente". Poi i toni si placano. Berlusconi vuole parlare, ha qualcosa da dire. Ha visto la trasmissione. Ha visto l'esordio, ha visto Di Pietro in studio che dice "guardate che nel libro di Travaglio ci sono solo documenti pubblici, cose note e gravissime", lo ha sentito bene mentre incalzava "ma ci siamo dimenticati tutti i processi, ci siamo dimenticati che la prescrizione per Berlusconi è come Sant'Antonio?". Durante la telefonata, Di Pietro non interrompe il Cavaliere che lo chiama "qualcuno", senza mai citarlo per nome. Dopo, l'ex pm lo liquiderà in modo sprezzante: "E' una faccia di tolla che mente pure a se stesso...". Come Giano Bifronte, mezzo pm di Mani Pulite e mezzo avversario politico, Di Pietro aveva lanciato a Berlusconi una vera sfida: "E' vero o non è vero che all'origine della Fininvest ci sono 21 holding che sorgono con decine di miliardi in contanti, e che sono intestate a dei prestanome, casalinghe e perfetti sconosciuti? Perché sarà pure vero che le inchieste giudiziarie non sono approdate a nulla, ma è la risposta politica che va data, perché Berlusconi si è candidato a presidente del Consiglio". Non si poteva non rispondere, e Berlusconi prende il telefono: "Le mie società non sono offshore, sono società italiane, che pagano le tasse, sono le holding del gruppo Finivest. Non sono state fondate da sconosciuti, ma da un noto commercialista di Milano, il dottor Minna, dalla sua segretaria e da sua moglie, com'è prassi corrente quando c'è bisogno di risparmiare i tempi che occorrono per la registrazione. Il gruppo Fininvest è posseduto interamente dalla mia famiglia. E i versamenti non erano in contanti, ma con assegni circolari o di conto corrente. Cose di vent'anni fa, e le banche non hanno più la documentazione, che per legge è andata al macero. E' tutto regolare. Il mio gruppo paga più di 4 miliardi al giorno di tasse allo Stato italiano...". Ma i magistrati di Palermo hanno chiesto di sentirla "sui soldi Fininvest"?, lo interrompe Santoro. "Non hanno mai ritenuto di sentirmi. Le indagini sono finite con una archiviazione chiesta dagli stessi magistrati", è la replica di Berlusconi. Quanto all'intervista a Borsellino "egli ha fatto una distinzione precisa: Mangano parlava di cavalli nella registrazione attinente il maxi processo, mi pare con un certo Inzerillo, ma è tutt'altra cosa quando parlava con Dell'Utri". Pezzo forte della trasmissione è infatti l'intervista di Fabrizio Calvi del 21 maggio 1992 al giudice Borsellino, "che poche settimane dopo verrà assassinato dalla mafia in via D'Amelio, e la magistratura considererà quest'intervista una concausa dell'attentato" ricorda in studio Roberto Morrione, e che la Rai precedentemente mandò in onda solo in orario da nottambuli. Un documento di forte impatto, "Borsellino parla carte alla mano, dice che Mangano era un mafioso, e che su Dell'Utri, all'epoca, accertamenti erano in corso: gli esiti penali non ci sono stati, ma perché Berlusconi e Dell'Utri invece di sottrarsi agli interrogatori non vanno dai giudici a chiarire tutti i dubbi?" chiosa Antonio Di Pietro. La storia, com'è noto, è una storia di cavalli, di cui Mangano parla per indicare partite di droga. Per questo Berlusconi al telefono, nei cinque minuti di collegamento dice in buona sostanza attenzione, quei cavalli di cui parlava Dell'Utri, cavalli erano. Di droga, Mangano parlava semmai con Inzerillo. Il Polo, e in particolare Dell'Utri, ha sempre sostenuto che quella a Borsellino era un'intervista "manipolata", tesi ribadita ieri sera in studio dal vicedirettore del "Giornale" Paolo Guzzanti. Rita Borsellino, sorella del giudice, durante il programma ha negato: "non c'è dubbio, non c'è stata alcuna manipolazione".
ANSA
"Del giudice Borsellino ammiro molto l'attivita' e nei suoi confronti porto un rispetto assoluto". Cosi' Silvio Berlusconi si e' espresso nei confronti del giudice ucciso dalla mafia intervenendo in diretta nella trasmissione di Santoro "Il raggio verde". Il leader del Polo e' intervenuto in diretta per chiarire la sua completa estraneita' alle illazioni sulle 21 societa' dalle quali e' nata Fininvest. "Non sono off-shore" come e' stato affermato, ma sono societa' - ha detto Berlusconi - che pagano le tasse in Italia e che ancora oggi sono le holding del gruppo Fininvest. "Non sono state fatte da persone sconosciute, ma istituite presso il dottore commercialista Minna di Milano attraverso i nomi della sua segretaria e di sua moglie". Berlusconi ha sottolineato che questa procedura e' stata seguita, come spesso avviene, per abbreviare i tempi e le procedure. Quanto al passaggio di denari "non e' stato fatto in contanti - ha spiegato Berlusconi - come qualcuno pretende, ma con assegni circolari o di conto corrente". Il leader del Polo ha spiegato a questo punto che pero' "a 20 anni di distanza le banche non hanno piu' la documentazione che per prassi e per legge viene mandata al macero". Berlusconi ha quindi escluso che ci sia sui finanziamenti "nessun segreto: e' tutto assolutamente regolare. Si tratta di notizie che i dirigenti delle mie societa' hanno fornito alla magistratura - ha detto ancora - in decine di occasioni. Non vedo come oggi si possano dire delle falsita' al riguardo". Subito dopo il leader del Polo ha spiegato che "le indagini condotte dai magistrati, che non erano certo benevoli nei miei confronti, non sono mai arrivate alla conclusione neppure di dovermi sentire. Sono finite con una archiviazione".

17 marzo - Gli avvocati di Marcello Dell' Utri, in una nota diffusa dopo la trasmissione televisiva "Il raggio verde", dichiarano che "il Presidente Berlusconi non si e' presentato al Tribunale di Palermo per essere sentito come teste per il semplice motivo che nessuno lo ha mai citato". "La falsita' dell' addebito sui comportamenti del Presidente Berlusconi - scrivono nella nota Enzo ed Enrico Trantino, Giuseppe Di Peri, Roberto Tricoli e Francesco Bertorotta - non ha bisogno di ulteriori specificazioni". La querelle sulla testimonianza di Silvio Berlusconi, il cui nome e' stato inserito in lista testi nel processo Dell' Utri da accusa e difesa e' durata tre udienze, da ottobre a dicembre scorsi. I pm avevano chiesto di estendere a Berlusconi il capitolato relativo alla consulenza sulle holding che detengono il capitale della Fininvest, ma i legali si erano opposti ritenendo il tema non pertinente con gli argomenti processuali e sostenendo, anche, di attendere il deposito di numerosi altri allegati. La querelle ha sfiorato anche l' opportunita' di ascoltare Berlusconi in prossimita' della campagna edlettorale, ed alla fine i pm hanno proposto alla difesa di rinviare l' audizione a dopo il voto. Ma anche inquesto caso i legali non hanno prestato il proprio consenso sostenendo di attendere prima il completamento della lista testi del pm. Enrico Trantino, componente del collegio difensivo del parlamentare Marcello Dell' Utri, con riferimento alla trasmissione "Il Raggio Verde", "conferma le accuse di Paolo Guzzanti alla Rai di avere trasmesso una versione manipolata dell' intervista del giudice Borsellino a due giornalisti francesi". Trantino aggiunge che, in relazione alle smentite di contraffazioni da parte del responsabile di Rai News 24 Morrione, intervenuto nel programma di Santoro, ha telefonato per chiedere di intervenire alla trasmissione per "precisazioni, oltre che per correggere una serie di inesattezze derivanti da una errata lettura degli atti processuali". Trantino sostiene che gli e' stato risposto dalla redazione di Raggio Verde che "non erano ammessi interventi telefonici e che si sarebbero limitati a redigere una scheda di quanto riferito dal legale da inoltrare nel caso in cui fosse stato ritenuto rilevante". L' avvocato rileva che "ovviamente ci si e' astenuti dal fornire le precisazioni sollecitate, a dimostrazione di una tendenziosa ricostruzione degli eventi da parte della Rai". Dopo la presa di posizione degli avvocati di Dell'Utri, il pm del processo Dell' Utri Antonio Ingroia precisa che "La Procura non ha chiesto al Tribunale l' audizione di Silvio Berlusconi attraverso la polizia giudiziaria per una questione di correttezza, per evitare clamore". "Per questa ragione - ha proseguito Ingroia - si e' cercato di concordare, in aula, con i difensori dell' imputato, la data dell' audizione". "In una prima udienza - ha aggiunto il pm - i legali si sono riservati, in quella successiva, a novembre, parlando anche a nome di Berlusconi, hanno detto che ritenevano che la campagna elettorale fosse gia' iniziata e quindi l' audizione del Presidente Berlusconi era, a loro parere, inopportuna. La procura allora ha proposto di sentirlo dopo le elezioni, chiedendo ai difensori il consenso a invertire l' ordine delle deposizioni, poiche' Berlusconi era uno degli ultimi testi in lista per l' accusa e non si poteva paralizzare il dibattimento. Ma i legali lo hanno negato, riservandosi di esprimere un parere anche sull' audizione del funzionario della Banca d' Italia che ha redatto la consulenza sulle holding. Parere che attendiamo ancora di conoscere". RaiNews "smentisce nel modo piu' netto che nel montaggio siano stati compiuti tagli o manomissioni delle sue dichiarazioni". E' quanto afferma una nota di replica alle dichiarazioni fatte dal legale di Marcello Dell' Utri, Enrico Trantino. "Il filmato integrale della nostra intervista - si aggiunge - e' stato peraltro conservato ed e' a disposizione per confronti in qualsiasi sede. Si precisa che il testo dell' intervista televisiva del giudice Borsellino trasmessa da Rainews 24 fu inviato agli on. li Berlusconi e Dell' Utri sette giorni prima della trasmissione e che lo stesso avvocato Trantino, nel corso della sua intervista, che e' durata circa sei minuti, aveva dispiegato davanti a se' il testo pubblicato dall' "Espresso' nel '94". "Restano incomprensibili - conclude Rainews 24 - i motivi per cui l' avv. Trantino abbia fatto questa grave dichiarazione sei mesi dopo la trasmissione, nel pieno di pretestuose polemiche".

17 marzo - A proposito delle polemiche circa l'intervista a Paolo Borsellino, il Cdr di Rainews24 comunica: "Paolo Guzzanti, editorialista de 'Il Giornale', ha denunciato ieri sera un presunto sopruso del direttore di Rainews24 nei confronti del caporedattore Mariano Squillante. "Questi ha ricevuto nella serata di ieri una lettera nella quale il direttore Morrione gli comunicava l'interruzione del rapporto di fiducia che lega un direttore al caporedattore. Vediamo i fatti: il collega Squillante ieri mattina ha affisso in bacheca una lettera nella quale accusava i colleghi e il direttore di non avere effettuato un doveroso controllo delle fonti, non avendo, secondo Squillante, visionato le cassette originali dell'intervista realizzata nove anni fa con il giudice Paolo Borsellino. I colleghi della redazione che hanno letto questa lettera (e che da settembre conoscono l'intervista in discussione) hanno voluto prenderne le distanze e hanno chiesto l'intervento del Cdr". Il Cdr di Rainews24 "si dissocia dalle prese di posizione" del collega Squillante, e "prende atto con sorpresa della tempestivita' con cui le sue opinioni vengono diffuse all'esterno prima di aver chiesto un confronto interno alla redazione stessa". "Il Cdr precisa inoltre che nessun direttore di testata ha potere di licenziamento nei confronti dei giornalisti del servizio pubblico, ne' tantomeno il direttore di Rainews24" il quale "si e' semplicemente limitato a segnalare all'azienda il venir meno dell'indispensabile rapporto di fiducia con un suo caporedattore". Il Cdr, infine, "riconosce la correttezza dei rapporti formali e sostanziali che il direttore ha sempre avuto nei confronti dei giornalisti della sua testata".

17 marzo - Con una motivazione articolata, che occupa decine di pagine, la procura di Caltanissetta ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta su Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri indagati per il reato di concorso in strage per finalita' terroristica e di eversione dell'ordine democratico. La decisione, che deve essere adesso vagliata dal gip, e' stata adottata un mese fa ma la conferma in ambienti giudiziari nisseni si e' avuta solo oggi.L'inchiesta e' relativa al presunto coinvolgimento, come mandanti occulti, dei due esponenti politici nelle stragi mafiose del '92 a Palermo in cui hanno perso la vita i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Francesca Morvillo e otto agenti delle due scorte. L'inchiesta era stata avviata per verificare un'ipotesi investigativa secondo la quale i due esponenti politici avrebbero avuto un ruolo tra i mandanti occulti dei due eccidi. Non si conosce ancora se l'ipotesi sia stata esclusa del tutto, se, invece, non ha trovato conferme sufficienti per approdare in un'aula giudiziaria e se, soprattutto, le indagini proseguiranno in altre direzioni. Secondo indiscrezioni la motivazione avrebbe ricostruito in maniera articolata numerosi passaggi oscuri che hanno indotto i magistrati a cercare responsabilita' oltre la Cupola di Cosa Nostra. Febbraio '94: al pm di Caltanissetta Ilda Boccassini il pentito Salvatore Cancemi dice che esistono 'persone importanti' in rapporto con Salvatore Riina, inizialmente per le 'antenne' (le tv private, n.d.r.), che avrebbero consegnato denaro all'organizzazione mafiosa anche dopo la strage di Capaci. Parte da qui l'indagine che per sette anni cerca di scoprire i mandanti a volto coperto oltre la cupola mafiosa, responsabili della stagione stragista del 1992 contro i magistrati antimafia di Palermo. Le indagini si sviluppano su due filoni: identificare le persone importanti e capire, se esiste, la natura dei contatti con i mafiosi e accertare se c'e' un nesso con la stagione stragista. Cinque anni dopo Cancemi in aula a Caltanissetta fa i nomi di Berlusconi e Dell'Utri, indicandoli come le 'persone importanti'. E la tesi e' fatta propria dai pm Anna Maria Palma e Nino Di Matteo, che sostengono l'accusa nel processo per la strage di via D'Amelio. Nella requisitoria di appello di Capaci il pm Luca Tescaroli parla di stragi compiute per sbalzare di sella 'quelli che governano', per sostituirli con nuovi soggetti politici. E cita le parole di Ezio Cartotto, un ex dc vicino a Berlusconi: 'Nel giugno del '92 Dell'Utri mi parlo' di un progetto per creare una nuova struttura politica che potesse garantire la Fininvest". I pentiti Angelo Siino e Tullio Cannella aggiungono infine altri dettagli.

18 marzo - "La Repubblica" scrive:
Ingroia: accusa e difesa del processo Dell'Utri hanno chiesto di sentire Berlusconi
ENRICO BELLAVIA
PALERMO - È vero, ma a metà. Silvio Berlusconi non ha mai ricevuto una comunicazione per venire a Palermo e spiegare la nascita delle holding dell'impero Fininvest. Ma non l'ha ricevuta semplicemente perché i legali di Marcello Dell'Utri, dopo avere consultato il Cavaliere, hanno preso tempo. La prima richiesta di fissare una data per l'audizione, la procura di Palermo la fece in aula nell'ottobre del 2000. Berlusconi è tecnicamente un indagato di reato connesso anche dopo l'archiviazione dell'indagine sulle holding. Il contenuto degli accertamenti sulla genesi delle sue fortune è però materia del processo a Dell'Utri. La conferma che fa l'accusa ha sollecitato la testimonianza, oltre che dagli atti processuali, arriva da Antonio Ingroia, uno dei pm. "L'onorevole Berlusconi - ricostruisce il magistrato - è nella lista dei testi dell'accusa e della difesa. Ad ottobre, quando già prevedevamo che l'elenco delle persone da sentire per l'accusa si sarebbe esaurito in periodo elettorale, ponemmo il problema in aula. Proprio per evitare clamori non volevamo fissare una data e magari vederla saltare per impegni del presidente Berlusconi". Dunque i legali di Dell'Utri furono invitati a contattare Berlusconi perché deponesse prima possibile. "Ci fu risposto - spiega Ingroia - che ritenevano inopportuno l'esame perché si era già in campagna elettorale. Ne prendemmo atto e ci dichiarammo disponibili a sentirlo dopo le elezioni, ma, per evitare di allungare i tempi del processo, chiedemmo alla difesa di darci il consenso a fissare l'audizione quando già la nostra lista sarebbe stata esaurita e verosimilmente, come sta per accadere, ci saremmo ritrovati già a scorrere la lista della difesa. I legali di Dell'Utri si opposero a invertire l'ordine della prova, riservandosi una risposta che non è mai arrivata". La difesa di Dell'Utri si è opposta anche alla citazione di Francesco Giuffrida, il funzionario della Banca d'Italia che ha svolto la consulenza sulle holding. Racconta Ingroia: "Avevamo fatto presente che era necessario sentire Giuffrida e subito dopo Berlusconi. Secondo i legali sarebbe prematuro sentirlo adesso e poi sostengono di non avere avuto il tempo di consultare la documentazione che è depositata da mesi e mesi e ci hanno anticipato anche la presentazione di una consulenza di parte". C'è poi la questione della registrazione dell'intervista al giudice Paolo Borsellino di cui si parlerà anche al processo Dell'Utri dove è citato il giornalista francese che la realizzò. La procura ha avviato da tempo degli accertamenti sul sospetto di manipolazione. La trascrizione integrale dell'intervista, quella pubblicata nel 1994 da "L'Espresso" è agli atti. Gli accertamenti sulla bobina, spiega ancora Ingroia, "consentiranno al giudice di avere una visione chiara e completa prima della testimonianza del giornalista". Ingroia conferma l'esistenza degli accertamenti ma smentisce che si tratti di un'indagine. "Non c'è un fascicolo contro noti o ignoti ma solo accertamenti preliminari per la parte che ci riguarda. Perché la questione è anche all'attenzione della procura di Caltanissetta per la parte che le compete".

19 marzo - Il comitato di redazione di Rainews24, d'intesa con l'Usigrai, ha diffuso una nota in cui "denuncia l'atmosfera di stato d'assedio in cui da mesi sono costretti a lavorare i giornalisti impegnati su inchieste e temi scomodi". "Questa mattina - e' detto nella nota - la procura di Roma, su denuncia contro ignoti dei legali di Marcello dell' Utri, ha sequestrato la cassetta della trasmissione di Rainews24 'Borsellino, un'intervista smarrita', gia' andata in onda il 21 settembre 2000 e replicata il 15 marzo". Secondo il cdr, la denuncia presentata dai legali di dell'Utri sarebbe stata presentata "per manipolazione, falsificazione, attentato ai diritti politici del cittadino con fini eversivi". Secondo il Cdr, "gia' il 20 settembre, alla vigilia della messa in onda, era stata avanzata alla procura di Caltanissetta denuncia penale contro ignoti per violazione di segreto istruttorio, nell'evidente tentativo di bloccare la trasmissione. La cassetta dell'ultima intervista rilasciata da Paolo Borsellino due giorni prima della strage di Capaci e' stata acquisita anche dalla procura di Palermo, dove e' aperta un' altra inchiesta". "Confermiamo il massimo rispetto per l'operato della magistratura - conclude il comunicato del Cdr di Rainews24 - ma al tempo stesso respingiamo pretestuosi attacchi politici alla liberta' di informazione e indebite pressioni politiche a giornalisti e redazioni che hanno la sola colpa di svolgere il proprio lavoro con liberta', professionalita' e coraggio. Atteggiamenti piu' che mai pericolosi nel clima teso e difficile di una campagna elettorale dai toni roventi".

19 marzo - "Luttazzi? Se lo avessi avuto davanti gli avrei dato un 'timpuluni' (ceffone, ndr)". Il parlamentare di Forza Italia Marcello Dell' Utri ha risposto con un termine dialettale siciliano e in tono scherzoso ai giornalisti che, nel Palazzo di Giustizia di Palermo, gli chiedevano un commento sulla trasmissione televisiva Satyricon. Dell' Utri ha partecipato all' udienza preliminare, davanti al Gup Alfredo Montalto, in cui e' accusato di calunnia nei confronti dei collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo, Domenico Guglielmini e Francesco Onorato, in concorso con altri due pentiti, Cosimo Cirfeta e Giuseppe Chiofalo. Questi ultimi due avrebbero dichiarato il falso per screditare i collaboratori che accusano il parlamentare di Forza Italia, attualmente sotto processo a Palermo per concorso in associazione mafiosa. "Non ho seguito la trasmissione - ha aggiunto Dell' Utri - ma ho avuto modo di leggere il testo delle dichiarazioni che mi riguardavano". Il parlamentare si e' detto anche "allibito" per le cose che ha ascoltato nel corso del programma di Santoro 'Il raggio verde': "Ho fatto fatica a non farmi perforare l' ulcera". Dell' Utri ha aggiunto che non partecipera' ad alcuna trasmissione di replica e ai cronisti che gli chiedevano come mai Berlusconi continui a difenderlo nonostante sia l' origine dei suoi guai ha risposto: "Perche' non conoscete il forte senso di giustizia e di amicizia di Berlusconi".

19 marzo - Fiammetta Borsellino, figlia minore di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia nel 1992, conferma al pubblico ministero di Palermo Antonio Ingroia la sostanziale autenticita' della video cassetta che riproduce l'intervista del padre al giornalista francese Fabrizio Calvi. La ragazza e' stata interrogata dal magistrato nell'ambito di un'indagine aperta dalla Procura di Palermo nel settembre dell'anno scorso, quando i legali di Dell'Utri sostennero che l'intervista trasmessa da Rai News 24 era stata 'manipolata'. La ragazza, che avrebbe detto di avere ricevuto copia della video-cassetta con l'intervista del padre dallo stesso Calvi, avrebbe detto di non avere riscontrato difformita' tra la versione in suo possesso e quella trasmessa dalla tv. L'avvocato Pietro Federico, legale dell'on. Marcello Dell'Utri, a proposito delle valutazioni fatte da Fiammetta Borsellino sull'intervista al padre da lei vista in videocassetta, dichiara: "Non conoscendo quale e' la versione dell'intervista al valoroso magistrato in possesso della signora Fiammetta Borsellino, ci e' impossibile sapere su quale versione siano basate le sue valutazioni". Impossobile sapere, ha detto l'avv.Federico, se siano basate "su quella originale o viceversa su quella mandata in onda dalla Rai, che risulta inequivocabilmente manipolata ad un semplice confronto con il testo originale pubblicato sul numero 14 del settimanale l 'Espresso  dell' 8 aprile 1994".

19 marzo - Il comitato di redazione di Rainews24, d'intesa con l'Usigrai, diffonde una nota in cui "denuncia l'atmosfera di stato d'assedio in cui da mesi sono costretti a lavorare i giornalisti impegnati su inchieste e temi scomodi". "Questa mattina - e' detto nella nota - la procura di Roma, su denuncia contro ignoti dei legali di Marcello dell' Utri, ha sequestrato la cassetta della trasmissione di Rainews24 'Borsellino, un'intervista smarrita', gia' andata in onda il 21 settembre 2000 e replicata il 15 marzo". Secondo il cdr, la denuncia presentata dai legali di dell'Utri sarebbe stata presentata "per manipolazione, falsificazione, attentato ai diritti politici del cittadino con fini eversivi". "Confermiamo il massimo rispetto per l'operato della magistratura - conclude il comunicato del Cdr di Rainews24 - ma al tempo stesso respingiamo pretestuosi attacchi politici alla liberta' di informazione e indebite pressioni politiche a giornalisti e redazioni che hanno la sola colpa di svolgere il proprio lavoro con liberta', professionalita' e coraggio. Atteggiamenti piu' che mai pericolosi nel clima teso e difficile di una campagna elettorale dai toni roventi". Il sequestro e' stato eseguito dalla Digos su incarico del pubblico ministero Giuseppe Pititto. Il magistrato, secondo quanto si e' appreso, procede, per il momento contro ignoti, per l' ipotesi di reato di diffamazione. Il fascicolo era stato aperto in seguito ad una denunzia-querela presentata dall' avvocato Pietro Federico, legale di Marcello Dell' Utri. Lo stesso penalista, all' indomani delle polemiche scatenatesi dopo il programma di Daniele Luttazzi 'Satyricon', aveva ricordato la sua iniziativa sottolineando, tra l' altro, che l' intervista a Borsellino trasmessa il 21 settembre 2000 sarebbe caratterizzata da 'tagli, manipolazioni, operazioni di intarsio' che hanno "completamente stravolto il senso delle dichiarazioni rilasciate dal magistrato".

20 marzo - Rita Borsellino, sorella del magistrato siciliano ucciso dalla mafia e vicepresidente nazionale dell' associazione Libera, commentato cosi' la trasmissione Satyricon parlando con i giornalisti prima di prendere parte ad un incontro con gli alunni della scuola media Pedulla' di Siderno ad alcuni dei quali ha consegnato i premi del concorso "Mafia: no grazie":"Tutto quello che attorno all'intervista, rilasciata un mese prima della sua morte, si e' scatenato e' sconcertante. Non condivido affatto queste polemiche politiche costruite su un fatto reale. Si vede che mio fratello Paolo fa paura anche da morto". Sulla presunta manipolazione della videocassetta relativa all' intervista rilasciata dal magistrato siciliano, Rita Borsellino ha detto ai giornalisti di non credere "alla manipolazione perche' guardando la registrazione mi sono resa conto della continuita' dell' espressione di mio fratello". Per quanto riguarda la lotta, da parte dello Stato e delle forze preposte, alle organizzazioni criminali, Rita Borsellino ha  detto di "aver notato, specie in quest' ultimo periodo, un forte calo di attenzione, a differenza di quanto avviene per la politica, dove i riflettori sono sempre accesi".

20 marzo – L’ Ansa scrive:”Nel maggio 1992 Paolo Borsellino, procuratore aggiunto a Palermo, era delegato dal procuratore Pietro Giammanco ad occuparsi dei fatti di mafia trapanesi, non di quelli palermitani. Per questa ragione, quando Gaspare Mutolo, trafficante di droga legato alla famiglia mafiosa di Rosario Riccobono, dopo la strage di Capaci decide di pentirsi e di parlare solo con lui, a Borsellino fu impedito di interrogarlo. Vennero designati altri magistrati, ma Mutolo rifiuto' di incontrarli. Trafficante di droga legato alle cosche vincenti Mutolo era in grado, rivelando i segreti piu' aggiornati di Cosa Nostra, di consentire un salto di qualita' delle indagini antimafia in un momento drammatico dopo l'omicidio di Falcone. Una situazione di stallo, ricordano in molti, che amareggio' parecchio Paolo Borsellino, aggiungendo tensioni a quelle, gia' forti, provocate dalla strage di Capaci e dalle responsabilita' nella lotta alla mafia che, dopo la morte di Falcone, gli erano piovute addosso improvvisamente, anche con designazioni ad incarichi di vertice da parte di esponenti istituzionali, come hanno ricostruito le sentenze dei processi per la strage. Alla fine venne trovata una soluzione: Giammanco acconsenti' che Borsellino interrogasse il pentito, mantenendo l' assegnazione formale del fascicolo ai magistrati Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli e indicando lo stesso Borsellino e l'altro procuratore aggiunto, Vittorio Aliquo' come coordinatori dell'indagine. Mutolo fu interrogato per la prima volta da Borsellino ed Aliquo' a Roma il primo luglio del '92, la mattina del 19 luglio Borsellino ricevette una telefonata di Giammanco che gli comunicava l'attribuzione formale della delega alle indagini antimafia su Palermo, alle 17 di quello stesso giorno esplose l'autobomba in via D'Amelio”.

21 marzo - "Le parole sono stanche, c'e' qualcuno che vorrebbe normalizzare". Don Luigi Ciotti lancia l'allarme, denuncia un "calo di attenzione" nell'impegno contro le cosche aprendo a Torre Annunziata la sesta Giornata nazionale della memoria e dell'impegno: un appuntamento che vede la partecipazione di oltre 15mila giovani, all'insegna dell'entusiasmo e della speranza. La Giornata comincia con un corteo attraverso il centro della citta' in cui lavorava del giornalista del Mattino Giancarlo Siani, ucciso per dai clan per un'inchiesta scomoda. Con gli studenti, giunti da tutta Italia e specie dal Sud, sfilano don Ciotti, Rita Borsellino, Antonio Bassolino, il presidente dell'Antimafia Giuseppe Lumia. Da sfondo risuona, come in una sorta di liturgia laica, il lungo elenco delle 540 vittime di mafia cadute in Italia, da Portella delle Ginestre ai giorni nostri: nomi eccellenti - Dalla Chiesa, Falcone, Giuliano, Mattarella - accanto a morti meno famosi, accomunati nel ricordo di Libera e delle altre associazioni che ogni anno promuovono questo momento di memoria e di riflessione. Don Ciotti condanna la "malattia mortale" di oggi, che e' "la delega, la superficialita', l'indifferenza. C'e' il rischio di un calo di attenzione proprio mentre loro, i mafiosi, hanno ripreso la presenza sul territorio, come abbiamo verificato attraverso le nostre associazioni dalla Locride a Corleone". Al colorato entusiasmo dei ragazzi - che a un tratto si fermano per cantare spontaneamente, saltellando, l'inno di Mameli - fa da contraltare il silenzio con cui la citta' accoglie la manifestazione. I torresi escono in strada e sui balconi, osservano, a tratti applaudono ma sui loro volti sembrano prevalere stanchezza e rassegnazione. "Non siamo venuti in una realta' facile - ammette don Ciotti - ma noi abbiamo sempre voluto riflettere e costruire nei luoghi piu' difficili". Rita Borsellino saluta i giovani: "Abbiamo rischiato di spegnere i vostri sogni, ma la speranza e' piu' forte della morte". In largo Grazia, luogo segnato anni fa da una sanguinosa strage di camorra, la sorella del giudice ucciso dalla mafia rivolge un appello a non perdere mai la fiducia e la voglia di cambiare: la risposta sono i canti che risuonano poco dopo nella coloratissima piazza Imbriani, dove il sindaco Cucolo accoglie gli studenti e dove giunge poco dopo, per concludere la manifestazione, il presidente della Camera Luciano Violante. Il governatore Antonio Bassolino paragona la marcia di oggi con quelle che si facevano nei primi anni '80 contro la camorra: "Ricordo i primi cortei con don Riboldi a Ottaviano, la citta' di Cutolo, in un clima di paura e con le finestre sbarrate. Oggi camminiamo in migliaia, a viso aperto, sapendo che le cosche non abitano piu', come allora, dentro lo Stato". Bassolino insiste sull'esigenza di rafforzare la confisca dei beni mafiosi e il loro riutilizzo per fini di interesse collettivo: "E' quanto la Campania sta facendo con alcune strutture-simbolo, come il castello di Ottaviano e l'hotel Castelsandra. La camorra si colpisce soprattutto nei suoi interessi economici". In piazza la manifestazione comincia con un messaggio di saluto di Ciampi, applaudito dalle migliaia di giovani e dai numerosi familiari di vittime della mafia presenti sul palco, "i veri protagonisti della giornata", li saluta don Ciotti. Rita Borsellino, Lorenzo Clemente (il marito di Silvia Ruotolo, uccisa per errore dalla camorra nel '97), la madre di una delle ultime vittime, la piccola Valentina Terracciano, e tanti altri. Rita Borsellino ricorda il fratello parlando, con i giornalisti, anche dell'intervista in video "ritrovata" la settimana scorsa: "Paolo e' sempre stato per noi una guida, ma le reazioni a quella cassetta dimostrano che lui, oggi, fa ancora paura". Leit-motiv degli interventi - il presidente della Provincia Lamberti, il presidente di Avviso Pubblico, Enza Rando - e', in sintonia con don Ciotti, il rischio di una caduta di tensione nella lotta alla mafia: ma ai segnali di stanchezza denunciati dal palco rispondono i 15mila di piazza Imbriani, gridando a voce e con coloratissimi striscioni la propria voglia di cambiare.

21 marzo - Salvatore Palazzolo, ex boss di Cinisi ora collaboratore di giustizia, ai giudici della corte d' Assise di Palermo, deponendo al processo per la morte di Peppino Impastato, dice:"Vito Palazzolo mi rivelo' che ad ordinare l' omicidio di Peppino Impastato fu Gaetano Badalamenti". "Mi fu raccontato - ha detto il teste - che la vittima fu prelevata sotto la sede di Radio aut la notte dell' 8 maggio. Io non feci domande sul fatto e non conosco altri particolari". Sul banco dei testi e' poi salito il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca. A riferire all' ex boss di San Giuseppe Jato chi aveva deciso l' uccisione di Impastato fu Toto' Riina. "Durante la guerra di mafia - ha detto Brusca - parlavamo spesso di Badalamenti. In un' occasione Riina mi disse che era stato proprio lui a fare ammazzare Impastato".

22 marzo - I retroscena della vicenda legata all' intervista al magistrato, tornata al centro delle polemiche dopo l' intervento del giornalista Travaglio alla trasmissione Satyricon di Luttazzi, sono ricostruiti nel corso dell' assemblea dei giornalisti Rai dal direttore di Rainews 24, Roberto Morrione e da Arcangelo Ferri, uno degli autori dello speciale "Borsellino un' intervista smarrita". Secondo i giornalisti, l' intervista bloccata da Celli sarebbe stata al centro di una serie di trattative con le testate giornalistiche Rai che non l' avrebbero mandata in onda. Tra questi anche il Tg1, che fece altrettanto per decisione dell' allora direttore, Gad Lerner. Che raggiunto telefonicamente al termine dell' assemblea, conferma la sua scelta di non mandare in onda l' intervista. Lerner ricostruisce che a lui Celli non aveva opposto nessun veto alla trasmissione della cassetta e gli aveva lasciato la liberta' di trasmetterla. Non ci fu nessuna lunga trattativa con Rainews 24, ma il direttore del Tg1 decise comunque di non mandarla in onda. Secondo quanto riferito invece dai giornalisti della Rai, la decisione presa da Lerner era relativa al fatto che la cassetta era "roba vecchia". Arcangelo Ferri ha inoltre confermato che l' intervista al giudice gli fu data dalla figlia, Fiammetta, e che nessuna manomissione fu fatta sulla cassetta che ando' in onda a settembre. Ferri, ricostruendo tutta la vicenda, ricorda che i magistrati Salvatore Leopardi e Alessandro Centonze, della direzione Antimafia di Caltanissetta, avevano chiesto il sequestro della cassetta per violazione del segreto d' indagine, mentre un altro magistrato, Luca Tescaroli, aveva acquisito la cassetta agli atti del processo e ne aveva autorizzato la trasmissione. L' ultimo episodio, in ordine temporale, e' la decisione del giudice Pititto di far sequestrare la cassetta e di contestare quattro reati tra i quali la diffamazione e la violazione dei diritti politici. Infine, Ferri ha ricordato di aver fatto una denuncia-esposto contro il giornalista Paolo Guzzanti a Milano perche' in uno o piu' editoriali pubblicati da 'Il Giornale' si e' parlato di manipolazione dell' intervista a Borsellino, mentre la stessa figlia del giudice avrebbe detto che la copia andata in onda era uguale a quella fornita da lei ai giornalisti Rai. Anche Michele Santoro aveva una copia dell'intervista a Paolo Borsellino ma decise di non trasmetterla. Lo ha detto lo stesso Santoro durante l'assemblea dei giornalisti della Rai a Saxa Rubra spiegando che il suo mestiere sarebbe stato quello di trasmettere l'intervista ma - ha detto - "non l'ho mandata in onda perche' ci sarebbero state polemiche che non sarei stato in grado di reggere". E questo - ha concluso -  a causa della "gracilita' politica dell'azienda".

22 marzo - La Procura di Caltanissetta non ha mai ordinato il sequestro della videocassetta con l' intervista concessa prima delle stragi del 1992 dal procuratore aqggiunto di Palermo Paolo Borsellino. Lo fanno presente i sostituti della Direzione distrettuale antimafia nissena Alessandro Centonze e Salvatore Leopardi. "In relazione al contenuto della notizia relativa al presunto sequestro della videocassetta contenente l' intervista resa dal dottor Paolo Borsellino il 21 maggio 1992 nella sede di Rai News 24 - scrivono in una nota congiunta - si precisa che la Procura della Repubblica di Caltanissetta nelle nostre persone non ha mai disposto il sequestro della suddetta videocassetta, ma si e' soltanto limitata a disporne l' acquisizione in copia per fini di giustizia, senza mai intendere impedirne la trasmissione".

23 marzo - Il giornalista Marco Travaglio, autore insieme ad Elio Veltri del libro "L'odore dei soldi", al centro del caso Satyricon, alla puntata del Raggio Verde su informazione e satira dice:"Se ho scritto delle falsita' dovrei essere arrestato o ricoverato a Castiglion delle Stigliere. Ma se non mi arrestano ne' mi ricoverano qualche risposta mi piacerebbe averla". Sul libro di Travaglio, in cui vengono chiamati in causa Silvio Berlusconi, Marcello Dell'Utri, la Fininvest e Mediaset, la discussione si e' fatta accesissima tra i giornalisti presenti in studio oltre a Travaglio, e cioe' Miriam Mafai, Vittorio Feltri e Pierluigi Battista. "Non c'e' un solo documento nel libro che appartenga a un processo archiviato", ha detto Travaglio. "Ma se parli di procedimenti che sono stati archiviati", ha replicato Battista. "Non e' vero - ha insistito Travaglio - i giornali ne parlano poco, ma se prendi la lente di ingrandimento qualche cronaca la trovi". "La verita' - secondo Battista - e' un'altra: bastava che tu con onesta' dicessi: questi sono i documenti che l'accusa aveva in mano. E non che in qualche modo tu delegittimassi la magistratura dicendo che non ha fatto il suo lavoro. Lo ha fatto cosi' bene". Altre polemiche per la vicenda di Vittorio Mangano. "Feltri - ha detto Miriam Mafai - tu hai giustamente messo sulla graticola Massimo D'Alema perche' viveva in un appartamento di un istituto, pagando regolarmente l'affitto. Ma perche' non possono essere messi sulla graticola Dell'Utri o Berlusconi che hanno praticamente ospitato a casa loro e pagato un signore che era un noto mafioso?". "No - l'ha interrotta Feltri - quando fu assunto ad Arcore Mangano non era un noto mafioso. Aveva la fedina penale assolutamente intonsa". "No Feltri - ha ripreso Mafai - non aveva la fedina penale intonsa. Ma persino se fosse vero quello che dici tu, e non e' vero, dico che e' perlomeno singolare che un uomo come Dell'Utri nato e cresciuto a Palermo non conoscesse la reale attivita' di Mangano. Perlomeno sara' stato un po' leggero. Sia lui che Berlusconi". "Berlusconi ha avuto questo fattore per un anno - ha precisato ancora Feltri - e quando fu scoperto che aveva emesso assegni a vuoto fu licenziato e rimandato in Sicilia".

24 marzo - Alle 23,30, il programma di attualita' del TG5 'Terra!' trasmette l' intervista di Paolo Borsellino a Lamberto Sposini 20 giorni prima di morire. Il programma, condotto da Toni Capuozzo, mettera' inoltre a confronto la versione pubblicata da 'L' Espresso' con quella trasmessa da Rai News 24 di un' altra intervista a Paolo Borsellino: quella del giornalista francese Fabrizio Calvi, recentemente riproposta sui canali Rai. La puntata proporra' anche gli interventi dell' on. Marcello Dell' Utri, di Elio Veltri, coautore con Marco Travaglio del libro 'L' odore dei soldi' al centro della discussa ultima puntata di Satyricon, di Antonino Ingroia, sostituto procuratore di Palermo e titolare di diverse inchieste in processi di mafia e concorso esterno in associazione mafiosa tra le quali quella che vede imputato l' on. Marcello Dell' Utri, e infine di Carmelo Canale, tenente di polizia attualmente sospeso. Nel corso del programma, oltre a Dell' Utri, Veltri, Ingroia e Canale, interverra' anche il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri.

24 marzo - A Torino, dove ha partecipato al "Social day" di Forza Italia, Silvio Berlusconi parla con i giornalisti dell' episodio del cavallo del maneggio di Arcore e fa una rivelazione: "E' venuta fuori la fattura con cui Mangano aveva comprato il cavallo. Dell' Utri l' ha data a un quotidiano e sara' pubblicata". La questione e' stata tirata in ballo nuovamente ieri nel corso della trasmissione "Raggio Verde", condotta da Santoro. In intercettazioni telefoniche Vittorio Mangano, lo stalliere assunto da Berlusconi e su cui pendeva il sospetto di essere un mafioso, risulto' che Mangano proponeva a Marcello Dell' Utri l' acquisto di un cavallo. Gli investigatori pensarono che si trattasse di una partita di droga, spesso definita appunto "cavallo" nel gergo dei trafficanti. Intervistato da "Terra", alle 23:35, su Canale 5, lo stesso Marcello Dell'Utri esibisce l'atto di vendita del cavallo che "era un cavallo esistente, si chiamava Epoca, ed era stato acquistato da Mangano il 26 agosto 1974". "Con un colpo di fortuna, cercando negli archivi di Arcore - ha detto Dell'Utri - abbiamo ritrovato l'atto di vendita con cui un certo Jose' Raigal Garcia vendeva al signor Mangano Vittorio una cavalla grigia storna, di origine anglo-araba-polacca, di anni cinque circa. Questo e' il contratto, la prova provata che il cavallo esiste e che produrro', se qualche tribunale me lo chiedera', in originale". Dell'Utri, a proposito dell'intervista a Borsellino ("che non ho mai conosciuto") trasmessa dalla Rai, sottolinea che "non e' certamente quella originale, che dura 50 minuti. E questo solo basta a spiegare che c'e' qualcosa che non funziona, visto che quella mandata in onda e' di appena 20 minuti". Alla domanda se ritenga che e' stata manipolata per danneggiarlo, risponde che "sara' la magistratura a chiarirlo. "Io non so - dice Dell'Utri - se Mangano con Inzerillo parlava di droga. A me non interessa. Io so soltanto che Mangano ha parlato con me di un suo cavallo, esistente, che era ancora ad Arcore nella casa di Berlusconi e che Mangano voleva vendere. Io gli ho spiegato, in quella telefonata, che a Berlusconi non poteva interessare quel cavallo, che era focoso e non gli piaceva. E visto che Mangano era un siciliano gli ho detto: 'Guardi, Berlusconi non e' santo che sura', cioe' non si commuove davanti alle preghiere. Percio' non insista'. Tanto e' vero che non insistette piu'". Riguardo ai suoi rapporti con Mangano, Dell'Utri dice che "erano rapporti di conoscenza, non posso neanche dire di amicizia... ci davamo del lei". Spiega quindi di averlo conosciuto a Palermo (era un tifoso della squadra di calcio di cui era proprietario Dell'Utri) e che "era uno che si entusiasmava per tutto, aiutava tutti, si dava da fare". Quando si tratto' di cercare personale per la villa di Arcore penso' a lui "perche' era un appassionato di cavalli... Mangano si trasferi' con la famiglia e si comporto' benissimo. Molti possono testimoniarlo". Dell'Utri ha poi detto di non poter sospettare che Mangano avesse rapporti con personaggi vicini a Cosa Nostra, "anche perche' era una persona all'epoca incensurata... Poi scoprimmo che aveva un precedente per assegni a vuoto, quindi niente a che fare con la mafia". Dopo che fu arrestato "Mangano - aggiunge Dell'Utri - se ne ando' da Arcore. Mi telefonava ogni tanto, cosi', come una persona affezionata. Mi chiedeva notizie del dottore, dei ragazzi: in fondo lui conosceva bene Piersilvio e Marina. Ma erano telefonate rare". Dell'Utri e' comunque convinto, riguardo ai suoi guai giudiziari ("accuse assurde"), che "tutto nasce da Mangano. Lui viene accusato di essere mafioso: io ho gia' detto di averlo assunto in tempi non sospetti. Quindi, mi sembra un'accusa destituita di ogni fondamento". A "Terra" interviene anche Elio Veltri che spiega che "Quando ho visto l'intervista a Borsellino, ho deciso di scrivere un libro. Non c'e' niente di particolarmente studiato". Veltri invita dunque a "non far confusione. Noi non siamo dei magistrati. Noi chiediamo a Berlusconi delle risposte etico-politiche. Perche' se Berlusconi vince le elezioni, e io mi auguro di no, ma se le vince, diventa capo del Governo e quindi anche il mio capo del Governo. E io non voglio che quando va all'estero venga accolto con la pubblicazione di tutti i suoi guai giudiziari. In nessun paese al mondo - prosegue - uno che ha i guai giudiziari di Berlusconi, potrebbe aspirare a diventare capo del Governo". Infine, sull'intervista a Borsellino trasmessa, Veltri conclude: "la figlia di Borsellino, la sorella di Borsellino, il giornalista francese che lo ha intervistato, tutti dicono che nella sostanza e' autentica".

24 marzo - In un' intervista al "Giornale", Ezio Cartotto, il consulente aziendale che ha rivelato come nacque Forza Italia, citato piu' volte nel libro sul Cavaliere scritto dal giornalista Marco Travaglio "L'odore dei soldi", dice che "L'operazione di 'Satyricon' e' stata esattamente questo. Si e' voluto dire agli elettori: stai attento, perche' vai a votare un'azienda e non un'idea o un programma. Mi pare squallido". Cartotto precisa di essere stato sentito su questo punto da diverse procure:"Sono stato interrogato a Torino, poi i verbali sono stati inviati a Palermo, poi i magistrati siciliani hanno voluto risentirmi. E ho dovuto ripetere tutto pure a Caltanissetta. E adesso salta fuori Luttazzi; speravo che l'archiviazione bastasse". Al Giornale, Cartotto da' un'altra versione sulla nascita di Forza Italia, rispetto a quella fornita proprio da Travaglio a Satyricon. "C'era un clima pesante - spiega - era in gestazione un referendum sulle tv private, cominciavano a prendere forma gravi attacchi personali. Un imprenditore che si occupava di televisione non poteva non essere preoccupato per le sorti della propria azienda. Se domani dovesse sorgere un partito degli automobilisti contro la Fiat, gli Agnelli rimarrebbero indifferenti?", chiede provocatoriamente Cartotto, che definisce "ignobile" l'ipotesi di accostare la nascita del partito alle morti di Falcone e Borsellino. A proposito dei raporti tra Craxi e Berlusconi, precisa che il Cavaliere "non fu mai un soldatino ubbidiente".

26 marzo - "Il Corriere della sera" Pubblica un articolo dal titolo:
"Processare Berlusconi sarebbe arbitrio"
Così i pm hanno chiesto di archiviare l'accusa di istigazione per le stragi di mafia
    DAL NOSTRO INVIATO
PALERMO - Rinviare a giudizio Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri per concorso nelle stragi di Capaci e via D'Amelio "costituirebbe una forzatura arbitraria". Credere che dietro i massacri di Falcone e Borsellino ci sia stata "l'istigazione" dei fondatori di Forza Italia sarebbe "un'ipotesi sfornita di aderenza alla successiva realtà". Ecco il verdetto della Procura di Caltanissetta finora avvolto da un rigidissimo top secret. Ecco il testo della richiesta di archiviazione inviata il 19 febbraio scorso all'ufficio del Gip dove il 2 marzo è stata protocollata e affidata al giudice Giambattista Toma che impiegherà almeno tre mesi prima di accogliere o respingere. Sono 36 pagine firmate dal procuratore Gianni Tinebra dall'aggiunto Paolo Giordano e dal sostituto Salvatore Leopardi, subentrato al pm Luca Tescaroli da qualche tempo in servizio a Roma. La maggiore novità sta in una sorta di demolizione delle accuse lanciate dal pentito Salvatore Cancemi che parlò di Berlusconi e Dell'Utri cinque anni dopo l'inizio della sua collaborazione. I magistrati credono di più a un altro pentito di primo piano, Giovanni Brusca, che parla di stragi realizzate da Cosa nostra "per indurre lo Stato alla trattativa". Ma tutto questo sarebbe stata una intenzione maturata dopo le stragi. Al contrario, per Cancemi sarebbe avvenuto prima delle bombe l'incontro fra Riina e le "persone importanti", dal pentito individuate in Berlusconi e Dell'Utri.
IL PARTITO NUOVO - Annullata anche la portata delle rivelazioni del pentito Maurizio Avola: "Va osservato che egli ha dichiarato che la riunione a Catania in cui Eugenio Galea, di ritorno da altra riunione con Riina, disse che stava nascendo un partito nuovo risale al settembre '92, dopo le stragi... A tutto concedere le dichiarazioni di Avola dimostrano soltanto che Cosa nostra avrebbe guardato con interesse la nascita della nuova formazione, non già che erano stati stipulati patti con tale formazione". È su un altro fronte che si accende l'interesse della Procura: "Prima della costituzione di Forza Italia, in Cosa nostra era stato caldeggiato il progetto di costituzione di un movimento indipendentista con caratterizzazione di leghismo meridionale, poi abbandonato solo sul finire del 1993, inizi del 1994, il che mal si concilia con un impegno politico dei vertici della Fininvest...".
COSSIGA - Fondamentale in questa ricostruzione il ruolo di Francesco Cossiga. La sua deposizione è il perno di una cronologia che convince la Procura: "La decisione di scendere in politica di Berlusconi, per quanto mi consta, va collocata a due-tre mesi prima delle elezioni del 1994". E lo assicura "perché ebbi parte nello sviluppo dei rapporti fra Berlusconi e leader del Partito popolare... Berlusconi pensò che la funzione di antagonista della sinistra potesse essere svolta dall'area del Ppi riconducibile a Martinazzoli... Solo nel momento in cui constatò tale iato si determinò di scendere direttamente in politica...".
DUE VERSIONI - Due le ipotesi iniziali dei reati attribuiti agli indagati per anni indicati come "Alfa" e "Beta". La prima: un'istigazione ai boss per compiere le stragi. La seconda: la speranza di Cosa nostra di instaurare "contatti" (attraverso l'ex fattore di Arcore Vittorio Mangano). Fino al novembre 2000, ispirata dal pm Tescaroli, è circolata una bozza che, pur chiedendo l'archiviazione per gli indagati, lasciava un marchio infamante: "Le acquisizioni d'indagine inducono a privilegiare la prima tesi ipotetica". Questa frase è stata cancellata perché la definitiva richiesta di archiviazione opta per la seconda tesi e "assolve" Forza Italia.
IL PAPELLO - Non possono esserci dubbi, infatti, per i magistrati d'accusa sull'estraneità di Forza Italia alla trattativa commentata spesso dai pentiti in via deduttiva: "Le clausole del famoso "papello" (abolizione dell'ergastolo, del 41 bis e della legge sui pentiti) coincidono in parte con alcune importanti leggi che però sono state varate non da Forza Italia ma attraverso un ampio consenso politico...".
MAFIA E APPALTI - La richiesta si conclude sottolineando che continua la caccia ai "mandanti esterni delle stragi" ma con riferimento ad "altri settori, segnatamente quello dell'inquietante intreccio mafia-appalti". In questo scenario si invita a approfondire i contenuti dell'informativa Dia su alcune società: "Tecnofin group (riconducibile a Salamone-Miccichè), alla Co.Ge. (riconducibile a Paolo Berlusconi), alla Tunnedil alla Cipedil (Rappa di Borgetto), alla R.T.I.".
Felice Cavallaro

26 marzo - La terza sezione della corte d' Appello civile di Roma conferma il rigetto della domanda di risarcimento danni per circa un miliardo di lire dell'allora pm della procura di Palermo Alberto Di Pisa nei confronti di Domenico Sica, all'epoca dei fatti Alto commissario Antimafia. La vicenda risale all'inizio degli anni '90, quando il magistrato fu accusato di essere l'autore di una serie di lettere anonime contro giudici, tra cui Giovanni Falcone, e poliziotti, attribuite al famoso 'Corvo' che scatenarono veleni all' interno della Procura palermitana. Ad indirizzare le indagini nei confronti di Di Pisa fu proprio Sica. Da qui la richiesta di risarcimento danni di Di Pisa, poi assolto dai giudici nel procedimento penale per non aver commesso il fatto. "Le motivazioni della sentenza si sapranno soltanto nei prossimi giorni - dicono i legali di Sica, Francesco Marotta, Giuseppe Arcidiacono e Guido Alpa - ma cio' che si intuisce nel dispositivo e' che vi sia stato un pieno riconoscimento della legittimita' dell'operato del dottor Sica nella vicenda".

26 marzo - Il pm Antonio Ingroia, ha chiesto alla difesa dell' on. Marcello dell' Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa, di sciogliere la riserva in merito all' interrogatorio in aula di Silvio Berlusconi. "Rinnovo la richiesta - ha detto Ingroia ai giudici del tribunale - per conoscere la decisione del collegio di difesa". L' avv. Enzo Trantino, difensore di Dell' Utri, ha risposto sottolineando che per il momento non c' e' alcun consenso per sentire Berlusconi. "Appena il pubblico ministero - dice Trantino - avra' esaurito tutti i testi dell' accusa scioglieremo la nostra riserva. Farlo adesso, mi sembra una decisione affrettata e irresponsabile". Il pm Ingroia ha ribattuto: "Ne trarremo una decisione". Il sostituto, inoltre, ha ricordato al tribunale che la difesa deve ancora sciogliere un' altra riserva, che riguarda la citazione del consulente della procura, Francesco Giuffrida, funzionario della Banca d' Italia, in merito alla sua relazione che riguarda le holding Fininvest. Il magistrato ha rinnovato anche la richiesta di sentire il maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro, che ha stilato un rapporto sulle societa' che compongono il gruppo di Berlusconi. Il nome di Silvio Berlusconi era stato inserito nella lista dei testi sia dell' accusa sia della difesa. Nello scorso ottobre la procura aveva chiesto alla difesa di indicare la data in cui sentire in aula il leader di Forza Italia. I difensori in novembre si erano opposti, sostenendo che di fatto si era gia' in campagna elettorale. Il pm ha piu' volte sottolineato che trovare un accordo con la difesa per concordare la data avrebbe "evitato il clamore della citazione attraverso la polizia giudiziaria" che la procura vuole evitare. I magistrati della Procura oggi hanno ribadito che gli interrogatori dei rimanenti 12 testi dell' accusa saranno ultimati anche prima di maggio e che, quando si votera', sara' in corso l' audizione dei testimoni della difesa. Pertanto il pm Ingroia gia' il mese scorso aveva chiesto agli avvocati il consenso all' inversione della prova, cioe' sentire Silvio Berlusconi quale teste citato dell' accusa nella fase in cui sono ascoltati in aula i testi voluti dalla difesa. Berlusconi e' stato citato come imputato di reato connesso (concorso in associazione mafiosa e riciclaggio) la cui posizione e' stata comunque archiviata su richiesta della stessa Procura di Palermo.

26 marzo - Il Procuratore aggiunto di Caltanissetta, Francesco Paolo Giordano, ribadisce che le indagini sulle stragi del '92 non sono chiuse:"Continuiamo a indagare sui mandanti esterni alle stragi: abbiamo acquisito elementi interessantissimi sull' intreccio mafia-appalti, non appena il quadro sara' completo valuteremo le iniziative da adottare". Il magistrato non vuole commentare in alcun modo la pubblicazione sul Corriere della Sera di oggi di alcuni stralci della richiesta di archiviazione, avanzata dalla Procura nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell' Utri, per concorso nelle stragi di Capaci e via D' Amelio. Giordano ammette che la pista privilegiata adesso dagli inquirenti per "spiegare" i massacri di Falcone e Borsellino e' quella legata al filone mafia e appalti. Il Pm puntualizza tuttavia che le societa' citate dal Corriere della Sera, tra le quali figura anche la Rti di Silvio Berlusconi e la Co.Ge. Spa riconducibile al fratello Paolo oltre alla Tecnofin di Filippo Salamone e Giovanni Micciche', sono inserite in un' informativa complessiva della Dia, richiesta dalla stessa Procura, contenente un elenco delle imprese in qualche modo coinvolte in indagini antimafia. Secondo Giordano, dunque, non esisterebbe un nesso diretto tra queste societa' e le nuove indagini finalizzate a individuare i mandanti esterni alle stragi.

27 marzo - "Il Corriere della sera" scrive:
L'INCHIESTA DI CALTANISSETTA
Tescaroli: ma Brusca e Cancemi non si contraddicevano
ROMA - Quella sui mandanti occulti delle stragi mafiose del '92 era la "sua"  inchiesta, se lo stesso procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, ammette: "Ha  fatto quasi tutto lui". Per due anni e più, dal luglio 1998, il "giudice ragazzino" Luca  Tescaroli ha intrecciato dichiarazioni e cercato riscontri sugli "interessi convergenti"  esterni a Cosa Nostra che ispirarono le bombe di Capaci e via D'Amelio. Poi, alla fine  dell'anno scorso, partì per la procura di Roma con una giustificazione un po' sibillina: "Ho ritenuto che non vi fossero più le condizioni per proseguire". Quell'inchiesta, che vedeva indagati Berlusconi e Dell'Utri del reato di concorso in strage, s'è ora  conclusa con una richiesta di archiviazione firmata da altri magistrati, i quali hanno preso in mano e tirato le somme del suo lavoro. E Tescaroli commenta: "Se le anticipazioni che ho letto sul Corriere sono vere, le considero un fatto grave e sorprendente, anche perché la fuga di notizie su un atto riservato avviene da un ufficio che ha sempre vigilato sul rispetto del segreto investigativo". Tescaroli ha seguito in silenzio la bagarre sul "caso Satyricon", pur essendone un protagonista di primo piano, visto che buona parte del libro-scandalo di Travaglio è composto dai suoi atti istruttori e dalle sue requisitorie. Adesso ha deciso di derogare al riserbo per dire: "Sono stati divulgati anche atti interni all'inchiesta, propedeutici alle conclusioni, che chiamano in causa il sottoscritto realizzando una sovraesposizione e una delegittimazione di chi ha semplicemente indagato senza distinguere le persone sulla base del censo, del proprio potere personale e del ruolo rivestito nella società, com'è previsto dalla legge. Naturalmente non mi riferisco al giornale o ai giornalisti, ma a chi ha reso possibile la fuga di notizie". Ma lui, il pm che se n'è andato da Caltanissetta alla vigilia dell'atto finale dell'inchiesta, è d'accordo oppure no con le decisioni prese da chi è rimasto? Tescaroli si richiude a riccio: "Nel merito delle valutazioni non posso entrare. Chi vuole, però, può leggere il contenuto della requisitoria da me pronunciata al processo d'appello per la strage di Capaci; lì ho detto, ad esempio, sulla base di argomentazioni che ritengo logiche e rigorose, che le dichiarazioni di Giovanni Brusca non si pongono in contraddizione con quelle di Salvatore Cancemi". Punto. Un punto che appare sufficiente, però, a prendere le distanze da chi - come la procura nissena - ha ritenuto di fondare il proscioglimento di Berlusconi e Dell'Utri anche sulle presunte contraddizioni tra questi due pentiti. Nella requisitoria citata da Tescaroli, inoltre, si legge che le dichiarazioni di Cancemi, Brusca e di un altro pentito, Maurizio Avola, "consentono di inquadrare le ipotesi di trattative coltivate, e gli attentati eseguiti e programmati, nell'azione volta a creare le condizioni per l'affermazione di una nuova formazione politica". Altro "pezzo forte" della richiesta di archiviazione proposta a Caltanissetta sono le deposizioni dell'ex-presidente della Repubblica Cossiga, che fissa la decisione di Berlusconi di entrare in politica "due-tre mesi prima delle elezioni del 1994". E pur non volendo commentare il valore di queste dichiarazioni, Tescaroli ricorda che "al processo d'appello per Capaci sono stati forniti elementi di prova che vanno in segno contrario", in particolare una sorta di atto di fondazione di Forza Italia datato luglio 1993. Dunque il "giudice ragazzino" ha lasciato la Sicilia perché aveva capito che i vertici dell'ufficio sarebbero giunti a una conclusione dell'indagine diversa da quella che lui immaginava? "Io sono fermo a quella frase, non c'erano le condizioni per continuare a lavorare. Ognuno può leggerla come crede. Quello che non è giusto fare, in democrazia, è pilotare l'informazione per delegittimare chi ha semplicemente fatto il proprio dovere".
Giovanni Bianconi

27 marzo: "La Repubblica":
"Io magistrato delegittimato nell'inchiesta sulle stragi"
Parla Tescaroli: additato come il pm cattivo, sono in pericolo
l'intervista
FRANCESCO VIVIANO
PALERMO - "Sono andato via da Caltanissetta perché non vi erano più le condizioni per rimanere. E i fatti adesso mi danno ragione, sono indignato, oggi mi ritrovo sovraesposto e delegittimato. Avere reso noto certe vicende che dovevano rimanere segrete mette a repentaglio non soltanto la mia incolumità ma anche quella dei miei familiari". E' amareggiato e incredulo Luca Tescaroli, il pm della strage di Capaci e di via D'Amelio che fino a pochi mesi fa aveva coordinato l'inchiesta sui mandanti occulti delle stragi dov'erano indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Un' inchiesta che ha provocato divergenze di vedute tra il giovane magistrato ed i suoi superiori, il capo della Procura, Giovanni Tinebra e l'aggiunto, Paolo Giordano. Tescaroli aveva preparato una richiesta di archiviazione che è stata cestinata dai suoi superiori perché il magistrato avrebbe sostenuto che l'ipotesi del coinvolgimento di Berlusconi e Dell'Utri nel progetto stragista di Cosa nostra, pur plausibile, non aveva trovato nei due anni di indagini previsti dalla legge una decisiva conferma. Una tesi che è stata completamente ribaltata dalla richiesta di archiviazione presentata nel marzo scorso da Tinebra, Giordano e dal sostituto Leopardi che definiscono invece un arbitrio un eventuale processo a Berlusconi e Dell'Utri. Tescaroli non ci sta a fare la parte del pm "cattivo". "Io, nonostante tutto, avevo fatto una scelta che è quella naturale della riservatezza. Tuttavia le ultime pubblicazioni ed in particolare l'articolo di ieri sul "Corriere della Sera" mi lasciano indignato". Quando dice di essere stato delegittimato si riferisce ai suoi colleghi di Caltanissetta? "Se è vero quello che è stato scritto il fatto è davvero gravissimo e mi sorprende perché è avvenuto in un ufficio che ha sempre vigilato sul segreto investigativo. Nell'articolo si fa riferimento al contenuto di un atto riservato e cioè la richiesta di archiviazione. Qualcuno probabilmente, nel quadro di una regia occulta, si è prestato a giochi non del tutto commendevoli e non ho elementi per dire chi ne sia stato il responsabile o l'irresponsabile". La richiesta di archiviazione dei suoi colleghi di Caltanissetta contrasta con quella che aveva preparato lei? "Non posso confermare né smentire la circostanza perché non è dato al magistrato di parlare di procedimenti in corso, posso solo richiamare quello che è stato detto in fase dibattimentale nel processo per la strage di Capaci e cioè: sulla base di una ragionamento rigoroso ho affermato che le dichiarazioni di Giovanni Brusca non si ponevano in antitesi con l'altro collaboratore, Salvatore Cancemi, ma si ritenevano complementari e questa impostazione è stata ribadita anche dai colleghi Antonino Di Matteo e Anna Palma nel processo per la strage di via D'Amelio. Insomma elementi che non smentivano Cancemi come invece risulterebbe dalla richiesta di archiviazione presentata dai miei colleghi di Caltanissetta".

28 marzo - La giunta dell'Anm "bacchetta" l'ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli e il sostituto paalermitano Antonino Ingroia per le critiche rivolte in un libro al tribunale che ha assolto Giulio Andreotti. Critiche che hanno spinto uno dei componenti di quel collegio, Salvatore Barresi, a dimettersi dall'Anm. In un documento, l'esecutivo del sindacato delle toghe "ribadisce l'orientamento, piu' volte espresso, della necessita' di contemperare il legittimo esercizio della critica con il rispetto della giurisdizione, soprattutto da parte di chi abbia avuto un ruolo nel processo e quando esso sia ancora in corso". Osserva che "alcune espressioni critiche riportate dalla stampa , salvo ogni verifica testuale, sembrano inopportune". E "richiama tutti al senso di responsabilita' e autocontrollo, che in una fase cosi' complessa per la magistratura, deve ispirare tutti i magistrati, quali che siano le loro funzioni".    Inoltre la giunta "invita caldamente" Barresi a ritirare le dimissioni. Un auspcio fatto ieri anche dalla giunta distrettuale di Palermo dell'Anm, che pero' aveva ritenuto quelle di Caselli e Ingroia opinioni espresse "nell'esercizio della liberta' di espressione e di critica". Sono due i passaggi nel libro dell' ex procuratore di Palermo, Gian Carlo Caselli e del pm Antonio Ingroia, oggetto di discussione. Il primo cita il senatore Giovanni Pellegrino che sul caso di Edgardo Sogno ha affermato: "L' atteggiamento tipico del senatore Andreotti e' quello di prendere gli eventi storici e sminuzzarli in una serie di singoli episodi fino a rendere impercettibile il disegno complessivo". Caselli scrive: "Leggendo queste parole mi sono chiesto (tanto per non restare sempre 'ingessagi') se per caso il tribunale di Palermo a forza di studiare le carte processuali del senatore Andreotti non abbia finito per metabolizzarne gli atteggiamenti...". Nel secondo passo sull' insufficenza di prove ("ogni elemento veniva preso in cosiderazione ad uno ad uno, e non dal complesso") Caselli rileva: "Per paradosso si potrebbe avvicinare un tale sistema di valutazione ad un ipotetico esame scolastico che abbia come risultato, da un lato, una pagella con 5 in matematica, 5 in latino, 5 in italiano e cosi' via, e dall' altro una sorprendente e contradditoria promozione finale. Come spiegarla? Disattenzione del conteggio? Scarsa attitudine alle addizioni? Alle alchimie? Intendiamoci, nessuno ed io per primo, ha la pretesa dell' infallibilita'. Osservando con attenzione quel che e' successo, sono tanti gli interrogativi che possono formularsi sul piano tecnico". Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia rispondono con un comunicato congiunto ai richiami fatti dalla giunta dell' Anm all' ex procuratore di Palermo: "Apprendiamo - vi affermano - che la giunta centrale dell' Anm, talvolta prudentemente silenziosa di fronte agli insulti e agli attacchi delegittimanti che per tanti anni sono stati rivolti, anche dall' interno della magistratura, contro la procura di Palermo, ed i magistrati ad essi appartenenti, trova adesso la parola per occuparsi di un nostro recente libro che riguarda sette anni di storia giudiziaria palermitana e non il processo Andreotti come inesattamente affermato nel documento della giunta". I due autori del libro "L' eredita' scomoda" sostengono inoltre: "La giunta centrale candidamente ammette di non aver letto il libro. Se lo avesse fatto, siamo sucuri che avrebbe costatato come esso contenga soltanto considerazioni di carattere tecnico, sempre svolte nel rispetto delle persone e delle loro funzioni, come del resto aveva riconosciuto la giunta distrettuale di Palermo".

29 marzo - "La Repubblica" edizione di Palermo:
Borsellino scomodo
annullato il dibattito
il caso
ENRICO BELLAVIA
Niente dibattito se c'è la Borsellino. La censura arriva, puntuale, dopo lo scandalo. La presenza di Rita, la sorella del magistrato ucciso, diventa "inopportuna" per il preside di una scuola di Terlizzi, paesotto a 40 chilometri da Bari. Inopportuna per via del rumore postumo e tardivo che l'ultima intervista del fratello, riproposta a nove anni dalla morte, ha procurato. Inopportuna per quelle frasi in coda, atto d'accusa urticante sulle relazioni pericolose di Silvio Berlusconi e del suo Marcello Dell'Utri. Basta questo al capo d'istituto per cancellare un appuntamento e scacciare con il cognome anche il fantasma del giudice, in questo, magari, chissà, compiacendo più di un notabile locale. Se fosse solo idiozia, comunque, sarebbe roba da Provveditorato agli studi. Purtroppo sembra avere molto a che vedere con quello che Terlizzi è stato negli anni: bomba al municipio, Comune sciolto, sgherri ai seggi, attentati dappertutto e un'associazione antiracket al cui numero rispondono i
carabinieri. "Ero appena tornata da Pisa per un incontro all'Università - racconta Rita Borsellino - quando ha squillato il telefono di casa, all'altro capo c'era un'insegnante di Terlizzi, la stessa che mi aveva invitato parecchi giorni addietro per un incontro, il 20 aprile prossimo, nella sua scuola. Si trattava di un assemblea con gli studenti nel quadro di un progetto sull'educazione alla legalità. Era molto imbarazzata nello spiegarmi che il preside le aveva ordinato di cancellare tutto. Di disdire l'appuntamento. Non era il caso che andassi. "Borsellino è nell'occhio del ciclone per ora, meglio lasciare perdere", le ha detto. "Più in là vedremo", ha aggiunto". Da nove anni Rita Borsellino gira l'Italia. Va ovunque la chiamino scuole e studenti. Dibattiti, incontri, giornate di studio e seminari. Impegno civile e battaglie fattive da vicepresidente di Libera, il cartello di associazioni contro la mafia. Non le era mai capitato. "Confesso che mi ha sorpreso e addolorato. Dal settembre del '92 viaggio a una media di tre, quattro manifestazioni del genere a settimana. Evidentemente, decisamente, mio fratello fa paura anche da morto. Sono sicura della buona fede dell'insegnante, mi è toccato confortarla e offrirle la mia solidarietà. Non voglio esporla a ritorsioni, anche per lei non deve essere stato facile sottostare a quel diktat. Non poteva fare altrimenti, lei era la responsabile del progetto, ma quello è il preside". Non è l'invito disdetto, non è la pavidità o forse la cattiva coscienza di un preside a indignare Rita Borsellino: "È piuttosto la rabbia che provo nel vedere strumentalizzato il nome di mio fratello e il mio, per quello che rappresento. Io testimonio Paolo, il suo sacrificio, quello che è stato, non ho altro ruolo che questo. È la ragione per cui mi sono messa in gioco, tralasciando il mio lavoro e i miei affetti, ed è la ragione per cui non mi sono mai sognata di fare politica attiva. Sono distante da qualsiasi schieramento di partito e per questo una cosa del genere è doppiamente inaccettabile".

29 marzo - Secondo il presidente della Camera Luciano Violante le stragi del '92 in cui vennero assassinati i giudici Falcone e Borsellino furono un “punto di non ritorno nell' educazione alla legalita' nel nostro Paese”, anche se rimane oscuro il motivo per cui la mafia opto' per questa tattica. Violante lo ha affermato questa sera nel corso di un incontro preelettorale a Mestre. “Capaci e via D' Amelio - ha detto - rappresentano l' unico caso di strage di magistrati a breve distanza, ed e' difficile pensare che non si trattasse di una stessa 'operazione'. Sono stati condannati gli esecutori, Riina esclude di essere il mandante, ma se alla mafia tutto questo spargimento di sangue sia servito e' difficile da dire”. “Da allora - ha proseguito Violante - il Paese ha fatto un salto di qualita' enorme, e a me interessa soprattutto la risposta della societa' civile. E la mafia e' stata isolata. Ora viene arrestato un latitante ogni 28 ore. E prima o poi arresteremo anche Provenzano...”.

29 marzo - “Quel libro l' ho anche comprato e sono rimasto un po' impressionato”. A margine del primo Forum per la Governance mondiale di Saint Vincent, Giulio Andreotti ha risposto cosi' a una domanda sul libro “L' eredita' scomoda” dell'ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. “Ho letto che uno dei giudici – ha aggiunto Andreotti - ha protestato ed e' uscito dall' Associazione Nazionale Magistrati. Ma non entro in questa disputa, appartengo a una scuola che non polemizzava mai con i giudici'. Poi pero' ha ancora commentato: “Ora ci sara' l' Appello e sono attento. Ho visto che il procuratore, successore di Caselli, non ha firmato l' Appello e c' e' una ragione. Non l' ha fatto perche' abbia con me dei rapporti, ma perche' era giudice a latere del maxiprocesso di Palermo e fu uno di quelli che ci chiese quel provvedimento molto ardito”. Era l' epoca in cui Andreotti da presidente del Consiglio firmo' un decreto legge per evitare che i boss mafiosi tornassero in liberta' per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva: “Ho fatto uno dei provvedimenti piu' duri contro la mafia, con l' opposizione dell' allora Pci. Non e' che il Pci volesse aiutare la mafia, ma aveva paura che fare per decreto legge un prolungamento di detenzione preventiva potesse aprire la strada a chissa' quali applicazioni”. Andreotti ha anche criticato la violazione della privacy nelle vicende giudiziarie: “l'ultimo spettacolo in Tv dell'esponente Ds toscano arrestato in modo cosi' clamoroso a me pare assurdo. E pensare che oggi abbiamo addirittura una struttura per tutelare la privacy”.

29 marzo – Il settimanale "Diario" pubblica un numero speciale monografico su Silvio Berlusconi. L’ inchiesta viene presentata cosi’:
Diario Berlusconeide è in edicola. Si tratta dell'Inchiesta vecchio stile più lunga e articolata che abbiate mai letto. 160 pagine a colori in cui c'è tutto quello che bisogna sapere di Silvio Berlusconi prima di affidargli le chiavi di casa. Non si tratta di una lettura facile: aggirarsi tra nomi che ritornano e scompaiono, finanziarie che nascono e muoiono, casalinghe e prestanome, blaser blu e calciatori del Milan, antenne, televisioni e quartieri, incontrando vicende oscure come le stragi di Falcone e Borsellino o uomini della P2, è un po' come ripercorrere la storia italiana degli ultimi trent'anni per cercare di farne venire fuori un quadro coerente. Secondo noi si tratta di una fatica da fare perché gli interrogativi intorno a Silvio Berlusconi e ai suoi, sono ancora più numerosi di quanto già non si pensi. C'è la storia di Mangano e quella dell'ipotesi B, ci sono i rapporti di Berlusconi con la politica (perfino con il vecchio Pci) in un arco di trent'anni, ci sono le leggende metropolitane che sono nate intorno alla sua vita e l'analisi del complicatissimo sistema di holding che costituisce l'architettura dell'Impero. C'è poi, l'uomo nudo e crudo: perché piace, come si veste, come spiegare a uno straniero l'infatuazione italiana di questi anni. Andrea Camilleri ragiona e discute con Enrico Deaglio in trenta densissime pagine, arrivando a definire il Cavaliere, il "Male assoluto... se fossi credente". Indro Montanelli ricostruisce con Pietro Cheli il suo rapporto con l'editore. C'è un gioco da fare con un paio di forbici. E un cruciverbone firmato da Stefano Bartezzaghi. Buon divertimento.
IL SOMMARIO
Il più bello del reame
L'invasione dei mutanti di Francesco Piccolo
L'Estetica trash-endente di Antonio Mancinelli
A qualcuno piace Silvio di Gabriele Romagnoli
Vallo a spiegare a uno straniero! di Massimo Cirri
Quel che penso di lui
Se vince lui. Ma forse no conversazione con Andrea Camilleri
Il Conquistatore
Il padrone dell'etere di Maria Novella Oppo
Il primo fallimento di Anna Maria Merlo Poli
Guai ai vinti. Abbasso de Coubertin di Massimo Fini
La lobby del Biscione di Mario Portanova
Tragicomico '94 di Andrea Colombo
Crimini e misfatti
L'onore di Mangano, detto "lo stalliere" di Enrico Deaglio
Tanto denaro dal nulla di Luca Andrei
La remissione del debito di Bancomat
La Fininvest ombra di Domenico Marcello
L'ipotesi B di Gianni Barbacetto
Avviso ai naviganti
Io ne ho conosciuti due Indro Montanelli a colloquio con Pietro Cheli
Attenti al caudillo di Paolo Sylos Labini
Cruciverba
Silvio a quadretti di Stefano Bartezzaghi
Le schede
Chi ha scritto
Vita, opere e miracoli di Silvio, il Venditore
I fioretti di San Silvio
Lo strano caso di Tele Cinco
Scenario: tempesta italiana sull'euro
Chi si ricorda di Gianfranco Mascia?
Lord Justice non ci casca
Nessuno mi può giudicare
L'appello/"Salviamo lo Stato di Diritto"
E' tutto scritto

30 marzo - Si ritireranno in camera di consiglio il 4 maggio i giudici della corte d' appello che processano Bruno Contrada, l' ex funzionario del Sisde condannato in primo grado, nel 1996, a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. La data e' fissata al termine delle repliche dei difensori di Contrada, Gioacchino Sbacchi e Piero Milio, e del sostituto procuratore generale Antonino Gatto.

31 marzo - "Il Corriere della Sera":
INCHIESTE Dopo il processo, Tescaroli ricostruisce i misteri del fallito attentato all'Addaura
Falcone: cronaca di un delitto annunciato
A nemmeno un anno dal precedente saggio, nel quale aveva spiegato "perché fu ucciso Giovanni Falcone", avvalendosi della trama delle requisitorie da lui presentate nei processi di primo e di secondo grado contro gli autori della strage di Capaci, il giovane magistrato Luca Tescaroli (allora sostituto presso la Procura distrettuale antimafia di Caltanissetta, oggi sostituto a Roma) torna in libreria con un nuovo volume, dedicato ai Misteri dell'Addaura. Scritto con il medesimo metodo, a metà strada tra la cronaca giudiziaria e la ricostruzione di attività processuali, e proprio perciò sempre rigorosamente attento alla documentazione dei fatti, il volume descrive bene lo scenario sociopolitico nel quale si inquadrò, nel giugno 1989, il fallito attentato sulla spiaggia palermitana dell'Addaura contro Giovanni Falcone, Carla Del Ponte (oggi capo della Procura al Tribunale penale internazionale per i crimini nell'ex Jugoslavia) e altri membri di una delegazione svizzera in visita a Palermo. Facendo leva anche questa volta sugli ampi materiali raccolti per la requisitoria sostenuta nello scorso ottobre, durante il processo per l'attentato, conclusosi in primo grado di fronte alla Corte d'Assise di Caltanissetta con cinque condanne (di cui tre a 26 anni di reclusione a Totò Riina, Salvatore Biondino e Antonino Madonia), l'autore mette bene in evidenza due importanti aspetti di quel processo. Da un lato, la raggiunta certezza, corroborata anche dai contributi di diversi collaboratori di giustizia di sicura attendibilità, che l'attentato dell'Addaura era stato voluto ed eseguito da affiliati a Cosa Nostra. Dall'altro, i dubbi rimasti aperti attorno al quesito, pur suggerito dalle carte processuali, se le "menti raffinatissime" (come le definì lo stesso Falcone) all'origine dell'attentato fossero o non fossero state in collegamento con esponenti di corpi deviati dello Stato. In controluce si intravede il mosaico di un'epoca nella quale già si stavano moltiplicando i segnali di delegittimazione e, quindi, di isolamento nei confronti di Giovanni Falcone (dall'insuccesso alle elezioni per il Csm alla mancata nomina al vertice dell'ufficio Istruzione di Palermo), fino alle voci volte a screditare come "finzione" il medesimo attentato dell'Addaura. E, sullo sfondo, riaffiorano i delicati e discussi rapporti di uomini politici di livello nazionale con ambienti e con uomini politici siciliani contigui alla mafia, sui quali si soffermano anche le belle pagine introduttive scritte da Nando Dalla Chiesa.
LUCA TESCAROLI
I misteri dell'Addaura
Rubbettino
pagine 254, lire 25.000

2 aprile - Il pubblico ministero Antonio Ingroia chiede al Gup Alfredo Montalto il rinvio a giudizio del parlamentare di Forza Italia Marcello Dell'Utri, accusato di calunnia nei confronti dei collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo, Domenico Guglielmini e Francesco Onorato, in concorso con altri due pentiti, Cosimo Cirfeta e Giuseppe Chiofalo. Secondo la Procura di Palermo, Cirfeta e Chiofalo avrebbero dichiarato il falso per screditare i collaboratori che accusano Dell' Utri, attualmente sotto processo per concorso in associazione mafiosa. Il Gup ha rinviato l' udienza preliminare al 19 aprile, per le arringhe dei difensori. E' stata rinviata al 9 aprile anche l' udienza del processo a Dell' Utri, per un malore di uno dei giudici a latere della seconda sezione del tribunale. In quell' occasione il collegio dovra' sciogliere le riserve circa la citazione come teste di Silvio Berlusconi, in relazione all' allargamento del capitolato delle domande alle 22 holding della fininvest. Il tribunale dovra' esprimersi anche sulla citazione come teste del funzionario della Banca d' Italia Francesco Giuffrida, che ha curato per la Procura una consulenza sulle 22 holding. L' on Marcello Dell’Utri ribadisce l’ “assoluta infondatezza delle tesi accusatorie” che “infatti traggono origine dalle dichiarazioni di un pentito. Dichiarazioni queste che non trovano altri riscontri oggettivi e che, a quanto mi risulta, sono state rilasciate dopo diversi interrogatori solo dinanzi alla prospettazione di benefici processuali poi effettivamente concessi, ivi inclusa la scarcerazione”. “Ribadisco inoltre - conclude Dell'Utri - il mio diritto a ricercare ogni e qualsivoglia argomento di difesa, da chiunque questo provenga”.

2 aprile - Il 18 e 19 aprile, su Raidue, sara’ trasmesso il film tv in due puntate “L'attentatuni”. E' la storia dell'indagine che ha portato, per la prima volta nella storia sanguinosa della mafia, all'identificazione, all'arresto ed alla condanna di esecutori e mandanti dell’ uccisione del giudice Giovanni Falcone. Con il sottotitolo "Da questo libro l'omonimo film-tv con Claudio Amendola e Veronica Pivetti", torna anche in libreria, edito da Baldini e Castoldi, il libro, pubblicato nel 1998, dei giornalisti Giovanni Bianconi e Gaetano Savatteri, che, con i verbali degli interrogatori e delle intercettazioni, ricostruiva passo passo quell'inchiesta. La fiction cambia soltanto i nomi di 'sbirri' e mafiosi e restringe in due ore le 295 pagine del libro ed i 19 mesi, dal 23 maggio 1992 al 2 dicembre 1993, che furono nella realta' necessario al pm Ilda Boccassini ed alla squadra di investigatori della Dia a raccogliere le prove necessarie a far condannare, due anni piu' tardi, i 24 assassini, dal boss dei boss Toto' Riina all'esperto di esplosivi Pietro Rampulla. Claudio Amendola e' il questore Cardine, nella realta' Gianni De Gennaro, oggi capo della polizia, allora vice direttore operativo della Dia, che di Falcone era stato amico e collaboratore e che quel 23 maggio aveva giurato "Dovesse essere l'ultima che faccio in vita mia, li prendero’". Veronica Pivetti e' Anna Granata, nella realta' Maria Luisa Pellizzari, il funzionario di polizia che guido' la squadra investigativa in Sicilia, una giovane e bella donna, bionda e per di piu' d'origine veneta, non certo l'ideale per passare inosservata ad Altofonte o Corleone.

2 aprile - Il film “I cento passi” sulla uccisione di Peppino Impastato apre il 12° Natfilm festival a Copenaghen.

3 aprile – In un’ intervista a “Famiglia Cristiana” il leader della Lega Nord Umberto Bossi, alla domanda se avesse cambiato parere rispetto a quando chiamava Berlusconi “il mafioso di Arcore” dice:“Mah, forse l' abbiamo creduto per qualche mese, poi abbiamo capito che quella roba li' era una roba un po' strana, perche' non c' erano prove”. “Anche perche' - aggiunge Bossi - la sinistra sa darsi da fare. Attraverso alcuni dei nostri, agirono, intervenivano pubblici ministeri famosissimi. Noi prendemmo atto. Finche' il dubbio mi venne. Vedevamo una marea di processi lanciati anche contro di noi, e contemporaneamente una marea di processi a Berlusconi. Anche se i processi erano differenti – prosegue Bossi - i nostri erano di tipo ideologico. Inizialmente sembravano accuse credibili, poi dopo un po' abbiamo capito la solfa”. Bossi, inoltre, nega ogni possibile preoccupazione per il fatto che Berlusconi ammise la sua iscrizione alla P2. “Mi preoccuperebbe se avesse progetti massonici, invece Berlusconi non mostra assolutamente sintomi di quella cosa li'. Puo' darsi che sia vero quello che dice lui, che si sia trovato coinvolto. Dalle sue idee, da come appoggia la famiglia e i suoi ideali, a mio parere non e' un massone”.

3 aprile – In un’ intervista al “Corriere della Sera”, il deputato di Forza Italia Amedeo Matacena dice di ignorare le ragioni della mancata candidatura alle prossime elezioni, ma non nasconde di avere il sospetto che dietro la vicenda ci sia lo zampino del leader di An e dovendo indicare chi potrebbe aver messo un veto su di lui, risponde: “Forse Fini. Se cosi' fosse  - aggiunge - mi dispiacerebbe molto. Quando e' venuto a Reggio Calabria ha avuto la mia piu' totale collaborazione. Ha chiesto e ottenuto il mio autista e la mia auto per girare durante la campagna elettorale”. Matacena lancia una frecciata anche a Berlusconi:“Ritengo di essermi comportato da amico con il presidente Berlusconi. Sono andato a Palermo a testimoniare al processo di Dell'Utri contro Rapisarda. Mi sono trascinato dietro altri testimoni che avevano perplessita' a raccontare i fatti per come si sono svolti. Poi su richiesta di Berlusconi sono andato a testimoniare a Caltanissetta contro la Procura di Palermo. Sono stato ripagato molto male”. Il sostituto procuratore Antonio Ingroia, pm nel processo a Marcello Dell' Utri in corso a Palermo per concorso in associazione mafiosa dichiara:“Stiamo valutando la dichiarazione dell' onorevole Matacena fatte oggi al Corriere della Sera. Piu' di tanto per il momento non possiamo dire”. Il magistrato, che avrebbe acquisito l' articolo pubblicato oggi dal quotidiano di via Solferino, non ha voluto rispondere alla domanda se la procura intende ricitare in aula il testimone. La testimonianza dell' on. Amedeo Matacena nell' ambito del procedimento per calunnia nei confronti di Filippo Alberto Rapisarda viene comunque ritenuta “marginale” negli ambienti della Procura di Caltanissetta. L' inchiesta fu avviata in seguito a un esposto presentato da Silvio Berlusconi e Marcello Dell' Utri contro Rapisarda. Il parlamentare di Forza Italia sarebbe stato ascoltato, insieme con altri testimoni, per confermare alcune circostanze riferite da Dell' Utri. In particolare in merito a dichiarazioni che sarebbero state pronunciate, nel corso di una cena in un locale pubblico, dallo stesso Rapisarda.

3 aprile - Il sostituto procuratore Piero Padova chiede la condanna a quattro anni di carcere, per favoreggiamento aggravato, nei confronti del principe Vincenzo Vanni Calvello di San Vincenzo. Secondo l' accusa, l' imputato avrebbe piu' volte ospitato Lorenzo Tinnirello, killer della strage di via D' Amelio, durante la latitanza. Insieme a Calvello sono processati, sempre per favoreggiamento, Rosario Mandala', ortopedico ed ex sindaco democristiano di Villabate, accusato di avere curato, mentre era ricercato, il boss Giuseppe Graviano, e il romano Loreto Di Fina. Per loro, la Procura ha chiesto rispettivamente la condanna a tre anni e mezzo e sei anni di carcere. Vanni Calvello, figlio di Alessandro, condannato a sei anni di reclusione per associazione mafiosa nel maxi processo bis, era stato arrestato nel 1995. Il principe, che appartiene a una delle famiglie piu' blasonate della Sicilia tanto da aver ospitato a Palermo anche la regina Elisabetta d' Inghilterra, viene chiamato in causa da alcuni collaboratori di giustizia come Giovanni Drago e Pasquale Di Filippo. Il giovane, che ha ammesso di avere conosciuto e frequentato Tinnirello perche' un' amica del boss trascorreva le vacanze a Solanto, dove i Vanni Calvello hanno un castello sul mare, ha sempre sostenuto di non averlo piu' incontrato dopo l' inizio della latitanza.

3 aprile - Le condizioni di salute di Baldassarre Di Maggio, l'ex pentito che con le sue dichiarazioni ha fatto arrestare il boss Salvatore Riina, sono compatibili con il regime carcerario. Lo sostiene una consulenza medica disposta dai pm Salvatore De Luca e Franca Imbergamo dopo che il Tribunale della Liberta' lo aveva ammesso agli arresti domiciliari. I periti hanno confermato la diagnosi che consenti' la scarcerazione di 'Balduccio', emiplagia, una patologia di origine psicosomatica, ma hanno trovato le condizioni del detenuto migliorate rispetto alle prime visite. La consulenza e' stata depositata nel processo sul ritorno in armi di Di Maggio in Sicilia, fermo da diversi mesi in attesa della decisione della Corte Costituzionale, prevista per fine mese, sull' applicabilita' del rito abbreviato per gli imputati accusati di omicidio.

5 aprile - Il procuratore di Palermo, Pietro Grasso, in merito ad un articolo pubblicato dal quotidiano 'L' Unita” precisa che “non e' stata inviata alcuna citazione al presidente di Fi Silvio Berlusconi nell' ambito del processo a Marcello Dell' Utri”. “Non vi sono pertanto - aggiunge - i presupposti nemmeno per un' ipotesi di accompagamento”. Il procuratore ha inoltre sottolineato che “non vengono svolte piu' indagini sulle holding che compongono la Fininvest”. “Come e' gia' noto - prosegue - le indagini sono state definite con decreto di archiviazione”. Il condirettore del quotidiano, Antonio Padellaro, a proposito delle precisazioni del procuratore Grasso, replica che “nulla si corregge” e che “’L' Unita’’ non ha mai scritto che e' stata inviata una citazione a Berlusconi nell' ambito del processo Dell' Utri, ma che 'la prossima tappa sara' l' invio di una citazione che i pm si augurano verra' rispettata”. “L' ipotesi poi - aggiunge Padellaro - di un accompagnamento coattivo si presentera' in caso di rifiuto, come accade per ogni cittadino visto che la legge e' uguale per tutti. L' Unita' aggiunge che gia' in due occasioni i pm hanno mandato a dire a Berlusconi, attraverso gli avvocati di Dell' Utri, che avevano bisogno di ascoltarlo, ma la risposta e' stata negativa”. “L' Unita' scrive inoltre - continua - che i pm Ingroia e Gozzo hanno fatto richiesta che nel processo Dell' Utri fossero depositate le due informative facenti parte del processo Berlusconi, svolte dagli investigatori della Dia e dal consulente tecnico Bankitalia dott. Giuffrida. I pm hanno anche chiesto che venisse ascoltato Berlusconi in merito alle holding che compongono la Fininvest. Su queste richieste il tribunale si pronuncera' nella prossima udienza”. “Nell' articolo - conclude Padellaro - viene ripetuto piu' volte che l' inchiesta Berlusconi-holding e' stata archiviata perche' scaduti i termini di indagine”. Nella polemica interviene anche Roberto Tricoli, difensore di Marcello Dell' Utri, secondo il quale “La dichiarazione del condirettore dell' Unita' Antonio Padellaro e' palesemente errata: nessuno dei difensori dell' on. Dell' Utri si e' assunto l' incarico di essere latore nei confronti dell' on. Berlusconi di richiesta del pm in ordine alla sua citazione quale teste”. “Forse il condirettore ignora - conclude Tricoli - che non e' compito dell' avvocato essere postino di richiesta del pm in ordine alla citazione dei testi”.

5 aprile – Al processo per l’ uccisione di Peppino Impastato, Paolo Gullo, il difensore di Badalamenti, afferma che “Non ci sono le condizioni per
garantire a Gaetano Badalamenti una difesa efficace” e chiede ai giudici della Corte d' assise di sospendere per un mese il dibattimento. Ma dopo breve parmanenza in camera di consiglio, l' istanza e' stata respinta. “Non riesco a parlare con il mio cliente se non in video conferenza durante le udienze”, ha affermato il legale, lamentando l' impossibilita' di avere contatti frequenti con l' imputato che e' nel super carcere di Fayrthon nel New Jersey condannato a 45 anni di carcere per la “pizza Connection”. E ha aggiunto: “In queste condizioni, la difesa e' seriamente compromessa. Se le cose non cambieranno, saro' costretto a lasciare l' incarico”. Nell’ udienza depone il collaboratore di giustizia Emanuele Brusca, fratello minore del piu' noto Giovanni. “Bagarella – ha dichiarato Brusca - mi disse che Badalamenti era stato un vigliacco a fingere che Impastato fosse morto mentre preparava un attentato terroristico”.

6 aprile – A Palermo, il colonnello dei carabinieri Michele Riccio nel processo 'Grande Oriente' ai favoreggiatori di Bernardo Provenzano, dice:“Stavo per arrestare Provenzano ma il Ros non mi ha dato i mezzi e l'ordine per farlo”. Riccio, gia' in forza alla Dia e poi al Ros, ha ricostruito le tappe dell'indagine, nata dalle confidenze del boss Luigi Ilardo, che lo porto' il 31 ottobre del '95 ad un passo dal superboss latitante. “Da Ilardo appresi che Provenzano doveva incontrare alcuni mafiosi in una casa dei fratelli La Barbera a Mezzojuso – ha esordito Riccio - quella di fronte a quella in cui e' stato arrestato alla fine di gennaio Benedetto Spera. Comunicai la notizia ai vertici del Ros ai quali dissi anche che avrei potuto avere tutti i mezzi tecnici necessari. Loro risposero di non averli, ma assicurarono che li avrebbero avuti a breve. E mi dissero di fare soltanto un appostamento e di non intervenire”. “Con alcuni colleghi di Caltanissetta mi piazzai al bivio di Mezzojuso - ha proseguito l'ufficiale - e controllai tutte le auto che si recavano in quella zona ed in quel casolare, annotandone i numeri di targa. Ma dal Ros non arrivo' mai l'ordine di fare irruzione nella casa. La sera stessa incontrai Ilardo, presente a quel summit, che mi confermo' che alla riunione aveva partecipato Provenzano. Di tutto cio' informai la sera stessa la procura nella persona del dottor Pignatone”. Parlando con i giornalisti nel palazzo di Giustizia di Palermo dopo la sua deposizione nel processo 'Grande Oriente', il col. Riccio dice anche:“Bernardo Provenzano e' un confidente, in Cosa Nostra e' un colonnello, ma non si sa chi c'e' dietro e la sua truppa non e' quella che sembra”. “Luigi Ilardo – ha detto l'ufficiale adesso imputato a Genova per avere utilizzato una partita di droga sequestrata per fini non istituzionali - mi diceva che Provenzano era dotato di un forte carisma e di un notevole ascendente sui boss mafiosi, sapeva gestire bene l'animo umano. E mi ripeteva: in Sicilia i capimafia o si ammazzano o si vendono”. “Non ho mai svelato a nessuno l'identita' del mio confidente Luigi Ilardo - ha proseguito il colonnello - fino a quando non l'ho convinto a collaborare con le procure di Palermo e Caltanissetta. Non aveva paura di essere ucciso, ma di essere arrestato. Il 2 maggio venne interrogato a Roma e mi colpi' perche mi apparve un fiume che rompe ogni argine in un interrogatorio durato cinque ore. E mai con me era stato cosi' ricco di dettagli, era come se volesse liberarsi delle cose che aveva dentro. Una settimana dopo fu ucciso a Catania”. Negli otto mesi precedenti, in colloqui registrati da Riccio, Ilardo, oltre a fornire indicazioni per l'arresto di almeno quattro mafiosi latitanti e la mappa di alcune 'famiglie', parlo' degli omicidi politico mafiosi La Torre, Mattarella e Insalaco, dell'attentato dell'Addaura al giudice Falcone e di tre omicidi collegati. “Delitti - mi disse Ilardo - in cui la mafia c'entrava poco”. Riccio ha precisato che tutte le notizie fornite dal confidente venivano da lui accuratamente riscontrate e in un'occasione, nel processo per l'omicidio Scopelliti, le indicazioni di Ilardo, pur contrastando con quanto avevano rivelato alcuni pentiti, vennero ritenute attendibili dai giudici. “Sono convinto - ha concluso il colonnello - che prima o poi saremo costretti a riscrivere la storia dell'antimafia di questi anni”.

6 aprile - Durante la puntata del “Raggio Verde”, alla quale hanno partecipato anche Fausto Bertinotti, Cristina Matranga, Giovanna Melandri, Clemente Mastella e Claudio Martelli, e' mandata in onda un'intervista di Sandro Ruotolo al finanziere Filippo Alberto Rapisarda, che ha rivolto una serie di accuse a Marcello Dell'Utri. E sebbene Santoro abbia annunciato una replica telefonica di Dell'Utri, che e' poi giunta in diretta, la Mussolini ha vivacemente accusato il conduttore (“Questa e' una trasmissione 'sola’”) per l'assenza di Dell'Utri.

6 aprile - "L' Espresso" scrive:
INCHIESTE
Ecco il nuovo capo della mafia
Pluriomicida. Autore delle stragi del '93. Condannato all'ergastolo. Ma anche playboy. Patito di videogiochi. È il nuovo volto dell'onorata società. Moderna e spietata
di Peter Gomez e Marco Lillo
"Devo andare via e non posso spiegarti ora le ragioni di questa scelta. In questo momento le cose depongono contro di me. Sto combattendo per una causa che oggi non può essere capita. Ma un giorno si saprà chi stava dalla parte della ragione... La filosofia dell'uomo forte della nuova mafia è tutta qui. Riassunta in questa lettera trovata otto anni fa dagli uomini della Criminalpol in una casa di Mazara del Vallo. La casa di Sonia M., un'amica di Matteo Messina Denaro, il boss destinato a prendere il posto di Bernardo Provenzano. Poche parole scritte poco prima di darsi alla latitanza, che dimostrano come Matteo abbia davvero la stoffa del capo. Per lui la guerra di Cosa Nostra allo Stato è una guerra giusta. Da combattere con ogni mezzo: il tritolo, la corruzione e l'omicidio.
Perché Matteo ha cominciato a lottare fin da piccolo. A 14 anni già sparava. A 18 uccideva. A 31 metteva le bombe al Nord, prima a Roma, contro Maurizio Costanzo e la Chiesa, poi a Firenze e Milano. Oggi, a 39 anni, con Totò Riina in galera e Provenzano roso da una malattia ai reni, è pronto a diventare il nuovo capo dei capi. "Nella lotta di successione Matteo Messina Denaro è in prima fila. Il ruolo avuto nelle stragi di mafia dell'estate '93 dimostra che ha la caratura per imporsi", conferma il superprocuratore antimafia Pierluigi Vigna. "Già oggi, all'interno di Cosa Nostra, lo temono tutti. Nessuno, a parte Provenzano, sta sopra di lui", afferma Giuseppe Linares, il capo della Mobile di Trapani, che con i colleghi del Servizio centrale operativo della Polizia da otto anni gli dà la caccia.
Matteo è stato il più bravo a sfruttare il cambio di stagione in Cosa Nostra dall'era stragista di Riina alla calma apparente di Provenzano. Riina, che si è nascosto a lungo nel suo territorio, lo aveva inserito nella "Supercosa", il gruppo ristretto di uomini d'onore ammessi ai segreti delle stragi. Provenzano invece prima lo ha temuto. E gli ha preferito Pietro Aglieri e Benedetto Spera (arrestati) e il capobastone di Caccamo Nino Giuffré (latitante). Poi lo ha riammesso alla sua corte, tanto da permettergli di trascorrere la latitanza anche a Palermo. Oggi Messina Denaro si prepara a lottare per lo scettro proprio con un palermitano: il boss di San Lorenzo, Salvatore Lo Piccolo. Spiega Giuseppe Lumia, presidente della Commissione parlamentare antimafia: "Se paragoniamo Cosa Nostra a una società per azioni, si può dire che Provenzano sta passando dal ruolo di amministratore delegato a quello di presidente. Il primo candidato a prendere il suo posto è Messina Denaro. Ma bisogna vedere cosa farà Lo Piccolo".
Ma chi è Matteo Messina Denaro? L'ultima foto trovata in un covo del Trapanese ci consegna il volto di un bravo ragazzo. Giacca ben tagliata, camicia botton down, occhiali a goccia e capelli corti. Niente a che vedere con le mani callose di Riina e Provenzano. Matteo è un viveur. A Castelvetrano, in provincia di Trapani, dove è nato il 26 aprile del 1962, ancora lo ricordano mentre scorrazza in Porsche verso il lido di Marina di Selinunte e fa le ore piccole al Paradise Beach. La bottiglia di champagne Cristal sul tavolo, il Rolex Daytona al polso, i pantaloni di Versace e il foulard di seta al collo. Gli amici lo chiamano Diabolik. Un po' perché divora i fumetti del ladro in calzamaglia; un po' perché Matteo si sente imprendibile. Per lui la vita va vissuta tutta di un fiato. È un "femminaro", e non lo nasconde: ama le donne e le auto veloci. "Voleva farsi montare due mitra che uscivano dal cofano della sua macchina blindata", racconta il pentito Vincenzo Sinacori. "L'idea gli era venuta leggendo proprio un fumetto".
Ma Messina Denaro, a differenza di Diabolik, non è un fuorilegge gentiluomo. Sparare gli piace. E uccidere pure. "Con le persone che ho ammazzato, io potrei fare un cimitero", ha confidato a un amico. Sul suo capo pendono nove ordinanze di custodia cautelare e diverse condanne tra cui quella all'ergastolo per le stragi del '93. Gli investigatori calcolano che abbia sulla coscienza, come mandante o esecutore, una cinquantina di cadaveri. In questura dicono che è ricco. Anzi ricchissimo. La sua famiglia controlla grosse cave di sabbia, e lui, compare dei più grandi narcotrafficanti del mondo, i Cuntrera-Caruana, fa i soldi col pizzo e con la droga. Per questo nessuno si stupisce quando una microspia nascosta in uno studio legale di Roma capta la voce di due uomini del braccio destro di Matteo, Andrea Manciaracina, mentre, discutendo di investimenti immobiliari a Malta, dicono: "1.200 miliardi? Per noi il denaro non è un problema".
Il fatto è che Messina Denaro la mafia ce l'ha nel sangue. Suo padre Ciccio è stato lo storico capobastone del mandamento di Castelvetrano e poi dell'intera provincia di Trapani. Don Ciccio, appassionato d'arte e d'archeologia (fu sospettato del furto dell'Efebo di Selinunte) ha vissuto indisturbato per 20 anni all'ombra di una potente famiglia di latifondisti siciliani, dei quali era il campiere: quella del senatore di Forza Italia Antonio D'Alì. L'ascesa di Matteo ai vertici di Cosa Nostra comincia quando il padre è costretto alla latitanza e lui lo sostituisce come reggente della provincia mafiosa di Trapani. Ne diventerà il capo ufficiale nel 1998, quando, 48 ore dopo l'arresto del fratello Salvatore, il cadavere di don Ciccio viene ritrovato sul greto di un fiume. Quando i suoi uomini lo portano in paese, il questore vieta il funerale e Matteo, dalla latitanza fa pubblicare un necrologio su "Il Giornale di Sicilia". Poi con il pugno di ferro riprende a dirigere i quattro mandamenti della provincia. Una microspia registra due suoi picciotti che dicono: "Lo siccu (il magro, ovvero Matteo) lo dobbiamo adorare. Tutto il bene viene da lui". Non a caso c'è chi lo chiama anche "la testa dell'acqua", come fosse una sorgente a cui abbeverarsi. Tutti gli obbediscono, e lui dà anche disposizioni elettorali. Nel '94, secondo i pentiti, ordina: "Votate Forza Italia". A Trapani lo considerano un Dio e Messina Denaro non ha paura di nessuno. Nemmeno di Bernardo Provenzano. "Mi spiegò che il vecchio evitava di incontrarlo perché pensava che lo avrebbe potuto uccidere", dice ancora Sinacori.
Del resto tra Bernardo e Matteo c'è una distanza siderale. Per accorgersene basta leggere un'altra lettera d'amore. Quella scritta tre anni fa al giovane boss da Maria Mesi, condannata il 28 marzo per favoreggiamento: "Ti prego non dirmi di no. Desidero tanto farti un regalo. Sai, ho letto sulla rivista dei videogiochi che è uscita la cassetta di Donkey Kong 3 e non vedo l'ora che sia in commercio per comprartela. Quella del Secret of Maya 2, ancora non è arrivata... Sei la cosa più bella che ci sia". Come una coppia qualunque, nel 1997, Maria e Matteo trascorrono ore felici in un appartamentino ad Aspra, una frazione di Bagheria a due passi da Palermo.
Secondo l'accusa, rappresentata dai pm Roberto Piscitello e Massimo Russo, i due giocano alla Playstation, guardano documentari sui cani e compongono puzzle. La mafia in quei giorni sembra lontana. Ed è anche lontana Castelvetrano, dove la famiglia di Matteo ospita un'altra ragazza, Francesca Alagna, che ha dato al boss una figlia. È proprio sui rapporti tra gli Alagna, i Messina Denaro e una delle più grandi imprese turistiche italiane, la Valtur, che oggi stanno indagando i magistrati. Il commercialista Michele Alagna, cognato di Matteo, è stato arrestato per frode fiscale, e per Carmelo Patti, il proprietario della Valtur originario di Castelvetrano, è stato chiesto il rinvio a giudizio.
Per prendere Diabolik gli investigatori seguono una regola vecchia come il mondo: cherchez la femme. Sono una mezza dozzina le donne in cui si sono imbattuti. Ma l'Eva Kant di Matteo ha un nome e cognome: Si chiama Andrea Hasslner, è viennese, e a chi l'ha interrogata ha risposto: "A me sembrava un ragazzo simpatico, come tanti altri". Con lei e i boss palermitani del Brancaccio Filippo e Giuseppe Graviano, Messina Denaro trascorre una breve vacanza a Forte dei Marmi nel 1993. Un po' di riposo dopo un'estate di terrore. In quell'anno la mafia aveva tentato di convincere lo Stato a scendere a patti. Per far abolire il carcere duro e stroncare il fenomeno dei pentiti, Cosa Nostra aveva deciso di colpire i monumenti. Sono le bombe di Roma, Firenze e Milano. È il fallito attentato a Maurizio Costanzo, reo di essersi scagliato contro i boss in tv. Matteo Messina Denaro ne è il protagonista. L'esplosivo l'ha portato lui. A Roma pedina Maurizio Costanzo, cerca Giovanni Falcone e Claudio Martelli in via Veneto e al ministero. Con i suoi compari fa scorta di camicie nel negozio più esclusivo di via Condotti: Eddy Monetti. Poi va a mangiare nei ristoranti alla moda come il Matriciano. Confuso tra i vip, Diabolik sembra proprio uno di loro. Un ricco ragazzo qualunque. Nessuno lo nota. E questa, ancora oggi, è la sua forza.

7 aprile - Il consigliere di amministrazione della Rai Alberto Contri ha definito la puntata una “proditoria imboscata” ai danni “di una sola parte politica”. Sandro Ruotolo, vicedirettore della struttura di Michele Santoro, respinge le accuse del consigliere Rai Alberto Contri e rivendica la correttezza della puntata del Raggio Verde. Ruotolo ribadisce anche, come annunciato da Santoro in trasmissione, che il 20 aprile Marcello Dell'Utri sara' ospite della trasmissione. “Noi facciamo un settimanale di informazione - ha spiegato - e per noi la notizia di questa settimana erano le polemiche sulla composizione delle liste elettorali e l'assegnazione dei collegi. Avevamo in studio rappresentanti di tutti i partiti e la trasmissione e' stata estremamente equilibrata. Abbiamo parlato delle difficolta' del centrosinistra, legate al caso De Mita e alle ultime scelte di Massimo D'Alema. E ci siamo occupati delle difficolta' dello schieramento avverso, a partire dalla vicenda di Amedeo Matacena, nata sulle pagine di un giornale autorevole come Il Corriere della sera. Come dei normali giornalisti, abbiamo quindi sentito Matacena, ci siamo documentati, e abbiamo intervistato Rapisarda, che era l'altro protagonista, e che comunque non ha detto niente che non avesse gia' detto in precedenza. Insomma, siamo stati sul fatto di cronaca”. “alle 18,30 - ha continuato Ruotolo - Dell'Utri ci ha chiamato perche' aveva saputo, non da noi ma da altri, che si sarebbe parlato di lui. Lui era anche disposto a venire in trasmissione, ma gli abbiamo spiegato la sua vicenda non era il tema della puntata non era una puntata. L'abbiamo invitato per il 20 aprile, e gli abbiamo offerto di telefonare in diretta. Lui l'ha fatto, ha avuto tutta la disponibilita' di replicare, e ha parlato per tutto il tempo che ha voluto”. Giuseppe Giulietti responsabile comunicazione dei Ds, attacca il centrodestra che “ha un solo imperativo: tappare la bocca a chiunque tenti di parlare degli affari di Berlusconi”. “La migliore risposta a questo proposito - secondo Giulietti - l'ha data proprio Marcello dell'Utri intervenuto telefonicamente al 'Raggio Verde' quando si e' detto disponibile a partecipare ad un prossima intera trasmissione. Un'occasione - afferma Giulietti - che potrebbe anche chiarire alcune domande sollevate dal rapporto della societa' di certificazione di bilancio inglese Kpmg sulle societa' off shore di Berlusconi”.

8 aprile - Il presidente della Rai Roberto Zaccaria difende Michele Santoro e respinge le accuse del Polo sul Raggio Verde, il programma di Raidue al centro di un nuovo caso politico dopo l'intervista al finanziere Filippo Rapisarda che ha accusato Marcello Dell'Utri di collusioni con la mafia. “Prima hanno attaccato Satyricon perche' non era solo satira, ora attaccano Il Raggio Verde. Prevedo - ha detto Zaccaria, a margine di un incontro al Cartoons on the bay a Positano - che saranno attaccati a breve anche i telegiornali Rai. Difendo con forza tutta la buona informazione Rai, Santoro, Biagi, Vespa e gli altri”.

9 aprile - In un filo diretto a Radio Radicale, Giulio Andreotti dice di essere sereno in vista del 19 aprile, giorno in cui a Palermo comincera' il processo di appello. Per lui "Non ci sono fatti nuovi: sono contento che inizi il processo di appello, spero e anzi sono sicuro che si possa concludere in breve tempo, con me ancora in vita". Incalzato dalle domande degli ascoltatori, Andreotti evita di polemizzare con l'ex capo della procura siciliana Giancarlo Caselli, tuttavia si sfoga cosi': "Sono convinto che del milione e piu' pagine del processo Caselli ne abbia lette pochissime, non ha seguito il dibattimento se non una volta con un telefonino creando qualche imbarazzo e irritazione nel presidente. Lui - prosegue Andreotti - lamenta che si e' fatta troppa enfasi sul bacio, ma la vera enfasi l'ha prodotta lui dato che Di Maggio, quando fu interrogato la prima volta, disse di non aver mai visto Lima, e solo poi parlo' del bacio... So che e' malato, il Signore gli dia tanta salute, ma - conclude Andreotti - si potevano usare strumenti migliori per cercare la verita'".

9 aprile - Due giornalisti dell'Espresso, Leonardo Sisti e Peter Gomez e l' ex direttore Claudio Rinaldi sono stati rinviati a giudizio dal Gip del tribunale di Roma Laura Caportorto per diffamazione aggravata a mezzo stampa nei confronti di Marcello Dell'Utri. Gli articoli contestati ai due giornalisti sono "Il fattore Mangano", apparso sul settimanale il 12 marzo del '99 e "Sono l'amico dell'amico tuo" (Che ci faceva un indagato per traffico di droga nell'ufficio del capo di Publitalia. La Dia ha una spiegazione: Mangano), del 19 marzo dello stesso anno. I due servizi, ha spiegato il legale dell'esponente di Forza Italia, Pietro Federico, riguardano il periodo in cui venne diffusa la notizia dell'ordine di custodia cautelare per Dell'Utri. "I decreti di rinvio a giudizio - ha commentato il legale dei giornalisti, Oreste Flammini Minuto - non sono stati motivati. Non credo pero' che abbiano influito sulla decisione del giudice elementi estranei".

9 aprile - I giudici Salvatore Barresi e Adriana Piras ritirano le dimissioni dall'associazione magistrati, motivate con il mancato sostegno dell'associazione al giudice Barresi, componente del Tribunale che ha assolto Andreotti e oggetto di critiche da parte dell'ex procuratore Gian Carlo Caselli nel suo ultimo libro. "Ringrazio i colleghi Barresi e Piras - si legge in una nota diffusa dal presidente della giunta distrettuale dell'Anm di Palermo Massimo Russo - le loro sofferte dimissioni, espressione di un travaglio umano e professionale che merita il massimo rispetto, hanno tuttavia consentito di avviare una sentita ed appassionata riflessione su temi importanti e difficili, quali quelli dell'equilibrato bilanciamento tra il diritto di critica ed il rispetto della dignita' personale e della funzione giurisdizionale che ha segnato, ne sono certo, una delle pagine piu' significative dell'impegno associativo a Palermo degli ultimi anni". "La consapevole riaffermazione - conclude la nota - da parte della magistratura requirente e giudicante del distretto, della sua totale autonomia ed indipendenza da ogni condizionamento e dell'unita' della Giurisdizione e' un ulteriore segno tangibile della sua autorevolezza e della sua credibilita', delle quali nessuno puo' dubitare".

9 aprile - Dopo piu' di tre anni di direzione, il generale di Corpo d'armata, Carlo Alfiero, lascia la Direzione investigativa antimafia (Dia) dopo la sua nomina a vicecomandante generale dell'Arma dei Carabinieri. Al suo posto in via di Priscilla si insedia Agatino Pappalardo, che da domani, 10 aprile, sara' il nuovo direttore della Dia. Da domani Alfiero assumera' l'incarico di vicecomandante generale dell'Arma dei Carabinieri.

9 aprile - Si sapra' il 21 maggio prossimo se Silvio Berlusconi sara' interrogato come teste a Palermo anche sulle 22 holding della Fininvest. Quel giorno il Tribunale decidera' anche se ascoltare, come teste, il funzionario della Banca d'Italia Francesco Giuffrida, che ha redatto la consulenza sulle holding. Lo ha stabilito stamane il collegio presieduto da Leonardo Guarnotta, che sta celebrando il processo all'on. Marcello Dell'Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa. Nell'udienza di oggi il pm Antonio Ingroia ha chiesto di acquisire agli atti del processo copia dell'intervista dell'on. Amedeo Matacena, di Forza Italia, al Corriere della Sera, di interrogare il giornalista autore dell'intervista, Carlo Macri', di risentire in aula l'on. Matacena e di acquisire copia della video-cassetta con l'intervento di Matacena alla trasmissione 'Il Raggio Verde', del 6 aprile scorso. La difesa ha chiesto di risentire in aula i testi Ezio Cartotto e l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, alla luce di un'intervista concessa da Cartotto in cui sembra, a parere dei legali, modificare la sostanza della sua deposizione. Intervendendo in aula con dichiarazioni spontanee, Dell'Utri ha prodotto una sentenza, gia' agli atti, del giudice Della Lucia che lo scagiono' nel '90 dall'accusa di mafia parlando di 'deserto probatorio'.

10 aprile - Elio Veltri e Marco Travaglio hanno inviato una lettera aperta a Silvio Berlusconi in cui lo invitano ad un incontro pubblico per parlare del libro "L'odore dei soldi". Ricordando quanto affermato da Berlusconi a 'Porta a Porta' circa il libro, definito "un cumulo di falsita"', Veltri e Travaglio si rivolgono al Cavaliere in questi termini: "Lei sa che non e' vero e ha mentito...". "Che lei, come ha detto piu' volte Indro Montanelli, sia abituato a mentire, anche a se stesso, tanto da credere nelle cose che dice, non ci meraviglia piu' di tanto". Ma, continuano, "lei pensa davvero - chiedono il giornalista e l' esponente dell' Italia dei Valori - che abbiamo fabbricato documenti e inventato fatti, circostanze, frequentazioni, abusi e illeciti che la riguardano?" Veltri e Travaglio invitano quindi Berlusconi a chiarire e a "rispondere alle domande del libro". "La invitiamo a chiarire nel suo interesse e in quello del nostro Paese. L' occasione puo' essere la presentazione del libro a Roma, il giorno 13, alla quale parteciperanno Sabina Guzzanti, Curzio Maltese e Paolo Flores D'Arcais. Come vede saremo tra amici e potremo evitare alla Guzzanti di imitarla perche' con Lei presente possiamo contare sull' originale. Se poi quel giorno non ha tempo, ci comunichi un' altra data in modo da poter ripetere la presentazione a Roma o altrove con la sua presenza".

11 aprile - Sette componenti della Cupola di Cosa Nostra sono stati condannati a 30 anni di reclusione dalla Corte d' assise di Palermo per l' uccisione del giornalista Mario Francese, avvenuta a Palermo il 26 gennaio 1979. Sono Toto' Riina, Francesco Madonia, Antonio Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco, Leoluca Bagarella e Giuseppe Calo'. I giudici hanno invece assolto Matteo Motisi e Giuseppe Madonia. Tutti gli imputati avevano chiesto ed ottenuto di essere giudicati con il rito abbreviato. I Pm Giuseppe Fici e Laura Vaccaro avevano sollecitato otto condanne a 30 anni. " La cupola mafiosa - ha detto in aula il pm Fici, ribadendo la validita' del cosiddetto teorema Buscetta - non poteva non sapere. Come tutti gli omicidi eccellenti anche quello di Francese fu deliberato dai capimafia". Se a volere l' assassinio furono i vertici di Cosa nostra al completo, ad eliminare materialmente il giornalista - per l' accusa - sarebbero stati Leoluca Bagarella, cognato di Riina e Giuseppe Madonia, che e' stato assolto in base all' articolo 530 secono comma per "prove insufficienti e contradittorie". Per Matteo Motisi, capo mandamento del quartiere palermitano Pagliarelli, i pm avevano invece chiesto l' assoluzione. All' epoca dell' omicidio il boss non sarebbe stato alla guida della famiglia mafiosa, non ancora costituita, e quindi non avrebbe partecipato alla deliberazione dell' agguato. La Corte ha condannato gli imputati anche a un risarcimento pecunario nei confronti dei familiari di Francese, che si erano costituiti parte civile: un miliardo ciascuno ai figli Giulio, Giuseppe, Fabio e Massimo; mezzo miliardo alla moglie Maria Sagona e 300 milioni alla sorella Maria. Gli imputati dovranno pagare anche le spese processuali sostenute dalle altre parti civili: il Giornale di Sicilia, l' Associazione Siciliana della Stampa, l' Ordine dei Giornalisti di Sicilia, la Provincia e il Comune di Palermo. Un altro processo per l' uccisione di Mario Francese, in cui e' imputato il superlatitante Bernardo Provenzano, dovrebbe concludersi nei prossimi mesi. Mario Francese, 54 anni quando fu assassinato con colpi di pistola la sera del 26 gennaio 1979, stava rincasando in viale Campania dopo il lavoro al Giornale di Sicilia. La mafia comincio' cosi' una stagione di terrore e sangue di circa tre anni (un migliaio di vittime) che avrebbe ripreso con clamore nel 1992 con le stragi Falcone e Borsellino. Quello stesso anno i boss corleonesi, accelerando la loro scalata a Cosa Nostra e iniziando a sbarazzarsi dei capi dei clan palermitani ovvero a ottenerne l' adesione, uccisero uno dopo l' altro Michele Reina, segretario provinciale della DC e gia' Presidente della Provincia; il vicequestore Boris Giuliano, capo della squadra mobile e autore di migliaia di indagini su Cosa Nostra e che aveva da poco incontrato il liquidatore del Banco Ambrosiano di Sindona, Giorgio Ambrosoli, assassinato dieci giorni prima di lui; il consigliere istruttore del tribunale Cesare Terranova, gia' vicepresidente della commissione antimafia, e il maresciallo di polizia della scorta Lenin Mancuso. Il giorno dell' Epifania 1980 fu eliminato Piersanti Mattarella, Presidente della Regione e membro della direzione nazionale Dc. Nei due anni seguenti tra le vittime della "guerra di mafia" a Palermo furono il procuratore della Repubblica Gaetano Costa, Carlo Alberto dalla Chiesa, il segretario del Pci siciliano e deputato Pio La Torre, autore con il Dc Virginio Rognoni della legge antimafia. La vedova e i quattro figli di Mario Francese (siracusano, ingegnere mancato, uno straordinario fiuto unito ad assoluta onesta' e a capacita' da stakanovista) in tutti questi anni, anche con ferme proteste, hanno atteso giustizia. E durante il processo l' accusa e molti testi hanno ricordato che Mario Francese non si era limitato a fare il cronista giudiziario del piu' antico quotidiano dell' isola, ma aveva scavato in profondita', raccontando, senz' aver mai paura, ai lettori fatti, nomi, circostanze spesso di primissima mano. Fu il primo a denunciare illecite interferenze mafiose nella diga Garcia (350 miliardi di lire 25 anni fa) per la quale il sociologo Danilo Dolci fece piu' di uno sciopero della fame. Francese scrisse, sempre sul Giornale di Sicilia, centinaia di articoli sui sequestri di persona che finanziavano i boss e sulle speculazioni edilizie, spesso descrivendo nel composito contesto umano siciliano anche la delusione delle vedove di mafia davanti alle assoluzioni degli assassini dei loro mariti, figli, padri. "Dopo 22 anni finalmente io e la mia famiglia abbiamo avuto giustizia. Di questo siamo grati ai magistrati che hanno condotto l' inchiesta". Giulio Francese, redattore del Giornale di Sicilia, lo stesso quotidiano dove lavorava il padre, commenta cosi' la sentenza di condanna a sette componenti della Cupola per l'uccisione di Mario Francese. Giulio, che si e' costituito parte civile con i fratelli Giuseppe, Fabio e Massimo e la madre Maria Sagona, sottolinea che la sentenza costituisce un "risarcimento" non solo nei confronti dei familiari ma della stessa figura umana e professionale di Mario Francese: "Per 22 anni e' stato dimenticato, un oblio e un silenzio mortificante. Questo processo ha riconosciuto che mio padre era un signor giornalista, ucciso per avere fatto bene il suo mestiere e per avere capito prima degli altri che i corleonesi stavano diventano la nuova mafia padrona".

11 aprile - Dal carcere di massima sicurezza di Marino del Tronto, dove e' recluso in regime di 41 bis, Toto' Riina si lamenta per il fatto di non aver visto ancora applicata la revoca della misura dell' isolamento diurno decisa dalla Corte d' Assise d' Appello di Palermo a meta' marzo. L' accenno a una situazione di stallo che si sta protraendo (la stessa direzione del supercarcere ha sollecitato il ministero della giustizia a fornire quanto prima le indicazioni richieste su come dare concreta applicazione all' ordinanza) e' emerso in un colloquio richiesto dal boss al magistrato di sorveglianza Raffaele Agostini, incentrato su tutt' altre questioni - 'riservate', ha precisato Agostini, e comunque relative alla situazione carceraria di Riina -. Ma evidentemente, il fatto di non aver visto ancora risconosciuto il provvedimento, sta logorando l' ex capo di Cosa nostra, che non ha potuto fare a meno di parlarne con il magistrato. "Lui stesso, pero', ha riconosciuto - ha detto Agostini - che la volta precedente, nel '99, quando aveva ottenuto un' altra revoca, erano trascorsi tre mesi prima che l' ordinanza venisse applicata. Ora, spera che i tempi siano piu' rapidi". Per Riina, il provvedimento dovrebbe comportare solo la possibilita' di socializzare', con altri detenuti giudicati 'compatibili'. Questo, probabilmente, il nodo della questione: trovare 'compagni d' aria' da affiancare senza rischi al boss.

12 aprile - Silvio Berlusconi e Cesare Previti sono stati prosciolti dal Gup del Tribunale di Roma Laura Capotorto dall' accusa di aver diffamato alcuni magistrati della procura di Palermo, tra cui l'ex procuratore Giancarlo Caselli. Per la stessa vicenda e' stato invece rinviato a giudizio Marcello Dell'Utri. La vicenda per la quale il pubblico ministero Silverio Piro ha chiesto il rinvio a giudizio risale al 1999, all' indomani della richiesta al Parlamento di autorizzazione all' arresto di Dell'Utri, firmata il 22 gennaio dall' allora procuratore della Repubblica di Palermo, Giancarlo Caselli, e dai pubblici ministeri Guido Lo Forte, Domenico Gozzo, Antonio Ingroia, Mauro Terranova, Lia Sava e Umberto Di Giglio. In articoli apparsi su diversi quotidiani nei giorni successivi, ha sostenuto il pubblico ministero nel capo d' imputazione, Berlusconi, Previti e Dell'Utri offesero la reputazione dei giudici. In particolare, Dell'Utri affermo' che i giudici di Palermo "sono dei pazzi, pazzi come Milosevic"; "la loro e' una reazione infantile, cominciano a capire che il castello che mi hanno costruito addosso sta crollando e allora ne fanno uno nuovo" e "i pentiti sono come dei juke box, metti il gettone e loro dicono tutto cio' che vuoi. Ma io non ho gettoni, la procura si". Nel procedimento erano coinvolti anche Gianfranco Fini, Beppe Pisanu, Marco Follini, Marcello Pera e Tiziana Maiolo, sempre per dichiarazioni rilasciate alla stampa. Per i cinque il Parlamento aveva ravvisato la scriminante dell'articolo 68 (insindacabilita' delle opinioni dei parlamentari), ma il Gup ha ritenuto che non si configurasse e che ci fosse un conflitto di attribuzione e ha inviato gli atti alla Corte Costituzionale. "Sono soddisfatto per il proscioglimento di Berlusconi e Previti - ha detto l'avvocato Alessandro Sammarco, che non ha voluto commentare il rinvio a giudizio di Dell'Utri - perche' e' stata riconosciuto il legittimo esercizio di critica".

18 aprile - Raidue trasmette la prima parte di "L'attentatuni", la miniserie diretta da Claudio Bonivento che ricostruisce quasi come un documentario le indagini che portarono alla cattura del gruppo mafioso autore della strage di Capaci. La seconda parte e' in programma per il 19 aprile. La miniserie, basata sul libro omonimo di Giovanni Bianconi e Gaetano Savatteri che, a loro volta, avevano fatto largo uso di verbali di interrogatori, racconta nei dettagli le indagini per catturare chi uccise Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta sull'autostrada di Palermo. A guidare gli agenti, due funzionari interpretati da Veronica Pivetti (Anna Granata, nome romanzato per la vera Maria Luisa Pellizzari che oggi in incognito ha assistito alla presentazione del film alla Rai) e Massimo Popolizio (Angelo Branca, nella realta' Francesco Gratteri). Nel cast ci sono Pasquale Anselmo, Mimmo Mancini, Nini Salerno, Sergio Assisi, Francesco Feletti, Paolo Bonanni, Claudio Amendola.

18 aprile - Il giudice Tescaroli smentisce quanto pubblicato da Micromega, nel dialogo tra Gad Lerner e Curzio Maltese, e dichiara che non e' vero che la cassetta con l' intervista a Paolo Borsellino alla vigilia della strage di Capaci, e pervenuta a Gad Lerner, allora direttore del Tg1, da parte del direttore di Rainews24 Roberto Morrione, "proveniva dal pm Tescaroli", anzi l' intervista fu consegnata al pm di Caltanissetta dal giornalista di Rainews Sigfrido Ranucci, l' 8 luglio 2000. Nell' articolo, Lerner afferma che "nel bel mezzo di una controversia interna alla procura di Caltanissetta, unita nella decisione di archiviare le accuse a Berlusconi e Dell' Utri, ma divisa sulle motivazioni" gli era stata fatta pervenire dal direttore di Rainews24 la nota intervista, e che "e' ragionevole pensare che la cassetta provenga dal pm Tescaroli, che sta lasciando Caltanissetta in polemica con il suo capo Tinebra proprio perche' nelle motivazioni dell' archiviazioni e' stato escluso qualsiasi elemento di verosimiglianza delle accuse". "Se vere le sue indicazioni in ordine all' asserita controversia - precisa Tescaroli - mi domando chi possa aver informato, nel 'bel mezzo' del mese di luglio, il dottor Lerner di quei fatti che afferma con tanta perentorieta'".

18 aprile - Il finanziere Filippo Alberto Rapisarda denuncia di aver ricevuto una busta contenente tre cartucce inesplose d' arma da fuoco. La busta e' stata recapitata il 17 aprile nella sua casa di Milano. Nella denuncia, inoltre, Rapisarda segnala che "il fatto e' avvenuto a distanza di pochi giorni - scrive - dalla mia intervista televisiva trasmessa da Raidue la sera di venerdi' 6 aprile 2001 nel corso della trasmissione 'Il raggio verde', diretta da Michele Santoro". Rapisarda, originario di Palermo ma da anni in affari a Milano, e' uno dei testimoni su cui si basa il processo in corso a Palermo al deputato di Forza Italia, Marcello Dell' Utri, accusato di concorso in associazione mafiosa. Nel settembre 1998, Rapisarda, ex socio di Dell' Utri, racconta ai giudici della seconda sezione del tribunale di presunti incontri di Dell' Utri con i boss mafiosi Stefano Bontade e Mimmo Teresi, a suo dire finalizzati al riciclaggio di capitali provenienti dalle casse della mafia, nelle societa' di Silvio Berlusconi. Le dichiarazioni di Rapisarda vengono acquisite nell' inchiesta contro Dell' Utri. Ma si tratta di accuse che non trovano conferma, gli indizi raccolti, secondo il gip Gioacchino Scaduto, due anni dopo si rivelano insufficienti all' incriminazione di Dell' Utri per riciclaggio. Berlusconi ha denunciato l' imprenditore per calunnia ai magistrati di Caltanissetta.

19 aprile - Nell' aula della prima sezione della Corte d' appello presieduta da Salvatore Scaduti comincia il processo di secondo grado per associazione mafiosa a Giulio Andreotti, assolto in primo grado. L' udienza comincia con la relazione del consigliere Mario Fontana che ripercorre le tappe della vicenda processuale e fa il punto di tutti i temi proposti dall' accusa. Il senatore Andreotti e' difeso da un collegio che comprende gli avvocati Franco Coppi, Gioacchino Sbacchi e Giulia Bongiorno. E' presente anche l' avvocato Odoardo Ascari, che ha fatto parte del collegio difensivo gia' nel processo di primo grado. "Siamo in grado - ha detto ai cronisti l' avvocato Coppi- di replicare alle accuse. Non siamo in grado di fare previsioni, ma ci aspettiamo ovviamente la conferma dell' assoluzione di primo grado". In aula si e' presentato anche il legale del Comune di Palermo, Salvatore  Modica, che pero' non puo' assumere il ruolo di difensore di parte civile perche' non ha impugnato la sentenza del tribunale, come ha fatto rilevare il presidente Scaduti. Andreotti ha inviato alla Corte d' appello di Palermo una lettera con la quale "con la dovuta osservanza si scusa per la sua assenza". "Riflettendo, penso - scrive Andreotti - che il particolare momento politico darebbe lo spunto per attirare attorno alla mia persona un interesse diverso da quel che negli anni passati sono sempre riuscito ad evitare venendo a Palermo per le udienze del Tribunale in punta di piedi e senza creare confusione. Superato questo impedimento soggettivo - conclude il senatore a vita - riprendero' il mio posto". A conclusione della relazione introduttiva letta dal giudice a latere Mario Fontana, il processo e' rinviato all' 11 ottobre. Il pg Daniela Giglio, che sostiene l' accusa, a conclusione dell' udienza ha detto: "la richiesta di riaprire l' istruttoria dibattimentale e' stata fatta, per introdurre atti e documenti nel processo". Secondo il pg "non dovrebbe essere citato alcun testimone". Sul lungo rinvio fissato dai giudici, il pg ha spiegato che: "i tempi di rinvio cosi' lunghi sono dovuti alle esigenze della corte d' appello che ha in corso processi con detenuti ed e' impossibile fissare udienze a breve". In una pausa del processo d' appello, l' avvocato Giulia Bongiorno ha criticato la "coincidenza" della presentazione, prevista per il 20 aprile a Palermo, del libro di Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia sui sette anni di attivita' della procura.

19 aprile - Per Maria Falcone, sorella di Giovanni Falcone, il film-documentario "L' attentatuni" "E' una ricostruzione molto fedele alla realta', non mi pare ci sia molta finzione, in linea di massima mi e' piaciuto ma la parte piu' interessante sara' stasera". "Considero sempre utile la rappresentazione reale del fenomeno mafioso e delle strutture impegnate a fronteggiarlo -ha detto ancora la sorella del giudice ucciso-. L' importante e' non esagerare con la fantasia, ma essere fedeli alla realta' che a volte supera la stessa fantasia. Film sulla mafia accendono sempre i riflettori dell' attenzione su questa piaga. Ritengo che non ci sia overdose d' informazione, sia pure sceneggiata, sul tema".

20 aprile - C' e' anche  Salvatore Lombardo, cugino del bandito Salvatore Giuliano fra i condannati all' ergastolo nel processo nei confronti di un clan di presunti mafiosi di Montelepre, accusati a vario titolo di associazione mafiosa, droga, estorsione ed omicidio. In tutto sono stati inflitti quattro ergastoli e condanne per piu' di un secolo dalla Corte d' assise d' appello di Palermo, presieduta da Innocenzo La Mantia. Il carcere a vita e' stato inflitto anche a Filippo Di Piazza, Francesco Di Piazza e Salvatore Vito Candela. I giudici di appello hanno in parte riformato la sentenza di primo grado, emessa a marzo dello scorso anno, comminando due ergastoli in piu'. A vent' anni poi e' stato condannato Alfredo Candela (assolto in primo grado), per il quale comunque le attenuanti generiche sono state riconosciute prevalenti rispetto alle aggravanti. Pene piu' gravi anche nei confronti di due imputati che rispondevano di associazione mafiosa, Francesco Nania e Antonino Calandra, che sono stati condannati a sette anni di reclusione ciascuno.

20 aprile - Presentato a Palermo il libro "L' eredita' scomoda" di Antonio Ingroia e Giancarlo Caselli. Per il vice segretario dell'Onu Pino Arlacchi "Non c' e' alcuna caduta di stile nel mio intervento alla presentazione del libro", in risposta alle critiche dell'avvocato Giulia Bongiorno, uno dei legali di Giulio Andreotti, che aveva evidenziato negativamente la coincidenza dell' iniziativa fissata all' indomani dell'apertura del processo d'appello al senatore a vita. "Sono venuto a Palermo per presentare un libro scritto da due grandi magistrati- ha detto Arlacchi- ed in realta' non sapevo neppure che ieri cominciasse il dibattimento di secondo grado a carico di Andreotti". Il procuratore di Palermo, Pietro Grasso, intervenendo alla presentazione, dice:"Da un anno il Parlamento ha vomitato leggi e norme che hanno portato a bloccare il nostro lavoro nella lotta alla criminalita' organizzata". "Negli ultimi mesi - ha aggiunto Grasso - abbiamo assistito al varo del giusto processo, della legge Carotti, delle nuove norme sui collaboratori di giustizia, quella sui difensori d' ufficio ed altro ancora, che hanno rallentato le nostre procedure". "Tutto cio' - ha aggiunto - ha reso difficile il compito della magistratura. Il clima di oggi e' diverso da quello del dopo stragi, gli anni raccontati da Caselli e Ingroia nel libro. Ma anche se manca il consenso, noi andiamo avanti per la nostra strada, guardando anche cosa ci ruota attorno". Il procuratore Grasso ha ricordato di aver preso in mano un ufficio "che veniva fuori da una campagna di delegittimazione". "Quando ho sentito il titolo del libro - ha concluso - 'l' eredita' scomoda', credevo mi avessero rubato l' idea. Ritengo che quando arrivera' la fine del mio incarico a Palermo scrivero' 'l'eredita' scomoda' numero due". Anche Giancarlo Caselli e Antonio Ingroia replicano che "La presentazione di questo libro era gia' programmata da tempo ed e' una casualita' che sia avvenuta all' indomani dell' inizio del processo d' appello a
Giulio Andreotti".

20 aprile - Nella trasmissione "Il Raggio Verde" Marcello dell' Utri si difende dalle accuse di mafiosita'. Il candidato al collegio di Milano-1 per Forza Italia ha cercato di rispondere a tutte le accuse e al fuoco di fila proveniente dagli interventi di Antonio di Pietro, del giornalista de 'L' Unita", Saverio Lodato, e dello stesso Michele Santoro che non si e' tirato indietro nel contestargli, uno ad uno, tutti gli episodi che hanno portato all' incriminazione per concorso esterno in associazione mafiosa. A dar man forte all' esponente di Forza Italia, c' era il giornalista Lino Jannuzzi, anche lui candidato per la Casa delle liberta'. Sin dalle prime battute, i contendenti Dell' Utri e Di Pietro si sono attaccati senza mezze misure. "Dal punto di vista tecnico - ha detto Antonio di Pietro - Dell' Utri e' un pregiudicato". Dell' Utri ha subito risposto: "Sono seccato, qui mi si vuole mettere alla berlina come il pregiudicato, il mafioso". Santoro, Di Pietro e Lodato chiedono a Dell' Utri se la sua candidatura, con un processo per mafia ancora aperto, non sia inopportuna. "Su questa candidatura - risponde - non mi sento minimamente in colpa. Per me si tratta di legittima difesa. Ho voluto fare il politico per non soggiacere ad una ingiustizia". "Questa regola non si puo' accettare - replica Di Pietro - perche' altrimenti dovremmo candidare tutti i pregiudicati". Poi, si comincia ad entrare nello specifico: le amicizie con i mafiosi, le accuse dei pentiti, i rapporti con vittorio Mangano, fattore nella tenuta di Berlusconi, poi condannato per associazione mafiosa. Ma il piatto forte arriva alla fine della trasmissione: una breve intervista all' accusatore di Dell' Utri, Rapisarda, seguita subito dopo da un' intervista alla moglie che parla delle minacce ricevute dal marito. "Non e' la prima minaccia, e' l' ennesimo atto intimidatorio. Io, da milanese, ho sempre pensato che bisogna denunciare i mafiosi. Ma, ora, penso che hanno ragione i siciliani ad essere omertosi. Credo che mio marito, da questo momento, non avra' piu' memoria, purche' ci lascino in pace". Prima dell' intervista ai due Rapisarda, Dell' Utri parla dei rapporti con Mangano, assunto ad Arcore come fattore quando gia' aveva avuto numerosi guai con la giustizia. "Io l' ho conosciuto a Palermo negli anni Settanta quando avevo una societa' di calcio, la Bacicalupo, ed una persona assolutamente tranquilla e normale. Quando fu arrestato siamo rimasti sorpresi. Stette venti giorni in carcere, e quando usci fu lui stesso che se ne ando' da Arcore". Jannuzzi va in soccorso di Dell' Utri: "I teoremi secondo cui ad Arcore c' era un mafioso, sono assurdi: la prima condanna per mafia gli e' stata data nel '99 e ben trenta mafiosi assicurano che la sua appartenenza alla mafia risale al periodo successivo al suo impiego ad Arcore". Si parla, poi, degli incontri con i mafiosi Antonino Calderone, in un ristorante a Milano, e Francesco di Carlo, in un banchetto di nozze a Londra. Dell' Utri spiega che furono incontri casuali, e che lui non conosceva le persone che gli vennero presentate. In particolare, al matrimonio londinese, dice Dell' Utri, fu invitato dal suo amico Cina', che era tra gli invitati. "E' quel Gaetano Cina' - gli chiede Di Pietro - accusato di essere un uomo d' onore?". "Si, ma sono accuse completamente false", risponde Dell' Utri. Poi, si torna a parlare di Mangano. Lodato rimprovera a Dell' Utri di averlo ricevuto nel '93, dopo che l' ex fattore di Berlusconi si era fatto dieci anni di carcere: "Che dovevo fare, mandarlo via? Non sono un giudice". Prima delle interviste ai coniugi Rapisarda, Dell' Utri ricostruisce i suoi rapporti con il suo attuale accusatore: dal '74, "quando venne a proporre un' operazione alla Edilnord di Berlusconi", agli anni successivi in cui nel suo ufficio di Palermo "si potevano incontrare persone come Giovanni Conso". E, infine, un giudizio tagliente: "Le lettere di minaccia, sicuramente se l' e' fatte lui".

21 aprile - "Ieri c'e' stato un confronto su alcuni dati di fatto". Lo ha detto il senatore Antonio Di Pietro, a Catania per una manifestazione elettorale, commentando quanto accaduto ieri durante la trasmissione "Il Raggio Verde". "Per quanto mi riguarda - ha proseguito Di Pietro - ho voluto evidenziare che ci sono personaggi, Berlusconi ancor piu' di Dell'Utri, che dovrebbero andare prima a spiegare, nel caso di Berlusconi a Milano, che cos'e' la Fininvest Gruppo B Very Discreet, i cui documenti sono stati trovati il 24 aprile del '96 presso l' avv. Mills". "Se quei documenti fossero stati messi a disposizione degli organismi della Consob in tempo utile probabilmente avremmo dovuto scrivere un'altra storia".

21 aprile - "Non abbiamo fatto alcun processo in diretta a Marcello Dell'Utri". Michele Santoro risponde a Berlusconi reclamando la correttezza della puntata del Raggio Verde di ieri sera. "Berlusconi e' liberissimo di rivolgersi all'Authority - dice Santoro - ma la nostra trasmissione e' stata piu' che rispettosa delle indicazioni che ci aveva dato proprio la stessa Authority per le comunicazioni: abbiamo fatto una puntata equilibrata, con due esponenti di Forza Italia contro un solo esponente dell'altra parte. Altro che processo. In un processo l'accusa ha qualche diritto maggiore. Certo, se fossimo restati in silenzio, senza fiatare, forse non ci sarebbero state altre polemiche. Ma abbiamo il diritto di respirare, di parlare e di fare informazione". Sul caso Dell'Utri, sottolinea Santoro, ieri c'e' stata la massima attenzione a mandare in onda documenti e interviste che riguardassero "solo fatti accreditati, ammessi anche dallo stesso Marcello Dell'Utri. Abbiamo scelto materiali che non potessero essere oggetto di interpretazioni giudiziarie, ma semmai di interpretazioni politiche. Ho evitato accuratamente non solo le deposizioni dei pentiti, ma anche documenti come la famosa telefonata sul cavallo o la versione integrale della stessa intervista a Rapisarda". Santoro non digerisce il riferimento di Berlusconi alla puntata del Raggio Verde dell'ultimo venerdi' prima delle elezioni: "Sara' un venerdi' sera come tutti gli altri. Non capisco cosa voglia intendere Berlusconi. Dobbiamo essere liberi di fare il nostro lavoro, liberi di informare, come sancisce la Costituzione". "Lui che fa tanti proclami di liberta' - conclude il giornalista - alla fine si muove per limitare la liberta' degli altri. Evidentemente la vuole solo per se stesso questa liberta'".

21 aprile - Il senatore Antonio Di Pietro, in una dichiarazione, afferma:"Berlusconi, invece di irritarsi tanto, farebbe bene a spiegare agli italiani, e soprattutto ai magistrati, prima che chiedere il voto agli elettori, le ragioni per cui ha creato il comparto estero Fininvest Group B Very Discret e per quali ragioni e' stata creata una miriade di societa' offshore per cui la procura di Milano lo ha indagato per falso in bilancio per oltre mille miliardi". "Soprattutto spieghi - aggiunge il leader dell'Italia dei Valori - perche' di tutte quelle operazioni non vi e' traccia nella collocazione in borsa di Mediaset nel '96. Chi vuole governare il paese ha il dovere morale di spiegare se e perche' ha falsificato i bilanci".

21 aprile - Marcello Dell' Utri vuole chiedere la revisione del processo per le false fatture di Publitalia, svoltosi a Torino, per il quale e' stato condannato, in via definitiva, a due anni, un mese e 22 giorni. Lui stesso ne ha accennato ieri sera nel corso della trasmissione televisiva "Il Raggio Verde" e il suo legale torinese, Alberto Mittone, ha confermato che si tratta di "un' idea profondamente radicata" nel parlamentare, che ha sempre affermato di essere estraneo ai fatti e di essere stato condannato solo "per responsabilita' oggettiva". L' eventuale istanza per la revisione del processo verra' inoltrata, a norma di legge, alla Corte d' Appello di Milano. L' iter per l' esecuzione della sentenza e' attualmente interrotto in attesa di una decisione della Corte Costituzionale, che deve pronunciarsi su una complessa questione di procedura legata al calcolo esatto della pena. Dell' Utri, al tribunale di sorveglianza di Torino, ha chiesto (essendo stato condannato a meno di tre anni) l' affidamento in prova ai servizi sociali. La Procura generale, pero', ha proposto che il parlamentare sconti la pena in carcere.

24 aprile - Maria Falcone, sorella di Giovanni Falcone, replicando ad alcune affermazioni di Marcello Dell'Utri pubblicate sul quotidiano Libero, dice: "Mio fratello non ha mai comprato case, ne' possedeva alcun immobile. La vita e la morte di Giovanni Falcone dovrebbero imporre a tutti di astenersi dal tentativo di strumentalizzare il suo nome per fini personali". In un'intervista, l'esponente di Forza Italia ha sostenuto che "Giovanni Falcone se oggi fosse ancora vivo potrebbe essere nelle mie stesse condizioni. E non perche' non fosse una persona degnissima: semplicemente perche' un paio di anni dopo la strage di Capaci, l'uomo che aveva venduto a Falcone la casa in cui lui viveva venne arrestato per associazione mafiosa. Secondo i teoremi della procura di Palermo, tanto basta (aver comprato qualcosa da un pregiudicato, averlo incontrato ad un pranzo) per essere mafiosi".

25 aprile - Il quotidiano di Palermo "L' Ora" pubblica le riflessioni di Beppe Grillo sulla mafia che saranno ospitate da "Antimafia 2000" (in edicola dal 27 aprile). Per Grillo la mafia "oggi e' una persona giuridica, e' nei consigli di amministrazione, i mafiosi non sono piu' in Sicilia, ma a Ginevra e Milano, ai piani alti dei grattacieli, non dicono 'minchia' ma 'excuse me'". Il comico genovese, che parla anche di voto di scambio, sostiene che siamo "in una fase in cui la mafia ha un aspetto legale, pulito e straordinario. E' una mafia a norma di legge. Quello che sentiamo e vediamo e' una mafia di manovalanza, fisicamente pericolosa, ma mai come puo' essere pericoloso un vero mafioso, un vero colletto bianco". Continuando nella provocazione, Grillo si dice convinto che "non siano i Toto' Riina i personaggi da temere: la mia paura deriva dall'occultamento, dalle persone perbene. La differenza tra un mafioso delinquente e un uomo d'affari oggi e' molto sottile". Quindi la ricetta, ancora piu' provocatoria: "e allora legalizziamola la mafia, come hanno fatto con la Iakuza in Giappone, che tirino fuori questi trecentomila miliardi per ripulirli da tutte le parti, che ci paghino le tasse e che diventi 'Mafia s.p.a' poiche' di fatto e' gia' cosi'".

25 aprile - il conduttore della trasmissione Michele Santoro rende noto che Silvio Berlusconi ha presentato personalmente, il 24 aprile, un nuovo esposto all'Authority sulla puntata della trasmissione Raggio Verde che ospitava il candidato del polo Marcello Dell'Utri, accusata di "calpestare il precedente richiamo della Authority". La puntata in questione era quella, ha spiegato Santoro, chiesta dall'Authority e "concordata con lo stesso Dell'Utri" per permettergli come lui aveva chiesto,il diritto di replica. "In effetti - denuncia Berlusconi nel testo dell'esposto - oggetto esclusivo dellatrasmissione e' stata la presunta mafiosita' dell'onorevoleDell'Utri, chiamato a partecipare alla trasmissione non gia' per compiutamente replicare alla intervista al signor Rapisarda (proditoriamente) inserita nella trasmissione del 6 aprile dedicata alle candidature, ma per difendersi - da vero e proprio imputato - da un dossier di (nuove) accuse predisposto dalla redazione della trasmissione e supportato da una pubblica accusa costituita da Santoro, Ruotolo, di Pietro e Lodato (nonche' dalla 'lettrice' di atti giudiziari, Luisella)". "Solo la pacata fermezza dell'onorevole dell'Utri - continua Berlusconi - forte della serenita' che gli deriva dalla consapevolezza della sua estraneita' ad ogni imputazione - ha impedito ad una trasmissione cosi' impostata di produrre gli effetti devastanti che il suo orchestratore Santoro aveva immaginato sarebbero derivati". Secondo quanto scrive Berlusconi, "e' indiscutibile" che la lettera e lo spirito della delibera dell'autorita', "sonostati calpestati dalla trasmissione cosiddetta riparatrice e che ancora una volta ha ignorato del tutto il richiamo che codesta autorita' gli aveva esplicitamente rivolto per 'le modalita' di conduzione della trasmissione del 6 aprile". "Sostanzialmente - ha commentato Santoro - Berlusconi mi chiede di non essere piu' quello che sono. Secondo lui dovrei mandare in onda una controfigura di Michele Santoro del tutto diversa da quello che in realta' io sono. E questo non e' possibile". "Una delle cose che ci imputa Berlusconi - ha aggiunto - e' di aver ricordato che tecnicamente Dell'Utri e' un pregiudicato e che negli Usa questo avrebbe reso impossibile una sua candidatura politica. Io d'altra parte sono un giornalista e come tale mi comporto". Peraltro, ha ribadito, "quella puntata era stata concordata in tutte le sue parti cone l'onorevole Dell'Utri". "Quello che e' certo - ha aggiunto ricordando che quella puntata del Raggio Verde aveva raggiunto 5 milioni di ascoltatori - e' che troviamo assurdo che ogni nostra puntata debba essere oggetto di attacchi di questo genere. Io personalmente mi rifiuto di essere considerato solo sul piano politico: io sono anche un pezzo della Rai, bloccare la nostra squadra significa bloccare l'azienda, a tutto favore dell'azienda di Berlusconi".

25 aprile - "Il Corriere della sera", nella rubrica degli interventi dei lettori, pubblica una lettera di Elio Veltri e Marco Travaglio:
A CHI INTERESSANO Le inchieste sulle stragi
Avevamo appena terminato la lettura di Le Monde di sabato (titolo di apertura del giornale e una pagina intera all'interno su un piccolo scandalo di finanziamenti illeciti all’ex ministro dell'Interno francese Charles Pasqua), quando ci siamo imbattuti in un commento di Gad Lerner sul Corriere che riguarda anche il nostro libro, «L’odore dei soldi». Egli sostiene, in netta controtendenza con la più autorevole stampa internazionale, l’inopportunità di ricordare alcune vicenduole giudiziarie che coinvolgono il Cavaliere, tipo le inchieste sulle stragi. Purtroppo, il pur bravo giornalista non conosce granché la materia. Lo stalliere-fattore mafioso di Silvio Berlusconi si chiamava Vittorio Mangano, non Attilio. Previti, a differenza di Dell’Utri, non è mai stato condannato (attenzione: rettifichi subito, se no quello pignora lo stipendio anche a lui). E le inchieste su Berlusconi e Dell'Utri per le stragi del 1992 e 1993 non sono affatto archiviate: a Caltanissetta il pm ha chiesto l'archiviazione, ma ora deve decidere il giudice (che potrebbe anche ordinare nuove indagini), mentre a Firenze la Procura continua a indagare dopo che il gip, nel 1999, ha disposto una prima archiviazione «tecnica», per decorrenza dei termini di indagine, definendo «plausibile» l’ipotesi di un coinvolgimento dei due leader di Forza Italia. È curioso che Lerner non sappia nemmeno questo, visto che cita con dovizia di particolari Micromega , settimanale, dove queste cose sono spiegate con parole semplici e accessibili a tutti. Oltretutto queste indagini sulle stragi sono aperte da diversi anni, e i quotidiani ( Corriere compreso) ne hanno scritto spesso. Ma Lerner non ha mai ritenuto di farvi menzione, nemmeno quando fu issato alla direzione del Tg1: in fondo, che sarà mai un’inchiesta per strage sul capo dell’opposizione e aspirante presidente del Consiglio? Secondo Lerner, poi, queste cose interessano soltanto a una «sinistra minoritaria e marginale»: è per caso la stessa che tributa i record di ascolto ai programmi di Santoro e Luttazzi? O quella che - come ricorda anche Lerner - è corsa ad acquistare 300 mila copie del nostro libro, facendolo schizzare «solitario in testa alle classifiche di vendita»? O quella che assiepa le sale di tutta Italia dove quotidianamente, due volte al giorno, presentiamo «L'odore dei soldi», senza un manifesto, un annuncio televisivo, una breve sui giornali? Se - come gli avevamo chiesto - fosse venuto alla presentazione del nostro libro a Torino, Lerner avrebbe potuto conoscere 350 di questi italiani minoritari e marginali. Una esperienza, glielo assicuriamo, davvero istruttiva. Desideriamo comunque ringraziare Gad Lerner per l’attenzione, e soprattutto per avere coraggiosamente censurato l’intervista-testamento di Paolo Borsellino (fra le dure proteste, immaginiamo, del cavalier Berlusconi). Se l'avesse trasmessa, un anno fa (magari in uno «Speciale Tg1» tipo quello, riuscitissimo, su Padre Pio), forse non ci sarebbe venuta la voglia di scrivere «L'odore dei soldi». E oggi la campagna elettorale potrebbe occuparsi di argomenti più seri: Napoleone, Giustiniano, Mosè e le orchidee di villa San Martino.
Marco Travaglio
Elio Veltri

26 aprile – Il mensile “Antimafia duemila” annuncia che sabato 28 aprile, alle ore 10.30 nell'aula magna dell'Istituto Tecnico Industriale "Leonardo Da Vinci" di Portogruaro si terrà una nuova presentazione del libro “Perché fu ucciso Giovanni Falcone” di Luca Tescaroli, attualmente sostituto procuratore a Roma. Alla presentazione, organizzata da Antimafia Duemila e dal Comune di Portogruaro, saranno presenti l’ autore, Gastone Rabbachin, sindaco di Portogruaro; Antonio Foiadelli, procuratore capo di Vicenza, Francesco Saverio Pavone, Sostituto procuratore di Venezia, Peter Gomez, Giornalista de  L'Espresso, Enzo Guidotto, Presidente Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso, Giorgio Bongiovanni, direttore di Antimafia Duemila. Dopo essere stato presentato a Palermo, Cortina, Mestre, Castelfranco Veneto, Fermo, Catanzaro e Cosenza, Floridia, Corleone, Torino, Trieste, Nicolosi, il libro arriva a Portogruaro. Dalle motivazioni che hanno portato all'assassinio di Falcone, di sua moglie, di Borsellino e degli uomini della scorta, si potrà comprendere la complessità e la gravità di quanto ruota intorno alla mafia: i mandanti esterni e le connivenze con pezzi deviati delle istituzioni.

26 aprile – Il quotidiano inglese “Financial Times pubblica un articolo su Silvio Berlusconi.

26 aprile – L’ Ansa scrive:
Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro, Antonino Giuffre' e Salvatore Lo Piccolo: sono questi i latitanti che compongono l'attuale dirigenza di Cosa Nostra, insieme ad alcuni capimafia detenuti che gestiscono le attivita' criminali dall'interno delle carceri. Lo sostiene la Dia, che nella relazione del primo semestre 2000 indicava tra i boss a piede libero anche Benedetto Spera e Vincenzo Virga, che nel frattempo sono stati arrestati. "Tra i personaggi che risultano essere vicini a Provenzano - scrive la Dia - compaiono alcuni detenuti". Quattro i nomi citati: Benedetto Santapaola, Giuseppe Madonia, Pietro Aglieri e Giuseppe Farinella. A questi, "come confermano le indagini, e' devoluta l'effettiva direzione delle attivita' criminali di Cosa Nostra nelle rispettive aree geografiche di origine". Non solo: proprio loro - secondo la Direzione investigativa antimafia - "rappresentano il potere economico e finanziario di Cosa Nostra. In particolare, "Santapaola e Madonia controllano gli appalti della Sicilia centro-orientale", mentre "Farinella e' l'esponente piu' importante del 'mandamento' di Gangi, attraverso il quale Cosa nostra palermitana esercita il controllo sulle imprese impegnate nei lavori di maggior rilievo nella provincia di Messina".Il numero e il "peso specifico" di questi detenuti "fa di questo gruppo – afferma la Dia - una componente importante di quella che, insieme ai latitanti, appare l'attuale dirigenza di Cosa Nostra". Secondo la Direzione investigativa antimafia, proprio lo stato di detenzione di una parte di questa dirigenza "potra' comportare la ricerca interessata di piu' favorevoli condizioni per i detenuti, specie per quelli che sono sottoposti alle restrizioni previste dall'art. 41 bis". Da qui il possibile ricorso alla dissociazione, "che quantomeno consentirebbe" ai mafiosi in carcere "di sottrarsi ai rigori del regime detentivo speciale". "Il controllo dell'organizzazione mafiosa in Sicilia - prosegue la Dia - e' largamente nelle mani dei personaggi menzionati, fatta eccezione per alcune sacche ove esistono gruppi antagonisti, alcuni dei quali gia' appartenenti all'ala 'stragist’". In particolare, nella provincia di Palermo - rilevano gli investigatori - "larga parte delle 'famiglie' e' sotto il controllo di Provenzano, che si avvale della collaborazione di Salvatore Lo Piccolo e del figlio Sandro", o di Antonino Giuffre'. Ma vi sono delle aree dove il superlatitante "non e' in grado di esercitare un controllo totale e dove esistono formazioni locali che si richiamano all'ala stragista". Il territorio della provincia di Trapani, invece, "ricade sotto l'influenza di Matteo Messina Denaro e Vincenzo Virga", il quale pero' e' stato di recente arrestato, mentre nelle province di Agrigento, Caltanissetta e Enna l'uomo-chiave e' invece Giuseppe Madonia. In provincia di Ragusa, in particolare a Vittoria, la leadership criminale e' del clan Dominante, mentre a Catania la locale "famiglia" di Cosa Nostra detiene il controllo del territorio. La stessa famiglia catanese, attraveso una sua 'articolazione', controlla parte della provincia di Siracusa, mentre nel messinese esiste una "criminalita' composita", in cui compaiono organizzazioni autonome e gruppi collegati alla mafia tradizionale. Un caso a parte e' costituito da Gela, dove Cosa nostra e la Stidda, "in passato avversarie, gestiscono in comune le estorsioni in danno degli imprenditori e dei commercianti". Ma si tratta di una collaborazione - avverte la Dia - "destinata a lasciare il passo a nuovi scontri" in relazione alla pretesa della Stidda di partecipare ai guadagni derivanti dagli appalti. Complessivamente - rileva la Dia - "Cosa nostra esercita tuttora un elevato controllo del territorio", con un atteggiamento di "apertura verso le organizzazioni criminali albanesi" e perseguendo "un progetto tendente a caratterizzarla sotto il profilo imprenditoriale nel settore degli appalti pubblici". "E' evidente - conclude la Direzione investigativa antimafia - che si tratta di un'imprenditoria parassitaria, destinata esclusivamente ad intercettare risorse economiche attingendo agli investimenti pubblici".

27 aprile - "La Repubblica" scrive degli articoli del settimanale inglese “The Economist” su Silvio Berlusconi:
L'Economist e il Cavaliere
"Perché non può governare"
Il settimanale inglese dedica un editoriale e una lunga inchiesta all'impero di Berlusconi
ANTONIO POLITO
Londra - "Come la nostra inchiesta dimostra, Mr. Berlusconi non è in condizione di guidare il governo di nessun paese, meno che mai una delle più ricche democrazie del mondo". Nel numero oggi in edicola, l'Economist, il prestigioso settimanale britannico letto dalla classe dirigente di tutto il mondo, fa di Berlusconi la storia di apertura ed emette un giudizio morale e politico senza appello sul candidato premier italiano: "In ogni democracia che abbia rispetto di se stessa, sarebbe impensabile che l'uomo sul punto di essere eletto primo ministro sia stato sotto inchiesta - tra le altre cose - per riciclaggio di denaro sporco, complicità in omicidio, legami con la mafia, evasione fiscale e corruzione di politici, giudici e finanieri. Ma il paese è l'Italia e l'uomo è Silvio Berlusconi, quasi certamente il suo cittadino più ricco." Non capita spesso che l'Economist (una copia del giornale è on line sul sito web da ieri sera) lanci un attacco così devastante a un candidato premier in un paese industrializzato. Con una procedura alquanto eccezionale vi dedica un editoriale e un ampio servizio di quattro pagine, corredato di informazioni, tabelle, cifre e nuovi elementi investigativi. E scrive di "aver inviato domande scritte a Berlusconi" nel tentativo di risolvere "il mistero dei 93,9 miliardi di lire che sono passati nelle 22 holding che controllano Fininvest tra il 1978 e il 1985" poichè "è un mistero che solo lui può risolvere". Le domande dell'Economist sono rimaste senza risposta perchè "Mr Berlusconi si è rifiutato". Il settimanale spiega ai suoi lettori che la assenza di condanne definitive si può spiegare con il "tortuoso sistema giudiziario italiano". "In un solo caso si è raggiunto un verdetto: riguardava il finanziamento illecito ai partiti e la corte non lo ha trovato innocente. Ma la nostra inchiesta dimostra che egli deve rispondere a una lunga serie di gravi accuse" e che "la sua strana e antica riluttanza a spiegare le origini della sua ricchezza gettano un'ombra sulla sua reputazione di uomo d'affari". L'Economist riconosce che l'Italia ha bisogno di riforme, che "l'esecutivo e troppo debole, che il parlamento è troppo prono all'indecisione, che il sistema elettorale è troppo proporzionale. Ma questi sono problemi di ordine diverso dal sospetto di criminalità al suo vertice". E conclude che l'elezione di Berlusconi come primo ministro segnerebbe un giorno nero per democrazia italiana e lo stato di diritto". Di fatto la più antica testata del pensiero liberale invita gli elettori italiani a non eleggerlo primo ministro, qualcosa che finora nessun giornale internazionale aveva fatto in modo così esplicito. Nell'inchiesta che accompagna l'editoriale, titolata "Una storia italiana", l'Economist ripercorre con implacabile attenzione ai dettagli le numerose accuse contro Berlusconi e pubblica una tabella dei dieci casi giudiziari più clamorosi. "La struttura dell'impero - nota il giornale - non è chiara ancora adesso, ed è stata estremamente involuta nel passato". Innanzitutto la costruzione di Milano 2: "Società in Svizzera, dove la proprietà beneficiaria è impenetrabile, iniettarono 35 miliardi di lire in azioni nelle compagnie italiane responsabili di Milano 2. Così, sulla carta, il progetto apparteneva non a lui ma a anonimi terzi". Poi l'Economist analizza la nascita di Canale 5 e si domanda: "Come la finanziò?", oltre che con "l'aiuto delle banche pubbliche"? "La risposta non è affatto chiara. Nel 1978 Berlusconi creò 22 holding che controllano la Fininvest. Nel 1977 un finanziere con legami con la mafia disse ai magistrati che Berlusconi aveva usato 20 miliardi della mafia per costruire le sue televisioni. I magistrati chiesero alla Banca d'Italia di aiutarli nell'investigazione. Due funzionari spesero 18 mesi rovistando nei documenti delle 22 società. L'Economist ha una copia di questo rapporto lungo più di 700 pagine: le due principali scoperte sono sbalorditive. Berlusconi mise denaro nelle holding attraverso "due banche poco conosciute" invece che attraverso la Bnl presso le cui sussidiarie erano i due trust che egli aveva registrato come proprietari delle sue azioni.. "Così, la Bnl non aveva una chiara visione dell'origine di questi fondi". "Quando egli vendette 165 miliardi di azioni di una delle holding a una sussidiaria Fininvest, i fondi bypassarono i trust del tutto. Cosicchè essi non avevano idea di come e se il compratore avesse effettivamente pagato per le azioni". "La seconda scoperta è che la fonte iniziale del denaro messo nelle 22 compagnie non può essere rintracciata". "Berlusconi - scrive l'Economist - è esperto nel sistema di mandare i soldi in circolo". Il sttimanale cita il caso della Palina che aveva mandato 27,7 miliardi di lire ai trust che avevano poi trasferito questa somma nelle holding: "Tutte queste transazioni ebbero luogo nello stesso giorno e nella stessa banca. Gli investigatori trovarono che nascosto dietro la Palina c'era Berlusconi. Aveva usato come prestanone un uomo di 75 anni colpito da infarto. Subito dopo la transazione la Palina fu liquidata". Sotto il paragrafo "Un amico bisognoso", il settimanale racconta la storia dell'intervento di Craxi per salvare le tv di Berlusconi dallo spegnimento e la storia dellla rete di compagnie offshore della Fininvest, che Repubblica ha già descritto e che è stata respinta da Berlusconi come una falsità. Sotto il paragrafo "Rapporti con i giudici", l'Economist racconta le accuse di corruzione dei giudici nel caso del lodo Mondadori e della Sme. Sotto il paragrafo "Amico di Cosa Nostra?", si descrive l'inchiesta che ha coinvolto Dell'Utri aggiungendo che stavolta "Berlusconi non potrà sfuggire all'obbligo di testimoniare". "Nonostante egli sostenga di essere l'archetipo dell'uomo che si è fatto da solo" conclude l'Economist, "Berlusconi ha avuto bisogno di molto aiuto... Sebbene egli dica di voler rimpiazzare il vecchio sistema corrotto, il suo impero è largamente un prodotto di quel sistema. La sua elezione a primo ministro perpetuerebbe, non cambierebbe, le vecchie e cattive abitudini italiane".

27 aprile - Slitta al 7 maggio il processo d' Appello al giudice Corrado Carnevale, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il rinvio e' stato deciso a causa di altri impegni della corte, presieduta da Vincenzo Oliveri, che ha in calendario processi con imputati detenuti.

27 aprile – L’ Ansa scrive:
Enrico La Loggia avanza un sospetto e lancia un allarme sulle voci che danno per imminente una dissociazione di Riina dalla mafia. "Le voci, sempre piu' insistenti, di una possibile collaborazione di Toto' Riina con lo Stato, e di un imminente arresto del boss Provenzano - ha detto il presidente dei senatori azzurri - alimentano le speranze di una necessaria e importante svolta nella lotta alla mafia e alla criminalita' organizzata. Non vorrei pero' che questi eventi potessero diventare preludi di facili profezie. E cioe' che in piena campagna elettorale questi arresti si trasformassero in strumenti di propaganda politica con personaggi che si convertono in cambio di dichiarazioni pilotate, magari contro Silvio Berlusconi". "Non vorrei scoprire, a pochi giorni dal voto, grazie ad eventuali, possibili dichiarazioni di comodo, che il leader della Cdl fosse accusato di essere il capo della mafia, di aver baciato Riina e di essere il mandante delle stragi mafiose. Le sinistre, purtroppo - ha concluso La Loggia - sono capaci di questo e di altro ancora".

27 aprile - La Corte di Cassazione conferma solo sette delle 22 condanne emesse in secondo grado nel processo d'assise d'appello per l' omicidio dell' europarlamentare Dc Salvo Lima, ucciso a Mondello il 12 marzo del 1992. In particolare la V sezione penale della Suprema Corte ha confermato solo le condanne all'ergastolo per i boss di Cosa Nostra Toto' Riina e Raffaele Ganci, la condanna a 18 anni per il pentito Salvatore Cangemi, oltre alle condanne per quattro imputati minori: Mariano Tullio Troia (due anni di reclusione), Antonino Rotolo (tre anni), Vito Palazzolo (5 anni) e Antonino Porcelli (tre anni). La Cassazione ha invece annullato con rinvio le condanne all' ergastolo - relativamente alle imputazioni di omicidio, detenzione e porto di armi, furto - per i boss Francesco Madonia, Pippo Calo', Giuseppe Graviano, Pietro Aglieri, Salvatore e Giuseppe Montalto, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Benedetto Spera, Michelangelo La Barbera, Simone Scalici e Salvatore Biondo. Per tutti questi imputati e' stata confermata la legittimita' della sola condanna per associazione mafiosa anche se, pure in merito ad essa, la Cassazione ha disposto l'annullamento con rinvio per la rideterminazione della pena. Infine l'annullamento con rinvio e' stato deciso anche per Giuseppe Bono che era stato condannato a tre anni. Con questa decisione i supremi giudici della V sezione penale sono andati ben oltre le richieste espresse dal Pg di udienza Iacoviello che aveva chiesto l'annullamento con rinvio delle condanne per Calo', Buscemi, Madonia, Salvatore Montalto, Bono e Cusimano. Il Pg aveva infatti sostenuto che la sola appartenenza alla Cupola di Cosa Nostra non comporta automaticamente per tutti i boss, in mancanza di riscontri, l'adesione alle decisione della Commissione per le quali non e' dimostrata la partecipazione diretta di ogni singolo capomandamento. Ad esempio Salvatore Montalto era stato arrestato il 14 gennaio '91 per un altro delitto di mafia ed, essendo in carcere, non prese parte alla 'delibera' sul delitto Lima. Il Pg aveva invece chiesto la conferma della pena per Aglieri per il fatto che il boss, pur non avendo 'deliberato' la condanna a morte di Salvo Lima, si era pero' successivamente interessato affinche' la decisione fosse eseguita. Evidentemente i supremi giudici hanno ritenuto opportuno condurre ulteriori accertamenti anche su questo punto. "Finalmente e' stato sconfitto il teorema per cui l'appartenenza alla Cupola di Cosa Nostra - ha commentato l'avvocato Ivo Reina, difensore di Giuseppe Bono - comportava automaticamente la responsabilita' per ogni delitto mafioso. Ci sono voluti nove anni per sconfiggere questa tesi affermata proprio dalla Cassazione nel '92 con il verdetto sul primo maxi processo a Cosa Nostra". Aggiunge Reina che con questa decisione la Suprema Corte dimostra che "occorre distinguere le singole responsabilita', il che non significa che i colpevoli devono rimanere impuniti, ma che agli imputati devono essere attribuiti fatti certi, non responsabilita' desunte per teorema". Adesso i giudici della Corte di Assise di Appello di Palermo dovranno riaprire il processo sul delitto Lima che, secondo la tesi accusatoria fu ucciso perche' non poteva garantire gli appoggi giudiziari per gli imputati di mafia. Con l'annullamento degli ergastoli ai boss della commissione mafiosa accusati dell' omicidio dell' eurodeputato dc Salvo Lima, la Cassazione sferra un colpo al terorema Buscetta riaprendo una pagina giudiziaria lunga nove anni, che ha segnato l'inizio della stagione stragista di Cosa Nostra. L' eliminazione di Lima, plenipotenziario di Giulio Andreotti in Sicilia, sarebbe stata decisa dal gotha della mafia per 'punire' il politico palermitano, e contestualmente lanciare un segnale al suo referente romano: entrambi, secondo l'accusa,non erano stati in grado di garantire ai boss l' impunita' necessaria, della sentenza di Cassazione del maxiprocesso che sanciva la definitivita' delle condanne. Ma l' assoluzione del senatore a vita, secondo la difesa di Pietro Aglieri, uno dei boss per i quali e' stata annullata la sentenza, avrebbe messo in discussione la tesi accusatoria relativa al movente dell' omicidio dell' eurodeputato, "secondo cui Lima avrebbe pagato con la vita il mancato interessamento per l'aggiustamento del maxiprocesso". Maggiore chiarezza arrivera' dalle motivazioni della decisione. L' omicidio Lima e' ritenuto dagli inquirenti il primo anello della strategia stragista, culminata con gli eccidi Falcone e Borsellino, lanciata dai corleonesi per costringere lo Stato a una trattativa con Cosa nostra. Erano state 18 le condanne all' ergastolo inflitte dalla Corte d'assise presieduta da Giuseppe Nobile, il 15 luglio del '98, nel primo processo ai presunti assassini di Lima. Gli ergastoli scattarono per Toto' Riina, Francesco Madonia, Bernardo Brusca, Pippo Calo', Giuseppe Graviano, Pietro Aglieri, Salvatore e Giuseppe Montalto, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella, Benedetto Spera, Nino Giuffre', Salvatore Biondino, Michelangelo La Barbera, Simone Scalici e Salvatore Biondo. Due gli assolti: Giuseppe Lucchese e Antonino Rotolo, condannati rispettivamente a 5 e 7 anni per associazione mafiosa. Due le dichiarazioni di improcedibilita' per morte del reo: scattarono nei confronti di Francesco Intile e Giacomo Giuseppe Gambino, entrambi suicidi in carcere.La Corte condanno' inoltre il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi e l' allora "dichiarante" Giovanni Brusca a 18 anni, e i pentiti Francesco Paolo Onorato e Giovan Battista Ferrante a 13 anni ciascuno. Condanne tutte confermate, in appello, tranne una. A conclusione del processo di secondo grado, infatti, gli ergastoli diventarono 17: la corte d'appello, il 29 marzo 2000, assolse il presunto boss di Caccamo Nino Giuffre', latitante, dall' accusa di omicidio e lo condanno' a 5 anni per associazione mafiosa. Dopo l' assoluzione di Andreotti dall' accusa di associazione mafiosa, i difensori di Pietro Aglieri chiesero l' acquisizione di quella sentenza nel fascicolo del processo Lima. Il procuratore aggiunto di Palermo, Sergio Lari, commentando la decisione della Cassazione, dice: "Non nascondo che abbiamo molta preoccupazione per questa sentenza della Cassazione. Adesso aspettiamo di leggere le motivazioni, per capire su quali basi e' stata deciso questo verdetto".

27 aprile - Nel corso della requisitoria del processo all’ ex ministro Dc Calogero Mannino, accusato di concorso in associazione mafiosa, il pm Teresa Principato afferma che "Alcuni tra i principali esponenti della corrente che faceva capo a Calogero Mannino sono stati incriminati o condannati per i loro legami con la mafia". Il pm ha ricordato le vicende giudiziarie di alcuni uomini politici indicati come vicini all' imputato. Da Vincenzo Inzerillo, ex assessore comunale dc, entrato a far parte della corrente di Mannino nel 1988, recentemente condannato ad otto anni di carcere per associazione mafiosa, a Gaetano Zarcone, avvocato, accusato da numerosi collaboratori di giustizia di essere uomo d' onore della famiglia di Santa Maria del Gesu', condannato per il tentato omicidio in carcere del boss Gerlando Alberti. E poi Raimondo Graceffa, medico originario di Aragona (Agrigento) indicato dal pentito Angelo Siino come esponente vicino all'ex ministro, del quale parlano diversi collaboratori, tra i quali Gioacchino Pennino. Per Pennino il medico, che si presento' alle elezioni del 1985, venne appoggiato dalla mafia di Ciaculli, Brancaccio e Corso dei Mille.

27 aprile - Alla presentazione del libro "La sentenza Andreotti", edito da Garzanti, in un'aula della facolta' di Scienze politiche dell'Universita' di Palermo, lo storico Nicola Tranfaglia dice che “Nessun editore voleva pubblicare il mio libro sulla sentenza che ha assolto Giulio Andreotti". Alla presentazione intervengono Giuseppe Di Lello, ex componente del pool antimafia e deputato europeo del Prc, il senatore Michele Figurelli (Ds) e i professori Giuseppe Carlo Marino e Claudio Riolo. Tra il pubblico c'e' anche Gioacchino Natoli, consigliere del Csm, uno dei pubblici ministeri del processo Andreotti. E' lui a sollevare il problema della "disinformazione" attorno alla vicenda giudiziaria: "Si e' parlato di processo politico. Ma sono giudizi che non tengono conto della straordinaria documentazione acquisita nel corso del dibattimento. E' materiale di grande importanza, soprattutto storica". Tranfaglia concorda con la valutazione di Natoli e rivela di avere incontrato difficolta' nella pubblicazione del volume."Anche quegli editori che hanno pubblicato i miei libri piu' noti - dice - mi hanno manifestato forti perplessita'. Evidentemente sono stati condizionati dal dibattito politico, che non teneva conto dei risultati processuali, oppure hanno subito forti pressioni. Evidentemente i gruppi di pressione sono cosi' forti da impedire perfino la pubblicazione di un volume". Alla fine si e' fatto avanti l'editore Garzanti, che per caso aveva saputo del lavoro di Tranfaglia. Il libro contiene la parte conclusiva della sentenza del 23 ottobre 1999 e una lunga introduzione di Tranfaglia sui temi principali del lungo dibattimento. "La sentenza, pur con molte contraddizioni,traccia un quadro illuminante dei rapporti tra mafia e politica che il Paese doveva conoscere. Per questo ritengo di avere fatto un'opera non di impegno politico ma civile".

27 aprile - "E' una possibilita' astratta, adesso bisogna prendere Provenzano": il presidente della Camera Luciano Violante non si e' pronunciato sulle indiscrezioni giornalistiche che danno per imminente una dissociazione di Riina dalla mafia. "Intanto - ha pero' aggiunto - cominci a dire dove sono i soldi della mafia".

28 aprile - Il presidente di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, parlando al Teatro Dal Verme di Milano alla presentazione del programma del sindaco Gabriele Albertini, dice che "Da giorni circolano voci insistenti, nelle redazioni dei giornali e nei corridoi di Montecitorio, di arresti clamorosi nell' ambito mafioso prima delle elezioni". Fini, precisando che si tratta di voci, ha aggiunto: "arresti magari per dichiarazioni di chi improvvisamente ricorda che il bacio non lo diede Andreotti, ma Berlusconi". A Bologna, Fini torna a parlare a Bologna di quella 'voce' di arresti in ambienti mafiosi. "Voce - ha precisato - secondo la quale non e' da escludere che nei prossimi giorni qualche esponente mafioso possa fare rivelazioni tali da far presumere che il famoso bacio a Riina non l' ha dato Andreotti, ma l' ha dato Berlusconi". Quindi non era una battuta quella? "No, no, lo dico sul serio - ha risposto - lo dico a ragion veduta". E Fini ha spiegato di non parlare di pentiti, ma di "personaggi della mafia al momento in liberta' che potrebbero essere arrestati o potrebbero essere sul punto di costituirsi. Lo dico a ragion veduta. Chi deve sapere - ha concluso - sa che cosa intendo dire".

28 aprile - La Procura di Palermo, concludendo la requisitoria, chiede ai giudici della Seconda Sezione del Tribunale di Palermo la condanna a 10 anni di reclusione per l' ex ministro Calogero Mannino, accusato di concorso in associazione mafiosa. La requisitoria dei pm Vittorio Teresi e Maria Teresa Principato e' durata venti udienze. "Nonostante avessimo avuto a disposizione tutto questo tempo - dice il pm Teresi - non siamo riusciti ad illustrare tutti gli elementi, che sono tantissimi, che riteniamo fondamentali per sostenere l' accusa contro Mannino". "Crediamo - conclude – di aver fatto un buon lavoro, ma soprattutto di aver dimostrato le contiguita' dell' imputato con i boss mafiosi". Alla richiesta di condanna si e' associato anche il Comune di Palermo, parte civile nel processo, che ha inoltre chiesto al tribunale che Mannino risarcisca alla citta' danni per cinque miliardi di lire sollecitando una provvisionale di mezzo miliardo. Le arringhe dei difensori inizieranno il 7 maggio e la sentenza e' prevista per la fine del mese di giugno. Secondo l’ accusa, Mannino sarebbe stato vicino ai cugini Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori mafiosi di Salemi, referente del clan Grassonelli di Agrigento, legato ad esponenti della 'stidda' e attento alla gestione mafiosa degli appalti. Segretario regionale della Dc e leader di rilievo nazionale, assessore, deputato, ministro, i pm lo pongono al centro di una ragnatela di relazioni pericolose, ritenute dalla procura di Palermo "penalmente rilevanti". Una carriera, sostiene l' accusa, favorita dagli appoggi elettorali mafiosi. A condurlo in carcere, il 13 febbraio 1994, sono state le dichiarazioni dei pentiti, ma alle loro accuse (la piu' nota e' la partecipazione dell' ex ministro, come testimone, alle nozze di un mafioso) i pm hanno poi aggiunto altri elementi ricavati da intercettazioni telefoniche, tabulati, e fascicoli provenienti da altri processi. Alle accuse Mannino ha sempre opposto il suo impegno antimafia, palesato nel corso della sua attivita' politica, ma i pm hanno sottolineato come alcuni esponenti a lui vicini, da Giovanni Ferraro, a Tonino Vaccarino a Vincenzo Inzerillo siano stati arrestati per mafia o corruzione. E la presunta "doppiezza" dell' imputato e' stata piu' volte sottolineata dai pm nel corso della requisitoria. Tra gli esempi hanno citato la estromissione, nel corso del congresso regionale della Dc di Agrigento dell' 83, degli uomini legati all' ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino perche' colluso con la mafia. Mannino, in realta', li avrebbe in seguito ricondotti nella sua corrente. "Mannino - dicono i pm – aveva fatto finta di estromettere i cianciminiani, che li ha poi cooptati nella sua corrente acquisendo in questo modo anche i loro voti". Per l'avvocato Salvo Riela "la richiesta di condanna dell' on. Mannino segue una lunga prospettazione di argomenti che poco o nulla hanno a che fare con la contestazione". Per l'avvocato Grazia Volo "alla fine del processo piu' lungo della storia di questi ultimi venti anni i pm hanno dovuto difendere il partito preso in un processo di suggestivi scenari politici, di congetture di pentiti, di insinuazioni di avversari frutto del clima degli anni 90".

28 aprile - L'avvocato Luigi Li Gotti giudica con molta preoccupazione la sentenza della Cassazione sul delitto Lima, definita "Un ritorno al passato radicale" che non solo mettera' a rischio anche le condanne inflitte per le stragi di Capaci e di via D'Amelio, ma che potrebbe impedire in futuro la condanna di qualsiasi mandante dei piu' grossi omicidi di mafia. E per la lotta alla mafia, il difensore di Tommaso Buscetta e di molti altri pentiti, vede delinearsi ulteriori prospettive che lo allarmano: "il prossimo passaggio sara' l'abolizione dell' ergastolo. Il Senato l' aveva gia' approvata e se passasse la sostituzione del carcere a vita con la reclusione a 30 anni, significherebbe poter uscire dal carcere dopo 15 anni; un' opportunita' di cui beneficerebbero tutti i boss". Perche' sia cosi' allarmato dalla sentenza della Cassazione Li Gotti lo spiega cosi': "la decisione mette in discussione una convinzione abbastanza radicata: quella che Cosa Nostra sia un'organizzazione unitaria e verticistica. Se cade questa impostazione, in assenza di notai che certifichino le riunioni della cupola, non si potra' mai condannare nessun mandante dei fatti di mafia piu' clamorosi. Per gli esecutori ci sara' sempre la possibilita' di essere stati visti da testimoni, ma per i mandanti, se non si giudicano piu' sufficienti le parole di chi ha partecipato a quelle riunioni, non si potra' piu' fare nulla". Di quella riunione, ricorda infatti Li Gotti, avevano parlato tra l'altro Brusca, che era uno dei componenti della Commissione e un altro partecipante, Salvatore Cangemi: "al processo Lima io ho partecipato come difensore di Brusca e le prove mi sembravano abbondanti". "Fu in quella stessa riunione che si decisero gli omicidi Falcone e Borsellino" aggiunge l'avvocato, che percio' ora giudica in pericolo anche le condanne inflitte ai responsabili delle due stragi: "l'effetto della sentenza della Cassazione va oltre il singolo caso", dice convinto. Dunque potrebbero essere annullate anche quelle condanne? "Il rischio c'e"'. Ma era una decisione aspettata? c'era la sensazione di un cambiamento? "A livello giudiziario no; ma c'e' un cambio di atmosfera: improvvisamente e' come se le leggi emanate, a cominciare da quella pessima sui collaboratori di giustizia, lo stesso clima politico abbiano alimentato nuove speranze per i boss". "La legge sui pentiti - spiega Li Gotti - scoraggia le collaborazioni. E chi si azzarda piu' a parlare di un politico visto che chi lo fa viene massacrato?" E poi ci sono le elezioni: "Cosa nostra confida nelle elezioni ed e' capace di condizionare gli eletti come ha sempre fatto. Tradizionalmete vota in un certo modo, ora per il partito che ha preso l'eredita' della dc. E sono certo che otterra' i benefici che vuole come li ha sempre ottenuti nel passato".

30 aprile – Il quotidiano spagnolo "El Mundo" pubblica in prima pagina un articolo che sostiene che Silvio Berlusconi uso' Telecinco, la tv privata spagnola della quale Fininvest possiede una quota, per far passare “miliardi di pesetas” a societa' che controllava, domiciliate in diversi 'paradisi fiscali'. Il giornale madrileno sostiene di possedere documenti che dimostrano che quando Berlusconi “era uno dei principali azionisti del canale tv”, dall'Italia “si inviavano istruzioni agli allora amministratori di Telecinco perche' pagassero quelle compagnie, situate in paesi considerati paradisi fiscali”. 'El Mundo', secondo il quale questi documenti fanno parte dell'istruzione attualmente in corso sul caso Telecinco da parte del giudice Baltasar Garzon, sostiene che “questi ed altri contratti hanno provocato importanti perdite nei conti Telecinco, mentre i guadagni di Berlusconi aumentavano in modo spettacolare, il che porto' a una serie di licenziamenti in quel canale di televisione”. In un breve editoriale che accompagna le rivelazioni di 'El Mundo' - che occupano anche due pagine all'interno del giornale - si afferma che “la traccia lasciata in Spagna corrisponde con la lunga serie di illegalita' e corruzioni che sono state una costante nell'attivita' di Berlusconi, il che - come hanno sottolineato altri mezzi europei ed italiani - rappresenta un grave inconveniente per diventare il primo ministro italiano”. I documenti pubblicati da 'El Mundo' dimostrerebbero dunque che “Telecinco pago' ingenti quantita' a una rete di aziende con sede in paesi con accordi fiscali particolari e controllate dal gruppo Fininvest, di Silvio Berlusconi, contrariamente a quanto il magnate italiano ha dichiarato in varie occasione all'Audiencia Nacional”, massima istanza giudiziale spagnola. Secondo un documento dello stesso Garzon, citato dal giornale, si era costituita “una rete finanziaria internazionale, fiscalmente opaca, con sede in diversi paesi considerati legalmente paradisi fiscali”, ma che in realta' era controllata dalla Fininvest. “Telecinco compro' a queste societa' diritti sportivi e cinematografici per oltre 21 miliardi di pesetas, sviando cosi' al gruppo Berlusconi gran parte del debito assunto dal canale fino al 1995, che sarebbe di circa 58 miliardi di pesetas, secondo un documento interno di Telecinco a cui ha avuto accesso El Mundo”, prosegue il giornale. Secondo El Mundo, “il fatto piu' importante e' che i documenti dimostrano il legame fra queste aziende e il gruppo Berlusconi, tenendo in conto che la procura anticorruzione e il giudice Garzon attendono ancora la risposta a una commissione rogatoria inviata in Svizzera” che confermi questo punto. Nel suo breve editoriale, il giornale madrileno sostiene che Berlusconi “ha negato davanti ai giudici che le aziende con cui Telecinco ha firmato questi contratti fossero sue”, ma “i fax inviati dagli uffici Fininvest dando le istruzioni di pagamento a favore di queste compagnie dimostrano che non ha detto la verita”'. “Questo comportamento suppone una truffa al resto degli azionisti e Berlusconi - che ottenne la licenza tv grazie all'influenza che aveva il corrotto Craxi su Felipe Gonzalez - potrebbe anche aver commesso qualche delitto fiscale in questa trama”, conclude 'El Mundo', augurandosi che Aznar “prenda le distanze” da questa “brutta storia”.
La Fininvest replica affermando che si tratta di un “Ennesimo scoop fasullo fabbricato dall'internazionale della calunnia per gettare nuovo fango sulla Fininvest e sul suo fondatore Silvio Berlusconi” e che si riserva di adire “le opportune sedi giudiziarie”.

1 maggio - Un migliaio di persone partecipano alla tradizionale manifestazione del primo maggio a Portella della Ginestra, in occasione del 54/o anniversario della strage che causo' 11 morti, tra cui due bambini, e 27 feriti. Sull' eccidio, compiuto dalla banda Giuliano, che sparo' sui manifestanti inermi, restano ancora numerosi interrogativi, nonostante la pubblicazione dei documenti coperti dal segreto di Stato decisa nel 1998 dal governo. Il professor Giuseppe Casarrubea, uno storico che presiede l' associazione dei familiari delle vittime della strage, proprio sulla base dell' esame dei documenti desecretati sostiene che l' eccidio "fu un episodio terroristico-mafioso coperto da settori deviati delle istituzioni". Lo studioso, figlio di un bracciante ucciso a Portella, ha anche affidato qualche anno fa a un medico legale una perizia sui feriti ancora in vita. I risultati balistici sui proiettili che colpirono i manifestanti e sulla loro provenienza, non solo dall' alto ma anche dalla sinistra del pianoro, aprirebbero nuovi scenari circa la presenza di altre persone, oltre ai componenti della banda Giuliano, che avrebbero partecipato alla strage.

3 maggio - La quinta sezione penale della Corte di Cassazione conferma l' assoluzione del sacerdote carmelitano Mario Frittitta, reggente del santuario di Santa Maria della Kalsa, contro la quale aveva presentato ricorso il pg della Corte di Appello di Palermo, che sosteneva che il religioso aveva favorito il boss di Cosa Nostra Pietro Aglieri, somministrandogli i sacramenti durante la latitanza. Padre Frittitta e' stato difeso dagli avvocati Ivo Reina e Roberto Tricoli. L' avv. Reina ha sottolineato che il verdetto della Suprema Corte "e' equilibrato e tiene conto del fatto che il ministero sacerdotale ha una portata molto ampia". Del collegio difensivo del carmelitano faceva parte anche l'avvocato Vincenzo Giambruno, che ha seguito il processo nei precedenti giudizi. I supremi giudici hanno inoltre confermato le condanne per associazione mafiosa emesse nei confronti degli altri imputati accusati di far parte della cosca guidata dal boss Pietro Aglieri. In particolare e' divenuta definitiva la condanna per Gioacchino Corso (sei anni di reclusione), per Luigi Corso (quattro anni e otto mesi), per Isidoro Profeta (quattro anni e otto mesi), per Giampaolo Corso (tre anni e sei mesi) e per Emanuele Chiaretto (due anni e quattro mesi).

3 maggio - Processo per l' uccisione di Peppino Impastato: il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo dice che "Il colonnello Giuseppe Russo intervenne per aiutare il boss catanese Calderone nel periodo in cui questi era al confino". Russo, che comandava il nucleo investigativo dei carabinieri di Palermo, venne assassinato a Ficuzza nel 1977 col suo amico prof. Filippo Costa. Di Carlo, rispondendo alle domande del pm Franca Imbergamo, ha sostenuto che il capo mafia di Cinisi Tano Badalamenti non ebbe mai rapporti diretti con le forze dell' ordine. "Erano i cugini Salvo - ha detto il pentito - ad avere contatti con le istituzioni: politici, polizia e carabinieri". "Toto' Riina - ha continuato Di Carlo - ha accusato sempre Badalamenti di essere confidente dei carabinieri ma io so per certo che non era cosi': non ne aveva bisogno, c' erano gli esattori ad occuparsi di questo". Sui mandanti dell' assassinio di Impastato poi, il collaboratore ha detto che la morte dell' esponente politico fu voluta da Badalamenti che comunico' la sua decisione alla "famiglia". Sul banco dei testi e' infine salito Angelo Siino che ha parlato degli interessi economici del boss nella zona di Cinisi e dei suoi legami con il geometra dell' Anas Pino Lipari. Siino ha poi raccontato di avere saputo da un cugino di Badalamenti che Impastato era stato ucciso per i suoi continui attacchi al capo mafia.

4 maggio – La Corte d’ appello di Palermo, presieduta da Gioacchino Agnello, assolve Bruno Contrada, l' ex numero 3 del Sisde, che era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e in primo grado era stato condannato a 10 anni di reclusione. La corte e' rimasta nove ore in camera di consiglio.
"La Corte mi ha assolto e non ho nient' altro da aggiungere". Bruno Contrada, visibilmente emozionato, ha risposto cosi' alle domande dei cronisti che lo assediavano all' uscita dall' aula del carcere Pagliarelli di Palermo. "Si aspettava questo verdetto?" gli e' stato chiesto. L' ex funzionario del Sisde si e' fermato per un attimo, ha acceso una sigaretta, e poi ha commentato: "Questa mattina, in attesa della sentenza, non avevo parlato di speranza ma di certezza. Una certezza che derivava dalla coscienza di avere fatto sempre il mio dovere per lo Stato, perche' la mia vita e' stata dedicata esclusivamente allo Stato". Per lui e' la fine di un incubo durato quasi dieci anni: Bruno Contrada, 71 anni, napoletano, funzionario di polizia oggi in pensione, fu arrestato alla vigilia del Natale 1992, quando era il numero 3 del Sisde. In primo grado venne condannato a dieci anni per concorso in associazione mafiosa. Contro di lui hanno prima parlato quattro collaboratori di Giustizia: Tommaso Buscetta, Gaspare Mutolo, Giuseppe Marchese e Rosario Spatola. Alle loro accuse, nel corso del processo di primo grado a dieci anni di reclusione, si sono aggiunte quelle di altri sei pentiti: Francesco Marino Mannoia, Salvatore Cancemi, Pietro Scavuzzo, Maurizio Pirrone, Gaetano Costa e Gioacchino Pennino. E in appello anche le accuse di Angelo Siino, Giovanni Brusca e Francesco Onorato. Secondo gli inquirenti Contrada ha contribuito alle "attivita' e agli scopi criminali di Cosa Nostra", fornendo notizie riservate sulle indagini, consentendo la fuga di pericolosi latitanti tra cui il capo di Cosa Nostra Toto' Riina, incontrando i boss mafiosi e accettando in cambio regalie. Questa sua attivita', secondo l' accusa, sarebbe stata in qualche modo 'coperta' da vertici, non identificati, di organi istituzionali. Secondo l' accusa, inoltre, l'ex funzionario del Sisde avrebbe iniziato i suoi rapporti con la mafia attraverso il conte Arturo Cassina, buon amico del boss Stefano Bontade. Alla morte di quest' ultimo, Contrada avrebbe proseguito il suo rapporto di collusione intrattenendo rapporti con Riina. Contrada si e' sempre difeso sostenendo di essere stato un uomo dello Stato, 'anche in carcere', di non avere mai conosciuto ne' aiutato i mafiosi, di essere stato accusato 'per vendetta' da 'criminali', oggi pentiti, che egli ha sempre perseguito. Le indagini patrimoniali avviate nei suoi confronti e della sua famiglia hanno evidenziato un patrimonio ed un tenore di vita del tutto compatibili con lo stipendio di funzionario di polizia. Capo della squadra mobile a Palermo negli anni '70, poi dirigente della Criminalpol, capo di gabinetto dell' Alto Commissariato della lotta alla mafia e infine, numero tre del Sisde, Contrada venne scarcerato il 31 luglio del 1995, dopo 31 mesi di carcere trascorsi in isolamento, per il venir meno delle esigenze cautelari'. Prima che la Corte entrasse in camera di consiglio per la sentenza, ha detto stamane: "Non ho paura del carcere, mi e' rimasto solo l'onore di uomo dello Stato, sono preoccupato che mi venga tolto". Il processo d' appello e' iniziato nel giugno del '98 davanti ai giudici della seconda sezione presieduta da Gioacchino Agnello. Contrada e' stato sempre presente ad ogni udienza, seguendo personalmente lo svolgimento del dibattimento. A favore di Contrada, assolto 'perche' i fatti non sussistono', nel corso del processo di primo grado testimoniarono numerosi uomini delle istituzioni: ministri dell'Interno, capi della polizia, alti commissari della lotta alla mafia, ufficiali dei carabinieri: negarono di avere mai nutrito sospetti su un suo presunto ruolo di investigatore doppiogiochista. Alcuni di loro vennero in seguito indagati per avere reso testimonianze mendaci o contradditorie ma l'inchiesta si chiuse con un'archiviazione. "Tornare in carcere non mi fa paura, mi preoccupa, invece, che mi venga tolta l' ultima cosa che mi rimane e alla quale tengo molto: l' onore di uomo dello Stato a cui ho dedicato tutta la mia esistenza". Con questa 'dichiarazione spontanea' Bruno Contrada ha salutato i giudici della corte d'appello, entrati in camera di consiglio questa mattina per decidere se confermare, o meno, a sua condanna a dieci anni per associazione mafiosa. L'ex funzionario del Sisde ha voluto sottolineare i 35 anni di carriera in polizia. "E' stato terribile - ha proseguito Contrada - sentirsi dire nell' aprile del '96, da un tribunale, che avevo tradito lo Stato e che avrei dovuto trascorrere gli ultimi dieci anni della mia vita in carcere". A conclusione dell' udienza, rispondendo alle domande dei giornalisti, Contrada ha paragonato il suo processo a quello del senatore Giulio Andreotti. "Lo stesso tribunale - ha detto l' ex funzionario - ha giudicato me e Andreotti. Nel mio caso i giudici non hanno valutato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come invece hanno fatto per Andreotti". "Non mi piace la parola speranza - ha poi concluso - voglio la certezza che questa corte possa valutare con lo stesso metodo usato dai loro colleghi che hanno assolto il senatore a vita". "Non ho mai parlato di complotto, ma tutto lasciava pensare che ci fosse una regia occulta" ha detto Bruno Contrada, intervistato dall' emittente televisiva Tele Giornale di Sicilia dopo la sua assoluzione. Contrada, rispondendo alle domande del giornalista, ha sottolineato: "Ne' io ne' i miei avvocati abbiamo mai parlato di complotto. Questa parola non e' mai stata pronunciata. Indubbiamente nel complesso della vicenda giudiziaria sono accaduti fatti che hanno destato grossa inquietudine e forti perplessita': tutto lasciava pensare che ci fosse una regia occulta, per incastrarmi, per non lasciarmi vie di scampo". In merito alle dichiarazioni favorevoli alla sua assoluzione rilasciate da numerosi esponenti politici dalla Casa delle Liberta', l' ex funzionario della Sisde ha commentato: "Non ho mai indossato alcuna casacca politica ne' mi prestero' ad alcuna strumentalizzazione". "In vita mia - ha aggiunto Contrada – ho indossato solo due casacche: la divisa di ufficiale dei bersaglieri nell' esercito e quella di funzionario di polizia".

4 maggio - Tre procuratori aggiunti della Repubblica, due Pm della Direzione Distrettuale Antimafia e un consigliere del Csm assistono a Palermo, nell' aula magna della facolta di Lettere, a un dibattito sul libro di Marco Travaglio ed Elio Veltri "L' odore dei soldi", che ricostruisce l' ascesa finanziaria di Silvio Berlusconi. Alla manifestazione erano presenti, tra gli altri, i procuratori aggiunti di Palermo Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, che sostennero l' accusa nel processo a Giulio Andreotti, i sostituti della Dda Antonio Ingroia (pm del processo Dell' Utri) e Franca Imbergamo, il procuratore aggiunto di Trapani Teresa Principato e il consigliere del Csm Gioacchino Natoli, anche lui ex Pm del processo Andreotti. "Ringraziamo i magistrati presenti - hanno detto i due autori - che sono qui non senza pagare un prezzo".

4 maggio - Trasmesso per la prima volta in tv, su Palco, la pay-per-view di D+, il film "I cento passi" che racconta la storia di Peppino Impastato.

4 maggio - La Procura di Palermo ha chiesto che venga applicata a Balduccio Di Maggio, l' ex collaboratore di giustizia nuovamente arrestato per omicidio, la speciale attenuante prevista per chi fornisce all'autorita' giudiziaria "elementi decisivi per l' accertamento dei fatti". La circostanza emerge nel processo "Tempesta" giunto alla requisitoria del Pm Olga Capasso. Il magistrato, nel chiedere la condanna di Di Maggio, imputato di omicidio, a 13 anni di reclusione, ha invocato l'applicazione dello sconto di pena. A Balduccio Di Maggio, il pentito che riferi' del presunto "bacio" tra Riina e Andreotti, dal 1997 e' stato revocato il programma di protezione. Secondo il Pm con le sue dichiarazioni l' ex collaboratore avrebbe aiutato gli investigatori a far luce su alcuni delitti. L' attenuante e' stata richiesta anche per i pentiti Vito Lo Forte e Domenico Cancelliere, imputati nello stesso procedimento. Per l' altro collaboratore, Salvatore Contorno, invece, la procura ha chiesto l' assoluzione per la prescrizione del delitto del quale era imputato. Per 27 dei 35 imputati del processo Tempesta il pm ha chiesto la condanna all'ergastolo con isolamento diurno. Tra questi, figurano i boss Procopio Di Maggio, Salvatore Lo Piccolo, Vito Palazzolo e Giovanni Motisi. Pene per complessivi 28 anni di carcere sono stati chiesti invece per Luigi Abbate e Giovanni Torregrossa. Il procedimento, in corso di fronte alla corte d'assise di Palermo, presieduta da Giacomo Montalbano, e' uno dei tre tronconi del dibattimento a carico di 88 boss (tra questi Toto' Riina ed altri componenti della Cupola della mafia) e "uomini d' onore" di Cosa Nostra, accusati di oltre 100 omicidi compiuti tra gli anni '60 e '90. Tra i delitti, quelli del capitano dei carabinieri Mario D' Aleo, ucciso il 13 giugno '83 insieme ad altri due militari, e quello dell' agente di polizia Calogero Zucchetto, assassinato nel 1982 in via Notarbartolo a Palermo. La sentenza e' prevista per il mese di giugno. Gli altri due stralci del "Tempesta" sono invece in corso, uno con il rito ordinario, l' altro con l' abbreviato, di fronte alla prima sezione della corte d' assise presieduta da Claudio dall' Acqua.

4 maggio - Il giudice Baltasar Garzon ha inviato una nuova richiesta di sospensione dell'immunita' parlamentare di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri all'assemblea di Strasburgo, nel quadro dell'inchiesta su presunte irregolarita' nella gestione di Telecinco, canale privato del quale la Fininvest possiede una quota. Lo hanno indicato fonti giudiziarie, secondo le quali la nuova richiesta di Garzon e' stata inviata in applicazione di una specifica richiesta del capo della procura anticorruzione spagnola Carlos Castresana, emessa la settimana scorsa. Garzon formulo' la prima richiesta all'Europarlamento nell'ottobre del 1999: arrivata a Strasburgo nel luglio dell'anno scorso, fu respinta dall'ufficio della presidenza, secondo il quale non era chiaro se il documento era stato inviato attraverso i canali istituzionali adeguati. Questa prima richiesta e' attualmente allo studio del Consiglio di stato spagnolo, che deve stabilire l'interpretazione autentica delle norme che si applicano al caso. Castresana ha chiesto anche a Garzon che stabilisca se il ritardo accumulato nella gestione della prima richiesta non contenga gli estremi di un reato di mancata assistenza alla giustizia da parte di qualche responsabile dell'amministrazione pubblica spagnola, e il giudice ha inviato la documentazione relativa alla procura di Madrid. Garzon ha anche inviato al governo e al Consiglio di stato copie di otto risoluzioni dell'audiencia nacional, il tribunale supremo e quello costituzionale, nelle quali si rigettavano i ricorsi presentato da Dell'Utri e Berlusconi contro la richiesta di sospensione della loro immunita' da europarlamentari. Intanto la Commissione degli affari costituzionali del Parlamento europeo, presieduta da Giorgio Napolitano (Pse), ha nominato il parlamentare inglese Andrew Duff (Eldr) relatore per la questione dell'immunita' parlamentare per i deputati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Duff e' stato incaricato - informa una nota - di redigere un rapporto per la Conferenza dei presidenti per determinare, tra l'altro, la procedura adeguata per stabilire l'autorita' competente in ciascuno degli Stati membri per tutte le domande indirizzate al Parlamento europeo che riguardano la richiesta di levare l'immunita' a propri membri. Dal rapporto si attendono anche proposte per chiarire e completare i vari punti del regolamento parlamentare. L'obiettivo - rileva la nota - e' di proporre miglioramenti alle procedure del Parlamento per le future richieste di togliere l' immunita' e per rafforzare lo statuto del Parlamento per l'esercizio delle proprie prerogative in questo contesto. Il rapporto dovrebbe essere trasmesso alla Conferenza dei presidenti prima delle vacanze parlamentari.

5 maggio - Alle domande dei giornalisti che gli chiedevano un giudizio sul capo della polizia, Bruno Contrada ha risposto: “Gianni De Gennaro? E' il capo di un' istituzione di cui ho fatto parte per trentacinque anni, per questo lo rispetto. Quando non lo sara' piu', possiamo fare qualche chiacchierata”. Contrada, leggendo un passo del libro “L' intrigo” che ricostruisce la sua vicenda giudiziaria, ha fatto presente di “non avere mai avuto buoni rapporti con De Gennaro” e ha anche parlato di scontro fra apparati investigativi fra il 1991 e il 1992, mentre stava riconvertendo nel meridione gli uffici del Sisde in funzione “anti eversione criminale”, cioe' di lotta a Cosa nostra, 'ndrangheta, camorra e Sacra corona unita. “Allora si stava creando la Dia - ha detto Contrada - e poi altri gruppi investigativi, e tutti erano buttati sullo stesso osso”. Ha quindi affermato: “i miei ragazzi avevano buone speranze di prendere, nel dicembre del 1992, il boss latitante Bernardo Provenzano, ma il mio gruppo venne sciolto pochi mesi prima che io fossi arrestato”. Contrada ha confermato quanto dichiarato piu' volte: le inchieste da lui condotte gli hanno procurato inimicizie. “Un uomo vero si fa sempre qualche nemico”, ha osservato. “Ero stato accusato anche della strage di via D' Amelio per la quale ero stato indagato - ha proseguito -, dicevano che ero sul posto a controllare, ma ho poi dimostrato che in quel momento non ero li' ne' ero in terra, ma in alto mare, in barca con dieci persone fra cui due ufficiali dei carabinieri”. Contrada ha poi parlato di “nodo mafia-politica”. “Ne avevo scritto - ha sottolineato - dopo l' omicidio di Pio La Torre, definendo queste cointeressenze 'zone grigie' in cui potevano trovarsi politici, imprenditori e altri. Il mio riferimento non e' mai andato, pero', ai partiti, ma a singoli politici che potevano essere legati alla mafia”. Contrada racconta anche che “Nel '96 il pm chiese al Tribunale la trasmissione degli atti al suo ufficio per procedere contro una trentina di testimoni a me favorevoli indagati per falsa testimonianza: adesso mi chiedo perche' non si deve agire in maniera analoga con chi e' venuto in aula a testimoniare contro di me”. Contrada ha fatto due nomi: “Parlo – ha detto - dell'allora prefetto De Francesco, o dell' eccellentissimo generale dei carabinieri Mario Mori, uomini che indossano una divisa con la quale e' molto grave aver mentito ad un tribunale”. Secondo Contrada il processo avviato nei suoi confronti ha i connotati di una “vicenda istituzionale': “se fosse stata risolta con una condanna - ha detto - sarebbe stata necessaria un'attivita' da parte di organi istituzionali per stabilire per quale motivo un alto funzionario dello Stato avesse potuto continuare a tradire lo Stato favorendo la mafia senza che nessun altro organo investigativo o giudiziario se ne fosse reso conto”. Bruno Contrada ha successivamente chiarito che quando ha parlato del generale Mori e del Prefetto De Francesco  ha inteso indicarli fra i testimoni a suo favore che sono stati indagati per falsa testimonianza e per i quali successivamente e' stata disposta l'archiviazione. La richiesta di Contrada (“si agisca in maniera analoga contro le persone che sono venute in aula a testimoniare contro di me”) e' invece riferita, sempre secondo quanto lo stesso Contrada ha chiarito dopo la conferenza stampa, ad altri testimoni, anche in divisa, che, in aula, hanno testimoniato contro di lui. Di questi ultimi Contrada non ha fatto nomi. “Quando sono caduto,sanguinante, dopo il mio arresto - ha concluso - tanti sciacalli si sono abbattuti sul mio corpo, beccandomi. Sono poi arrivate anche le formiche rosse, che in aula hanno messo in discussione la mia amicizia con Boris Giuliano: cosa del tutto falsa ed infondata”. In un’ intervista al Messaggero Bruno Contrada annuncia anche che:“Quando la sentenza diverra' definitiva chiedero' il massimo, un miliardo. Chi sbaglia paga”.

6 maggio - "La Repubblica"
Lotta intestina per Provenzano
Contrada: "Il Sisde aveva trovato il suo covo, troppa invidia"
All'indomani dell'assoluzione il funzionario rilancia il  tema del contrasto tra forze di polizia. A cominciare  dalla Dia
ENRICO BELLAVIA
La sentenza di primo grado lo nega esplicitamente ma Bruno Contrada, rivendicando di aver cambiato pelle al Sisde, di averlo riconvertito alla lotta alla criminalità organizzata, sostiene che fu interrotta l'indagine principe di quella struttura antimafia: la cattura di Bernardo Provenzano. Non c'era più l'emergenza terrorismo, l'eversione destabilizzante era costituita dalle mafie. "Era affare dei servizi di sicurezza", dice Contrada, spiegando la sua contrarietà alla nascita dei corpi speciali. "Nei miei sette anni a Roma avevo realizzato degli organismi di polizia contro la criminalità organizzata suscitando il risentimento e invidie professionali terribili tra corpi di polizia". Così Contrada spiegò ai giudici di secondo grado la sua attività nella capitale. Accadde a dicembre del 2000 durante la deposizione del pentito Angelo Siino al quale i legali di Contrada chiesero invano di approfondire il tema di eventuali colloqui investigativi con Gianni De Gennaro, già capo della Dia. Fu allora che Contrada fece delle spontanee dichiarazioni e parlò dei suoi "non buoni rapporti con De Gennaro". Quella dichiarazione, riportata nel libro "L'Intrigo" scritto da un amico di Contrada, il professore di San Vito, Enzo Battaglia, Contrada l'ha letta ieri in conferenza stampa, come necessaria premessa per disegnare il clima, nel quale, a suo giudizio, maturò l'arresto. Torna così d'attualità l'ennesima pagina oscura su una occasione mancata, l'ennesima, intorno alla trentennale latitanza di Provenzano. A capo del gruppo appositamente costituito al Sisde per lavorare su Provenzano c'era Roberto Scotto, amico di Contrada. Secondo Contrada, sul finire del 1992, il gruppo antimafia "era a buon punto". Aveva individuato a Trapani il rifugio in cui aveva abitato la famiglia di Bernardo Provenzano. Il cuore dell'indagine era soprattutto "una lista di cellulari di uomini molto vicini al padrino. Ma poco prima del mio arresto la struttura fu smantellata". I giudici che in primo grado lo avevano condannato a 10 anni non avevano dato però peso e credito a questa ricostruzione. "Il teste Luigi Rossi, direttore centrale della Criminalpol, - scrissero - ha precisato che già i carabinieri avevano avviato un'indagine volta alla localizzazione della famiglia del Provenzano e ha ricordato che, essendo stato Contrada incaricato dal proprio direttore, prefetto Finocchiaro, di intrattenere lo scambio istituzionale di informazioni tra il Sisde e la Criminalpol era stato il soggetto che aveva trasmesso, nel periodo ottobrenovembre 1992, uno spunto investigativo del servizio su talune notizie confidenziali e su alcune utenze telefoniche e società in qualche modo riconducibili al latitante che era sembrato utile approfondire; il ministero aveva, quindi, adottato la decisione di istituire un gruppo di lavoro aggiuntivo preposto allo sviluppo di quei dati che aveva lavorato in collaborazione con la squadra mobile e la Criminalpol di Palermo e con il coordinamento del questore e dell'autorità giudiziaria; di tale gruppo era stato chiamato a far parte anche il dottore Roberto Scotto, funzionario della Criminalpol. Nel dicembre del 1992, quando era pervenuta al ministero la notizia delle indagini in corso sul conto di Contrada, si era ritenuto opportuno richiamare a Roma Scotto, atteso il legame notoriamente esistente tra i due funzionari". Di più, i giudici di primo grado richiamano anche un altro passaggio delle dichiarazioni di Luigi Rossi e aggiungono: "Dalla documentazione acquisita si evince con assoluta certezza che le indagini finalizzate alla cattura del latitante mafioso Provenzano proseguirono ben oltre l'arresto dell'odierno imputato". Cosa sia accaduto di quegli spunti investigativi non si sa. Di certo, intorno a Provenzano, la cronaca racconta di altre occasioni mancate e altri conflitti tra apparati investigativi. Secondo il colonnello dei carabinieri Riccio, Provenzano non fu preso il 31 ottobre del 1995 per un inspiegabile scelta attendista del Ros. E ancora lo stesso Ros ha accusato la polizia di aver bruciato una pista quando a gennaio di quest'anno catturò Benedetto Spera insieme con Nicola La Barbera.

7 maggio - Il quotidiano madrileno “El Mundo” pubblica un ampio sunto della documentazione sul caso Telecinco, la tv privata spagnola di cui Fininvest possiede una quota, dei capi di accusa che il giudice Baltasar Garzon ha formulato nella sua richiesta di sospensione dell'immunita' agli europarlamentari Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, inviata il 4 al Parlamento europeo: quattro reati di frode fiscale per un totale evaso di poco meno di 2,5 miliardi di pesetas (circa 29 miliardi di lire) e sei reati di falsificazione di documenti pubblici e di contratti. Secondo Garzon, i documenti dimostrano l'esistenza di “una serie di alterazioni documentali in atti pubblici, contrattuali e contabili” il cui obiettivo era “non solo mantenere le posizioni di ognuno dei soci e i loro rispettivi guadagni, ma anche e soprattutto truffare massicciamente il tesoro, attraverso il non pagamento dell'imposta sulle societa' e l'Iva degli anni 1991, 1992 e 1993”. Inoltre, secondo la richiesta del giudice dell'Audiencia Nacional, “Fininvest arrivo' a controllare nel 1995 fino all'88% del capitale di Telecinco, quando il limite legale concesso era solo del 25%”. Garzon sostiene anche di aver inviato commissioni rogatorie in Svizzera “per stabilire se sono esistiti comportamenti riprovevoli del gruppo Fininvest, attraverso eventuali o ipotetici pagamenti a persone o gruppi politici spagnoli” e “scoprire il destino di importanti quantita' di denaro trasferite dai conti Fininvest a conti numerati, in date che coincidono con le operazioni illegali che si svolgevano in Spagna”.
La Fininvest ribatte che “El Mundo” dovra' rispondere di “reiterate manipolazioni della verita' alle competenti autorita' giudiziarie” e parla di “delirante articolo basato esclusivamente sull'insulto e sulla diffamazione” attraverso il quale 'El Mundo' “assolve anche oggi al suo quotidiano compito calunniatorio nei confronti della Fininvest e del suo fondatore Silvio Berlusconi”. La Fininvest ribadisce che “tutti i suoi comportamenti anche nella vicenda Telecinco sono stati improntati alla massima correttezza”. “Se nei giorni scorsi aveva preso a pretesto un risibile falso scoop privo non solo  della minima consistenza, ma anche di qualunque supporto logico - e' scritto nella lunga nota - questa volta il quotidiano va, se possibile, anche oltre: spaccia infatti per 'nuovi elementi' a carico della Fininvest e di Silvio Berlusconi, le accuse contenute nella richiesta che il giudice Garzon aveva inviato un anno fa al Parlamento Europeo per ottenere la revoca dell'immunita' per Silvio Berlusconi, accuse riproposte alla lettera dal magistrato qualche giorno fa, nella reiterazione della richiesta. E tutta l'operazione con il solo manifesto scopo di alimentare rilanci da parte della stampa italiana”. Secondo la Fininvest “nessun 'nuovo elemento' in piu', dunque, rispetto a quanto gia' pubblicato con ampio risalto un anno fa e gia' ampiamente confutato dalla difesa”. In un'altra parte della sua nota, la Fininvest ribadisce appunto la correttezza del suo operato e che “anni di perizie, interrogatori, testimonianze hanno portato a dimostrare che le irregolarita’ fiscali contestate non hanno fondamento. Anche l'Agenzia tributaria spagnola, al termine di una ispezione tributaria durata oltre due anni presso Telecinco e Publiespana, ha escluso, come e' agli atti del procedimento, condotte penalmente rilevanti.  Non solo, ma nell'intento di impressionare il Parlamento Europeo, il giudice Garzon attribuisce all'onorevole Berlusconi anche presunte irregolarita' sicuramente di competenza di societa' del tutto estranee al Gruppo Fininvest, come la societa' Divercisa della Once. Inoltre, Fininvest sottolinea che i dirigenti del gruppo non gestivano attivita' di natura amministrativa o fiscale, delegate in base a formali e documentati accordi a manager espressi dai soci spagnoli”. Nella nota si sostiene inoltre che “la Fininvest non ha mai violato il tetto azionario del 25%, previsto all'epoca per ciascun socio nelle imprese televisive. Senza contare che nel frattempo la legge ha innalzato questo limite e, soprattutto, che la stessa Procura in altra vicenda relativa ad altra emittente sentenzio' come l'eccesso del possesso azionario non abbia rilevanza penale ma al massimo possa considerarsi infrazione amministrativa. E l'Autorita' amministrativa di controllo non ha mai mosso alcun appunto, a seguito delle verifiche effettuate in ordine all'assetto societario di Telecinco. Vale la pena di ricordare che tutte le transazioni effettuate in relazione ad azioni della societa' sono state sempre comunicate alle autorita' competenti per la necessaria autorizzazione”. Secondo la Fininvest “le supposte falsita' negli atti, peraltro insussistenti e mai dimostrate, non avrebbero comunque rilevanza penale nella legislazione spagnola”. E poi ancora: “Sono pure illazioni, prive del benche' minimo fondamento, le ipotesi di finanziamenti ai partiti politici spagnoli. Il giudice Garzon ha fatto sapere di avere inviato commissioni rogatorie in Svizzera 'per stabilire se siano esistiti comportamenti riprovevoli del Gruppo Fininvest attraverso eventuali o ipotetici pagamenti a persone o gruppi politici spagnoli'; con cio' riconoscendo di non condurre un' inchiesta su una qualsiasi ipotesi di reato, ma di essere impegnato nella ricerca di eventuali illegalita' o illiceita'. Di conseguenza l'autorita' giudiziaria svizzera, data l'assoluta indeterminatezza dell'ipotesi accusatoria non e' stata in grado di prestare l' assistenza richiesta”. “L'inconsistenza dell' impianto accusatorio, formulato dal giudice Garzon, su cui poggiano le azzardate conclusioni del Mundo - conclude la Fininvest - e' dimostrata anche dal fatto che dopo cinque anni il procedimento e' allo stato di indagini preliminari, in una fase ancora esplorativa, alla ricerca di un qualche elemento di contestazione, poggiando soltanto su ipotesi inverosimili e prive di qualunque riscontro”.

7 maggio - L'ex capo della Procura di Palermo Pietro Giammanco ha ottenuto in Cassazione la riapertura della causa per diffamazione che lo opponeva al sindaco palermitano Leoluca Orlando in relazione ad alcune affermazioni rese al Csm - nel 1991 - dal primo cittadino del capoluogo siciliano sulle frequentazioni del magistrato ora in pensione. In particolare i supremi giudici (sentenza 5146) hanno disposto l'annullamento della sentenza con la quale la Corte di Appello di Roma aveva escluso che Orlando avesse diffamato Giammanco riferendo al Csm - su richiesta di Palazzo dei Marescialli - le voci che circolavano a Palermo sull'esistenza di rapporti, di affari o di amicizie comuni tra magistrati di uffici penali, politici e imprenditori “nominati” per il loro supposti rapporti con la mafia. Orlando riferi' quanto – in merito - era giunto alle sue orecchie, compresa la conoscenza di Giammanco con gli onorevoli Lima e D'Acquisto. Nel giudizio di primo grado per aver riferito queste voci Orlando fu condannato a 30 milioni per risarcimento danni. Ma in appello fu del tutto scagionato poiche' si era solo limitato a rispondere alle sollecitazioni del Csm. Tuttavia la Cassazione e' stata di diverso avviso e ha stabilito che la Corte di Appello romana riveda la sua pronuncia. Vana e' stata la difesa di Orlando che - tra l'altro - protestava perche' in Cassazione, quando fu iscritta a ruolo questa causa, Giammanco vi rivestiva il grado di consigliere. Orlando aveva protestato “l'evidente disparita' di trattamento per chi, proprio nell'ultimo decisivo grado, deve sottoporsi al giudizio di componenti di un collegio che con una delle parti hanno quotidiana dimestichezza”. Adesso le carte ritornano alla Corte di Appello di Roma che dovra' decidere se a Giammanco spetti o meno la liquidazione per il danno alla sua reputazione.

7 maggio - Bruno Contrada dichiara: “Non vedo per quale motivo il pm Antonio Ingroia che sostenne l' accusa nel processo di primo grado debba ancora ripetere tesi accusatorie che ormai non hanno piu' ragione d' essere”. “Dal momento in cui la Corte d' appello ha pronunciato la sentenza di assoluzione - ha sostenuto Contrada - non ho pronunciato una sola parola sulla Procura di Palermo ne' suoi suoi componenti”. E ha affermato che “il dottor Ingroia deve considerare che la formula dell' assoluzione e' la piu' ampia possibile, quella 'perche' il fatto non sussiste’”. Contrada ha poi affermato: “E' apprezzabile quel che ha dichiarato il procuratore generale Salvatore Celesti: che solo dopo la lettura delle motivazioni della sentenza il suo ufficio valutera' se proporre o meno ricorso per Cassazione” e ha poi riservato un accenno polemico al magistrato svizzero Carla Del Ponte che, testimoniando nel primo processo, riferi' che Giovanni Falcone le aveva parlato di dubbi sul fatto che il dirigente di polizia potesse aver agevolato la fuga dell' industriale Oliviero Tognoli accusato di riciclaggio di denaro. Contrada ha detto: “Non posso fare a meno di considerare che anche il dogma dell' infallibilita' del Papa ha subito qualche scossone”.

7 maggio - Il Gup di Palermo Alfredo Montalto ha disposto un supplemento di indagine sul caso del parlamentare di Forza Italia Marcello Dell'Utri, accusato di aver calunniato i collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo, Domenico Guglielmini e Francesco Onorato. Il giudice, dopo quasi quattro ore di camera di consiglio, ha rinviato all' 8 giugno prossimo, decidendo di approfondire una dichiarazione fatta da Cosimo Cirfeta, imputato con l' ex presidente di Publitalia, circa un biglietto sequestrato in in carcere al pentito Vito Lo Forte da agenti della polizia penitenziaria. Il gup ha invece rinviato a giudizio Rosario D' Agostino e Enrico Di Grusa, imputati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Il loro processo e' stato fissato per il 17 settembre davanti ai giudici della quinta sezione del tribunale. Marcello Dell' Utri e' accusato in concorso con i pentiti Cosimo Cirfeta e Giuseppe Chiofalo (quest' ultimo ha chiesto e ottenuto il patteggiamento della pena e la sua posizione pertanto e' stata stralciata) di avere ideato un piano per far ritenere inattendibili i collaboratori della giustizia che lo accusano nel processo in cui da tre anni e' imputato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l' accusa il piano, sempre negato da Dell' Utri ma confermato da alcuni detenuti, risale al 1998. I reclusi riferirono di esserne stati informati in prigione da compagni di detenzione fra i nquali gli stessi Cirfeta e Chiofalo. L' inchiesta fu inserita dai pm nella richiesta di custodia cautelare per Dell' Utri, Cirfeta e Chiofalo che il gip di Palermo accolse. Il provvedimento venne poi inviato al Parlamento per l' autorizzazione a procedere, ma la Camera respinse la richiesta di arresto di dell' Utri. L' integrazione delle indagini era stata chiesta al gup dai difensori di Marcello Dell' Utri, gli avvocati Pietro Federico e Giuseppe Di Peri. Il giudice ha disposto che i pm accertino l' esistenza o meno di un biglietto che, secondo i difensori, sarebbe stato consegnato ad un detenuto, Mario Masecchia, per farlo recapitare al pentito Francesco Onorato. Il messaggio, secondo gli avvocati, conteneva indicazioni sulle dichiarazioni che il pentito doveva fare. Il collegio di difesa, in una nota, “si dichiara estremamente soddisfatto delle decisione del gup e dimostra che le indagini compiute dai pm sulla esistenza delal combine fra collaboratori di giustizia non erano affatto complete”.

7 maggio - E' in corso da questa mattina la perizia sul cosiddetto 'tesoro' di Toto' Riina, in vista della sua vendita. E' quanto rende noto il commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati a organizzazioni criminali, Margherita Vallefuoco. “Il tesoro di Riina non si trova 'ricoverato in alcuni scatoloni' - sottolinea Vallefuoco riferendosi a quanto scritto dal “Messaggero” - ma al sicuro in alcune cassette di sicurezza di un importante istituto di credito, gia' diviso in lotti. E proprio questa mattina periti estranei ai cosiddetti 'condizionamenti ambientali' coadiuvati da personale dell' Agenzia del Demanio e di questo ufficio stanno effettuando una nuova perizia, propedeutica alla vendita dei preziosi”. Il cosiddetto 'tesoro' di Riina, diamanti, perle, anelli, collane, gioielli di vario tipo e lingotti d' oro, era stato trovato, nel settembre del 1996, in un appartamento di una persona di fiducia del boss a Castelvetrano, un paese della provincia di Trapani.

7 maggio - L' avvocato Grazia Volo, legale dell'ex ministro Dc accusato di concorso in associazione mafiosa, aprendo in tribunale a Palermo le arringhe difensive, afferma che “L'accusa contro Calogero Mannino e' stata condotta dalla Procura con le stesse argomentazioni degli avversari politici di Mannino”. “E' un disegno che viene da lontano - ha aggiunto il legale - e costituisce una parte polverosa di questo processo”. Secondo l' avvocato Volo, in un articolo pubblicato dal settimanale L'Espresso all'inizio degli anni '80 sarebbero stati gia' condensati le tesi e gli elementi di accusa poi comparsi negli atti processuali. “Un articolo ispirato da Salvatore Sciangula - ha aggiunto – nel quale si citavano i presunti appoggi dei cugini Salvo e di Graziano Verzotto a Mannino, necessari, c' era scritto, per il suo arrivo al governo, le sue presenze al matrimonio di Caruana e alla cena con i medici militari cui avrebbe partecipato anche il boss Giuseppe Settecase. Tutti elementi di accusa che avremmo ritrovato nelle carte processuali”. “Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sull' ex ministro dc Calogero Mannino sono generiche, inattendibili, vaghe”. Cosi', l' avvocato Grazia Volo ha bollato le accuse rivolte dai pentiti al politico democristiano. Il legale, che nel pomeriggio ha continuato l' arringa, ha esaminato nel dettaglio le deposizioni rese da pentiti come Giovanni Drago, Gaspare Mutolo, Leonardo Messina, Francesco Di Carlo, Giuseppe Croce Benvenuto e Giovanni Calafato. “Nessuno di loro - ha detto la penalista - parla di fatti specifici, riferisce accuse concrete”. L' avvocato Volo si e' pure soffermata sui presunti rapporti telefonici tra l'ex ministro e Giuseppe Grassonelli, boss della Stidda. Da intercettazioni risulterebbe una chiamata dal cellulare del mafioso alla segreteria del politico dc. Secondo la difesa, pero', che a sostegno della sua tesi cita risultati di indagini, nel giorno in cui la telefonata sarebbe stata fatta, Mannino era a Sciacca, quindi non avrebbe avuto modo di parlare con Grassonelli.

7 maggio - Esce in questi giorni per la Germano Edizioni il libro di Aldo Ricci sull'assassinio di Mauro Rostagno, 'Il Tonto'. Il libro - come anticipo' un servizio dell'Espresso - doveva essere pubblicato ad aprile scorso per la Bollati ma la casa editrice decise che non rientrava piu' nei suoi programmi. L'autore - un ex sessantottino che vive da anni a New York - denuncio' dalla pagine del settimanale l'intervento di “uno noto lottatore continuo, molto influente”. Lo stesso Ricci ricordo' che, prima della Bollati, diversi altri editori avevano detto di si' al romanzo per poi fare marcia indietro. Il libro - che sara' presentato in una conferenza stampa l’ 8 maggio - racconta in forma di romanzo la morte di Rostagno, ex Lc e fondatore della comunita' di Saman, e le “oscure manovre che l'hanno preceduta e seguita”. Le ipotesi avanzate dall'autore sono due e non riguardano la mafia come in un primo tempo si era pensato per l'omicidio di Rostagno. La prima e' che, ad armare la mano che uccise Rostagno sarebbe stato Francesco Cardella, che aveva in mano la comunita' di Saman, i cui “interessi nel traffico di tangenti, armi e droga potevano essere stati scoperti da Rostagno”. La seconda, e' che la regia e/o la complicita' nel delitto potessero essere attribuite a qualche ex di Lotta continua “alla vigilia della imprevedibile deposizione di Rostagno al processo Calabresi oggi chiuso”. La morte di Rostagno rappresenta fino ad oggi un caso insoluto, anche se l'inchiesta della magistratura procede.

7 maggio - “Prescindendo da qualunque fatto personale, c' e' stata una serie di cose incomprensibili e illogiche”. Il senatore a vita Giulio Andreotti, a Firenze per una iniziativa elettorale di Democrazia Europea, di cui e' presidente onorario, commenta la vicenda Contrada sottolineando il comportamento della procura di Palermo, allora retta da Giancarlo Caselli. “Uno dei testimoni a favore piu' forti di Contrada – ricorda Andreotti - fu l' allora capo della polizia Vincenzo Parisi che poi mori'. Il giorno del suo funerale, direi curiosamente, durante la cerimonia funebre in Santa Maria degli Angeli, dopo il cardinale e l' allora ministro dell' interno, Roberto Maroni, prese la parola il dottor Caselli, che in realta' non c' entrava perche' lui era procuratore a Palermo”. “Caselli – ricorda ancora Andreotti - fece di Parisi un elogio straordinario, che puo' ancora essere letto sui giornali di allora, e tutti i presenti ritennero percio' che l' accusa nei confronti di Contrada sarebbe stata ritirata e che il processo sarebbe finito”. “Manco per sogno - aggiunge il senatore a vita -; il processo continuo' e nella requisitoria finale del procuratore, che non era Caselli ma un suo sostituto, si disse, e anche questo e' agli atti, che buon per lui che Parisi era morto altrimenti avrebbero dovuto processarlo per falsa testimonianza”. “Il processo Contrada - conclude Andreotti - fa parte della storia un po' particolare di questi anni; si fara' fatica in futuro a capire perche' si e' dovuto fare una legge sul processo giusto”. “Quanto a Contrada, si e' fatto dieci anni di processo e la prigione, la sua vita e' stroncata e nessuno gliela puo' restituire”.

8 maggio - Grazia Volo, legale dell' ex ministro Calogero Mannino, imputato di concorso in associazione mafiosa, bolla come vaghe e inattendibili le accuse del pentito Angelo Siino. "Le dichiarazioni di Angelo Siino su Mannino sono state considerate dalla Procura il Verbo. In realta' si e' limitato a indulgere in gigionerie e insinuazioni". L' avvocato Volo ha poi passato in rassegna testimonianze dei collaboratori di giustizia Salvatore Cangemi, Raffaele Ganci, Pasquale Salemi e Salvatore Zanca, definendole "generiche e non riscontrate". In particolare - secondo il difensore - dagli interrogatori di Cangemi, ex boss del rione Porta Nuova, nessun fatto specifico a carico di Mannino sarebbe emerso. "Il pentito - ha affermato il legale - si e' servito di luoghi comuni, di espressioni generiche, ha parlato di non ben definiti favori chiesti dalla mafia all' imputato, rivelando tutta la sua naturale attitudine alla reticenza". La difesa si e' anche occupata criticamente di quanto disse Pietro Bono, collaboratore di giustizia del trapanese. E a questo riguardo l' avvocato Volo ha contestato alla Procura di non avere depositato un verbale relativo a un interrogatorio al quale Bono era stato sottoposto e dal quale sarebbero emerse varie contraddizioni. "Bono - ha rilevato Grazia Volo- e' stato smentito piu' volte e le sue accuse nei confronti di vari personaggi sono state smentite da un decreto di archiviazione del giudice per le indagini preliminari. E anzi cogliamo l' occasione per chiedere al tribunale agli atti tutto il fascicolo su Bono". L' avvocato Volo ha anche negato che, quando fu assessore regionale alle Finanze, Calogero Mannino abbia in alcun modo agevolato gli esattori delle tasse Nino e Ignazio Salvo poi accusati di mafia.

9 maggio - Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo Borsellino, fa parte del comitato dei garanti del neo movimento "Primavera Siciliana", che proporra' candidati nelle prossime elezioni regionali e appoggera' alla presidenza Leoluca Orlando. "In un momento come questo - dice Rita - non si puo' stare a guardare alla finestra, bisogna dire da che parte stare. In questi anni ho dovuto fare gli equilibrismi per evitare di alienarmi le persone con le quali dovevo dialogare, perche' volevo parlare con tutti e non essere discriminata perche' appartenevo ad uno schieramento politico". Il portavoce di Primavera siciliana, Stefano Vivacqua, ex presidente della Provincia di Agrigento, ha spiegato che i garanti di questa lista hanno incontrato i responsabili del centrosinistra e chiarito "ogni nostra intenzione". Primavera siciliana - dice Vivacqua - e' un fenomeno politico che attende la verifica delle elezioni di giugno".

9 maggio - Nel ventitreesimo anniversario della morte di Peppino Impastato, il Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Giuseppe Lumia dice che "per la prima volta, dopo tanti anni, la famiglia, gli amici e quanti si sono battuti per far conoscere all'Italia la storia di Peppino Impastato, potranno trascorrere questa giornata con maggiore serenita'". "In quest'ultimo anno, infatti - ha aggiunto Lumia - sono successe tante cose belle e importanti. C'e' stata per la prima volta una condanna di mafiosi per l'omicidio Impastato. C'e' stato un film che ha raccontato con passione la vicenda umana e politica di una ribellione alla mafia portata avanti in un piccolo paese della Sicilia, riscuotendo un grande successo di pubblico ed arrivando a rappresentare l'Italia agli Oscar". E, ancora, "sono particolarmente soddisfatto - ha sottolineato il presidente dell'Antimafia - perche' la Commissione da me presieduta ha approvato, con il voto di tutti i partiti politici, una relazione del sen. Russo Spena che ha ricostruito tutte le fasi successive al delitto, testimoniando che fin da subito si sarebbe potuto risalire ai mandanti dell'omicidio. Per la prima volta abbiamo riconosciuto in un atto ufficiale dello Stato Italiano che sulla vicenda del delitto Impastato ci furono pezzi dello Stato che non fecero fino in fondo il loro dovere, cominciando a restituire a Peppino Impastato quella dignita' che la mafia aveva cercato di togliergli".

9 maggio - Claudio Fava, europarlamentare e segretario siciliano dei Ds, nell' intervista contenuta nel numero di "Collezione cinematografica", edito dalla Generalvideo, di imminente uscita e dedicato al film "Il sasso in bocca" di Giuseppe Ferrara, dichiara che "E' in atto, da parte della mafia, il tentativo di una nuova colonizzazione nei confronti della politica. E i nuovi referenti ci sono gia'". "Sono convinto - continua Fava, secondo le anticipazioni fornite dalla rivista - che alcuni candidati a queste elezioni siano candidati ad essere referenti politici della mafia. Sono anche convinto che alcuni processi in corso non siano processi a vittime di una giustizia di parte, ma siano accertamenti di verita' giudiziaria nei confronti di chi ha colluso, collude e intende continuare a colludere anche in futuro con la mafia". Nell' intervista Fava analizza i mutamenti in corso nei rapporti tra mafia e politica evidenziando che "c'e' una continuita' tra alcuni partiti odierni e il sistema politico di un tempo che ruotava intorno alla Dc" e che "in Sicilia vedeva nella corrente andreottiana un punto di riferimento organico e strategico per gli interessi della mafia". "E' chiaro - dice Fava - che Forza Italia, nei fatti oltre che nei  voti, ha ereditato in parte questa funzione, che oggi credo sia meno organica, mancando le occasioni di sottogoverno, avocata individualmente da alcuni pezzi dei partiti: come le vicende del processo Matacena o del processo Dell' Utri".

9 maggio - Una petizione per il reintegro del capitano 'Ultimo' nel Ros dei carabinieri e' stata consegnata al ministero dell' Interno. L' iniziativa e' del mensile 'Antimafia 2000', che ha raccolto le 2.101 firme della stessa petizione: "Si tratta di un segnale importante che arriva dai cittadini comuni - scrive il mensile - che non dimenticano l' importante lavoro svolto da Ultimo e dai suoi uomini". Il capitano 'Ultimo', oggi maggiore, e' l' ufficiale dei carabinieri che diresse le operazioni che portarono alla cattura di Toto' Riina. Dopo aver lasciato il Ros dei carabinieri, e' attualmente impegnato nel Noe, il nucleo operativo ecologico dell' Arma.

9 maggio - Intervenendo a Milano alla presentazione del libro di Nicola Tranfaglia "La sentenza Andreotti", edito da Garzanti, sulla sentenza al processo di primo grado a Palermo, Antonio Ingroia, pm a Palermo al processo di primo grado a Bruno Contrada, parla di "oscillazioni della magistratura" corrispondenti "al livello di tensione politica nella lotta alla mafia". "Le violente campagne mediatiche - dice - generano timidezza nella magistratura" e "dopo la stagione delle stragi e delle condanne, e' venuta quella delle assoluzioni". Ingroia precisa che le sue considerazioni non si riferiscono ne' al processo Andreotti ne' a quello all' ex capo del Sisde in Sicilia. Il magistrato esordisce sostenendo che "la sovraesposizione mediatica del ruolo del Pm implica che vengano attribuiti alla Procura della Repubblica successi e insuccessi. Si e' detto che la strategia della Procura e' fallita: io non credo che sia andata cosi' e, comunque, gli uffici giudiziari non si muovono seguendo strategie ma valutando gli elementi di prova nello stesso modo per tutti i cittadini". Il magistrato ricorda che quegli elementi sono stati valutati dai giudici i quali, per Andreotti, li hanno ritenuti sufficienti per il rinvio a giudizio, per Contrada abbastanza solidi per un'ordinanza di custodia cautelare in carcere e per una condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma ora, aggiunge, "dopo la stagione delle tante condanne che ha seguito le stragi, ora siamo in quella delle tante assoluzioni". Ingroia svela i risultati di una sua personale ricerca: "negli ultimi 50 anni di processi alla mafia - spiega - ci sono state delle oscillazioni nell'orientamento della magistratura. Nel processo c'e' uno spazio in cui un fatto puo' essere interpretato in un modo o nell'altro. Ho notato che la valutazione del contesto in cui un reato viene commesso cambia negli anni. Ad un allentamento della tensione nella lotta alla mafia, corrisponde uno scompenso nell' applicazione della legge". Per spiegare questo concetto, il Pm fa un esempio: "grandi passi avanti nella lotta alla mafia sono stati fatti dopo l'assassinio del gen. Dalla Chiesa quando, con la legge Rognoni-La Torre, fu introdotto l'art. 416 bis, quello sull' associazione a delinquere di tipo mafioso, che porto' a una lunga serie di condanne nel maxi-processo. Ma gia' allora i giuristi dissero che si sarebbero potute ottenere le stesse condanne anche prima dell' introduzione del 416 bis". "Quando - aggiunge Ingroia - in vari momenti storici le emergenze per i morti lasciati sulle strade hanno messo in difficolta' il potere politico, quest' ultimo ha investito nella lotta alla mafia delegando molto alla magistratura. Quando, pero', le indagini hanno portato a un disvelamento di verita' scomode, allora quella delega e' stata ritirata e la magistratura si e' ritrovata senza armi. E' il caso del pool Falcone-Borsellino che, dopo grandi risultati, e' stato attaccato quando ha svelato le collusioni tra mafia e potere". Ingroia conclude chiedendo al potere politico "un impegno per un'inversione di tendenza. Che faccia la sua parte e introduca nuove forme di reato che puniscano, ad esempio, il sostegno esterno all'associazione mafiosa".

9 maggio - "In questo processo abbiamo assistito a una criminalizzazione della politica italiana". Comincia cosi' l' arringa dell' avvocato Salvo Riela in difesa di Calogero Mannino, l' ex ministro DC accusato di concorso in associazione mafiosa. "E' un processo politico che ha avuto ad oggetto solo fatti politici e i pm in tutti questi anni, si sono rivolti alla politica in modo dispregiativo", ha aggiunto accennando alla lunga carcerazione preventiva a cui l' imputato fu sottoposto. "Mannino aveva fiducia nei pm - ha anche detto il penalista - e dal carcere chiese al procuratore Caselli di essere interrogato. Da quell'interrogatorio pero' la procura forse si aspettava certe risposte e, quando si accorse che non aveva di fronte un collaboratore di giustizia, l' ex ministro torno' in cella. Non si puo' bollare il gruppo politico vicino a Mannino come un' associazione per delinquere. E' vero che alcuni personaggi meritavano l' applicazione del codice penale, ma non si puo' generalizzare". Sui presunti rapporti dell'imputato con mafiosi, sostenuti dai pm e sempre negati da Mannino, l'avvocato Riela ha affermato che "in Sicilia, specie nel passato, i politici venivano circuiti, blanditi ma non potevano rendersi conto di chi fossero i loro interlocutori; era lo Stato ad avere l' obbligo di accertare chi fosse o meno mafioso, ma troppo spesso non l'ha fatto, per complicita' o inerzia. Se lo Stato avesse svolto i suoi compiti, assicurando alla giustizia personaggi come quelli che secondo l' accusa l' hanno incontrato, Mannino non avrebbe subito le aggressioni a cui e' stato sottoposto". L' avvocato Riela ha anche tratteggiato la figura politica di Mannino, ricordando le tappe fondamentali della sua carriera che l' hanno visto fra l' altro ministro dei Trasporti, della Marina Mercantile, dell' Agricoltura, del Mezzogiorno, membro della direzione Dc e segretario siciliano della Dc e in precedenza assessore regionale alle Finanze. "Non si giudica Mannino per la sua vita privata- ha detto il legale, sottolineando che nella ricostruzione dei pm nessun fatto specifico viene attribuito all' imputato- ma solo per quella pubblica".

10 maggio - "Falcone? Al Csm Caselli voto' contro di lui" ha detto Filippo Mancuso. "Ricordi male - ha ribattuto Violante - Caselli voto' a favore, a pronunciarsi contro furono altri di Md". Si e' acceso sull'eredita' morale di Giovanni Falcone e sugli attacchi che subi' in vita l'unico scontro tra Filippo Mancuso (Forza Italia) e Luciano Violante (Ds), entrambi parlamentari ex giudici impegnati in schieramenti opposti. I due deputati hanno partecipato oggi ad un dibattito televisivo, moderato dalla giornalista Donatella Palumbo, negli studi dell'emittente privata Trm di Palermo insieme con il segretario regionale di Rifondazione Comunista Francesco Forgione. Lo scontro si e' acceso sull'ultima domanda che ha innescato una battuta di Violante: "quando si muore va tutto benissimo - ha detto in relazione al fatto che l'esperienza antimafia di Falcone e' diventata patrimonio comune di destra e sinistra - e' quando si vive che va tutto male", riferendosi agli attacchi subiti in vita dal giudice ucciso a Capaci. Mancuso ha replicato sostenendo che Caselli, definito 'querelatore abituale', voto' contro di lui al Csm, ma Violante lo ha corretto. Ed, in effetti, nella contesa Falcone-Meli, candidati entrambi nel 1988 alla guida dell'ufficio istruzione di Palermo, Gian Carlo Caselli voto' per Falcone contro le indicazioni della sua corrente.

10 maggio - Il killer Salvatore Cucuzza, che si e' autoaccusato dell' omicidio dell' onorevole Pio La Torre, segretario regionale del Pci, e del suo autista Rosario Di Salvo, e' stato condannato dal gup Gioacchino Scaduto con il rito abbreviato a otto anni di reclusione. Il delitto venne compiuto a Palermo il 30 aprile 1982. Cucuzza, che e' un collaboratore di giustizia, ha subito confessato il delitto, ed ha indicato ai magistrati i componenti del gruppo di fuoco: Giuseppe Lucchese, Antonino Madonia e Giuseppe Galatolo. Il gip ha archiviato la posizione di Galatolo, mentre per Lucchese e Madonia la procura ha chiesto il rinvio a giudizio. L' udienza preliminare deve essere ancora fissata. L' inchiesta e' stata coordinata dal sostituto procuratore della Dda Maurizio De Lucia. Il racconto di Cucuzza, che all' epoca dei fatti aveva 21 anni, e' il primo che e' stato fatto da un killer di un omicidio politico-mafioso. Interrogato dai magistrati, Cucuzza ricostruisce l' agguato: "Al delitto abbiamo preso parte - dice - io, Gaetano Carollo della Famiglia di Resuttana, che forse allora era il sottocapo, Nino Madonia, Pino Greco, Lucchese ed almeno uno dei Galatolo, non posso pero' escludere che con funzioni di copertura vi fosse altra gente, della cui presenza io pero' non sono a conoscenza". "Madonia - ha detto il pentito - mi disse che avremmo dovuto attendere in piazza Turba e quando ha visto arrivare la macchina con a bordo La Torre ha messo in moto l' auto tagliando la strada alla vettura del politico e bloccandola. Sono sceso dall' auto e mi sono piazzato davanti a La Torre sparandogli con la mia colt 45: un solo colpo al segretario del Pci e tutti gli altri all' autista, che avevo notato avere un' arma". Cucuzza ha descritto nei dettagli anche il ruolo dei complici: "Pino Greco armato di un mitra ha sparato sull' autista e poi su La Torre perche' era ancora vivo". Sul movente dell' omicidio il pentito ha detto di non avere alcuna informazione utile, considerato anche che, tra l' altro, ha appreso solo il giorno dopo dai giornali che aveva assassinato l' onorevole Pio La Torre. "Da alcune conversazioni avute con Pino Greco - spiega Cucuzza - appresi che uomini politici avevano indicato a Cosa nostra che l' eliminazione di La Torre avrebbe impedito o quantomeno attenuato il rigore della legge sul sequestro dei beni". "Posso dire - precisa il collaboratore - che la persona che fece questi discorsi ad uomini di Cosa nostra, doveva essere un politico, poiche' Pino Greco mi fece espresso riferimento all' attivita' svolta da La Torre, il quale prese per il bavero della giacca altri esponenti politici al fine di indurli energicamente ad approvare la legge". "A rivelarlo a Greco - ha concluso Cucuzza - doveva essere stato un testimone oculare". La cupola mafiosa, considerata come mandante dell' omicidio, e' stata gia' condannata.

10 maggio - La Regione Sicilia ha deciso di bloccare l' assunzione del giovane Nicola Di Matteo, figlio del pentito Santino Di Matteo e fratello di Giuseppe, il quale all' eta' di 12 anni fu rapito e poi ucciso dalla mafia. Lo dichiara a "Radio24" Orazio Aleo, responsabile del personale dell' ente. Nicola Di Matteo aveva chiesto di ottenere uno dei posti riservati ai parenti delle vittime della mafia. "Il prefetto di Palermo Renato Profili - ha spiegato Aleo - mi ha fatto sapere che allo stato attuale appare evidente che il riconoscimento di Nicola Di Matteo quale familiare di vittima innocente di organizzazione mafiosa e' in una fase interlocutoria. Cio' significa che questo riconoscimento, che avviene tramite una particolare attestazione rilasciata dalle prefetture - ha precisato Aleo - non c' e' ancora. Cade, quindi, il presupposto perche' allo stato attuale il giovane Di Matteo possa essere assunto presso la Regione". "Comunque - ha concluso il responsabile del personale della Regione Sicilia - non avremmo mai permesso che il giovane Di Matteo lavorasse accanto ai familiari di altre vittime di mafia, come ad esempio Tina Martinez, vedova dell' agente di polizia Antonio Montinaro, morto nella strage di Capaci".

11 maggio - Il Consiglio di Stato spagnolo ha stabilito che la richiesta di sospensione dell'immunita' europarlamentare di Silvio Berlusconi presentata dal giudice Baltasar Garzon non ha seguito l'iter indicato dalla legge. Secondo il Consiglio, la richiesta - presentata da Garzon contro Berlusconi e Marcello Dell'Utri, nel quadro dell'inchiesta sul caso Telecinco - deve passare attraverso il ministero della Giustizia e degli Esteri, e non direttamente dal tribunale supremo al Parlamento europeo. La richiesta di Garzon era stata rifiutata dall'ufficio della presidenza dell'assemblea di Strasburgo, appunto perche' esistevano dubbi sulla validita' dell'iter seguito dalla pratica giudiziaria. Commentando la decisione del Consiglio, il ministro degli Esteri spagnolo Josep Pique' ha sottolineato che e' stata presa a maggioranza, con l'opinione contraria di cinque membri di questo organismo, il che dimostrerebbe che “si tratta di una questione legalmente complessa, nella quale c'e' spazio per molti dubbi”. Dopo la decisione del Consiglio, ha aggiunto Pique', “appena possibile comunicheremo questa presa di posizione ufficiale al Parlamento europeo: questa e' la posizione del governo spagnolo, ma e' il Parlamento europeo, in quanto organismo a cui la richiesta e' diretta, che deve stabilire quale procedimento deve essere seguito”. Interrogato sulla possibile evoluzione dell'inchiesta contro Berlusconi e Dell'Utri - per presunte irregolarita' nella gestione di Telecinco, tv privata spagnola di cui Fininvest possiede una quota - Pique' si e' limitato a dire: “Rispettiamo le procedure della giustizia chiunque sia raggiunto da esse, e qualsiasi altro commento sarebbe inopportuno”.

12 maggio - Dopo Silvio Berlusconi e Mediaset anche il Gruppo parlamentare di Forza Italia alla Camera ha chiesto un risarcimento per la puntata di "Satyricon" del 14 marzo in cui si e' parlato del libro "L'odore dei soldi". I deputati forzisti, secondo quanto si apprende in ambienti giudiziari torinesi, hanno chiesto dieci miliardi di lire (in solido) a uno degli autori del volume, il giornalista Marco Travaglio, al conduttore Daniele Luttazzi, al direttore della seconda rete Rai Carlo Freccero, e all' azienda "in persona del legale rappresentante". Berlusconi aveva chiesto venti miliardi, Mediaset cinque. Forza Italia ritiene che durante la trasmissione si sia cercato di "ingenerare una immagine distorta e inveritiera del movimento politico" e questo "insinuando che lo stesso sia stato costituito al solo scopo di fornire una copertura ad affari illegittimi e istituire un mezzo per realizzare profitti maggiori alle aziende dell'on. Berlusconi". La causa e' stata promossa davanti al tribunale civile di Roma. "Quando il Governo del Polo - ha commentato Travaglio - decidera' la priorita' dei reati da perseguire, spero che collochi al primo posto la diffamazione ai danni del Presidente del Consiglio e dei suoi cari. Se proprio non avranno niente di meglio da fare, i magistrati potranno occuparsi di corruzione e mafia nei ritagli di tempo".

12 maggio - L' avvocato Salvo Riela, conclude la sua arringa difensiva chiedendo l' assoluzione dell' ex ministro dc Calogero Mannino, accusato di concorso in associazione mafiosa, con la formula "il fatto non sussiste". Il legale ha ribadito cosi' quanto gia' chiesto dall' altro difensore, Grazia Volo. Nei tre giorni della sua arringa, l' avvocato Riela ha sostenuto l' assoluta innocenza dell' uomo politico (ora e' presidente del Cdu siciliano). Tre in particolare le questioni poste oggi dal penalista: nessun rapporto con mafiosi ne' con collusi; nessun "patto" tra Mannino e i boss; l' imputato non aveva bisogno del sostegno elettorale di Cosa Nostra perche' otteneva molti voti grazie a un vasto consenso politico. "Dalle risultanze dibattimentali - ha rilevato Riela - emerge che Mannino non ha mai avuto rapporti con esponenti della criminalita' organizzata. Tutt' al piu' puo' avere avuto rapporti di natura politica con personaggi solo successivamente sospettati". "L' accusa non ha dimostrato l' esistenza di un solo favore fatto dalla mafia a Mannino", ha anche detto aggiungendo: "La sua forza elettorale e' stata sempre ampia e diffusa, per cui non ha mai cercato voti che comportassero compromessi o pericolo". Il difensore ha rivendicato per Mannino un ruolo di protagonista dell' antimafia: "Si e' sistematicamente e fattivamente impegnato - ha sostenuto - nello sforzo di liberare la Sicilia dall' infezione mafiosa e questo l' hanno riconosciuto personalita' illustri come un presidente della Repubblica, ministri, prefetti, Alti commissari, ufficiali dei carabinieri, non Sciabica e Calafato". Quest' ultimo riferimento il legale l' ha fatto a due tra i pentiti che hanno reso dichiarazioni su Mannino. L' avvocato Riela e' stato assai critico nei confronti dei pentiti di mafia: "Abbiamo pena per loro e abbiamo pena maggore per chi li induce a tanto, facendo correre rischi alla credibilita' della giusizia". Il presidente Leonardo Guarnotta ha rinviato il processo al 25 giugno per le repliche dei pm (il 28 aprile scorso hanno chiesto la condanna dell' ex ministro a 10 anni di reclusione) e quelle eventuali dei difensori.

14 maggio - La seconda sezione della Corte d' Assise d'Appello di Catania, su richiesta della Procura, ripristina la custodia cautelare in carcere per cinque presunti esponenti del clan Santapaola, tra cui Francesco Giammuso, 47 anni, condannato in primo grado all' ergastolo per l'omicidio del giornalista Giuseppe Fava, scarcerati il 12 maggio per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Le altre persone nei confronti dei quali il provvedimento e' stato ripristinato sono Carmelo Coco, di 41 anni, Vincenzo Santo Scalia, di 41, Ernesto Marletta, di 42, e Mario Giuseppe Privitera, di 36. Erano stati arrestati durante l' operazione 'Orsa maggiore 3'. In primo grado tutti sono stati condannati all' ergastolo con isolamento diurno perche' ritenuti responsabili, a vario titolo, di concorso in omicidio. A tutti e cinque il provvedimento restrittivo e' stato notificato poche ore dopo aver lasciato il carcere di Bicocca. Claudio Fava, segretario regionale siciliano dei Ds e figlio del giornalista ucciso, commenta:"Sarebbe stato difficile sul piano del buon senso e della giustizia accettare le ragioni di questa scarcerazione. La burocrazia giuridica non puo' prevalere sulla certezza del diritto e della pena". In primo grado, il 18 luglio del 1998, la prima corte d' Assise commino' la condanna a vita al capomafia Benedetto Santapaola, ritenuto il mandante, ad Aldo Ercolano, come esecutore materiale, e a Marcello D' Agata e Francesco Giammuso, indicati come gli organizzatori del delitto. Cinque giorni dopo, in un processo stralcio, la seconda corte d' assise condanno' all' ergastolo Vincenzo Santapaola, nipote del boss 'Nitto', che avrebbe fatto parte del commando. Il processo fu incardinato sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Avola, che per l' omicidio fu condannato, con il rito abbreviato, il 17 gennaio del 1996, dal Gip Antonino Ferrara, a sei anni e sei mesi di reclusione. Il 'pentito', durante una deposizione pubblica, sostenne che Giuseppe Fava fu assassinato "per fare un favore ai cavalieri del lavoro costruttori di Catania e al boss palermitano Luciano Liggio".

15 maggio - Il Sostituto Procuratore Generale Leonardo Agueci chiede otto anni di reclusione per l' ex presidente della prima sezione penale della Cassazione, Corrado Carnevale. Il magistrato, assolto in primo grado, e' accusato di concorso in associazione mafiosa. Carnevale, fra l' altro, e' attualmente al primo posto in graduatoria per l' incarico di primo presidente della Corte di Cassazione. Il pg nelle quasi otto ore di requisitoria ha parlato di "esasperata ricerca dell' errore" nelle sentenze di condanna dei mafiosi e di "meccanismi per 'aggiustare' i processi", da parte di Carnevale. L' accusa ha citato le dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia, fra i quali Giuseppe Marchese, Giovanni Brusca e Angelo Siino che hanno indicato Corrado Carnevale come la persona sulla quale ha detto Agueci "Cosa nostra si affidava per annullare le sentenze di condanna". Il pg ha puntato sull' attendibilita' del giudice Antonio Manfredi La Penna, ex collega di Carnevale, il quale ha sostenuto che i magistrati della prima sezione penale "per non fare un torto al presidente seguivano la sua linea". Agueci ha sottolineato "il forte ascendente che Carnevale aveva sui colleghi" e ha aggiunto che li avrebbe portati a seguire le sue decisioni in camera di consiglio, "stabilendo inoltre l' orientamento dei vari collegi alla ricerca dello spunto per annullare il verdetto". Il sostituto procuratore generale si e' poi riferito criticamente alla  sentenza con la quale furono revocati gli ergastoli per l' omicidio a Monreale del capitano dei carabinieri Emanuele Basile e ha analizzato la testimonianza di alcuni dei magistrati che deliberarono in camera di consiglio la prima e la seconda sentenza del processo Basile. La sezione penale della Cassazione, presieduta da Carnevale, nel febbraio 1987 annullo' gli ergastoli per Vincenzo Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia, "per l' omesso avviso a taluni difensori della data di estrazione dei giudici popolari". "I riscontri alle dichiarazioni - ha affermato il pg Agueci - ci sono, e gli elementi d' accusa sostengono la richiesta d' appello formulata dalla procura". Il processo e' in corso davanti ai giudici della corte d' appello, presieduta da Vincenzo Oliveri (a latere Biagio Insacco), e' stato rinviato al 23 maggio prossimo per le arringhe dei difensori. La sentenza e' prevista per fine mese.

15 maggio - Il principe Vincenzo Vanni Calvello di San Vincenzo e' stato assolto dall' accusa di concorso esterno in associazione mafiosa dal tribunale di Palermo, presieduto da Giuseppe Nobile. Sono stati invece condannati per favoreggiamento a tre anni altri due imputati: l' ortopedico Rosario Mandala' e Loreto Di Fina. Vanni Calvello appartiene a una delle famiglie piu' blasonate della nobilta' siciliana. Il principe, figlio di Alessandro, condannato nel maxiprocesso a Cosa Nostra, era accusato di avere avuto legami con il boss di Corso dei Mille Lorenzo Tinnirello, mentre era latitante. Nei suoi confronti la Procura aveva raccolto anche le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia: Emanuele e Filippo Di Pasquale, Agostino Trombetta e Giovanni Drago. Vincenzo Vanni Calvello si era difeso sostenendo che i rapporti tra lui e Tinnirello, entrambi appassionati di nautica da diporto, risalivano a un periodo antecedente alla latitanza del boss. Il Pm Piero Padova aveva chiesto la condanna a quattro anni di reclusione per l' imputato.

15 maggio - Partiti ieri da Strasburgo, arrivano a Ginevra i ciclisti-tedofori dell' iniziativa "Per non dimenticare..." in memoria della strage di Capaci.    Mirko Ciccarese (autista), Massimo Denarier, Paolo Pramotton e Paolo Venturini ripartiranno domani mattina per Aosta. L'iniziativa "Per non dimenticare, per garantire la sicurezza, risarcire le vittime" e' promossa dal municipio di Mestre in collaborazione tra l'altro con il Sindacato autonomo di Polizia (Sap) del Veneto e della Valle d'Aosta ed e' dedicata a tutte le vittime del terrorismo e della criminalita'.

16 maggio - Il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca e' stato condannato dai giudici della quarta sezione della corte d' assise a dieci anni di reclusione per l' omicidio dell' imprenditore Giuseppe Oieni, originario di Pettineo (Messina), e del giovane che lo accompagnava, Marco Grasso. I due furono eliminati il 29 novembre 1990 nelle campagne del palermitano con il metodo della lupara bianca. Oieni era legato al boss di San Mauro Castelverde Giuseppe Farinella, anche da rapporti familiari. La scomparsa dell' imprenditore venne collegata in un primo momento ad una grossa somma di denaro, destinata ai Corleonesi, che Oieni avrebbe trattenuto per se' acquistando una barca. A ricostruire i fatti ai magistrati e' stato Giovanni Brusca, il quale ha ricordato che Farinella gli chiese il suo aiuto per uccidere l' imprenditore ed il giovane. Nel corso delle indagini si e' scoperto che Oieni aveva contatti con esponenti dei servizi segreti. Gli investigatori lo accertarono subito dopo la sua scomparsa. Dal telefono cellulare installato nella sua automobile erano state fatte numerose chiamate ad un numero che corrisponde ad un ufficio romano dei servizi di sicurezza. Secondo Giovanni Brusca, la famiglia Farinella decise quindi l'eliminazione di Oieni per il timore che, essendo a conoscenza di molti segreti della cosca di San Mauro Castelverde, potesse cominciare a collaborare con la giustizia. Marco Grasso, ha sostenuto il collaboratore, fu invece eliminato perche' seguiva l' imprenditore in ogni suo spostamento. I corpi delle due vittime furono messi in sacchi di plastica e gettati in alcuni cassonetti dei rfiuti a Partinico. L' uccisione di Oieni potrebbe inserirsi, secondo gli investigatori, nello stesso contesto nel quale venne assassinato il 2 ottobre 1990 nelle campagne di Pollina, Antonio Cusimano, un consulente fiscale di Castelbuono. Ad eseguire l' omicidio, dicono i pentiti, sarebbe stato Antonino Gioe', morto suicida a Rebibbia.

17 maggio - Il luogo in cui sarebbe stato seppellito il giornalista de 'L'Ora' Mauro De Mauro, ucciso la sera del 16 settembre 1970 a Palermo, e' stato indicato agli investigatori dal boss 'dichiarante' Gaetano Grado. Secondo l' ex mafioso, il corpo si troverebbe in un agrumeto alla periferia di Palermo. Grado ha indicato anche le persone che avrebbero sequestrato e poi ucciso il giornalista. Queste dichiarazioni sono state acquisite nel fascicolo della procura che ha riaperto nei mesi scorsi l' inchiesta sulla morte di De Mauro. Le indagini sono affidate alla squadra mobile di Palermo. Su questo delitto il pentito Francesco Di Carlo ha fatto rivelazioni e metterebbe in collegamento il delitto del giornalista con il golpe tentato nel 1970 dal principe Junio Valerio Borghese. Secondo Di Carlo, Mauro De Mauro aveva appreso del possibile golpe e ne stava seguendo gli sviluppi quando fu rapito. Le dichiarazioni di Grado, pero', smentirebbero questa tesi. Un' altra ipotesi e' stata da tempo valutata dalla magistratura di Pavia, che indaga sull' incidente aereo di Bescape' nel quale mori' nel 1962 il presidente dell' Eni Enrico Mattei. Il giudice Calia, titolare delle indagini, ha inviato alla procura palermitana atti della propria inchiesta: verbali, testimonianze e rapporti. L' indagine di Pavia ipotizza un collegamento tra l' incidente aereo (si suppone che il piccolo jet decollato da Catania fu sabotato) e la scomparsa di De Mauro: il giornalista se ne era occupato per la sceneggiatura del film di Francesco Rosi. Secondo le dichiarazioni di Grado, che ha deposto per la prima volta oggi in videoconferenza nel processo "Tempesta" a Palermo, "molte vittime della guerra di mafia a Palermo alla fine degli anni '70 sono state sepolte sotto un tratto di autostrada che conduce a Villabate". Grado, che ha iniziato a collaborare con la giustizia nel settembre del 1999, ha rievocato la sua affiliazione a Cosa Nostra nel 1970 nella "famiglia" di Stefano Bontade, ha ammesso di avere compiuto omicidi, precisando di "non aver mai tradito" il suo clan "come invece hanno fatto altre persone". Il boss ha ricordato di essere stato arrestato nel maggio 1989 in una villetta a San Nicola l' Arena, quando era latitante. In risposta a una domanda dell' avvocato Cristoforo Fileccia, difensore di Toto' Riina, Grado ha specificato che suo cugino, Salvatore Contorno, arrestato lo stesso giorno nella stessa zona, non era con lui. "Sapevo che Contorno era un collaboratore - ha aggiunto - e gli dissi che non potevo ospitarlo perche' la regola di Cosa nostra mi imponeva di ucciderlo. Contorno arrivo' a San Nicola l' Arena il giorno prima del suo arresto". L' interrogatorio e' stato centrato, su richiesta del pm Olga Capasso, solo su quattro dei numerosi omicidi che riguardano il processo. Il magistrato ha spiegato che sulle affermazioni di Grado sono in corso indagini preliminari. Durante la deposizione Grado ha criticato i metodi del clan dei corleonesi, in particolare di Toto' Riina. "Sono sempre stato della 'famiglia' Bontade - ha detto - e avrei preferito morire piuttosto che passare dalla parte dei corleonesi". Gaetano Grado, che e' detenuto, ha precisato ai giudici della Corte d' assise che potrebbe essere scarcerato fra due anni perche' avrebbe gia' espiato la pena definitiva "grazie ai benefici e alla buona condotta". Rispondendo alle domande dei difensori, Grado ha ricordato di essere stato condannato due anni fa dal tribunale di Varese a 23 anni di reclusione per associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga; questa condanna si sommerebbe a una, gia' definitiva, a 30 anni. Tratti di autostrada, pilastri in cemento armato e appezzamenti di terreno nel Palermitano sono stati indicati in passato come cimiteri di mafia agli investigatori dai collaboratori di giustizia. Uno dei primi a rivelarne l' esistenza fu il pentito Francesco Marino Mannoia che, dopo aver avuto sterminata la famiglia (madre, due fratelli, due zii, un cugino) indico' le "fosse comuni" sulle sponde del fiume Oreto, nell' agrumeto di baglio Bonta' vicino a una casa colonica nella periferia orientale della citta', sotto un cavalcavia in via Emiro Giafar, a uno svincolo dell' autostrada per Catania. Qui, secondo Marino Mannoia, sono stati nascosti decine di cadaveri, parte dei quali erano stati sciolti nell' acido e i resti sparsi sotto strati di calcestruzzo. Un ex cimitero di "lupare bianche" e' sempre stata considerata Rocca Busambra, oggi riserva naturale, nel territorio di Corleone. Tra i crepacci della montagna, le radure e la fitta vegetazione si celano la memoria di misteri antichi, i segreti pensieri di sovrani, le trame sanguinarie dei "padrini" della mafia, la disperazione di vittime martoriate scaraventate nel buio profondo di caverne sotterranee. Quando negli anni '50 fu capitano dei carabinieri a Corleone, Carlo Alberto dalla Chiesa ebbe la netta percezione che a Rocca Busambra fossero stati occultati numerosi cadaveri. E piu' volte le sue richieste per ottenere uomini e mezzi per eseguire ricerche anche con speleologi furono inascoltate. Le ultime "fosse comuni" sono state scoperte su indicazione del pentito Giovanni Mazzola nel 1997 in contrada Sagana, nelle campagne tra Montelepre e Monreale che nel dopoguerra erano state il dominio del bandito Turiddu Giuliano. Altre, piu' di recente, nel 1998 e nel 1999 sono state scoperte tra Carini, Altofonte e San Giuseppe Jato. Adesso, secondo il 'dichiarante' Gaetano Grado "c' e' una 'catasta di cadaveri' sotto il tratto di autostrada per Villabate, davanti alla chiesa di San Ciro Maredolce. Qui i fratelli Mafara, che avevano una cava - aggiunge Grado - buttavano corpi delle vittime, cosi' come facevano gli altri boss, poi venivano coperti di terra e catrame".

17 maggio - I giudici della Corte d' Assise di Trapani, presieduta da Vincenzo Pantaleo, al termine del processo contro 30 persone arrestate nell' operazione antimafia "Halloween" condannano sei presunti mafiosi sono stati all' ergastolo per otto omicidi compiuti tra il 1974 e il 1995 nel Trapanese. La massima pena e' stata inflitta a Matteo Messina Denaro, latitante da otto anni e da molti indicato come il nuovo numero 1 della mafia insieme con l' altro imprendibile boss Bernardo Provenzano; Vincenzo Virga, catturato dalla polizia due mesi fa in una casa di campagna a 18 chilometri da Trapani; Andrea Gancitano, Giovanni Leone, Vito Mazzara e Gaspare Sugamiele. Per altri otto imputati sono state decise pene minori: Francesco Genna (sette anni e sei mesi di reclusione), Vincenzo Giliberti, Antonino Todaro e Salvatore Di Genova (cinque anni e sei mesi ciascuno), Giacomo Coppola (cinque anni), Giuseppe Lombardo (quattro anni e sei mesi), e Leonardo Coppola e Giuseppe Daidone, quattro anni ciascuno. Gli assolti sono: Salvatore e Michele Alcamo, Pietro Armando Bonanno, Francesco Orlando, Vito Parisi, Alberto Errante, Salvatore Barone, Francesco Bica, Leonardo Coppola di 55 anni e Leonardo Coppola di 44 anni, Filippo Coppola, Gianni Gianfranco, Giuseppe Maiorana, Francesco Pace, Giuseppe Poma e Giovanni Vultaggio. L' operazione "Halloween" (la "notte delle streghe") scatto' tre anni fa dopo lunghe indagini coordinate dalla direzione distrettuale antimafia di Palermo e dalla Procura trapanese. Fra i delitti, quello del boss di Paceco, grosso paese nella "cintura" di Trapani, Girolamo Marino (detto "Mommo il nano" a causa dell sua bassa statura), assassinato nel novembre del 1986 con 33 proiettili di mitra. Matteo Messina Denaro, 39 anni, ras del trapanese, ricercato dal 1993 per associazione mafiosa, omicidio, strage e porto di esplosivo, secondo il procuratore antimafia Pier Luigi Vigna e' l' erede naturale al vertice di "cosa nostra" di Toto' Riina (in galera) e Bernardo Provenzano (latitante da tre decenni). E' stato condannato all' ergastolo per le bombe di Firenze, Roma e Milano (1993). Ha premuto il grilletto (1992) con l' amico Antonino Gioe' (uno dei sicari di Capaci, morto suicida a Rebibbia) contro il boss di Alcamo (Trapani) Antonino Milazzo: per chiudere definitivamente la partita ha poi personalmente strangolato la donna del suo nemico, Antonella Bonomo, incinta di tre mesi. L' ultimo suo volto conosciuto, immortalato da una copertina di "Panorama", mostra un giovanotto ingabbiato in occhiali trendy, giacca di buon taglio, capelli corti: una istantanea che rimanda piu' ad un manager che ad un feroce criminale e, meno che mai, alla ruvidezza contadina dei capibastone corleonesi. A Castelvetrano, dove e' nato nel 1962, in gioventu' girava in Porsche, Rolex al polso e belle donne al seguito. Quest' aura non gli ha impedito di ammazzare con disinvoltura un bel po' di gente, anche per torti minori, come quando elimino' il direttore di un albergo, reo di mancato rispetto per i suoi picciotti e, soprattutto, per la morosa di turno.

20 maggio - "El Pais", il piu' diffuso quotidiano spagnolo, torna sull' esito delle elezioni italiane e con un articolo di due pagine (con richiamo in prima) rilancia la questione del presunto rapporto fra Silvio Berlusconi e la mafia. "Risulta difficile - dice il quotidiano - credere che qualcuno che ha frequentato certe compagnie possa diventare il leader di una rivoluzione etica a favore dell'onesta". "Berlusconi: i suoi rapporti con la Mafia" e' il titolo in cui 'El Pais' riassume le principali accuse rivolte contro il leader del centrodestra da pentiti come Gaspare Mutolo o Francesco Di Carlo. El Pais, inoltre, pubblica anche un breve commento senza firma intitolato "Proprietario degli interessi italiani". L'elettorato italiano, commenta il quotidiano, ha scelto Berlusconi "non come capo di governo, ma bensi' come proprietario", e se desiderava con questo promuovere un cambio "e' possibile che il cambio finisca per non piacere a tanti quanti sono oggi i suoi difensori". "Nessuno dai tempi di Mussolini ha disposto del potere che possiede il Cavaliere in Italia, e nessuno dubita che lo usera"', sostiene 'El Pais', ricordando anche nel commento le accuse sui rapporti con la mafia e concludendo che cio' rende "piu' che eccentrico" il fatto della sua ascesa al potere in una democrazia sviluppata europea.

20 maggio - "Speriamo che la mafia non scompaia dai programmi di governo" dichiara il procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Grasso alla vigilia dell' uscita libro-intervista "La mafia e' invisibile" con il giornalista e scrittore Saverio Lodato (Mondadori). Grasso, che nel 1986 fu giudice a latere nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra e che l' anno scorso e' subentrato a Palermo a Gian Carlo Caselli, ha ribadito la sua tesi, condivisa dai piu', secondo cui le cosche "dopo le stragi del 1992 stanno ricucendo le loro file". Il procuratore ha aggiunto: "Questa strategia appare vincente. E' una mafia che tende a scomparire come delitti eclatanti dai giornali, dal circuito dei mass media". A giudizio del procuratore e' fondata la preoccupazione che si arrivi a una normalizzazione e si smantellino i mezzi antimafia.

21 maggio - I giudici della seconda sezione del tribunale di Palermo non sciolgono la riserva sulla richiesta della Procura di sentire Silvio Berlusconi come indagato di reato connesso (per un' accusa gia' archiviata) nel processo a Marcello Dell' Utri, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. Alla richiesta dei pm Antonio Ingroia e Nico Gozzo, si sono sempre opposti nei mesi scorsi i legali di Dell' Utri. Per la difesa la richiesta non poteva essere accolta perche' si era gia' in campagna elettorale. Per "evitare clamori", i pm avevano chiesto di rinviare la citazione a dopo le elezioni. La decisione del Tribunale arrivera', dunque, in una prossima udienza. Il nome di Berlusconi era stato inserito nella lista testi dell' accusa fin dall' inizio del processo. La Procura ha chiesto di sentirlo anche in merito ad una consulenza sui flussi finanziari delle holding che costituiscono la Fininvest, depositata lo scorso anno dal funzionario di Bankitalia Francesco Giuffrida. Questi accertamenti sono stati condotti da un maresciallo della Dia, Giuseppe Ciuro, per il quale i Pm hanno chiesto la citazione. A conclusione dell' udienza la difesa dell' imputato ha invece sciolto la riserva su una richiesta, avanzata dai Pm nel dicembre del '99, di rinunciare a 98 testi dell' accusa. I legali di Dell' Utri adesso hanno risposto negativamente. Gran parte dei 98 testi cui i pm avevano rinunciato, sono inseriti nella stessa lista depositata dalla difesa. "Non abbiamo acconsentito - spiega l' avvocato Roberto Tricoli del collegio di difesa di Marcello Dell' Utri - alla rinuncia dei testi del pm perche' in massima parte comuni". "La nostra decisione - aggiunge - e' finalizzata soprattutto a far conoscere nel dibattimento su quali fragili elementi e' stato richiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio del senatore Dell' Utri". Il pm Nico Gozzo, commenta:"Evidentemente la difesa di Marcello Dell' Utri non ha interesse a concludere in breve tempo questo processo". Nell' udienza, i collaboratori di giustizia Carmelo e Francesco Sparta Leonardi parlano di un piano progettato dai pentiti Cosimo Cirfeta e Giuseppe Chiofalo per "indebolire la procura di Palermo". "Cirfeta mi disse in carcere - ha detto Carmelo Sparta - che c' era un progetto per indebolire la procura di Palermo, screditando i pentiti che accusano persone importanti". "Con mio fratello Francesco - ha aggiunto Carmelo Sparta - dovevamo sostenere che nel corso della nostra detenzione nel carcere di Rebibbia e in quello di Paliano, dove erano rinchiusi i collaboratori Cucuzza, Di Carlo e Onorato, eravamo stati testimoni di colloqui nei quali si mettevano d' accordo sulle accuse da fare. Insomma volevano falsamente dimostrare che le loro dichiarazioni ai magistrati erano state concordate". I due pentiti si sarebbero rifiutati di far parte del piano, ed hanno denunciato nel '98 ai magistrati di Palermo Cirfeta e Chiofalo. In seguito a questa segnalazione e' stata aperta l' inchiesta poi sfociata nell' arresto dei due pentiti che sono stati indagati per calunnia in concorso con Dell' Utri. Prima di interrogare i due collaboratori, i giudici avevano sentito l' architetto Giorgio Bressani, che per molti anni ha lavorato alle dipendenze di Filippo Rapisarda. Il professionista ha ricordato il periodo di latitanza trascorso da Rapisarda fra il '79 e l' 82 in Venezuela. "In quegli anni - ha detto Bressani - Rapisarda ha conosciuto i fratelli Cuntrera, con i quali ha avuto rapporti d' affari. Fra loro le cose non sono andate bene ed i contatti si sono poi interrotti per questioni economiche". "Rapisarda - ha aggiunto l' architetto - per ottenere somme di denaro dai Cuntrera gli aveva venduto mezzi e immobili che erano in Italia, ma risultavano sotto sequestro". Rispondendo alle domande del pm Nico Gozzo, Bressani ha detto che nella primavera del '97 i suoi rapporti di lavoro con Rapisarda si sono interrotti. "Ero senza soldi e senza casa - ha affermato - per questo motivo mi sono rivolto al dottor Dell' Utri chiedendogli se mi poteva aiutare. Gli scrissi una lettera e dopo un mese ho ottenuto una risposta con la quale mi offriva una collaborazione a 'Pagine utili' ed io l' ho presa". Oltre ai rapporti con i Cuntrera, Bressani ha affermato che Rapisarda "diceva di avere rapporti con Vito Ciancimino".

22 maggio - Antonino Caponnetto, ex giudice istruttore a Palermo e amico di Falcone e Borsellino, ricorda l'amico Giovanni a nove anni dalla strage di Capaci, in una testimonianza a "Primo piano" del Tg3:"Quando vedeva la gente che al nostro passaggio applaudiva, Giovanni Falcone mi diceva: 'Vedi, fanno il tifo per noi, per i nostri ideali. Adesso a Giovanni vorrei dire: speriamo che seguitino a fare il tifo per noi e per i nostri ideali". "A me e a Paolo - dice Caponnetto nell'intervista - un giorno Giovanni disse: bisognera' scendere in strada e chiedere loro scusa uno per uno. Giovanni diceva questo quando vedeva tanti sogni infrangersi contro la realta'. Nessuno ha avuto tante sconfitte quante ne ha avute Giovanni, anche contro gli stessi magistrati". Accanto a quella di Caponnetto, la testimonianza di don Luigi Ciotti, animatore di Libera e fondatore del Gruppo Abele:"Le mafie non moriranno mai se non cambia un certo modo di fare politica. Non ci possono essere stagioni nella lotta alla mafia. Non ci possono essere pause perche', di fatto, loro, i mafiosi, corrono cento volte di piu'". Don Ciotti lancia anche un allarme: "Comincia a crescere nel paese una parola che gia' conosciamo: normalita'. E' un segnale inquietante, che gia' conosciamo, e che significa normalizzazione". L' ex pm della Dda di Palermo Alfonso Sabella, oggi al Dap, dice invece:"Al nuovo presidente del Consiglio chiederei di non abbassare la tensione sulla lotta a Cosa nostra. Adesso i boss che sono in carcere si aspettano tanto, qualcosa, e sarebbe il caso che questo 'tanto', non arrivi". Sabella, che ha coordinato a Palermo le catture dei piu' grossi latitanti, ha tratteggiato la figura del capo di Cosa nostra, ricercato da quarant' anni, Bernardo Provenzano. "E' un boss - ha detto - che ha cercato di rendersi meno visibile, ma rimane sempre un boss potente".

22 maggio - In una intervista a Radio il pm Luca Tescaroli dice che della strage di Capaci, grazie al lungo lavoro e al processo, si conoscono autori e mandanti e tuttavia si tratta di "una verita' importante ma non esaustiva" e "senza verita' completa non c'e' giustizia". "Bisogna ricordare - ha sottolineato, innanzitutto, il magistrato che nel processo ha sostenuto la pubblica accusa - gli importanti esiti processuali, raggiunti grazie allo sforzo protratto per molti anni: per la prima volta nella storia italiana del dopoguerra si conoscono autori e mandanti di una strage". "E' una verita' importante - ha aggiunto Tescaroli - ma non esaustiva: sullo sfondo della strage rimane una probabilita' di una convergenza di interessi di persone diverse da Cosa Nostra. Persone appartenenti al mondo imprenditoriale, finanziario ed economico, a settori deviati delle istituzioni. Su questo versante si deve ancora indagare. Senza una verita' completa non c'e' giustizia". "Bisogna anche pensare a nuove iniziative che siano incisive su questi settori contigui a Cosa Nostra - ha aggiunto Tescaroli - senza la scoperta di questa responsabilita', l'intera opera di contrasto alla mafia rischia di non arrivare all'obiettivo ultimo: la sconfitta definitiva di Cosa Nostra". A proposito della possibilita' di un suo trasferimento da Caltanisetta a Roma, rispondendo all'intervistatore, il magistrato ha detto: "Io sono rimasto a Caltanisetta per molti anni. Ho sempre fatto il mio dovere. Questa consapevolezza mi da' la certezza di aver dato un contributo. Certo bisogna lavorare ancora molto. Giustizia completa non e' stata ancora fatta. Il lavoro e' incompiuto".

22 maggio - Il procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, ai microfoni di Rtl 102.5, dice:"Stiamo proseguendo nelle indagini sui mandanti esterni delle stragi, cioe' personaggi che hanno agito insieme a Cosa nostra nell' ideare gli attentati ai giudici Falcone e Borsellino". "Per alcune piste investigative che si sono rivelate infondate - dice Tinebra riferendosi alle richieste di archiviazioni fatte nei mesi scorsi nell' ambito di questa inchiesta - altre ne continuiamo e le proseguiremo fino in fondo". "Non si puo' stabilire - aggiunge il procuratore - i tempi che serviranno per chiudere questa indagine".

23 maggio - Gennaro Malgieri, direttore del Secolo d'Italia, dichiara ai microfoni di Radio Radicale che sarebbe "felice" se venissero abolite le commissioni Stragi ed Antimafia ormai diventate "inutili". "E' un parere del tutto personale il mio - afferma Malgieri - io sono assolutamente contrario a questa moltiplicazione di inutili commissioni. Ci sono delle commissioni che istituzionalmente potrebbero assorbire anche queste materie". Le due bicamerali, aggiunge, "quando vennero istituite dovevano essere provvisorie, ora sono diventate eterne". "Mi sembra - conclude - che siano un'anomalia in un sistema rappresentativo di una grande democrazia sviluppata come quella italiana. A titolo del tutto personale sarei molto felice se entrambi venissero abolite".

23 maggio - L'on. Silvio Berlusconi chiede a "El Pais" di rettificare il contenuto di un articolo nel quale il piu' diffuso quotidiano spagnolo rilanciava la questione dei suoi presunti rapporti con la Mafia. In una lettera inviata alla direzione di El Pais, i legali di erlusconi affermano che l'articolo "rende evidente la sussistenza di una campagna mediatica (realizzata attraverso lo strumento della disinformazione) tesa a delegittimare in ambito europeo la figura dell'on. Berlusconi, che oggi rappresenta il primo partito politico in Italia e che ha condotto la coalizione dallo stesso presieduta ad una eclatante vittoria elettorale". La lettera afferma che l'articolo del quotidiano spagnolo riferiva delle indagini condotte dalla procura di Palermo a partire dalle dichiarazioni di alcuni pentiti, omettendo pero' di citare quella che definisce "una circostanza fondamentale e assorbente: l'avvenuta archiviazione richiesta dalla Procura di Palermo e disposta dal giudice per le indagini preliminari fin dal febbraio 1997 per l'ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa e la ulteriore archiviazione in data 1 dicembre 1999 per l'ipotesi di riciclaggio; provvedimenti giudiziari che eliminano alla radice ogni insinuazione e speculazione ai danni dell'on. Berlusconi". Anche per quanto riguarda la questione dei rapporti di Marcello dell'Utri con Vittorio Mangano, la lettera dei legali afferma che l'articolo del quotidiano spagnolo "ha offerto ai lettori un quadro del tutto distorto" mentre ha taciuto "la sentenza del 24 maggio 1990 con cui il giudice istruttore di Milano ha escluso qualsiasi rapporto di natura mafiosa tra Marcello dell'Utri e Mangano". La lettera di rettifica al El Pais stigmatizza infine "la estrema pericolosita' di una campagna mediatica tesa a criminalizzare gli avversari politici utilizzando informazioni che non solo non sono supportate da alcun fondamento di verita', ma che sono in aperto contrasto con i contenuti dei provvedimenti giudiziari adottati dal Gip del tribunale di Palermo e dal Giudice istruttore del tribunale di Milano".

23 maggio - In un intervento su "Il Foglio" Silvio Berlusconi scrive che "La strage di Capaci non fu solo un inaudito gesto criminale, ebbe anche un odioso risvolto politico: la mafia portava il suo attacco al cuore pulito dello Stato, colpendo il simbolo di una politica giudiziaria intransigente e proba". "Le cosche - prosegue nel suo intervento il Cavaliere - volevano dimostrare che la lucidita', l'onesta' e la passione di un magistrato competente e coraggioso non sono protezione sufficiente della vita sua, dei suoi cari e dei servitori dello Stato che con lui collaborano". "Falcone - prosegue - non fu solo un magistrato capace di combattere la criminalita' organizzata di Cosa Nostra. Fu un campione dello Stato di diritto. Quando fu ucciso era una personalita' chiave dell' apparato giudiziario del governo italiano" E a proposito del nodo giustizia e della lotta alla criminalita' organizzata, osserva: "L'azione giudiziaria per mettere in condizione di non nuocere la grande criminalita' e' e deve restare uno dei punti decisivi, e portanti, dell'impegno pubblico in ogni forma e dimensione. Nessuna disattenzione e' tollerabile. Il procuratore di Palermo ha lanciato in questo senso un composto allarme che nessuno puo' permettersi di non ascoltare".

23 maggio - Carlo Giovanardi, del Ccd, afferma di comprendere ma di non condividere le parole di Gennaro Malgieri, di An, contrario a ricostituire la commissione parlamentare antimafia. "Capisco le perplessita' dell'on. Malgieri - afferma Giovanardi - ma sarebbe un gravissimo errore, sotto il profilo politico e psicologico, non ricostituire la commissione antimafia nella prossima legislatura", perche' "al di la' delle buone intenzioni dell'esponente di An, questa scelta potrebbe essere interpretata come un indebolimento della lotta senza quartiere alla criminalita' organizzata". "Concordo invece con Malgieri - conclude Giovanardi - sull' inutilita' di ricostituire per l'ennesima volta la commissione stragi, che non ha dato alcun contributo utile a fare luce sulle pagine oscure delal storia del nostro paese".

23 maggio - In un'intervista a "La Stampa" il procuratore di Palermo Pietro Grasso ricorda Giovanni Falcone nel nono anniversario della strage di Capaci e punta il dito contro chi tesse le lodi di Falcone a suo avviso in modo strumentale e a proprio uso e consumo. "Se fosse ancora tra noi, -dice Grasso - nessuno lo adulerebbe. Ma lui non c'e' piu' ed e' facile estrapolare frasi, pensieri, atteggiamenti, anche scritti per interpretarli a seconda delle varie necessita'". "Queste - commenta - sono 'operazioni' scoperte, buone solo per chi non ha memoria. Cosi' accade di poter leggere tutto e il contrario di tutto: Falcone per la separazione delle carriere dei giudici, Falcone contro l' obbligatorieta' dell'azione penale, Falcone contro i processi politici... e via strumentalizzando".

23 maggio - Le massime autorita' delle istituzioni a livello centrale e periferico, premi Nobel, la societa' civile nelle sue articolazioni hanno ricordato, nel nono anniversario della strage di Capaci, l' "eroe" Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Disilluso, il procuratore aggiunto di Palermo Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, ha dichiarato: "Siamo molto vicini a credere che la loro morte e' stata del tutto inutile, data la totale inadeguatezza dell' azione di contrasto alla mafia causata anche da norme legislative inadeguate". Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, richiamandosi all' operato del magistrato, in un messaggio nel contesto del convegno di Palermo della Fondazione Falcone sui rischi della globalizzazione, ha sottolineato che "se non vogliamo che essa diventi nemico per crescenti settori della societa', abbiamo il dovere di predisporre regole certe che ne esaltino gli aspetti positivi e ne compensino gli squilibri". Oltre a Ciampi, sono scese in campo altre alte cariche dello Stato. Il presidente del Senato Nicola Mancino ha affermato che la "mafia va combattuta con una politica di crescita civile e democratica, realizzando condizioni di sviluppo economico e occupazionale capaci di offrire alternative dignitose agli illeciti guadagni". Per il presidente della Camera Luciano Violante occorre tenere alta non solo la "tensione" ma la "consapevolezza" dei vincoli al vivere civile innescati dalla mafia. Violante ha posto l' accento proprio sulla consapevolezza, "sentimento rigoroso e permanente che va alimentato con la ricerca, la riflessione, la pedagogia della memoria e della storia". Il governatore della Banca d' Italia Antonio Fazio si e' soffermato tra l' altro su un aspetto specifico tra i tanti intralci allo sviluppo armonico, l' usura. "L' azione repressiva - ha detto - deve essere affiancata ad una rigorosa politica di prevenzione del fenomeno: un ruolo primario puo' essere svolto dal sistema bancario, in particolare dalle banche di credito cooperativo. Ed anche Silvio Berlusconi ha messo in evidenza che Falcone "fu campione dello Stato di diritto e qundo fu ucciso era una personalita' chiave della apparato giudiziario del governo italiano". I nobel per l' economia Amartya Sen (insignito nel 1998) e Lawrence Klein (1980) hanno concordato sulle inizioni di etica con cui bisogna "trattare" gli interscambi globali. Il primo si e' appellato alle Istituzioni politiche, sociali e giuridiche come uniche garanti "per facilitare l' uso giusto e equo delle risorse". Gli ha fatto eco il collega, che ha parlato di "flusso trasparente dell' informazione" e "standard morali" come ausilio ineludibile per l' economia. Il ministro della giustizia Piero Fassino ha ammonito a non cadere nella retorica commemorando Falcone, ma riferirsi alla sua testimonianza "come rinnovamento di un impegno comune". L' aspetto piu' visibile delle manifestazioni odierne e' vissuto attraverso il concentramento degli alunni di 70 scuole palermitane in piazza Magione, dove da ragazzini tirarono i primi calci al pallone Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Al palazzo di giustizia tutt ele udienze sono state sospese per dieci minuti. Nel pomeriggio raduno di 500 di persone davanti all' albero che fronteggia il condominio dove abitavano Giovanni e Francesca Falcone. Tra loro l' ex procuratore Gian Carlo Caselli, l' ex sindaco Leoluca Orlando e don Luigi Ciotti. Il religioso ha tra l' altro detto che "chiunque sia stato condannato anche solo in primo grado, non dovrebbe candidarsi alle elezioni" e, riferendosi al risultato delle politiche in Sicilia, "l' affermazione di una parte politica in 61 collegi su 61 impone alle Procure di indagare su cosa sia successo". Alle 17:58 (l' ora in cui scoppio' l' ordigno a Capaci), hanno suonato a distesa le sirene delle navi ormeggiate nel porto. Quindi una liturgia in Cattedrale presente il ministro dell' Interno Enzo Bianco, che ha poi partecipato all' inaugurazione della nuova sede della Fondazione Falcone, sostenendo che la recente cattura di pericolosi latitanti della mafia "e' la risposta che i cittadini si aspettavano e che lo Stato forte e determinato ha saputo dare". Un minuto di raccoglimento e infine uno scrosciante applauso in memoria delle vittime della strage anche nel teatro Bellini riaperto oggi dopo 37 anni dall' incendio che lo distrusse. Pietro Carriglio, direttore del Biondo Stabile, ha detto "Palermo ricorda e ricordera' sempre Giovanni Falcone". Claudio Fava, segretario dei diessini siciliani e figlio dello scrittore e giornalista Giuseppe assassinato dalla mafia a Catania, invitando a fare tesoro dell' esempio di Falcone, ha rilevato: "Dobbiamo sostituire alla liturgia della memoria la prassi dell' impegno concreto nella societa' e nelle istituzioni".

23 maggio - A nove anni dalla strage di Capaci, a Mestre (Venezia), sono state ricordate le vittime di mafia e del terrorismo e quanti sono caduti, non solo tra le forze dell'ordine, nell'esercizio delle proprie funzioni al servizio dello Stato. In un incontro pubblico - organizzato dal Municipio di Mestre, dal sindacato di polizia Sap e dall' associazione Fervicredo che raccoglie vittime e familiari dei caduti per la criminalita' - si sono incrociati racconti e riflessioni su mafia e terrorismo di uomini e donne che hanno vissuto in prima linea dure battaglie. Tra i tanti testimoni, l'on. Nando Dalla Chiesa che ha ricordato Giovanni Falcone e le indagini da lui condotte sulla morte per mano della mafia del padre, generale dei carabinieri, in particolare facendo riferimento ad una frase dettagli dal magistrato: "Mi stanno seviziando". Una frase, quella pronunciata da Falcone, che Dalla Chiesa ha detto essere riferita non ai mafiosi ma ai cosiddetti poteri forti che con la mafia sono collusi. Un tema questo, toccato anche da Luca Tescaroli, Pm per la strage di Capaci, che ha rilevato come non sia possibile che uno Stato, forte e che conta su tante risorse, non sia in grado di sconfiggere un'organizzazione criminale di migliaia di persone. Critico Tescaroli sulla normativa sui collaboratori di giustizia, cosi' come dispiaciuto dal fatto che in nessun programma dei partiti politici si sia parlato di lotta alla mafia. Da parte sua, Carlo Giovanardi, vicepresidente della Camera, ha ricordato come il Parlamento, di fronte alla mafia, abbia saputo reagire lavorando sulle strutture predisposte alla sicurezza e all'ordine pubblico per favorirne il lavoro, a cominciare dall'istituzione della Direzione nazionale antimafia. Tra i relatori anche il Procuratore della Repubblica di Padova Pietro Calogero che si e' soffermato, invece, sul ricordo di Alfredo Albanese, il vicequestore che fu freddato dalle Br il 12 maggio 1980 a Mestre. Del funzionario di polizia che collaboro' alle indagini di Calogero e per le quali fu ucciso, il magistrato ha ricordato la figura, "pur essendo restio a parlarne perche' il tempo non ha sanato la ferita che e' ancora aperta". Da parte sua il vicecapo della polizia Ansoino Andreassi ha detto che le vittime sono un patrimonio di valori che deve essere tramandato "contro la strategia che vorrebbe portare indietro il nostro Paese". Una linea seguita anche dall' intervento di Gianfranco Bettin, prosindaco di Mestre, che avverte la necessita' di "attrezzarsi perche' le cose vecchie se tornano non ci sorprendano". L' incontro e' stato aperto dall'arrivo dei ciclisti tedofori che hanno attraversato parte dell'Europa e dell'Italia - oltre 2000 chilometri - per ricordare le vittime della criminalita'. A loro e' stata consegnata una medaglia d'argento del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che, come Romano Prodi, presidente della Commissione Ue, e Anna e Maria Falcone hanno mandato un messaggio ai convenuti.

23 maggio - A nove anni dalla strage di Capaci, Pietro Grasso ricorda la sua amicizia con Falcone nella trasmissione della Rai "Radio anch'io". Secondo Grasso, su questo delitto "potrebbero esserci collegamenti con ambienti esterni all' organizzazione". Grasso, dialogando con il conduttore della trasmissione, Andrea Vianello, ha sostenuto che i pentiti utilizzati per l'inchiesta sulla strage di Capaci "fanno capire che dietro Cosa nostra ci possono essere mandanti esterni". Le assoluzioni decise a Palermo negli ultimi mesi sono state commentate da Grasso come un incentivo a produrre ai giudici del tribunale "prove granitiche" per gli imputati contro i quali si procedera'. "Del terzo livello - ha affermato - Giovanni Falcone negava sempre l' esistenza. Lui parlava di terzo livello di 'delitti eccellenti' che avevano come moventi esterni a Cosa nostra". In conclusione, Grasso ha ribadito il concetto che "adesso la mafia e' invisibile", perche' non vi sono piu' omicidi eccellenti. "Vi sono - dice - le 'lupare bianche' che non fanno notizia e si possono eliminare gli avversari mafiosi senza provocare clamore". "Non sappiamo - dice anche Grasso - quanto la mafia ha contribuito in queste elezioni. Non c'e' dubbio pero' che e' fatta di persone che sono elettori e vanno a votare come tutti i cittadini". "Lo Stato - ha affermato Grasso - ha sempre affrontato il problema mafia come se fosse un' emergenza. Da tempo, pero', l'emergenza sembra essere diventata in Italia l'immigrazione e gli scippi".

23 maggio - Il vice questore Gioacchino Genchi, interrogato dai giudici della corte d' assise d' appello di Caltanissetta, davanti ai quali si svolge il processo "Borsellino bis" che riguarda gli esecutori materiali della strage, ha parlato di 'anomalie' nelle indagini ed espresso i suoi dubbi sulle indagini effettuate sulla strage di via D'Amelio, i contatti telefonici fra esponenti mafiosi e i servizi segreti, l'ipotesi che uomini di Cosa nostra sarebbero stati utilizzati come manovalanza da 'apparati' per mettere a segno l'attentato. Ex componente del gruppo investigativo 'Falcone-Borsellino', Genchi, rispondendo alle domande del presidente della corte, Francesco Caruso, ha ricordato il suo trasferimento dal gruppo dopo avere depositato una relazione sull'agenda elettronica di Falcone. Dalla memoria emergeva che Falcone, nel '91 aveva incontrato in carcere il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, presente anche Gian Nicola Sinisi.Genchi ha ricordato anche di essersi opposto al fermo di Scotto,il telefonista che avrebbe intercettato la chiamata di Borsellino alla madre, "perche' era il caso di seguirlo e ci avrebbe portato a scoprire altri complici. Arrestarlo e' stato inutile". Secondo Genchi, la procura di Caltanissetta si sarebbe "chiusa a riccio" dopo che "erano emersi contatti fra i boss coinvolti nella strage ed apparati istituzionali". Per Genchi la procura non avrebbe dato il via libera ad indagare su questi fatti. Genchi ha inoltre espresso perplessita' sulla gestione del pentito Vincenzo Scarantino. Il funzionario si e' poi soffermato sul fatto che gli esecutori materiali della strage utilizzavano telefonini cellulari clonati gia' nell' ottobre del '91, mentre i collaboratori di giustizia sostengono di averli avuti a disposizione dopo gli attentati. I tabulati telefonici sembrano dare ragione a Genchi, il quale avanza un' altra ipotesi investigativa gia' illustrata a suo tempo ai magistrati di Caltanissetta. Secondo il teste, le persone che hanno premuto il pulsante che ha provocato l' esplosione, non si potevano trovare nelle vicinanze di via D' Amelio perche' sarebbero state raggiunte dall' onda d' urto. Gli investigatori avevano individuato come possibile base il Castello Utveggio, che sovrasta la citta', dove ha sede la scuola di formazione del Cerisdi e dal quale con un binocolo si poteva controllare la strada in cui avvenne la strage. In questo punto di osservazione, secondo Genchi, si sarebbe insediato per un periodo, un gruppo del Sisde. Il funzionario fa notare alla Corte che nei tabulati di Scotto risulta la chiamata a un numero telefonico intestato al Cerisdi.

23 maggio - Nessuna censura specifica alla sentenza di assoluzione del giudice Corrado Carnevale e' stata indicata nei motivi di appello presentati dalla Procura. L'ha detto Salvino Mondello, difensore del magistrato processato in appello per concorso in associazione mafiosa, sostenendo l'inammissibilita' dell'impugnazione proposta dai Pm. Il legale di Carnevale, che ha cominciato questa mattina in Corte d'appello a Palermo la sua arringa, ha sostenuto che nessun fatto concreto e' stato mai contestato all'ex presidente della prima sezione della Corte di Cassazione. "In un primo momento - ha affermato l'avvocato Mondello - contro Carnevale c'erano solo accuse vaghe e proprio per questo la Procura aveva chiesto l'archiviazione del procedimento. Il processo venne poi riaperto quando, secondo i Pm, si amplio' il quadro probatorio". A giudizio del penalista l'indicazione da parte della pubblica accusa di piu' canali attraverso i quali Cosa nostra sarebbe arrivata a Carnevale e' proprio la prova che il giudice non costituiva affatto un punto di riferimento per l' associazione mafiosa.

24 maggio - "Il Corriere della sera"
CARLA DEL PONTE
"Berlusconi? Approvi subito l'accordo con la Svizzera sulle rogatorie"
"Le contiguità tra mafia e politica esistono: i processi, però, si fanno con le prove"
DAL NOSTRO INVIATO
PALERMO - "Sì, ho letto l'articolo sul Foglio in cui Berlusconi ricorda Giovanni Falcone e s'impegna a proseguire la sua opera contro la grande criminalità. Bello, molto istituzionale. Adesso però Berlusconi e la sua maggioranza hanno l'occasione di dimostrare coi fatti questa volontà espressa a parole, con una prima mossa che sarebbe molto significativa".
Quale, procuratore Del Ponte?
"La ratifica dell'accordo di assistenza penale tra l'Italia e la Svizzera, quello sulle rogatorie. Sono passati tre anni dalla firma della convenzione, è assurdo che il Parlamento italiano non l'abbia ancora approvata. Lo faccia ora, ci vuole un giorno, mica tanto tempo. Berlusconi assuma questo impegno".
Il procuratore del tribunale dell'Aja Carla Del Ponte è a Palermo per partecipare, come ogni anno, al convegno della fondazione Falcone nell'anniversario della strage di Capaci, e coglie l'occasione per rilanciare una vecchia questione: la convenzione che sbloccherebbe molte inchieste - soprattutto in materia di corruzione e reati fiscali, per le quali i magistrati italiani attendono ancora le risposte della Svizzera - dimenticata per molto tempo dalla maggioranza del centro-sinistra e affossata, in chiusura di legislatura, dall'ostruzionismo del centro-destra.
Perché è così importante, quell'accordo?
"Perché in un mondo dove si è affermata la globalizzazione, come si è detto anche in questo convegno, la lotta alla criminalità non si può fare senza la collaborazione tra i diversi Paesi. Se si perdono mesi o anni aspettando i risultati delle rogatorie all'estero, inchieste e processi si bloccano a vantaggio di chi ha commesso i reati. Ormai la cooperazione andrebbe realizzata su scala molto più vasta, ma in questo caso non si riesce a praticarla nemmeno tra due Stati; per responsabilità dell'Italia, la Svizzera ha rispettato i suoi impegni".
Lei pensa che il contrasto giudiziario al crimine organizzato stia segnando il passo?
"Difficile da dire. Sui giornali leggo che ci sono sempre meno inchieste, ma può darsi che si svolgano senza pubblicità, il che sarebbe un bene visto che anche la mafia si muove in maniera silenziosa e sotterranea, come dice il procuratore di Palermo Grasso. Non ho elementi, tranne uno che ho constatato già nell'ultimo periodo in cui sono stata in Svizzera: arrivavano sempre meno richieste di rogatorie, il che non è un buon segnale".
Il procuratore Grasso ha detto pure, in tono preoccupato, che di mafia non si è parlato per niente in campagna elettorale.
"Ha ragione, il che può significare due cose: o che la mafia non c'è più, oppure che non la si vuol vedere. Io, sinceramente, dubito che non ci sia più".
In realtà di mafia s'è parlato grazie al libro "L'odore dei soldi" sui presunti legami di Berlusconi con la mafia. Lei l'ha letto?
"Sì, ma dopo un po' mi sono annoiata e ho smesso. Devo dire che si capiva che era uno strumento di lotta politica, e trovo di cattivo gusto l'utilizzo di strumenti seri come le inchieste giudiziarie per motivi di lotta politica; perché il lavoro svolto dai magistrati mi è parso serio, ed è un peccato che venga strumentalizzato, in un senso o nell'altro".
Dopo le recenti assoluzioni nei processi sulle complicità politico-istituzionali della mafia c'è chi ha tirato in ballo Falcone per sostenere che il famoso "terzo livello" non esiste. Lei che ne pensa?
"Falcone non credeva al terzo livello come entità politica sovraordinata alla mafia, ma sapeva bene che esistevano le contiguità e le collusioni tra la mafia e la politica. Solo che poi, per fare i processi, ci vogliono le prove, non bastano gli indizi e nemmeno le conseguenze logiche. Ne abbiamo parlato tante volte, e io dicevo: "Ma perché non apri un processo se uno più uno più uno fa tre?". E lui rispondeva: "Perché certe volte la somma non fa tre ma due e mezzo, e manca l'altro mezzo per arrivare a tre"".
Vuol dire che i processi ad Andreotti e agli altri esponenti delle istituzioni non andavano celebrati?
"Non so, non conosco bene tutte le carte. Penso però che per dimostrare certe accuse non può bastare nemmeno la somma delle dichiarazioni dei pentiti, senza riscontri esterni".
La sua testimonianza al processo Contrada, per l'accusa, era proprio uno di questi riscontri esterni.
"Certamente io ho riferito un episodio di cui sono stata testimone diretta, che poteva forse servire a sostenere un'accusa di favoreggiamento, ma non posso fare altre valutazioni".
Dopo le assoluzioni, c'è chi ha sostenuto che ora finalmente si può ricondurre la mafia a quella che è, fatta solo di "coppole e lupare". Lei è d'accordo?
"Per carità! Sarebbe un salto indietro gravissimo. I legami col mondo politico esistono eccome, così come quelli con l'economia e la finanza, anche internazionale. Bisogna continuare a cercare le prove. Anche per questo serve la ratifica della convenzione sulle rogatorie con la Svizzera. La faccia approvare in fretta, presidente Berlusconi".
Giovanni Bianconi

24 maggio - Bruno Contrada, dopo la deposizione del funzionario di polizia Gioacchino Genchi, nell' udienza del 23 maggio al processo "Borsellino bis", precisa che "Dal dicembre '91 al settembre '93 il capo del Centro Sisde di Palermo e' stato il colonnello dei carabinieri Andrea Ruggeri, di Torino, in ottimi rapporti con l' ex procuratore Gian Carlo Caselli". Contrada, che e' stato assolto in appello dall' accusa di concorso in associazione mafiosa, puntualizza quindi che non era lui a dirigere il Sisde a Palermo all' epoca delle stragi. "Genchi - aggiunge Contarda - dovrebbe sapere che un ufficiale di polizia giudiziaria che depone deve portare prove e non ipotesi. Le ipotesi si fanno in altre sedi di lavoro". "Il nome di Ruggeri - prosegue - non e' segreto. Ha deposto nel mio processo ed ha detto la sua funzione e il suo ruolo a Palermo. So che ha lavorato a Torino sia come carabiniere che come funzionario del Sisde. E so che aveva ottimi rapporti di lavoro con Gian Carlo Caselli".

25 maggio - Nuovo rinvio del processo a carico di Marcello Dell'Utri e del finanziere siciliano Filippo Alberto Rapisarda, accusati di concorso in bancarotta per il fallimento dell'impresa di costruzioni Bresciano Spa. Il precedente rinvio era stato determinato dall' impossibilita' di Dell'Utri di presentarsi, essendo impegnato in un altra causa a Palermo. Oggi, invece, mancavano Rapisarda e i suoi due difensori, gli avvocati Paola Mora e Silvio Romanelli. I primi due impegnati in una causa per calunnia a Trento, e il terzo impossibilitato a presentarsi per motivi di salute. La terza corte d'appello, davanti alla quale si celebra il processo, e' stata impegnata per l'intera mattinata ad accertare la legittimita' degli impedimenti. Risultati effettivi e' stato deciso il rinvio a martedi' prossimo, 29 maggio. Il sostituto procuratore Laura Bertole' Viale, immaginando futuri impedimenti parlamentari dell'onorevole Dell'Utri ha chiesto alla corte di fissare lo svolgimento delle prossime udienze nelle giornate di sabato. Il fallimento della Bresciano Spa risale al 1979 e per il reato di bancarotta, contestato agli imputati, la prescrizione scattera' il prossimo anno.

25 maggio - "Non ho formulato ai giudici della Corte d'assise d'appello alcuna 'tesi' ne' 'ipotesi' riguardanti le indagini sulla strage di via D' Amelio". Lo afferma il vice questore Gioacchino Genchi, che il 23 maggio scorso ha deposto nel processo "Borsellino bis". "Mi sono limitato - afferma Genchi - a rispondere alle incalzanti domande delle parti processuali, e piu' direttamente del Presidente della Corte, sulle circostanze per le quali era stata disposta la rinnovazione del dibattimento e la mia citazione testimoniale". "Il contenuto della deposizione - prosegue - ha riguardato fatti e circostanze oggettive da me rilevate ed attivita' d'indagine da me partecipate fino ai primi di maggio del 1993 (pochi giorni prima del fermo dell'indagato Pietro Scotto), delle quali ho riferito su quanto di mia conoscenza, in cio' adempiendo ad un preciso dovere morale ed agli obblighi giuridici fissati dalla legge". Genchi ricostruisce la sua deposizione in aula e afferma che "l'esame testimoniale, protratto per l'intera udienza, si e' svolto nella piu' assoluta compostezza e regolarita'. Non sono state formulate osservazioni, ne' opposizioni formali delle parti, ed il verbale dell'udienza rimane l'unica fonte di verita' di quanto effettivamente riferito in quella sede".

25 maggio - La conferma dell' assoluzione del giudice Corrado Carnevale e' stata chiesta dai difensori del magistrato a conclusione della loro arringa in Corte d' appello a Palermo. Ex presidente della prima sezione penale della Cassazione, Carnevale e' accusato di concorso in associazione mafiosa. E' stato assolto lo scorso giugno con formula ampia. L' avvocato Giuseppe Gianzi, del collegio difensivo, ha sottolineato ai giudici che non e' stato provato che l' alto magistrato abbia "aggiustato" processi in Cassazione. Secondo il difensore, infatti, non vi sarebbe alcuna prova sui canali utilizzati dai boss (politici, avvocati e affiliati a Cosa nostra), che porta ad affermare che Carnevale abbia agito per conto di mafiosi. L' avvocato Gianzi, inoltre, ha evidenziato l' ottima preparazione giuridica e la professionalita' di Carnevale e ha aggiunto che dalla sentenza di assoluzione del processo a Giulio Andreotti emerge che non vi era alcuna conoscenza fra il giudice e il senatore a vita. "Carnevale si e' incontrato qualche volta con Andreotti - ha detto il difensore - in occasioni ufficiali, come per la fondazione Fiuggi". Il processo e' stato rinviato a venerdi' 1 giugno, per una replica del sostituto procuratore generale Leonardo Agueci, che al termine della requisitoria aveva chiesto la condanna di Carnevale a otto anni di reclusione. Subito dopo il suo intervento i giudici, presieduti da Vincenzo Oliveri, entreranno in camera di consiglio.

25 maggio - "Vecchia e nuova mafia - Storia di cento uomini. Boss, killer, favoreggiatori, pentiti, gregari e soldati" (Terzo Millennio Ed. 142 pagine, 18mila lire) e' il nuovo libro, il decimo, del giornalista palermitano Leone Zingales. Sono mini-biografie di "uomini d' onore" di rango, da Pippo Calo' a Benedetto Santapaola, da Bernardo Provenzano a Toto' Riina. Nel volume anche il profilo di collaboratori di giustizia, da Tommaso Buscetta a Salvatore Cancemi.

25 maggio - "La Repubblica"
Strage di via D'Amelio
i misteri dell'Utveggio
Tutti gli indizi di una pista mai seguita
La deposizione del consulente Genchi rilancia i sospetti sul Sisde
ENRICO BELLAVIA
Misteri, silenzi e ipotesi intorno a due stragi. Il contesto che non c'è nei processi di Caltanissetta per gli eccidi Falcone e Borsellino è altro rispetto alla mafia. Altro rispetto ai boss e ai gregari che organizzarono e attuarono le stragi. La deposizione del vicequestore Gioacchino Genchi al processo bis d'appello per la strage di via D'Amelio disegna uno scenario e contribuisce forse a collocare alcune tessere in un mosaico che ha interi pezzi mancanti, nonostante gli sforzi coronati da successi giudiziari di perseguire i responsabili mafiosi. Da Genchi arrivano alcuni dati di fatto e una serie di dubbi. I fatti sono i tabulati telefonici che raccontano di strane telefonate. I dubbi sono legati al destino di quegli accertamenti, iniziati e lasciati a metà dopo il trasferimento del funzionario nel maggio del 1993. Pezzo per pezzo ecco una ricognizione sugli episodi riferiti in aula dal funzionario. Il biglietto sulla montagna. Fu trovato nei pressi della costruzione dalla quale Giovanni Brusca premette il telecomando della bomba di Capaci. "Nel bigliettino - ha spiegato Genchi - c'era il numero di un soggetto che era nel Sisde il vice di Contrada". L'agenda di Falcone. Era un data bank con gli appunti del magistrato. Genchi lo esaminò e trovò la certezza che nel 1991, con Giannicola Sinisi, fosse andato a incontrare Gaspare Mutolo nel carcere di Spoleto. Al deposito di quella relazione Genchi fa risalire la sua estromissione dalle indagini. Qualcuno "dell'ufficio" lo avrebbe indotto a non depositare i risultati. Anche Borsellino da Mutolo. Il giudice interrogò il pentito dopo la morte di Falcone. Poi avrebbe incontrato sia l'allora capo della polizia Parisi che il ministro Mancino. Ma "un carabiniere della Dia - nota Genchi - riferisce che Borsellino era stravolto per due telefonate". Analizzando i dati di traffico, le due telefonate risultano dirette ai cellulari di Pierluigi Vigna e di Gianni Tinebra. I telefonini clonati. Gli stragisti avrebbero utilizzato un lotto di Nec P 300 clonati. I pentiti dicono che i telefonini li ebbero nel 1993. Gli apparecchi risultano però in attività a partire dal 1991. "Le utenze potevano essere state clonate o da Cosa nostra o da altri soggetti che possono aver utilizzato volutamente gli stessi metodi di Cosa nostra". Le telefonate ai numeri del Cerisdi. Due le chiamate interessanti: una è del 1992 ed è di Gaetano Scotto, latitante, condannato all'ergastolo per la strage Borsellino. Scotto, con un passato di contatti con esponenti dell'eversione nera e in attività anche in Emilia Romagna, è fratello di Pietro. Quest'ultimo, tecnico telefonico di una società privata, fu sospettato e poi scagionato dall'accusa di avere intercettato il telefono di casa della madre di Paolo Borsellino. L'altra, del 1991, è quella di Gaetano Scaduto, killer bagherese, responsabile dell'omicidio di Ignazio Salvo.
Le altre telefonate. Sono dirette a utenze di villini di Villagrazia di Carini, lungo il tragitto che Paolo Borsellino seguì tornando a Palermo la domenica in cui fu ucciso. Incrociando i dati telefonici risultano chiamate anche a Villa Igiea, dove, secondo dati investigativi, c'erano latitanti. A chiamare uno dei cellulari clonati del gruppo di Gioacchino Calabrò, boss di Castellamare.
La base degli attentatori. Si ipotizzò "subito" che gli attentatori di via D'Amelio avessero operato da una postazione sopraelevata, come per Capaci. Dal castello Utveggio, appunto. Lì, secondo il funzionario, erano state sistemate anche delle apparecchiature da parte della stessa società per cui lavorava Scotto.
La replica di Bruno Contrada. Sentitosi chiamare in causa l'ex dirigente del Sisde ha chiarito: "Dal dicembre '91 al settembre '93 il capo del Centro Sisde di Palermo è stato il colonnello dei carabinieri Andrea Ruggeri, di Torino, in ottimi rapporti con l'ex procuratore Gian Carlo Caselli. Genchi - ha aggiunto Contrada - dovrebbe sapere che un ufficiale di polizia giudiziaria che depone deve portare prove e non ipotesi. Le ipotesi si fanno in altre sedi di lavoro".

26 maggio - Due cugini che portano lo stesso nome, Gioacchino Capizzi, di 67 e 58 anni, sono stati arrestati a Palermo da carabinieri con l' accusa di associazione mafiosa e favoreggiamento in concorso con numerosi boss tra i quali Toto' Riina e Bernardo Provenzano. Il piu' anziano, soprannominato 'Il gobbo', avrebbe ospitato anche il bandito Salvatore Giuliano. Gli ordini di custodia cautelare sono stati firmati dal Gip Vivetta Massa, sulla base della dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia: Francesco Marino Mannoia, Santo Di Matteo, Giovanni Brusca, Gioacchino e Domenico La Barbera. In particolare Marino Mannoia ha sostenuto che negli anni della sua giovinezza"il gobbo" avrebbe aiutato, mentre era latitante, anche il bandito Salvatore Giuliano. Secondo i pentiti Capizzi senior, indicato come "capo decina" di Villagrazia, si sarebbe specializzato negli anni proprio nella copertura di numerosi boss latitanti. Tra gli altri avrebbe offerto ospitalita' allo stesso Marino Mannoia, Andrea Di Carlo, Mariano Marchese, ed avrebbe incontrato in diverse occasioni Giovanni Brusca e Pietro Aglieri. Capizzi e' accusato anche di avere partecipato all' omicidio di Giovanni Lallicata, eliminato con il metodo della "lupara bianca" il 19 maggio 1979. L' uomo, affiliato alla cosca di Pippo Calo', sarebbe stato strangolato nella casa del "gobbo" dallo stesso capo mafia. I particolari di questo delitto furono rivelati da Tommaso Buscetta in occasione di un drammatico confronto con Calo' avvenuto in aula durante il primo maxiprocesso. Capizzi e' accusato di avere partecipato anche al duplice omicidio dei fratelli Lupo. Il cugino, pure lui ritenuto "uomo d' onore" della famiglia di Villagrazia, lo avrebbe aiutato a nascondere numerosi ricercati mafiosi.

28 maggio - I giudici della seconda sezione del tribunale di Palermo hanno deciso che il 4 giugno prossimo scioglieranno la riserva sulla richiesta della Procura di sentire Silvio Berlusconi come indagato di reato connesso (per un' accusa gia' archiviata) nel processo a Marcello Dell' Utri, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. "Stiamo raccogliendo numerose adesioni per costituire l' associazione vittime di Filippo Alberto Rapisarda". Lo ha annunciato in aula Marcello Dell' Utri, a conclusione delle spontanee dichiarazioni fatte stamane a fine udienza. "Pubblicizzeremo questa iniziativa - ha detto Dell' Utri - anche attraverso i giornali. Alla prossima udienza saro' anche in grado di dire chi sara' il presidente di questa associazione, per me ho tenuto quella di presidente onorario". Nell' udienza sono stati sentiti due testi, Ivette Brutt e la figlia Brigitte Monterosso. La prima si e' avvalsa della facolta' di non rispondere, perche' indagata di reato connesso, mentre la seconda ha risposto alle domande del pm Antonio Ingroia, ed ha ricordato che la madre aveva lavorato per Rapisarda ma la loro collaborazione fu interrotta in maniera brusca. Secondo Monterosso la madre avrebbe dovuto costituire una societa' con Dell' Utri.

28 maggio - Il giudice monocratico Antonella Pappalardo condanna a un anno di reclusione per falsa testimonianza Giuseppa Riccobono, figlia del vecchio capomafia Saro, sparito nel 1982 durante la "guerra di mafia" a Palermo, e la parrucchiera Antonina Davi'. Il pm Antonio Ingroia aveva chiesto che fossero condannate a due anni di reclusione l' una. La pena e' stata inflitta per avere mentito in un' udienza del primo processo per concorso in associazione mafiosa a Bruno Contrada, condannato a 10 anni di reclusione e che in appello il mese scorso e' stato assolto per non aver commesso il fatto. Interrogata in aula, la figlia del boss (quasi certamente vittima della "lupara bianca" ordinata da Toto' Riina), nego' al pm di aver detto a vicini di casa che il padre "andava a braccetto" con il funzionario di polizia poi passato al Sisde e ora in pensione. La dichiarazione era stata confermata dalla parrucchiera che pero' in un secondo tempo l' aveva ritrattata. Anche Giuseppa Riccobono pertanto era stata denunciata per falsa testimonianza.

29 maggio - L' Italia non puo' processare il boss Tano Badalamenti. Lo sostengono gli avvocati Carmelo Franco, Paolo Gullo e Graziano Masselli, difensori del capomafia di Cinisi, che hanno eccepito davanti alla corte d' assise di Palermo l' improcedibilita' dell'azione penale nei confronti del loro assistito. Sull' istanza, i giudici, che processano Badalamenti per l' omicidio di Stefano Gallina, ucciso a Carini nel 1983, decideranno alla prossima udienza. Ad impedire che il boss salga sul banco degli imputati nelle aule di giustizia italiane sarebbe, secondo i penalisti, un provvedimento emanato dall' autorita' giudiziaria spagnola nel 1984. Nell' atto, la Spagna, paese in cui il capomafia era stato arrestato, concedeva l' estradizione di Badalamenti agli Stati Uniti a condizione che questi non lo consegnassero all' Italia. Della disposizione pero' non avrebbero tenuto conto ne' l'autorita' giudiziaria italiana, che si sarebbe rivolta direttamente agli Usa per la consegna di Badalamenti, ne' quella americana che, in forza di un trattato bilaterale, ritenuto inesistente dai legali, ha concesso al nostro Paese di processare, seppure in videoconferenza, il capomafia. Il provvedimento spagnolo, prodotto dai penalisti, di fatto rendererebbe nulle tutte le attivita' processuali compiute a carico del boss dai tribunali italiani. A saltare, se la questione fosse ritenuta fondata, sarebbe non solo il processo per il delitto Gallina, ma anche quello per l' omicidio Impastato. E proprio agli atti di questo dibattimento nei prossimi giorni verra' depositata la decisione dell'autorita' spagnola.

30 maggio - Il sostituto procuratore generale Anna Maria Romeo chiede alla corte d' assise d' appello, nel processo "Borsellino bis", la trasmissione alla procura della Repubblica del verbale della scorsa udienza in cui e' stato sentito il vice questore Gioacchino Genchi. Il funzionario sollevo' dubbi circa le indagini su via D' Amelio. La Corte ha accolto la richiesta. Secondo Genchi, sentito come consulente della Procura, Paolo Borsellino due giorni prima della strage aveva avuto contatti telefonici con l'allora procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna e con quello di Nicosia Gianni Tinebra, nominato a capo dei pm di Caltanissetta dopo la morte del magistrato palermitano.

31 maggio - L' agguato in cui vennero uccisi il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emmanuela Setti Carraro e l' agente di scorta Domenico Russo, e' stato ricostruito al computer dai tecnici dell' Unita' di analisi del crimine violento della Polizia scientifica. La ricostruzione dinamica della strage di via Isidoro Carini verra' depositata dalla Procura agli atti del processo in corso in corte d' assise nei confronti di quattro degli esecutori materiali dell' eccidio. Il lavoro degli esperti della scientifica si e' basato sui reperti raccolti dagli investigatori nei giorni successivi alla strage e si aggiunge alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci, che fecero parte del gruppo di fuoco di Cosa nostra. Dalla simulazione virtuale dell' attentato e' emerso che l' A112, su cui si trovavano il prefetto e la moglie, venne affiancata e superata da una Bmw 518 su cui viaggiavano Antonino Madonia e Calogero Ganci. A fare fuoco con un kalashnikov fu Madonia che sparo' dando le spalle al parabrezza. Una seconda vettura, guidata da Anzelmo, seguiva il prefetto, pronta ad intervenire per bloccare l' eventuale reazione dell' agente di scorta. Russo fu assassinato da Pino Greco Scarpazzedda che seguiva i suoi complici a bordo di una moto. La A112, dopo essere stata investita dal fuoco del kalashnikov, sbando', costringendo l' auto dei killer a sterzare bruscamente a destra. L' attrito tra le due macchine sarebbe provato da un profondo solco sulla fiancata dell' automobile di dalla Chiesa. La ricostruzione conferma che Scarpazzedda giunse sul luogo del delitto quando i suoi complici avevano gia' fatto fuoco sul prefetto. Il particolare era stato raccontato agli investigatori dai pentiti Ganci e Anzelmo, secondo i quali Pino Greco avrebbe protestato per non essere riuscito a sparare per primo. "Me li avete fatti trovare morti", avrebbe detto il killer. Per la morte del generale Dalla Chiesa, sono gia' stati condannati all' ergastolo i componenti della Cupola di Cosa nostra. La sentenza e' diventata definitiva nel marzo del 1995. Alla sbarra di fronte ai giudici della corte d' assise come esecutori materiali oltre ad Anzelmo e Ganci ci sono ora Antonino Madonia, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Raffaele Ganci, padre del collaboratore di giustizia.

4 giugno - L' avvocato Enzo Trantino, difensore di Dell'Utri, in apertura dell' udienza del processo allo stesso Dell'Utri, dice che "Il presidente Silvio Berlusconi e' pronto a deporre, ma solo per rispondere su fatti riferiti al processo a Marcello Dell' Utri e non a consulenze finanziarie che riguardano un procedimento gia' archiviato". Il tribunale, che giudica il parlamentare forzista per concorso esterno in associazione mafiosa, non ha ancora stabilito se ascoltare o no Berlusconi. La decisione del collegio presieduto da Leonardo Guarnotta era attesa per oggi. Il processo e' stato rinviato a lunedi' 18 giugno. Secondo i difensori, non tutti i documenti che riguardano la consulenza sulle holding Fininvest sono stati depositati. Ed e' per questo motivo che i giudici non hanno stabilito se sentire Silvio Berlusconi come imputato di reato connesso archiviato, in riferimento a una consulenza finanziaria sulle societa' che formano la Fininvest firmata dal funzionario di Bankitalia Francesco Giuffrida e su un rapporto della Direzione investigativa antimafia redatto sul medesimo argomento dal maresciallo Giuseppe Ciuro. Nelle due relazioni si fa cenno a un aumento di capitale delle holding avvenuto alla fine degli anni Settanta. Il pm Antonio Ingroia, rispondendo all' avvocato Trantino, ha osservato che i due rapporti servono a riscontrare le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo e dell' imprenditore Filippo Alberto Rapisarda. Entrambi hanno fatto riferimento a Dell' Utri come tramite fra mafiosi palermitani e la Fininvest per far transitare grosse somme di denaro. "Il periodo di cui parlano i due testi - ha detto Ingroia - coincide con quello rilevato nelle consulenze circa l' aumento del capitale sociale che e' avvenuto in contanti. A Berlusconi vogliamo chiedere spiegazioni su quelle somme". A giudizio del collegio di difesa "il pm vuole trovare qualcosa laddove nell' altro processo (quello in cui Berlusconi e' stato indagato per riciclaggio ed e' stato archiviato) non e' stato trovato". Per l' avvocato Trantino "si corre il rischio di riaprire la campagna elettorale su un documento giudiziario". I difensori di Dell' Utri hanno anche rinnovato l' opposizione alla deposizione di Giuffrida e Ciuro, sostenendo di non avere ancora avuto a disposizione tutto il materiale su cui il consulente di Bankitalia e il sottuficiale della Dia hanno lavorato.

7 giugno - Nella motivazione con cui la Corte di Cassazione, il 27 aprile, ha annullato (rinviandole alla Corte di Assise di Appello di Palermo) le condanne all' ergastolo inflitte a nove capi-mandamento (Francesco Madonia, Giuseppe Calo', Giuseppe Graviano, Pietro Aglieri, Salvatore Montalto, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella e Benedetto Spera) per l'omicidio di Salvo Lima, l' europarlamentare Dc ucciso a Mondello il 12 marzo 1992, 'Cosa Nostra' non ha regole "inconfutabili", cambia col cambiar dei tempi e il teorema Buscetta vale solo fino ai primi anni '80. Dunque non si applica alla stagione dei delitti eccellenti e della strategia stragista l'assunto per cui tutti i boss della 'Cupola' sono da considerarsi "mandanti" dei gravi fatti di sangue. In particolare i supremi giudici, nelle 50 pagine della sentenza pubblicata oggi, criticano i magistrati palermitani per aver applicato "l'assioma" Buscetta a un delitto avvenuto durante "l'autocrazia" di Toto' Riina il quale, in base alle dichiarazioni degli unici due pentiti (Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi) che avevano conoscenza diretta della genesi di questo delitto, aveva decretato la morte di Lima in una "riunione ristretta". Rileva la Cassazione: "le acquisizioni dimostrano che gli altri imputati, quali capi-mandamento o sostituti, non erano presenti ne' avevano fatto pervenire pareri nel momento in cui era stato deciso l'omicidio Lima, onde non vi e' prova che siano stati avvertiti della decisione". Pertanto la Suprema Corte ha confermato la condanna ai soli Riina, Raffaele Ganci e Buscemi: ovvero gli unici boss per i quali la prova e' raggiunta perche' riscontrata dalla parola dei due pentiti di rango. Per gli altri capi-mandamento la Cassazione afferma che non c'e alcuna prova che suffraghi il loro concorso in omicidio. E precisa che costituisce una "elusione dell'onere probatorio" il dare credito a "generiche affermazioni" di dichiaranti che sostengono che Riina avvertiva tutti - ad esempio i boss detenuti - tramite "avvocati e bigliettini". Stando alla ricostruzione di Brusca e Cancemi, osservano i supremi giudici, essa non dice "affatto che Riina abbia preavvertito gli altri boss dell'assunzione dell'omicidio Lima, che sostengono adottata dallo stesso Riina con l'assenso di poche altre persone (Ganci, Biondino e Cancemi)". Per la Cassazione, il verdetto di merito e' caduto in un "circolo vizioso": "puo' anche darsi che gli affiliati a Cosa Nostra - scrivono i supremi giudici - nella loro logica, ritengano gli assenti non avvertiti, solo per l'incarico da loro rivestito nella 'Cupola', responsabili della decisione di uccidere Lima. Ma sicuramente, tal cosa e' irrilevante ai fini di una condanna per omicidio da pronunciarsi in nome del popolo italiano". In breve la Suprema Corte ritiene che l'appartenenza alla Commissione provinciale di Cosa Nostra non ha come conseguenza l'assunzione di responsabilita' per tutti i maggiori crimini. A rafforzare la tesi della mancanza di collegialita' nell'era Riina, la Cassazione sottolinea come, dopo il suo l'arresto, il prosieguo della "strategia" dei delitti eccellenti e poi di quella stragista (con gli attentati a Roma, Firenze e Milano) sia stato deciso in riunioni "ristrette" che non tengono in alcun conto la "regola inconfutabile" del teorema Buscetta. E la Suprema Corte ci tiene a precisare di non aver "mai stabilito in nessuna sentenza che esiste una regola inconfutabile di Cosa Nostra, da cui derivi l'assioma che i 'delitti eccellenti' di mafia sono decisi esclusivamente e in ogni tempo dalla Commissione". La Cassazione ammette di aver detto (nel verdetto del '92 sul maxiprocesso-uno) che "l'appartenenza alla Commissione consente di riferire a chi ne fa parte le decisioni piu' importanti, percio' anche gli omicidi di particolare rilevanza". Ma questa massima di diritto, conclude la magistratura di legittimita', "per quanto si voglia dilatarne il senso, riconosce al fatto di appartenere alla Commissione esclusivamente la valenza di indizio a carico dei suoi membri".

7 giugno - Il tribunale di Marsala ha inflitto oltre 50 anni di carcere a sette degli 11 imputati del processo scaturito dall' operazione antimafia "Progetto Belice" (1998). La pena piu' severa (15 anni e due di casa-lavoro) per il boss Matteo Messina Denaro, latitante, recentemente condannato all' ergastolo per alcuni omicidi. A 10 anni di detenzione ciascuno sono stati condannati Salvatore Messina Denaro, fratello maggiore di Matteo, e Vincenzo La Cascia. Sono stati, invece, assolti Giuseppe Ingrasciotta, Gaspare Lipari, Enrico Risalvato e Pasquale Messina. Il 9 aprile scorso il p.m. Roberto Piscitello aveva chiesto la condanna di tutti gli imputati a complessivi 152 anni di carcere. I reati contestati agli imputati erano di associazione mafiosa, estorsione, incendio e danneggiamenti, nonche' favoreggiamento di latitanze "eccellenti", fra le quali, in primo luogo, proprio quella di Matteo Messina Denaro, ritenuto esponente di primissimo piano di "cosa nostra" e implicato nelle stragi di Firenze e Roma (1993). Alcuni dei 24 iniziali imputati sono stati condannati separatamente con il rito abbreviato o con il patteggiamento a Palermo dove le indagini sono state coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia. L' operazione fu condotta a termine per attentati, estorsioni e intimidazioni nella Valle del Belice negli anni '90. Secondo l'accusa Matteo Messina Denaro fu spalleggiato piu' volte dal fratello maggiore Salvatore che era impiegato nell' agenzia di Sciacca (Agrigento) della Banca Sicula poi assorbita dalla Banca Commerciale Italiana. Uno degli attentati piu' clamorosi attribuiti alla cosca fu un incendio appiccato in un terreno confiscato dallo Stato in contrada Zangara, a Castelvetrano, che figurava di proprieta' del gioielliere Francesco Geraci e che per stessa ammissione di questi in realta' era appartenuto a Toto' Riina e a Messina Denaro. Per lanciare un minaccioso messaggio, la mafia incendio' l' appezzamento di terreno. Gli inquirenti ritennero di aver acquisito certezza della responsabilita' di Matteo Messina Denaro dopo aver piazzato una microspia sull' automobile utilizzata dagli attentatori.

9 giugno - "La Repubblica"
Dell'Utri rinviato a giudizio
Per calunnia nei confronti di alcuni pentiti
ENRICO BELLAVIA
PALERMO - Ci fu una combine per tentare di dimostrare con accuse false che i pentiti si erano messi d'accordo. Almeno così crede il giudice dell'udienza preliminare Alfredo Montalto che manda Marcello Dell'Utri a giudizio anche per calunnia aggravata. Disse il falso sul conto di tre collaboratori di giustizia, tre dei suoi accusatori nel processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Con Francesco Di Carlo, Domenico Guglielmini e Francesco Onorato nella qualità di parte lesa, Dell'Utri sarà sotto processo dal 17 settembre prossimo. Alla sbarra anche un collaboratore di giustizia in veste di presunto calunniatore: Cosimo Cirfeta, ex pentito di Lecce. Il procedimento contro Dell'Utri nacque sul finire del 1998, da una costola di quello principale. Fu lo stesso imputato a rivelare di avere avuto informazioni precise circa l'esistenza di un complotto per accusarlo. La sua fonte era Cirfeta. Ma la procura era già stata avvertita di una possibile combine. Aveva accertato incontri tra Dell'Utri e Giuseppe Chiofalo, un altro collaboratore di giustizia, processato a parte. In una occasione Dell'Utri era stato filmato mentre entrava a casa di Chiofalo con una valigetta. "Regali per i bambini", si difese poi il parlamentare forzista. Chiofalo raccontò invece che Dell'Utri gli disse: "Confermi le accuse di Cirfeta e la farò ricco". Successivamente nell'appartamento furono trovati 80 milioni. Altri collaboratori riferirono nel frattempo che Cirfeta e Chiofalo si erano dati un gran da fare per contattarli e indurli a sostenere le loro tesi. Si arrivò così, nel marzo del 1999, a una richiesta di arresto per Dell'Utri, accolta dal gip e respinta dalla Camera. Per i pm Nico Gozzo e Antonio Ingroia, gli stessi che sostengono l'accusa per mafia, "viene confermato l'impianto accusatorio". Dello stesso avviso Ermanno Zancla e Francesco Alfano, legali di Di Carlo e Gugliemini i primi collaboratori a costituirsi parte civile contro un senatore. Laconico Giuseppe Di Peri, difensore di Dell'Utri, insieme con l'avvocato Pietro Federico, "l'istruttoria non sarebbe stata sufficientemente approfondita". Lui, l'imputato, si dice sicuro che riuscirà a dimostrare "dinanzi al tribunale giudicante che le accuse sono del tutto infondate". Ma punta l'indice contro i suoi accusatori che a suo dire avrebbero "inopinatamente trascurato gravi e circostanziati fatti di appattamento tra collaboranti".

10 giugno - "Il Corriere della sera"
Palermo, il dossier '92-'93 sulle alleanze perseguite dalla mafia svela l'intreccio tra clan, massoni e neofascisti: "Un patto eversivo dietro le stragi"
"Ecco i piani politici di Cosa nostra"
Creati movimenti separatisti nel Sud "Rapporti con la Lega"
ROMA - Accadeva tutto dieci anni fa, alla vigilia delle stragi mafiose che sconvolsero l'Italia, ma la storia viene scritta soltanto oggi. Una storia che, in estrema sintesi, si può riassumere così: tra il 1991 e il 1992 la Cosa Nostra di Totò Riina decise di entrare sulla scena politica con nuovi referenti, spazzando via quelli utilizzati fino ad allora e alleandosi con altri "poteri criminali" e settori deviati della massoneria. Il collante dell'alleanza fu un progetto separatista che doveva cavalcare il vento leghista che spirava dal Nord, ma alla fine del '93 quel progetto - andato avanti di pari passo con la "strategia della tensione" messa in atto attraverso gli omicidi e le bombe - si interruppe: la mafia cambiò cavallo e la "ristrutturazione" dei rapporti con la politica "venne perseguita dirottando tutte le risorse nel sostegno di una nuova formazione politica nazionale" apparsa sulla scena, Forza Italia. Questa ricostruzione non è un esercizio di fantasia letteraria, ma l'ultimo atto delle inchieste "politiche" della Procura di Palermo avviate durante la gestione di Gian Carlo Caselli: centocinquanta pagine con le quali il procuratore aggiunto Scarpinato e i sostituti Ingroia e Gozzo (con il "visto" del procuratore Grasso e dell'altro aggiunto Lo Forte) chiedono al gip di archiviare il procedimento sui cosiddetti "sistemi criminali", ricostruendo però una serie di episodi e legami "sufficientemente provati" che ripropongono le relazioni pericolose tra mafia, politica, eversione nera e massoneria. Un giudice dovrà ora stabilire se mandare tutto in archivio come chiedono i pm, rinviare a giudizio gli indagati (tra gli altri Riina, Gelli e Delle Chiaie) oppure ordinare nuove indagini. Da settimane quelle pagine che rileggono e riscrivono un pezzo della storia d'Italia più recente sono approdate anche alla Procura di Caltanissetta - che le allegherà all'inchiesta su Berlusconi e Dell'Utri, anch'essa conclusasi con una richiesta di archiviazione - e negli uffici romani della Direzione nazionale antimafia. Alla fine i pm di Palermo si sono convinti che manca la prova del legame tra la "strategia del terrore" di Cosa Nostra (cui verosimilmente hanno collaborato anche "entità esterne") e il programma politico sponsorizzato da massoneria ed estrema destra, al quale la mafia avrebbe comunque dato il suo appoggio. Sono però "sufficientemente provati" molti punti di contatto tra i due momenti, così come gli episodi che permettono di ricostruire l'evoluzione politica di Cosa Nostra passata - secondo i magistrati - dall'appoggio alla corrente andreottiana in Sicilia a quello a Forza Italia, dopo un intermezzo di interesse leghista (naturalmente di tendenza meridionalista).
IL PENTITO MESSINA - Il primo pentito a parlare di questo "progetto politico-eversivo" (nell'inchiesta ne sono stati interrogati più di sessanta) è Leonardo Messina. L' ex uomo d'onore di San Cataldo parla di diverse riunioni tra Riina, Provenzano e altri capi mafiosi che tra il '91 e il 92 discussero di "un progetto politico finalizzato alla creazione di uno Stato indipendente del Sud, all'interno di una separazione dell'Italia in tre Stati... In tal modo Cosa Nostra si sarebbe fatta Stato. Il progetto era stato concepito dalla massoneria". Messina riferisce anche di una "Lega Sud" che doveva essere la "risposta naturale" alla Lega Nord, il cui "vero artefice era Miglio (Gianfranco Miglio, eletto senatore con la Lega e poi passato al gruppo misto, ndr ), dietro il quale c'erano Gelli e Andreotti". Queste affermazioni, secondo la Procura di Palermo, hanno trovato molti riscontri, uno dei quali arrivato nel '99 da un'intervista nella quale lo stesso Miglio racconta che "con Andreotti ci trovammo a trattare di nascosto a Villa Madama...". A parte le dichiarazioni coincidenti di molti altri pentiti non solo di mafia, ma anche della 'ndrangheta e della Sacra corona unita, c'è la nascita delle Leghe meridionali fino alla creazione del movimento "Sicilia libera", emanazione diretta del cognato di Riina e pluriergastolano Leoluca Bagarella.
IL PROGETTO LEGHISTA - Dalle indagini svolte dalla Procura palermitana risulta "sufficientemente provato" che, mentre "all'interno di Cosa Nostra si ipotizzò l'inasprimento delle istanze separatiste storicamente latenti in Sicilia e lo sfruttamento del successo politico della Lega Nord, al fine di favorire la secessione della Sicilia e delle altri regioni meridionali d'Italia, per poter meglio gestire in sede politica gli interessi illeciti del sistema criminale", al Sud "cominciarono a formarsi nuovi soggetti politici di ispirazione separatista, prevalentemente ispirati da personaggi legati alla massoneria e alla criminalità organizzata". Questi movimenti, sempre secondo la Procura, "stabilirono rapporti con la Lega Nord" al cui interno, "soprattutto alle origini, vi erano influenti personaggi legati alla massoneria". Nel documento viene evidenziato il proliferare delle Leghe meridionali tra il '90 e il '92, sponsorizzate anche da Gelli e dall'ex esponente di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie; e si ricorda l'appoggio fornito da Umberto Bossi alle loro iniziative, anche con la diretta partecipazione ad alcune manifestazioni come a Perugia, nel dicembre '90, a favore della Lega Umbra, e a Catania, nel giugno '91, per la Lega Sud Sicilia.
IL MOVENTE POLITICO - Nel frattemp o l'esercito di Cosa Nostra aveva dichiarato guerra allo Stato, prima uccidendo Salvo Lima e poi facendo saltare in aria i giudici Falcone e Borsellino. A parte l'ovvia esigenza di togliere di mezzo i due principali avversari della mafia, l'inchiesta ha messo in luce altri possibili moventi, soprattutto dei delitti Lima e Falcone. Quest'ultimo, come Lima, sarebbe stato eliminato anche per sbarrare la strada ad Andreotti nella corsa al Quirinale, con un attentato che venne stranamente preannunciato alla vigilia della strage di Capaci. In piena bagarre per l'elezione del nuovo capo dello Stato, sull'agenzia di stampa "Repubblica" compare un articolo (che le indagini hanno attribuito a Vittorio Sbardella, defunto deputato andreottiano) nel quale si evoca "qualcosa di drammaticamente straordinario... un bel botto esterno a giustificazione di un voto di emergenza...". L'indomani Falcone salta in aria, e subito dopo al Quirinale sale Scalfaro. Secondo la Procura di Palermo, Cosa Nostra potrebbe aver deciso di punire Andreotti anche perché il senatore a vita fu tra i politici che prima "avevano promesso di appoggiare" il progetto leghista messo in piedi dalla mafia e dalla massoneria, "ma poi si erano tirati indietro".
LA SVOLTA - All'improvviso, nel 1993, si fermano sia le stragi sia l'appoggio alle Leghe meridionali, fino alla loro scomparsa. I pentiti raccontano (e per la Procura dicono la verità) che la mafia decide di appoggiare il neonato partito di Forza Italia. Alcuni personaggi di "Sicilia libera" fondano un club del movimento berlusconiano sull' isola mentre un altro elemento emerge "dalle annotazioni nelle agende e rubriche telefoniche sequestrate all'on. Dell' Utri, uno dei principali artefici del progetto politico di Forza Italia; un tessuto di
relazioni che legava molti dei principali esponenti siciliani del nuovo movimento politico ai protagonisti della più recente stagione "meridionalista"". La ricostruzione storica dei pm dell'antimafia finisce qui. L'inchiesta va archiviata perché non è stato trovato il legame certo tra queste strategie che comunque - affermano i magistrati - si sono certamente sviluppate negli stessi periodi e a volte attraverso gli stessi personaggi. Ma le indagini non si fermano: due nuove inchieste - sui mandanti occulti del delitto Lima e sulla trattativa tra Riina e lo Stato dopo la strage di Capaci - sono state aperte per continuare a scavare in un passato ancora misterioso.
Giovanni Bianconi
IL VERBALE
Ciancimino: un regista dietro la morte di Lima e Falcone. So chi è ROMA - La chiave di volta, forse, è proprio l'omicidio di Salvo Lima, l'eurodeputato "fedelissimo" di Giulio Andreotti ammazzato lungo una strada di Mondello, a Palermo, il 12 marzo 1992. Un delitto interpretato - anche nei processi ad esecutori e mandanti - come un regolamento di conti all'interno di Cosa Nostra: la vendetta della mafia contro un suo "referente politico" che aveva tradito i patti. Ma per la Procura di Palermo, adesso, "v'è più di una risultanza che depone nel senso della sussistenza di un movente occulto dell'omicidio Lima, più prettamente politico, che trascende dagli interessi di Cosa Nostra e converge con essi". Per tentare di scoprirlo, è stata aperta una nuova inchiesta. Di quel delitto e della successiva strage di Capaci ha parlato ai magistrati - a modo suo - anche Vito Ciancimino, l'ex sindaco di Palermo condannato per associazione mafiosa. "Le mie conclusioni - spiega Ciancimino in un verbale del 5 agosto '97 - nascono da un ragionamento che ho fatto a posteriori sulla base di alcuni frammenti di "mormorii" che si ascoltavano nell'ambiente politico romano (...) da me percepiti in luoghi intorno a Montecitorio e nei pressi di piazza San Lorenzo in Lucina (ove si trova lo studio del sen. Andreotti, nonché il salone di barbiere dove uso recarmi e la caserma dei carabinieri ove in un certo periodo ero obbligato ad apporre la mia firma) dove mi accadeva di incontrare vari parlamentari di diversi partiti e correnti, da me non conosciuti...". Ciancimino si sofferma sul duello per l'elezione del presidente della Repubblica, nella primavera del '92, e dice: "Sono certo che vi era qualcuno particolarmente ostile alla candidatura di Andreotti: si tratta di colui il quale io penso potrebbe essere stato "un architetto" del disegno politico che, tramite l'omicidio Lima e soprattutto le modalità eclatanti dell'uccisione di Falcone, aveva come obiettivo di "sconvolgere il Parlamento", così determinando le condizioni per fare eleggere un presidente della Repubblica, naturalmente diverso da Andreotti. Io ho in testa il nome del possibile "architetto", ma non ho le prove per poterlo affermare, e comunque non lo direi mai, anche perché se costui è stato capace di tanto, né io né i miei familiari potremmo mai essere al sicuro, dovunque". Il 3 aprile '98, in un nuovo verbale, Ciancimino conferma le sue convinzioni: "L'attentato in pregiudizio del dott. Giovanni Falcone è stato pilotato per impedire l'elezione dell'on. Andreotti a presidente della Repubblica... Falcone poteva essere agevolmente ucciso mentre si trovava a Roma, in quanto in questa città mi è capitato di incontrarlo senza scorta, (...) senza il "teatro" messo in scena a Capaci. Quella strage venne fatta per far "tremare l'Italia". In effetti, a seguito di quel fatto, l'Italia tremò, e non si fece quello che avrebbe voluto fare parte della Dc. I deputati di quel partito avevano deciso che, se fosse stata bloccata la candidatura di Forlani, sarebbe stata portata avanti quella di Andreotti. E' possibile quindi che qualche autorevole esponente politico nazionale abbia potuto architettare quell'uccisione spettacolare". Poi Ciancimino ritorna su Lima: "L'ho frequentato per quarant'anni, conosceva l'ambiente mafioso e avrebbe capito, grazie alle sue relazioni, se la sua vita fosse stata in pericolo. Evidentemente non s'è reso conto del pericolo esistente, tant'è vero che non ha adottato nessuna precauzione... Ne deriva che l'eliminazione di Lima deve essere ricondotta a un tentativo di colpire Andreotti. Il progetto, in concreto, non riuscì, ed ecco perché vi fu la necessità di eliminare il dott. Falcone, con quel modo appariscente".
Gio. Bia.

10 giugno - I boss di Cosa nostra fra il 1991 ed il 1993, con l'appoggio della massoneria deviata e dell' estrema destra, progettavano un golpe, volevano dividere il meridione dal resto d' Italia. Lo sostengono i magistrati della procura di Palermo nella richiesta di archiviazione presentata al gip per l'inchiesta "sistemi criminali". La notizia e' pubblicata dal "Corriere della Sera" e da "La Stampa". I pm sottolineano nel provvedimento che sono scaduti i termini delle indagini senza che fossero emerse "prove certe" nei confronti dei 14 indagati: Licio Gelli, Stefano Menicacci, Stefano Delle Chiaie, Rosario Cattafi, Filippo Battaglia, Toto' Riina, Giuseppe e Filippo Graviano, Nitto Santapaola, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Giovanni Di Stefano, Paolo Romeo e Giuseppe Mandalari. Secondo la tesi della Procura, Cosa nostra "voleva farsi Stato", e avrebbe tentato di abbracciare "un golpe separatista". I capimafia, Riina, Provenzano, Madonia e Santapaola avrebbero deciso nel 1991 una "strategia della tensione" (omicidio di Salvo Lima, stragi di Capaci e via D'Amelio, gli attentati a Roma, Firenze e Milano), che sarebbe poi stata affiancata da un piano, proposto da Licio Gelli, Stefano Delle Chiaie e Stefano Menicacci, che prevedeva "un nuovo progetto politico": la creazione di un movimento meridionalista e la nascita delle Leghe meridionali. Il progetto, pero', alla fine del 1993 si interruppe: secono i pm la mafia cambio' gli appoggi politici e "furono dirottate tutte le risorse - scrivono i magistrati - nel sostegno di una nuova formazione politica nazionale apparsa sulla scena". Il provvedimento, firmato dal procuratore aggiunto Roberto Scarpinato, dai sostituti Nico Gozzo e Antonio Ingroia e vistato dal procuratore Piero Grasso e dall'aggiunto Guido Lo Forte, e trasmesso alle procure di Caltanissetta e Firenze e alla Direzione nazionale antimafia, fa riferimento anche ad un mandante occulto, su cui sono state avviate indagini, per gli omicidi di Salvo Lima e del giudice Giovanni Falcone. La tesi e' sostenuta anche dalle dichiarazioni dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, agli arresti domiciliari a Roma, il quale afferma che: "e' possibile che un autorevole esponente politico - dice Ciancimino - abbia potuto architettare quell'uccisione spettacolare (strage di Capaci)", per bloccare l'elezione a Presidente della Repubblica di Giulio Andreotti. Il primo tentativo, secondo l'ex sindaco, di impedire questa nomina al Quirinale, era stato fatto con l'uccisione di Lima, che era l' ambasciatore in Sicilia del senatore a vita. Dall'inchiesta "sistemi criminali" e' stata stralciata una parte che riguarda la "trattativa" fra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni, in relazione al famoso "papello" l'elenco di richieste fatte da Riina. In questo contesto si inseriscono gli incontri fra gli ufficiali del Ros dei carabinieri Mario Mori e Beppe De Donno e l'ex sindaco Vito Ciancimino.

11 giugno - Nuova offensiva del Pse all' Europarlamento nella vicenda della revoca dell'immunita' parlamentare di Marcello Dell'Utri chiesta per le presunte irregolarita' nella gestione di Telecinco dal giudice spagnolo Baltasar Garzon. L'eurodeputato tedesco Martin Shulz, coordinatore Pse nella giunta per le immunita', ha chiesto oggi alla presidente dell' Europarlamento Nicole Fontaine di intervenire presso le autorita' spagnole per chiedere una accelerazione della procedura per la trasmissione formale all'assemblea Ue della richiesta di Garzon. L'eurodeputato tedesco ha preso atto del fatto che la richiesta non riguarda piu' Berlusconi, ora capo del governo italiano, ma ha invitato Fontaine a chiedere un accelerazione della trasmissione a Madrid, "per consentire all'onorevole Dell'Utri, come e' suo diritto - ha detto Shulz - di poter rispondere alle accuse".

12 giugno - L' ex capo centro Sisde di Palermo, Giorgio Santantonio, conferma ai giudici della seconda sezione della corte d' assise di Palermo che Emanuele Piazza, assassinato nel marzo del '90, era un informatore dei servizi segreti italiani. Il funzionario del Sisde, che ha diretto il centro di Palermo dal 1985 al 1993, ha detto di non aver mai conosciuto Piazza, e che il suo nome gli era stato fatto da un altro agente dei servizi, il capitano Grignani che lo aveva proposto come collaboratore esterno. "Le informative fornite da Piazza - ha detto Santantonio - non hanno avuto riscontri operativi". Il funzionario ha pero' confermato che Piazza, prima di essere ucciso, aveva detto a Grignani che stava lavorando su un traffico di droga, di armi e su alcuni latitanti "sui quali poteva fornire notizie per l' arresto". "C' e' stato un momento - ha affermato l' ex capocentro - che la collaborazione di Piazza fu indirizzata verso la cattura dei boss ricercati. Gli fu dato un elenco di nomi ma non ricordo che accanto ad ogni nominativo fosse riportata una taglia, questa circostanza pero' non posso escluderla". Santantonio, rispondendo alle domande degli avvocati di parte civile, ha ricordato di aver appreso della scomparsa di Piazza solo un anno dopo, quando venne convocato dai magistrati della procura che si occuparono dell' omicidio. "Allora - ha aggiunto l' ex capocentro - mi e' molto dispiaciuto apprendere questa notizia e capii solo in quel momento il motivo per il quale Piazza non si era piu' fatto vivo". Nel processo sono imputati Giovanni Battaglia, Salvatore Biondino, Salvatore Biondo "il lungo" e un suo omonimo soprannominato "il corto", Antonino e Vincenzo Troia, Simone Scalici, Salvatore Graziano, oltre ai "pentiti" Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante. Emanuele Piazza, 30 anni, ex poliziotto e collaboratore del Sisde, rimase vittima della 'lupara bianca' nel marzo del 1990 dopo essersi allontanato dalla sua villa di Sferracavallo, una borgata marinara di Palermo. Secondo i pentiti, il giovane sarebbe stato sequestrato e ucciso perche' era impegnato nella caccia ai boss latitanti. Il Sisde dapprima nego' qualsiasi rapporto con Piazza, poi, su richiesta della Procura, ammise che aveva fornito qualche informativa.

12 giugno - Il gip Leopoldo De Gregorio ha firmato 4 ordinanze di custodia cautelare, richieste dalla Procura nissena, per la strage di Pizzolungo, l' attentato al giudice Carlo Palermo in cui morirono Barbara Asta e i suoi due gemellini, Giuseppe e Salvatore. Le ordinanze sono state notificate dalla Dia nissena in carcere a Toto' Riina, Antonino Madonia, Pietro Virga e Balduccio Di Maggio il collaboratore che parlo' del presunto bacio tra il boss corleonese e Giulio Andreotti. Secondo numerosi collaboratori l' attentato a Carlo Palermo si inserisce nella strategia criminale di Cosa nostra tesa a colpire i magistrati piu' impegnati nella lotta alla mafia. Cosa nostra aveva sentenziato: il giudice Carlo Palermo, da poco trasferito in Sicilia come sostituto procuratore di Trapani, doveva saltare in aria come il suo collega Rocco Chinnici, la prima vittima del terrorismo mafioso alla "libanese" ucciso a Palermo due anni prima. La macchina imbottita di esplosivo fu parcheggiata nottetempo sulla strada di Pizzolungo e fu fatta esplodere la mattina del 2 aprile 1985, proprio mentre la blindata del giudice Palermo sfrecciava veloce sull' asfalto per accompagnare il magistrato nel suo ufficio di Trapani. Qualcosa, pero', ando' storto. Il calcolo dei tempi risulto' errato. L' auto-bomba si disintegro', ma la macchina del giudice non fu sfiorata. Fu investita in pieno dall' onda d' urto, invece, la "Golf" sulla quale viaggiava Barbara Asata, di 42 anni, e i suoi gemellini di 6 anni, tutti massacrati dall' esplosione. Nella storia degli anni di piombo mafiosi, la strage di Pizzolungo rimane come la testimonianza forse piu' efferata della violenza sanguinaria di Cosa nostra. Illeso e sotto choc, Carlo Palermo si convinse di essere diventato un bersaglio della strategia del terrore politico-mafioso non solo per le inchieste siciliane appena avviate, ma anche per le precedenti indagini, coordinate dalla procura di Trento, sul traffico d' armi, che avevano sfiorato personaggi eccellenti della finanza italiana. Il primo processo per la strage di Pizzolungo si conclude nel 1988 con tre ergastoli inflitti ai presunti attentatori Gioacchino Calabro', a Vincenzo Milazzo e a Filippo Melodia. I tre verranno assolti in secondo grado: assoluzione che verra' confermata nel '91 anche dalla Cassazione. Nel '93 Nunzio Asta, marito della donna e padre dei gemellini uccisi, muore a Palermo in una corsia dell' ospedale "Cervello" per problemi cardiaci, senza riuscire ad ottenere ne' verita' ne' giustizia sullo scempio della propria famiglia. Quello stesso anno si riaprono le indagini sulla strage, mentre Carlo Palermo ripercorre la propria storia di bersaglio mancato scrivendo il libro "L' attentato". Nel '99 il pentito Giovan Battista Ferrante fa altri nomi e indica come i killer di Pizzolungo Nino Madonia, Calcedonio Bruno e Giuseppe Giacomo Gambino. Una consulenza tecnica, depositata agli atti del processo per l' attentato all' Addaura, rivela che l' esplosivo usato a Pizzolungo e' simile a quello trovato, nell' '89, sulla scogliera dell' Addaura e destinato a Giovanni Falcone.

15 giugno - Muore a Roma, al Policlinico Gemelli, Nicola Cattedra, giornalista, nato a Bari 75 anni fa. E' stato capo redattore di Paese Sera, capo redattore di Panorama, capo della redazione servizi speciali del Giorno e direttore del settimanale Tempo prima e dell'Ora di Palermo in seguito. Cattedra ha anche pubblicato i libri "Morte di un generale", realizzato con Giorgio Bocca, Camilla Cederna e Corrado Staiano sull' uccisione del gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, edito da Mondadori e, il secondo, dal titolo "Il filo nero sulla vita quotidiana della mafia", edito da Anabasi.

16 giugno - Processo "Borsellino ter": le riunioni nelle quali sarebbe preparata la strage di via D' Amelio, gli incarichi affidati dai boss a Salvatore Biondino e gli incontri fra i capimafia sono stati raccontati per la prima volta in aula dal pentito Salvatore Cancemi, sentito dai giudici della corte d' assise di appello di Caltanissetta in trasferta, per motivi di sicurezza, nell' aula bunker di Bologna. Dopo le nuove rivelazioni, il sostituto procuratore generale ha chiesto ai giudici di convocare un' altra volta Cancemi per interrogarlo su questi nuovi fatti. La Corte si e' riservata. In precendeza si era svolto un confronto fra i collaboratori della giustizia Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi sulla fase preparatoria dell' attentato in cui nel 1992 morirono il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e cinque dei sei poliziotti della scorta. Cancemi e' stato messo a confronto davanti a un altro pentito, Calogero Ganci, sui motivi che hanno indotto Cancemi a costituirsi nove anni fa ai carabinieri.

18 giugno - Al Senato, nel discorso di presentazione del suo nuovo governo, Silvio Berlusconi, come gia' aveva fatto nel 1994, ricorda i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

18 giugno - La seconda sezione del Tribunale di Palermo, presieduta da Leonardo Guarnotta, ammette la testimonianza del consulente Francesco Giuffrida, funzionario di Bankitalia, sulle holding che formano la Fininvest nell' ambito del processo al senatore di Forza Italia Marcello Dell' Utri, accusato di concorso in associazione mafiosa. I giudici hanno anche ammesso la testimonianza in aula del maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro, che sullo stesso argomento aveva depositato nei mesi scorsi una relazione. La consulenza evidenziava che alla fine degli anni '70 le societa' Finivest avevano registrato un aumento di capitale, proveniente in gran parte da somme liquide di cui non e' stato possibile accertare la provenienza. Secondo la tesi dell'accusa potrebbe essere un riscontro alle dichiarazioni dell' imprenditore Filippo Alberto Rapisarda e del collaboratore Francesco Di Carlo. Il tribunale non ha invece ancora sciolto la riserva sull' estensione del capitolato di interrogatorio riguardante Silvio Berlusconi. All' inizio del processo il presidente del Consiglio era stato ammesso come teste sia dell' accusa che della difesa; i Pm adesso chiedono che Berlusconi venga ascoltato anche in merito alla consulenza sulle holding Finivest. Su questo punto i giudici si sono riservati la decisione. Il tribunale non ha ancora sciolto la riserva anche sulla richiesta della difesa di sentire nuovamente l' ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Saranno infine nuovamente citati in aula l' ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, per alcune sue dichiarazioni rilasciate al Corriere della Sera dopo la sua mancata ricandidatura, e il giornalista del quotidiano milanese Carlo Macri', autore dell' intervista. La Fininvest, in una nota, precisa che "la consulenza del funzionario della Banca d'Italia Francesco Giuffrida era stata richiesta dalla pubblica accusa, e sottoposta ad un approfondito vaglio, nell'ambito di un procedimento che e' poi stato archiviato dal Giudice delle indagini preliminari su istanza della stessa Procura della Repubblica palermitana. In riferimento alla consulenza, la Banca d'Italia ha chiarito di non aver ricevuto alcun incarico dalla Procura e di non conoscere l'oggetto dello studio ne' l'esito dello stesso, essendosi limitata ad autorizzare il funzionario a svolgere quel lavoro. Anche la relazione del maresciallo Ciuro era stata acquisita e vagliata nell'ambito dello stesso procedimento successivamente archiviato dal Gip su richiesta della pubblica accusa".

19 giugno - La corte d' assise di Palermo, presieduta da Giancarlo Trizzino, respinge l' istanza di improcedibilita' dell' azione penale nei confronti di Tano Badalamenti per irregolarita' nel processo per l' omicidio di Stefano
Gallina, assassinato a Carini nel 1983. Secondo i legali, gli avvocati Carmelo Franco e Paolo Gullo, ad impedire che il boss salisse sul banco degli imputati nelle aule di giustizia italiane sarebbe stato un provvedimento emanato dall' autorita' giudiziaria spagnola nel 1984. Nell' atto, la Spagna, paese in cui il capomafia era stato arrestato, concedeva l' estradizione di Badalamenti agli Stati Uniti a condizione che non lo consegnassero all' Italia. Della disposizione pero', avevano sostenuto gli avvocati, non avrebbero tenuto conto ne' l'autorita' giudiziaria italiana, che si sarebbe rivolta direttamente agli Usa per la consegna di Badalamenti, ne' quella americana che, in forza di un trattato bilaterale, ritenuto inesistente dai legali, ha concesso al nostro Paese di processare, seppure in videoconferenza, il capomafia. Ma la tesi difensiva non e' stata condivisa dalla corte, secondo la quale il principio non sarebbe applicabile perche' l' autorita' giudiziaria italiana non avrebbe mai chiesto l' estradizione ma solo la consegna temporanea del boss.

23 giugno - La Corte di Cassazione conferma 28 ergastoli per la cosca di San Giuseppe Jato. Le accuse del pentito Baldassare Di Maggio, che ha raccontato, non creduto, i dettagli di un presunto bacio tra il senatore Andreotti e il boss Riina, sono state ritenute valide dalla Suprema. In carcere, arrestati dai carabinieri di Palermo, sono finiti Salvatore Damiani e Salvatore Lupo, entrambi di 61 anni, e Giuseppe Mannino, 62 anni. Sono stati tutti condannati a pene varianti tra dieci e dodici anni per associazione per delinquere di tipo mafioso. Erano tutti accusati da Balduccio Di Maggio, e da altri collaboratori di Giustizia, come componenti di una delle cosche piu' feroci del palermitano, responsabile, secondo i giudici, di 27 omicidi commessi nel territorio jatino tra il 1981 e il 1989. Con le sue dichiarazioni, sempre riscontrate, Di Maggio ha contribuito a smantellare la cosca, indicando persino la piovosita' di un giorno in cui furono sotterrati due cadaveri di persone rapite ed uccise con il sistema della lupara bianca. Il servizio meteorologico dell'areonautica confermo' che, quel giorno, nella zona erano caduti numerosi millimetri di pioggia. L' ex boss di San Giuseppe Jato racconto' gli omicidi che aveva ordinato e quelli che aveva commesso, coinvolgendo nelle sue ricostruzioni come in un film, i magistrati Franco Lo Voi e Giuseppe Pignatone e gli uomini delle forze dell' ordine che lo interrogavano. Il pentito raccontava di particolati, anche i piu' minuziosi, che sono serviti a riscontrare le dichiarazioni. Da questo dibattimento, definito “la madre dei processi di mafia” nell'era del dopo-stragi, hanno preso il via le inchieste su 'mafia e appalti'. In una di queste, approdata adesso in Cassazione con centinaia di anni di carcere confermati dalla corte d' appello, e' emerso il vero ruolo di Angelo Siino nella gestione dei lavori pubblici in Sicilia ed e' stata tracciata la nuova mappa delle cosche mafiose. Da questo processo, appena definito dalla Suprema Corte, e' scaturita la collaborazione di Mario Santo Di Matteo, e nel procedimento sono confluite anche le intercettazioni ambientali del covo mafioso di via Ughetti a Palermo in cui i boss parlarono della strage di Capaci, chiamandola “l' attentatuni”: tra loro c'era Antonino Gioe', poi morto suicida in cella.

25 giugno - Replica dei pm nel processo per concorso in associazione mafiosa all' ex ministro dc Calogero Mannino. I pm hanno confermato la richiesta di condanna a 10 anni. I magistrati, Maria Teresa Principato e Vittorio Teresi, hanno sottolineato la “dimestichezza dei rapporti che Mannino ha avuto con i boss mafiosi”. Secondo i pm, le accuse sono state riscontrate e accertate, molte “con prove documentali”. Per i magistrati “l' imputato non e' stato immune alle influenze degli esponenti di Cosa nostra, i quali lo hanno sfruttato per ottenere appalti, lavori pubblici e favori”, e hanno citato alcuni episodi, a loro avviso provati con dati e fatti certi, sui quali si basa l' impianto accusatorio: la partecipazione al matrimonio del boss Caruana, come testimone della sposa; gli incontri con il capomafia Giuseppe Settacasi e con Cascio Ferro. “Mannino - ha sostenuto nella replica il pm Teresi - ha offerto all' organizzazione il proprio contributo e su di lui Cosa nostra ha puntato”. La duplice veste dell' ex ministro e' stata evidenziata da Teresa Principato: “Da un lato - ha detto - ha strumentalizzato politicamente la mafia, dall' altro ha cercato di far vedere all' esterno che prendeva le distanze dall' organizzazione criminale, ma allo stesso tempo favoriva i boss e i loro amici”. I pm hanno affermato che la Procura si e' ispirata a “linearita' ed equidistanza” nell' utilizzo dei collaboratori di giustizia. “Quando vi sono stati pentiti le cui dichiarazioni non sono state riscontrate - hanno osservato - abbiamo fatto a meno di utilizzarli. Per il resto, tutti hanno fatto accuse precise, dettagliate e poi confermate dai riscontri che sono stati fatti”. Il pm Principato ha inoltre affermato che in alcuni passaggi dell' arringa dei difensori e' stata confermata implicitamente, “dando un riscontro documentale”, una delle accuse contro Mannino, leggendo una lettera che non e' stata pero' depositata. L' avvocato Salvo Riela, nella replica, dice che non tutti i pentiti sono stati screditati. “Parlare pero' del collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino come del Buscetta della politica mi sembra troppo, e' una definizione che non e' corretta”, ha detto il penalista. Durante la replica, l'avvocato Grazia Volo ha inoltre sottolineato che non e' stato provato che “Mannino abbia fatto favori ai boss”. A giudizio dei due difensori non vi e' alcuna prova che possa dimostrare la sua “collusione mafiosa”. L' avvocato Riela ha anche puntato il dito contro i pm, sostenendo che durante lo svolgimento del dibattimento hanno avuto una “interpretazione soggettiva degli atti processuali”. Il difensore ha anche rilevato che due attentati subiti da Mannino (nella sua segreteria di Sciacca e in un suo comitato elettorale vicino a Palermo) furono rivolti ai politici in generale e non si tratto', contrariamente a quanto ha sostenuto l' accusa, di una ritorsione dei boss. Dopo una breve replica dei difensori dell' ex ministro Calogero Mannino, gli avvocati Salvo Riela e Grazia Volo, i giudici del tribunale di Palermo sono entrati in camera di consiglio.

26 giugno - “Sono convinto che Provenzano e' gia' preso. Non voglio essere frainteso, non voglio dire che lo hanno realmente arrestato, ma intendo piuttosto affermare che il sistema sa come acciuffarlo. Se cio' fino adesso non e' accaduto vuol dire che fa comodo cosi' a tutti quanti”. Lo afferma l' ex killer di Cosa nostra ora pentito, Totuccio Contorno. Il boss che venne convinto a collaborare con la giustizia da Giovanni Falcone, ma che prima di compiere questo passo chiese il permesso a Tommaso Buscetta, e' stato intervistato dal giornalista Francesco Vitale che lo ha incontrato nel carcere romano di rebibbia. La loro conversazione e' stata pubblicata sulla rivista Micromega. Secondo Contorno “se si vuole arrestare un latitante, in qualche caso, basta andare a bussare alla porta di casa sua. Di recente anche Nuvoletta e' stato arrestato cosi’”. Il pentito ricorda i lunghi periodi trascorsi a riempire verbali, a fare i nomi degli uomini d' onore, a indicare mandanti ed esecutori di omicidi. Adesso pero' Contorno e' convinto che “Cosa nostra ha vinto”. “Hanno vinto i mafiosi - dice l' ex sicario – anche nei confronti dei pentiti. Hanno vinto perche' mi risulta che nei quartieri di Palermo sono tornati a girare vecchi latitanti e i loro parenti. Hanno vinto perche' si sono riassestati, blindando l' organizzazione il cui zoccolo duro oggi e' costituito da perfetti sconosciuti, gente incensurata”. Il giornalista chiede come fa a sapere queste cose, Contorno risponde: “Le radici un siciliano vero non le abbandona mai, figuriamoci un palermitano. Conosco tanta gente, le cose si sanno... Inganno il tempo: cosa vuole che faccia uno come me che, dopo l' apporto che ha dato, e' costretto a chiedere allo Stato la carita' di farlo rientrare nel programma di protezione, che negli ultimi anni e' stato concesso a chiunque...”. Il suo ritorno in Sicilia nell' 89, mentre collaborava con la giustizia, ed il suo arresto, e' un' altro dei punti affrontati. “Si dissero tante cose sbagliate - dice Contorno - io ero rientrato dall' America e non avevo una lira per sfamare la mia famiglia. Il dottor Sica, che all' epoca era Alto commissario per la lotta alla mafia, mi disse che aveva 45 miliardi di lire da investire nella cattura dei latitanti. Io mi misi a disposizione ma giunto a Palermo mi vidi rifiutare da Sica perfino un milione”. Per il collaboratore di giustizia, la mafia in Sicilia e' molto forte. “Cosa nostra palermitana - dice - puo' avere tutto quello che vuole, basta che allunghi una mano e puo' prendere perfino un elicottero corazzato. Percio' non mi impressiona sapere che in giro ci sono lanciarazzi e bazooka. Quando si fanno i miliardi, non ci sono problemi”. Affrontando il capitolo dei delitti eccellenti, Contorno dice: “L' assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa ancora oggi non riesco a comprenderlo. Come Falcone, anche il generale poteva essere ucciso piu' comodamente a Roma. Invece no, doveva morire a Palermo e cosi' lo hanno mandato in Sicilia. Ma Cosa nostra non aveva alcun interesse ad eliminare Dalla Chiesa”.

28 giugno - Un' ordinanza della corte d' assise di Palermo respinge l' istanza di improcedibilità dell' azione penale nei confronti di Tano Badalamenti, imputato dell' omicidio di Peppino Impastato. Secondo i legali, Carmelo Franco e Paolo Gullo, ad impedire che il boss salisse sul banco degli imputati nelle aule di giustizia italiane sarebbe stato un provvedimento emanato dall' autorita' giudiziaria spagnola nel 1984. Nell'atto la Spagna, paese in cui il capomafia era stato arrestato, concedeva l' estradizione di Badalamenti agli Stati Uniti a condizione che non lo consegnassero all' Italia. Della disposizione pero', avevano sostenuto gli avvocati, non avrebbero tenuto conto ne' l' autorita' giudiziaria italiana, che si sarebbe rivolta direttamente agli Usa per la consegna di Badalamenti, ne' quella americana che, in forza di un trattato bilaterale, ritenuto inesistente dai legali, ha concesso al nostro Paese di processare, seppure in videoconferenza, il capomafia. La tesi e' stata respinta dai giudici che hanno disposto la prosecuzione del processo. Nell’ udienza, vengono ascoltati i collaboratori di giustizia Francesco Marino Mannoia, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci che hanno parlato del ruolo di Badalamenti all'interno della "commissione" di Cosa nostra.

28 giugno - La Corte d' assise di Palermo, presieduta da Giuseppe Nobile, riunisce i due processi in corso per l' omicidio dell' ex poliziotto ed ex collaboratore del Sisde Emanuele Piazza, fatto sparire dalla mafia con il metodo della lupara bianca nel marzo del 1990. Il procedimento, che vede imputati per l' assassinio del giovane 11 mafiosi, o presunti tali, della 'famiglia' del rione San Lorenzo, era stato diviso in due tranche dopo che i boss Salvatore Biondino e Antonino Troia avevano scelto di essere giudicati con il rito abbreviato. La decisione della Corte evita la possibile scarcerazione di alcuni imputati. Se i dibattimenti fossero proseguiti separatamente, la stessa autorita' giudiziaria non avrebbe potuto concluderli entrambi e, dopo l'emissione della sentenza per uno dei due, si sarebbe dovuta astenere per l'altro che sarebbe dovuto ricominciare. Da qui il pericolo della scadenza dei termini di custodia cautelare per alcuni capimafia.
 

29 giugno - L' Associazione dei parenti delle vittime di Ustica ha espresso, con una nota, "la piu' profonda sorpresa e indignazione" per la nomina a Capo di Stato Maggiore dell' Aeronautica del generale Sandro Ferracuti, "un ufficiale pesantemente e negativamente protagonista della vicenda, in quanto a capo di una commissione che ha affermato falsamente che il famoso Mig libico cadde sulla Sila il 18 luglio 1980". "Facciamo notare - sottolinea la senatrice Daria Bonfietti, presidente dell' Associazione - che la carriera di questo ufficiale e' espressamente segnalata dal giudice Priore come 'carriera in riscossione' per la partecipazione alla vasta operazione contro la verita'. Se e' vero che il Generale e' stato indagato ed e' stato prosciolto non si debbono dimenticare queste parole. Il Gen.Ferracuti non e' stato in grado di dare risposte esaurienti e convincenti sulla sua attivita' nell' ambito della Commissione Italo-libica, ne' sulle stesse sue annotazioni nelle agende personali. Va tenuto presente - prosegue Daria Bonfietti - che il Gen.Ferracuti e' rimasto l' unico a confermare la versione ufficiale perfino in Commissione stragi, versione smentita dall' istruttoria e abbandonata persino da altri capi di Stato Maggiore". "Il governo - afferma la presidente dell' Associazione – non si e' neppure accorto che su questa nomina ha messo in atto un mostro giuridico istituzionale: in un tribunale e' parte civile contro chi ha mentito sulla caduta del Mig libico e dall' altra parte promuove la menzogna che ha gestito. Nessuna delle massime istituzioni ha segnalato questa anomalia. Crediamo che simbolicamente questa nomina rappresenti un' offesa all' impegno dell' opinione pubblica per la verita', ma soprattutto rappresenti una grande ferita alla credibilita' delle istituzioni".

29 giugno - I giudici della terza sezione della corte di appello di Palermo, dopo sei ore di camera di consiglio, condannano l' ex presidente della prima sezione della Corte di Cassazione Corrado Carnevale a sei anni di reclusione. In primo grado il magistrato era stato assolto dall' accusa di concorso in associazione mafiosa. Alla lettura del dispositivo nell' aula hanno assistito i tre avvocati del giudice Carnevale – che era assente - Alessandro Bonsignore, Salvatore Mondello e Giuseppe Gianzi, e il sostituto procuratore generale Leonardo Agueci che due mesi fa aveva chiesto per il magistrato otto anni di reclusione. Quando il presidente Vincenzo Oliveri, ha pronunciato le parole "in riforma" riferendosi alla precedente sentenza, i difensori si sono guardati in faccia sorpresi. Corrado Carnevale era in corsa per la nomina di primo presidente della Corte di Cassazione, e per questo motivo aveva chiesto, all' apertura del processo in appello, che si concludesse al piu' presto. Lo aveva annunciato lo stesso Carnevale alla prima udienza: "il mio nome e' in cima alla lista", aveva detto, e "tra i miei impegni quindi adesso c'e' anche questo. Vorrei che questo processo di concludesse al piu' presto". Carnevale era tornato ad indossare la toga dopo l' assoluzione nel processo per la vicenda della vendita della flotta Lauro. Accogliendo la sua richiesta, il 22 ottobre 1999, la sezione disciplinare del Csm aveva infatti revocato la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio che gli era stata inflitta nel '93 dopo che il magistrato era stato rinviato a giudizio nell'ambito dell'inchiesta sulla cessione della flotta Lauro per interesse privato. Assegnato come presidente aggiunto alla sezione tributaria della Corte di Cassazione, Carnevale aveva poi accettato l' invito del Csm a candidarsi per la poltrona di presidente del Tribunale superiore delle acque pubbliche, che sarebbe poi andato a Giuseppe Viola. Quindi l' inclusione tra gli undici "papabili" per la carica di primo presidente della Corte di Cassazione, al posto di Andrea Vela che lascera' la carica il prossimo mese di agosto. L' inchiesta su Corrado Carnevale era cominciata nel 1993. Sistematica caccia agli errori, formalismo maniacale, garantismo esasperato. Cosi' l'accusa ha sempre descritto il ruolo dell'ex presidente della prima sezione della Cassazione che secondo i pentiti rappresentava un "sicuro punto di riferimento" per i boss di Cosa Nostra. Protagonista di casi controversi, e per questo motivo finito al centro di furiose polemiche, a Carnevale era stato attribuito l' appellativo di giudice "ammazzasentenze". Ma lui ha sempre replicato: "Mi sono limitato ad applicare la legge". L' indagine su di lui comincio' quasi contestualmente a quella su Giulio Andreotti con la quale aveva molti punti in comune. Carnevale infatti e' stato indicato come sensibile al richiamo del potere politico e disposto a "aggiustare" processi di mafia. Tra i casi portati all' esame dei giudici, l' accusa ha puntato sull' annullamento della sentenza con la quale erano stati condannati all'ergastolo i tre presunti killer (Giuseppe Madonia, Vincenzo Puccio e Armando Bonanno) del capitano Emanuele Basile, comandante dei carabinieri a Monreale, alle porte di Palermo, la sera del 4 maggio 1980. Le condanne furono annullate in Cassazione due volte per vizi formali dalla sezione presieduta da Carnevale, ma per l'accusa rappresentava un' evidente anomalia soprattutto l'annullamento deciso "per l' omesso avviso a taluni difensori della data di estrazione dei giudici popolari". Nel dibattimento di primo grado, concluso l' 8 giugno 2000 con l'assoluzione di Carnevale, sono state raccolte le dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, tra cui Salvatore Cancemi, Giuseppe Marchese, Giovanni Brusca e Angelo Siino che hanno descritto Carnevale come un giudice sul quale i boss facevano affidamento. In alcune intercettazioni ambientali la Procura ha riscontrato un atteggiamento preconcetto di Carnevale nei confronti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ai quali indirizzava espressioni critiche ("I due Dioscuri") e giudizi severi. "E' vero che avevo una stima negativa nei loro confronti - ha ammesso Carnevale - ma nessuno, a parte il Papa, e' infallibile e il mio era un giudizio prevalentemente tecnico-professionale". Carnevale ha sempre fatto rilevare che le decisioni contestate non erano state adottate da un singolo magistrato, ma da un intero collegio. La replica della Procura su questo punto si richiama alle testimonianze di altri giudici della Cassazione, alcuni dei quali hanno affermato che Carnevale aveva formato un "gruppo esasperatamente garantista che ricopriva un ruolo egemonico". L' ex procuratore generale Vittorio Sgroi ha parlato addirittura di un "partito patriottico" della Cassazione che faceva capo proprio a Carnevale. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, il tribunale aveva pero' riscontrato in queste testimonianze alcune contraddizioni e giudicato i pentiti poco attendibili perche' avrebbero riferito voci e giudizi di seconda mano. L'accusa, che in appello ha chiesto otto anni, ha contestato a sua volta al tribunale "travisamenti ed errate interpretazioni dei fatti" nonche' una frammentazione degli elementi probatori: da qui l'assoluzione che ora la corte d' appello ha trasformato in condanna a sei anni. Corrado Carnevale, siciliano, originario di Licata, per sette anni presidente titolare della prima sezione penale della Suprema Corte, citato in piu' di un 'dossier', tra cui quello della commissione antimafia, protagonista di interrogazioni parlamentari e di campagne stampa spesso piu' contrarie che favorevoli, si e' sempre difeso dalle critiche sostenendo che l' unica sua vera colpa e' quella di aver voluto applicare rigorosamente la legge. I suoi detrattori hanno detto di lui che "ha vanificato il lavoro di anni degli uffici giudiziari di mezza Italia, soprattutto di quelli impegnati in prima linea contro mafia, camorra e 'ndrangheta" e che "era inutile arrestare i mafiosi, tanto poi c'era lui che li rimetteva in liberta’". A queste e ad altre accuse che gli venivano mosse, Carnevale rispondeva che "non aveva alcun bisogno di giustificarsi. A parlare in sua difesa - diceva - c'erano le motivazioni delle sue sentenze, giudicate peraltro dagli esperti, quasi sempre 'ineccepibili' sul piano formale. Le sentenze di annullamento che hanno contribuito a far soprannominare questo magistrato siciliano l' "ammazzasentenze", sono piu' di 400. La prima risale all' '86 ed e' quella che cancello' l' ergastolo per Michele e Salvatore Greco ritenuti sino ad allora i mandanti dell' omicidio del giudice Rocco Chinnici. Ma gli annullamenti piu' clamorosi sono quelli che riguardano le stragi del "rapido 904" e dell' Italicus; l' omicidio del capitano Basile; la carcerazione di sei ergastolani dei clan camorristici Moccia e Magliulo; una condanna per omicidio inflitta a Raffaele Cutolo; la sentenza di condanna per 15 presunti mafiosi coinvolti nella "pizza connection"; il mandato di cattura per Vincenzo Santapaola, nipote del boss Nitto; 13 ergastoli per esponenti della 'ndrangheta; la carcerazione di 40 boss tra cui Giuseppe Bono, Salvatore Prestifilippo, Pippo Calo' e Giuseppe Madonia. Fu proprio Carnevale in una delle sue tante sentenze a contestare il cosiddetto "teorema Buscetta" secondo il quale Cosa Nostra e' un' organizzazione piramidale gestita in tutte le sue attivita' da una "cupola". Secondo il magistrato invece, la mafia sarebbe costituita da gruppi criminali che operano in piena autonomia o quasi. La sua divento' in breve tempo la sezione piu' discussa della Cassazione tanto che il Consiglio Superiore della Magistratura decise di cambiare i criteri per l' assegnazione dei processi piu' importanti. Di Carnevale si occupo' anche l' allora ministro di grazia e giustizia Claudio Martelli che dispose un monitoraggio delle sue sentenze per verificare quanto corrispondessero a verita' le accuse di "aggiustare" i processi di mafia. Processato nell' ambito della vicenda della Flotta Lauro, era accusato di interessi privati nella vendita della flotta, era stato sospeso, su richiesta del ministro Martelli, dall' incarico e dallo stipendio. Assolto definitivamente dalle accuse lo scorso anno, aveva chiesto, e ottenuto, di tornare alle sue funzioni. L' avvocato Salvino Mondello, difensore e genero dell' ex presidente della prima sezione penale della Cassazione, dichiara che "Il giudice Carnevale e' stupito, costernato, esterefatto, perche' non credeva che la sentenza di primo grado potesse essere ribaltata". Il penalista ha chiamato al telefono Carnevale subito dopo la lettura del dispositivo di sentenza. "Non se lo aspettava - ripete l' avvocato - e non ce lo aspettavamo nemmeno noi. La sentenza di primo grado era stata motivata molto bene e in appello non era accaduto nulla che poteva farci credere ad una inversione. Non c' e' dubbio che impugneremo la sentenza". Maria Falcone, presidente della fondazione intitolata al fratello Giovanni e alla cognata Francesca Morvillo assassinati dalla mafia con tre poliziotti nella strage di Capaci nel 1992 commenta:"Con questa sentenza di condanna per Carnevale ritengo che i giudici hanno riconosciuto la sua attivita' di 'ammazzasentenze"'. Nel processo sono inserite le intercettazioni in cui Carnevale disapprovava Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. "Non e' soltanto da parte mia una soddisfazione per la condanna - dice Maria Falcone - ne' per quello che ha potuto dire e pensare di mio fratello Giovanni, ma soddisfazione perche' sappiamo come tanti processi di mafia siano stati in gran parte annullati dal giudice Carnevale per un eccesso di garantismo. Molte sentenze di condanna sono state annullate utilizzando cavilli giuridici e mettendo in atto un eccessivo garantismo che hanno portato a vanificare tanti anni di lavoro di molti magistrati impegnati nella lotta alla mafia".

30 giugno - "La Repubblica"
E il supergiudice sbottò "Falcone? Era un cretino"
Per Corrado Carnevale la Cupola era una favola, la Mafia un puzzle di bande senza comando
ATTILIO BOLZONI
PALERMO - Superbo, sprezzante, narciso ossessivo, eccellentissimo e verbosissimo, per almeno dieci anni è stato il magistrato più odiato e più amato d'Italia. La Cupola era una favola, la mafia un insieme di bande senza comando. Il giudice Falcone "era un cretino", l'ex presidente della Cassazione Antonio Brancaccio "un delinquente", il capo degli ispettori del ministero Ugo Dinacci "un imbecille". Lui invece era venerato o temuto. I boss che uscivano dall'Ucciardone grazie a cavilli e alchimie giudiziarie dicevano che "era giusto come Papa Giovanni", i procuratori del pool di Palermo tremavano quando un processo approdava alla sua sezione. Uditore a soli 23 anni, giudice di Tribunale, giudice di Appello, giudice di Cassazione. Sempre per concorso, immancabilmente primo. Siciliano di Licata, la leggenda racconta che Corrado Carnevale conosca a memoria ogni carta dei procedimenti che ha giudicato. Come poi ha giudicato, è altro argomento.
Gli chiesero una volta: presidente, quante sentenze ha "ammazzato"? Non rispose. Erano allora poco meno di 500. Aveva annullato la condanna all'ergastolo contro Michele e Salvatore Greco per l'omicidio del consigliere Rocco Chinnici. Aveva ordinato un nuovo processo per la strage del rapido 904 NapoliMilano (16 morti, 266 feriti) cancellando l'ergastolo a Pippo Calò. Aveva assolto Licio Gelli dall'accusa di sovversione e banda armata. Aveva trasferito da Milano a Roma l'inchiesta sui "fondi neri" dell'Iri. Aveva - al contrario - respinto il ricorso di Enzo Tortora che chiedeva il suo processo lontano da Napoli. Assolti i tre sicari del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Azzerati 134 ergastoli e 700 anni di carcere a Momo Piromalli e ai suoi "sottopanza". Cancellate tutte le condanne per traffico di droga al clan di Alfredo Bono, quei picciotti che invece di dire al telefono "porta la droga" o "portane tanti chili", dicevano "camicie" e "pizze". Era un parlare "criptico", non poteva costituire prova.
Gli chiesero ancora qualche anno dopo: presidente, quante sentenze ha "ammazzato"? Rispose con la sua vocina stridula Corrado Carnevale: "Per ammazzare qualcosa, bisogna che quel qualcosa sia vivo".
Famoso diventa nel dicembre del 1985, quando viene nominato presidente, "il più giovane presidente titolare della storia della Cassazione" della prima sezione penale della Suprema Corte. Arriva e piega subito l'arretrato. Sono 7065 i processi che aspettano di essere esaminati, al 31 maggio 1989 diventano solo 837. Alla prima sezione penale terrà l'incarico molto a lungo. Ripete spesso con orgoglio: "Esattamente per sette anni meno quattro giorni, cioè per un tempo che per la sua durata non trova alcun precedente in questo ufficio".
Corteggiatissimo dagli avvocati che difendono i grandi boss, invitato a convegni sui "mali della giustizia", il supergarantista Corrado Carnevale non nasconde mai i suoi pensieri. Dice un giorno: "La Costituzione vuole il magistrato in toga e non in divisa". Si capisce a chi pensa qualche settimana dopo quando torna alla carica: "Io sono un giudice e mi rifiuto di essere un combattente anche contro la mafia, il mio compito non è quello di lottare". Ce l'ha con Giovanni Falcone, ce l'ha con i "giudici sceriffi", con i pool, con i pentiti, con quell'"apparato" siciliano che nella seconda metà degli anni 80 sta cercando di contrastare Cosa Nostra. L'eccellentissimo giudice della Suprema Corte ha un'altissima opinione di se stesso, giurista notevole, conservatore fino al midollo, sembra proprio nato per la bisogna politicoistituzionale di chiudere i conti con quei "palermitani" chiusi nel bunker che vogliono cambiare le cose. Ma ha disprezzo anche per altri suoi colleghi: "Sono scansafatiche e incompetenti, non conoscono i codici e pensano solo alla carriera. Ai magistrati non piace lavorare, questa è la verità". L'immagine di un giudice che applica solo leggi perfette incanta alcuni e insospettisce altri. Il suo conto in banca è a nove zeri. Tutto documentato, tutto in regola: sono i proventi degli incarichi extragiudiziari. Ma intanto le critiche contro l'"Ammazzasentenze" si moltiplicano. Si difende Carnevale: "Nessuno si azzardi a mettermi in difficoltà, altrimenti passerò al contrattacco... il Partito comunista vuole mettermi sul banco degli accusati, credono di vivere in Russia, vogliono una giustizia sommaria". Poi ci sono le stragi siciliane del 1992. E poi i pentiti cominciano a parlare di quel giudice che "aggiusta" tutto. Prima è Gaspare Mutolo e poi Leonardo Messina, poi ancora Totò Cancemi, Giovanni Brusca e Angelo Siino. Raccontano che era la "massima garanzia" per capi e picciotti stritolati da condanne in primo e secondo grado, che era lui ad avere manipolato sentenze e scarcerato decine di boss. Le indagini sull'eccellentissima toga iniziano quasi contemporaneamente a quelle su Giulio Andreotti, i procuratori di Palermo scoprono un vero e proprio "partito" di giudici all'interno della prima sezione penale della Cassazione, gli agenti della Dia piazzano sofisticatissime microspie nella casa romana di Carnevale. Il giudice cerca una cimice ma non la trova. E siccome non la trova, per lui significa che non c'è. E' fatto così Carnevale. E parla a ruota libera, in siciliano stretto. Con avvocati, altri magistrati, parenti. Sussurra: "Passerà la bufera giudiziaria, passerà e ne uscirò indenne". Si abbandona sconsolato: "Sembriamo tutti in libertà provvisoria". E alla fine getta la maschera: "Non me ne sono andato per la pressione di quel cretino di Falcone, perché io i morti li rispetto... ma certi morti no...".

2 luglio - In un comunicato stampa, l' Unione delle associazioni dei familiari delle vittime delle stragi scrive:"Apprendiamo dalla stampa, Repubblica del 15.6.2001, che il Generale Mori potrebbe essere nominato alla direzione del SISMI, servizio segreto militare. Ci sembra una ipotesi molto allarmante!!! Sull'operato del Gen.MORI gravano ombre e dubbi da parte della Magistratura di Palermo perchè dopo l'arresto di  RIINA la sua casa fu lasciata "abbandonata" per parecchi giorni. Inoltre ci sono critiche sul suo operato riguardo la "TRATTATIVA" aperta da VICECAPO del ROS nel 1992 con il mafioso Ciancimino,"trattativa" che fu un antefatto alle STRAGI DEL 1993,come è documentalmente ed esattamente riportato da DUE sentenze penali : quella in I° grado della CORTE DI ASSISE DI FIRENZE del 6/06/1998 ; e quella di II° grado della CORTE DI APPELLO DI FIRENZE del 13/02/2001. All'Unione appare altamente inopportuno  che una carica Istituzionale cosi importante e delicata sia affidata al Generale in questione gravato da ombre e dubbi a Palermo e criticato da due sentenze a Firenze".
IL Presidente Paolo Bolognesi

3 luglio - Il gruppo parlamentare della Margherita presenta una proposta di legge per l'istituzione della Commissione Antimafia nella XIV legislatura. L'iniziativa e' firmata dall'On. Giuseppe Molinari, componente uscente della stessa Commissione, dall'On. Pierluigi Castagnetti, capogruppo della Margherita e dai vice presidenti Franco Monaco e Agazio Loiero, che sottolineano la necessita' di proseguire il lavoro svolto durante la precedente legislatura nella lotta alla mafia.

4 luglio - "Il Nuovo"
Screditava gli accusatori di Dell'Utri
Giuseppe Chiofalo, accusato di calunnia, ha scelto di patteggiare. Così ha ammesso di aver tentato di screditare i pentiti che accusano di collusioni con la mafia il senatore di forza Italia Marcello Dell'Utri.
di Nino Amadore
PALERMO - Alla fine Giuseppe Chiofalo ha scelto di patteggiare. Un patteggiamento che gli costerà dieci mesi di carcere, tanti quanti gliene ha inflitti il gup Alfredo Montalto del Tribunale di Palermo che lo ha ritenuto colpevole di calunnia. Ma soprattutto ha ammesso, patteggiando, di aver partecipato al complotto ordito per screditare quei pentiti che accusano di collusioni con la mafia il senatore di forza Italia Marcello Dell'Utri. Chiofalo era accusato, in concorso con Dell'Utri e il collaboratore di giustizia Cosimo Cirfeta, di avere ideato un piano per screditare i collaboratori di Giustizia Francesco Di Carlo, Domenico Guglielmini e Francesco Onorato. E per la stessa ragione il giudice Alfredo Montalto aveva rinviato a giudizio nel maggio scorso Dell'Utri e aveva fissato la prima udienza del processo per il 17 settembre davanti alla quinta sezione del Tribunale di Palermo. Il gip aveva rinviato a giudizio anche il collaboratore di giustizia Cosimo Cirfeta, che avrebbe agito insieme a Dell'Utri. Il giudice Montalto, dopo due ore di camera di consiglio, aveva dunque accolto le richieste fatte dai pubblici ministeri Antonio Ingroia a Nico Gozzo (gli stessi che sostengono l'accusa nel processo che vede imputato lo stesso Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa) secondo i quali il senatore era responsabile del reato di calunnia aggravata. Secondo la Procura di Palermo Marcello Dell'Utri alla fine del 1998 avrebbe tentato di coinvolgere i pentiti Giuseppe Guglielmini, Cosimo Cirfeta e Giuseppe Chiofalo (il boss di Barcellona in provincia di Messina poi pentitosi) in una 'combine' a suo favore nel processo di Palermo che lo vede imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. I tre pentiti avevano raccontato ai magistrati di Palermo di avere assistito a un tentativo di accordo tra i collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo e Francesco Onorato. Ma i magistrati palermitani hanno poi scoperto che si sarebbe trattato di una macchinazione, anche se il senatore si è sempre difeso sostenendo che la sua era solo una ricerca di prove a discarico.

4 luglio - Processo di appello cosiddetto 'Borsellino bis' ai presunti esecutori e mandanti della strage di via D'Amelio: il pentito Salvatore Cancemi ripete le accuse gia' lanciate contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, indicandoli come i beneficiari politici della stagione stragista. "Con le stragi - ha detto il pentito rispondendo alle domande del presidente della corte di assise di appello – Cosa Nostra doveva levare di sella Andreotti e Martelli. Dovevano metterci Berlusconi e Dell'Utri". Le sue dichiarazioni sono gia' state ritenute inattendibili dalla procura di Caltanissetta che quattro mesi fa ha chiesto al gip l'archiviazione delle posizioni dei due esponenti politici, indagati per concorso in strage. In apertura di udienza, l'avvocato Rosalba Di Gregorio, a nome del collegio di difesa, ha chiesto alla corte l'acquisizione del verbale della deposizione del pentito Giovambattista Ferrante, resa nel processo 'Borsellino ter', nel quale il pentito ha parlato, per la prima volta, di un bidone di calce nel quale sarebbe stato nascosto l'esplosivo utilizzato in via D'Amelio. La ricostruzione dell'accusa, fondata su indagini autonome e dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ha sempre indicato come causa della strage una Fiat 126 imbottita di plastico posteggiata davanti il portone dell'abitazione della sorella del giudice. Il legale si e' riservato di chiedere la citazione in aula del pentito e di tutti gli eventuali testimoni legati alla dichiarazione di Ferrante.

5 luglio - L' ex ministro dc Calogero Mannino e' assolto dall' accusa di concorso in associazione mafiosa dal tribunale di Palermo dopo 10 giorni di camera di consiglio. I giudici hanno assolto Mannino perche' il fatto non sussiste in base all' art. 530 del codice di procedura penale, secondo comma, la stessa formula decisa nei confronti del senatore Giulio Andreotti, ed utilizzata nei casi in cui la prova della responsabilita' e' contraddittoria o insufficiente. I pm al termine della loro lunga requisitoria avevano chiesto la condanna a 10 anni di reclusione. I difensori, sostenendo sempre l' innocenza dell' imputato, avevano sollecitato l' assoluzione con ampia formula. L' articolo 530 del codice di procedura penale, secondo comma, recita: "Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, e' insuffiente o e' contradditoria la prova che il fatto sussiste, che l' imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato e' stato commesso da persona imputabile". L' avvocato Salvo Riela, uno dei legali dell' ex ministro, si chiede: "Mi domando chi chiedera' scusa all' on. Mannino per quello che e' accaduto. Non sono solo i sei anni di questo processo, Mannino ha subito dieci anni di processi penali. Risale al luglio '91 la prima ondata di accuse proveniente da Rosario Spatola. Dopo dieci anni di indagini e processi lo Stato dovrebbe chiedere scusa a Mannino per quello che e' accaduto". Commentando la formula della sentenza, Riela ha detto che "dal punto di vista del codice non credo si possano fare considerazioni particolari. La formula dubitativa non esiste piu'. Quindi comma primo o comma secondo mi sento particolarmente soddisfatto". "Le dichiarazioni dei pentiti - ha concluso Riela - non hanno trovato quella valenza e quel riscontro che i Pm avevano indicato". "All'on. Mannino e' stato oggi restituito il suo onore - ha aggiunto l'avvocatessa Grazia Volo - questa sentenza dimostra che i giudicanti di Palermo sono una categoria forte sia intellettualmente che culturalmente. Hanno imposto la prova, i riscontri, le certezze. Credo che sara' una bella motivazione". L'avvocatessa ha rivelato che questa e' stata la prima sentenza cui assiste da circa dieci anni. 'Di solito – ha detto - non vado in aula alla fine di un processo per non stressarmi, ma per un imputato importante come l'on. Mannino oggi ho fatto un'eccezione". Calogero Mannino, dopo l' assoluzione, afferma: "Volevano mandarmi al rogo" e aggiunge:"Sono un uomo di Stato, dunque non voglio le scuse dello Stato, ma e' necessario comprendere perche' questo processo e' stato fatto e portato avanti per cosi' lungo tempo". L' ex ministro ha incontrato i giornalisti sotto casa in piazza Unita' d' Italia a Palermo. Mannino ha affermato di provare "una gioia temperata perche' dopo l' assoluzione devo curare le ferite che questi anni mi hanno lasciato". "Ho subito un processo senza prove e senza fatti - ha poi sotttolineato - e la mia vicenda e' cominciata nel 1991 con le dichiarazioni del pentito Rosario Spatola. Era il prologo dei due atti successivi. I pubblici ministeri hanno portato in aula dichiarazioni gia' archiviate dalla Procura di Sciacca e soprattutto da quella di Marsala. Hanno messo insieme una catasta di accuse sulla quale consumare il mio rogo, ma erano tutte calunnie". Sul politico pentito della mafia Gioacchino Pennino, uno dei suoi accusatori, Mannino ha detto: "E' stato uno dei momenti piu' inquietanti della giustizia poiche' una disponibilita' alla collaborazione si e' trasformata in un' utilizzazione da parte dei magistrati". E ha aggiunto: "I pm ormai non sono al di sopra delle parti e incarnano la funzione accusatoria sommando sospetti e accuse. Ho reso almeno sessanta dichiarazioni spontanee e non c' era alcun motivo per trattarmi conme mi hanno trattato. La mia carcerazione preventiva di ventidue mesi rientra a pieno titolo nel Guinness dei primati. I pm a volte teorizzano scenari generali e scrivono sceneggiature, come accade con le 'Piovre' televisive. Non c' e' niente di piu' sbagliato". Su un suo pieno ritorno alla politica, Mannino, che e' attualmente e' presidente del Cdu in Sicilia, ha parlato di "un rifiuto piu' da parte di Fini che di Berlusconi" alla sua candidatura nelle ultime elezioni politiche. "Ma Berlusconi o Fini - ha osservato - pensano di tagliare l' esperienza storica della Democrazia Cristiana. In fondo loro sono beneficiari delle disgrazie della Democrazia Cristiana". Mannino ha anche ribadito che era amico di Giovanni Falcone. "Creai la cornice politica del maxiprocesso alla mafia - ha detto - cosi' come Falcone creo' quella giudiziaria". Al Tg2, Mannino aggiunge:"Chi aveva colto in me l' autore della svolta politica che ha permesso l' attacco alla mafia, aveva paura di Mannino. Il contesto creato dalla Dc aveva permesso a Falcone di ottenere risultati. Dopo Salvo Lima hanno ucciso Falcone ed e' ovvio che si e' pensato di uccidere anche me". I Pm Vittorio Teresi e Teresa Principato, a conclusione della lettura del dispositivo di sentenza che ha assolto l' ex ministro Calogero Mannino, dichiarano:"Le sentenze non si commentano, si appellano". “Tutti i processi - ha osservato Teresi – possono concludersi con una condanna o con l' assoluzione. E' la regola. Noi rispettiamo assolutamente questa sentenza, attendiamo di leggere le motivazioni che saranno depositate e leggeremo l' iter logico che ha portato alla decisione". Teresa Principato ha aggiunto: "Non abbiamo alcuna amarezza, noi abbiamo fatto esattamente il nostro dovere. Abbiamo fatto il processo come andava fatto. Leggeremo le motivazioni senza badare che siano scritte piu' o meno con l' inchiostro blu, nero o rosso". L'assoluzione di Calogero Mannino, secondo il deputato di An Enzo Fragala', "deve essere considerato come il 'de profundis' per il pentitismo". Fragala' sottolinea che i giudici non si sono limitati a prendere per buone le dichiarazioni dei pentiti, ma hanno cercato prove e riscontri; "non trovandole – sottolinea Fragala' - hanno assolto l'imputato". "Spero solo – prosegue il parlamentare - che ora venga rivisto lo 'status' di quei pentiti, le cui dichiarazioni si sono rivelate infondate, quando non del tutto calunniose".

6 luglio – Per il procuratore nazionale antimafia Piero Luigi Vigna, che commenta la sentenza di assoluzione di Calogero Mannino, "Se c' e' distinzione tra il pubblico ministero e il giudice non c' e' da meravigliarsi che quest' ultimo abbia una diversa opinione rispetto al pm". “Non c’ e’ da meravigliarsi - ha aggiunto Vigna – se vogliamo piu' gradi di giudizio, che il giudice di appello la possa pensare in modo diverso dal giudice di primo grado. Se non ci fossero questi tre gradi di giudizio il sistema sarebbe come quello americano, dove la giuria e' composta solo da giudici popolari che condannano o assolvono senza spiegare le ragioni. Io preferisco il nostro sistema". Ai giornalisti che gli hanno chiesto se a Palermo si e' chiusa la stagione dei grandi processi, il procuratore nazionale ha detto: "Penso che finche c'e' la mafia non si possa concludere una stagione di processi".

9 luglio - Processo a Marcello Dell'Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa: il pentito Tullio Cannella racconta che il boss Stefano Bontade avrebbe affidato, attraverso la loggia massonica Camea e l'appoggio della P2, decine di miliardi provenienti dal narcotraffico ad imprenditori del nord Italia. Il pentito ha detto di avere appreso la circostanza da Giacomo Vitale, cognato di Bontade, in un periodo di detenzione comune. A Cannella Vitale avrebbe offerto una 'parcella' da dieci miliardi per controllare il flusso del denaro investito al nord ed esaminare le carte contabili. Rispondendo alle domande del pm Cannella ha ribadito quanto da lui sostenuto in altre occasioni, e cioe' che i boss Brusca e Bagarella nel 1994 fornirono indicazioni per votare Forza Italia. «Chiesi a Bagarella - ha detto Cannella - se potevamo infilare in lista uno della nostra formazione Sicilia Libera. Lui rispose che avrebbe parlato con una persona che poteva avere influenza su Gianfranco Micciche' che insieme a La Porta si occupava di formare le liste di Forza Italia. Dopo sette giorni mi rispose che non c'era piu' il tempo, la persona con cui Bagarella doveva parlare era Vittorio Mangano. Secondo Bagarella tra Mangano e Dell'Utri c'era tutta una storia di rapporti». Il pentito ha anche rivelato di avere appreso nell'84 dal killer Pino Greco di un interessamento del gruppo Berlusconi all' Euromare village di Campofelice di Roccella intestato fittiziamente allo stesso Cannella, e ad altri terreni vicini per un uso turistico alberghiero. «Pino Greco mi disse che il gruppo Berlusconi – ha aggiunto Cannella - era stato agganciato tramite esponenti del partito socialista di Palermo in contatto con i milanesi e con Bettino Craxi, ma l'affare non ando' mai in porto». Cannella, infine, ha ricostruito la storia di Sicilia Libera, formazione politica creata dalla mafia prima della nascita di Forza Italia che a Palermo aveva una caratterizzazione di autonomia, a Catania, invece, di separatismo. «A questa formazione - ha concluso - la Lega nord quardava con grande interesse». Il gip di Palermo Alfredo Montalto revoca l' ordinanza di custodia cautelare emessa nel marzo del '99 nei confronti di Marcello Dell' Utri per calunnia e tentata estorsione. La procura aveva chiesto l' arresto del deputato con l'accusa di avere organizzato, con la complicita' di due collaboratori di giustizia, Giuseppe Chiofalo e Cosimo Cirfeta, un piano per screditare i pentiti che lo accusano nel processo in corso a Palermo per concorso in associazione mafiosa. Il Parlamento non concesse l' autorizzazione all' arresto. L' ordinanza riguardava inoltre l' accusa di tentata estorsione nei confronti dell' ex senatore di Trapani Vincenzo Garraffa. La competenza per questo fatto e' stata trasmessa a Milano e qui il gip, su richiesta dei difensori di Dell' Utri, ha ritenuto l' inefficacia dell' ordinanza custodiale. Il giudice di Palermo ha invece revocato il provvedimento, che riguardava adesso solo la calunnia, per mancanza di esigenze di custodia cautelare. Dopo l' esame di stamane in aula del pentito Tullio Cannella, il collegio difensivo del senatore Dell'Utri ha deciso di non fare alcun controesame. «A nostro avviso - ha detto l' avvocato Giuseppe Di Peri - le dichiarazioni di Cannella sono inconsistenti e non scalfiscono la posizione di Dell' Utri». Il legale di Vittorio Mangano, il fattore di Arcore chiamato in causa da Cannella come l'uomo che avrebbe avuto influenza sul coordinatore di Forza Italia Gianfranco Micciche', non ha voluto invece commentare le parole del pentito. «Non ho intenzione di fare alcun commento - ha detto l'avvocato Rosalba Di Gregorio - perche' ritengo che con la morte dell'imputato si sia esaurito il mio mandato difensivo».

11 luglio – A Taormina, al Teatro Antico nel quadro delle manifestazioni di Taormina Arte, prima assoluta del musical su Salvatore Giuliano, il bandito siciliano del dopoguerra circondato ancora da un alone di leggenda nonostante l' uccisione di numerosi rappresentanti delle forze dell' ordine e la strage di Portella della Ginestra, compiuta sui contadini inermi. Ad interpretare il bandito di Montelepre, e' Giampiero Ingrassia. Ad ideare lo spettacolo e' stato Dino Scuderi, giovane artista, anche lui siciliano, che ha composto le musiche. I testi, invece, sono di Franco Ingrilli e Pierpaolo Palladino. La regia, infine, e' di Armando Pugliese. «La nostra messa in scena - ha spiegato Scuderi - non vuole essere uno spettacolo politico o la cronaca di un fatto e di un personaggio che, ancora oggi, dividono e fanno discutere. Prima di tutto e' un musical nel quale il veicolo principale e', appunto, la musica». La vicenda di Salvatore Giuliano, nel musical che debutta domani sera ci sara' tutta: da bandito ad eroe per la lotta separatista; da eroe a traditore che spara sui contadini a Portella della Ginestra; da traditore a vittima di un complotto di Stato. Il testo letterario utilizza un siciliano colto o, per meglio dire, un italiano regionale siciliano».

13 luglio - "L' Espresso"
Bombe e servizi segreti
Tre stragi, tre coincidenze
Tra gli atti degli inquirenti che indagano sulle stragi del 1992-93 ce ne sono alcuni che riguardano Lorenzo Narracci, vicecapo del Sisde a Palermo fino a 9 anni fa. Gli investigatori hanno un biglietto, trovato sulla montagna da dove fu prenuto il telecomando per uccidere Giovanni Falcone, sul quale era annotato il suo numero di cellulare. Inoltre l' auto usata da Narracci era posteggiata in via Fauro a Roma, la notte dell' attentato a Maurizio Costanzo. Dai tabulati del cellulare di Bruno Contrada, l' ex numero 3 del Sisde, risulta una chiamata a Narracci (che era a Palermo) partita 80 secondi dopo la bomba che uccise Paolo Borsellino.

16 luglio - Dopo i giudici di Caltanissetta, anche il Csm si appresta ad archiviare il caso "Siino, De Donno, Lo Forte" scaturito due anni fa dalle dichiarazioni di Angelo Siino e che riguardava la presunta consegna alla mafia di un rapporto del Ros dei carabinieri su 'Mafia e appalti'. Il caso era finito al Csm perche' nell'inchiesta penale erano indagati per abuso e corruzione in atti giudiziari quattro magistrati palermitani: l'ex procuratore Pietro Giammanco, l'aggiunto Guido Lo Forte e i pm Giuseppe Pignatone e Ignazio De Francisci. La Prima Commissione del Csm, competente per i trasferimenti di ufficio dei magistrati, ha chiesto al plenum di archiviare il fascicolo. La decisione e' legata all' esito del procedimento penale definito con decreto di archiviazione nel marzo dell'anno scorso anche per Siino e per il capitano del Ros Giuseppe De Donno, che nello stesso procedimento erano indagati per calunnia.

16 luglio - Il collaboratore di giustizia Giovanni Zerbo, detto Giuseppe 'u pastureddu', che avrebbe dovuto deporre al processo Dell' Utri, non si presenta in aula perche' e' rimasto vittima di un incidente automobilistico nella localita' segreta in cui vive. A comunicare ai giudici della seconda sezione del tribunale l' impedimento di Zerbo e' stato il suo legale, l'avvocato Carlo Fabbri. Il pentito avrebbe dovuto testimoniare sui suoi rapporti con l' altro collaboratore di giustizia Salvatore Cucuzza. Zerbo che sconta agli arresti domiciliari una condanna per traffico di stupefacenti, si stava recando al lavoro quando e' stato investito da un automobilista. Depone invece il pentito trapanese Vincenzo Sinacori, sulla presunta estorsione di cui sarebbe rimasto vittima l'ex presidente della Pallacanestro Trapani Vincenzo Garraffa. Garraffa aveva ottenuto una sponsorizzazione per la sua squadra di basket, che militava in A/1 nel campionato 1991-1992, da parte della Birra Messina. La ricerca dello sponsor fu curata da Publitalia, che a dire del presidente, avrebbe preteso una percentuale superiore a quella pattuita facendo intervenire anche il boss trapanese Vincenzo Virga per esercitare "pressioni". Sinacori ha detto che i due si videro nel 95, mentre Garraffa ha sempre ribadito di avere incontrato il boss prima delle elezioni del 92. Circostanza che, secondo il difensore di Dell' Utri, l' avvocato Roberto Tricoli, "la direbbe lunga sull' attendibilita' del collaboratore".

17 luglio - I collaboratori di giustizia Francesco Marino Mannoia e Pino Marchese saranno sentiti come testimoni al procedimento per l' omicidio dell' ex segretario regionale del Pci Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo, assassinati a Palermo il 30 aprile 1982. Le audizioni sono state disposte questa mattina dal gup Marcello Viola, che dovra' decidere sul rinvio a giudizio dei boss Giuseppe Lucchese ed Antonino Madonia, imputati del duplice delitto. Marchese, che sara' interrogato il prossimo 27 ottobre nell' aula bunker di Bologna, dovra' riferire sulla presenza di Madonia sul luogo dell' agguato. Circostanza che gli sarebbe stata raccontata dal fratello Nino Marchese. La testimonianza di Mannoia, per il quale sara' necessaria una rogatoria negli Usa, riguardera' invece il ruolo di Lucchese nell' assassinio del parlamentare comunista. Ad accusare i due boss era stato il collaboratore di giustizia Salvatore Cucuzza che per l' agguato era stato condannato nei mesi scorsi ad otto anni di reclusione. L' inchiesta sul duplice delitto e' stata coordinata dal sostituto procuratore della Dda Maurizio De Lucia. Il racconto di Cucuzza, che all' epoca dei fatti aveva 21 anni, e' il primo  fatto da un killer su un omicidio politico-mafioso. Interrogato dai magistrati, Cucuzza ricostruisce cosi' l' agguato: "Al delitto abbiamo preso parte - dice - io, Gaetano Carollo della famiglia di Resuttana, che forse allora era il sottocapo, Nino Madonia, Pino Greco, Lucchese ed almeno uno dei Galatolo, non posso pero' escludere che con funzioni di copertura vi fosse altra gente, della cui presenza io pero' non sono a conoscenza". "Madonia - ha detto il pentito - mi disse che avremmo dovuto attendere in piazza Turba e quando ha visto arrivare la macchina con a bordo La Torre ha messo in moto l' auto tagliando la strada alla vettura del politico e bloccandola. Sono sceso dall' auto e mi sono piazzato davanti a La Torre sparandogli con la mia Colt 45: un solo colpo al segretario del Pci e tutti gli altri all' autista, che avevo notato avere un' arma". Cucuzza ha descritto nei dettagli anche il ruolo dei complici: "Pino Greco armato di un mitra ha sparato sull' autista e poi su La Torre perche' era ancora vivo". Sul movente dell' omicidio il pentito ha detto di non avere alcuna informazione utile, considerato anche che, tra l' altro, ha appreso solo il giorno dopo dai giornali che aveva assassinato l' onorevole Pio La Torre. "Da alcune conversazioni avute con Pino Greco – spiega Cucuzza - appresi che uomini politici avevano indicato a Cosa nostra che l' eliminazione di La Torre avrebbe impedito o quantomeno attenuato il rigore della legge sul sequestro dei beni". "Posso dire - precisa il collaboratore - che la persona che fece questi discorsi ad uomini di Cosa nostra, doveva essere un politico, poiche' Pino Greco mi fece espresso riferimento all' attivita' svolta da La Torre, il quale prese per il bavero della giacca altri esponenti politici al fine di indurli energicamente ad approvare la legge". "A rivelarlo a Greco - ha concluso Cucuzza - doveva essere stato un testimone oculare". La cupola mafiosa, ritenuta mandante dell' omicidio, e' stata gia' condannata.

18 luglio - "Nove anni sono passati, la battaglia di resistenza civile alla cultura mafiosa sembra essersi affievolita, ma mi da' fastidio chi, sulla questione della legalita', vede tutto nero. Detesto il disfattismo". Lo dice alla vigilia della commemorazione della strage di via D' Amelio, Rita Borsellino. Vice-presidente dell' associazione Libera, Rita Borsellino rompe il silenzio e accetta di parlare dell' attuale stagione della lotta alla mafia, analizzando i cambiamenti della societa' nei nove anni trascorsi. "E' vero - afferma - sono arrivate tante sentenze di assoluzione, soprattutto a conclusione dei processi cosiddetti eccellenti, e questo ha spinto qualcuno a giudicare un fallimento l' intera stagione giudiziaria dell' ultimo decennio. Non bisogna pero' essere superficiali. Siamo abituati ai bombardamenti mediatici e diamo giudizi netti su cose che hanno mille sfaccettature. In tema di processi, per esempio, pochi hanno evidenziato che molte sentenze assolutorie portavano nelle motivazione il comma 2 dell'art. 530, che poi e' la vecchia insufficienza di prove. E vero che il clima attorno ai processi eccellenti nove anni fa era diverso, ma erano diverse anche le regole del gioco, a cominciare dalle regole processuali, che in questi anni sono cambiate". Dunque, attenzione, avverte Rita Borsellino: "Se dobbiamo tentare un bilancio, occorre saper leggere la complessita' della societa' attuale: si sarebbe potuto fare di piu', e' vero, ma le conquiste raggiunte nella lotta a Cosa nostra non possono e non devono essere sottovalutate. Anzi, rispetto a nove anni fa, nella lotta alla mafia siamo certamente piu' avanti. Quello che manca e' la spinta emotiva a fare scelte coraggiose, l' entusiasmo collettivo che, dopo le stragi, esplose letteralmente nella societa' civile, trascinando tante persone in piazza per esprimere l' insofferenza allo strapotere mafioso". Secondo la signora Borsellino, che e' farmacista, non tutto e' perduto: "Penso al braccio armato, all'esercito della mafia che ha ricevuto colpi durissimi ed e' stato decimato; penso alla quantita' enorme di ergastoli a centinaia di 'uomini d' onore', sicari e gregari di Cosa nostra; penso alle confische, con le quali i patrimoni di boss sono tornati in parte allo collettivita' e sono stati finalmente riconvertiti a un uso civile. Sono punti di non ritorno che non possiamo ignorare". I rimpianti, ovviamente, non mancano. "Si sarebbe potuto fare molto di piu', invece quasi sempre a causa degli stop imposti dal mondo politico, molti risultati, soprattutto legislativi, non sono stati raggiunti - sostiene Rita Borsellino - E' incredibile come nelle ultime campagne elettorali nessuno, ne' a destra, ne' al centro, ne' a sinistra abbia mai parlato di lotta alla mafia. Una rimozione forzata che non puo' non impensierire rispetto al futuro della politica italiana". L' affronto peggiore? "L' alto numero di inquisiti che sono stati eletti in Parlamento dimostra che la gente non ha maturato quell' esplosione di intransigenza vissuta dopo le stragi. Ma non e' il momento di fare disfattismo. Mi piace riproporre lo slogan del primo anniversario delle stragi palermitane, quello che diceva che le  idee di Paolo e Giovanni devono camminare sulle nostra gambe, con una correzione: queste idee, oggi, devono correre, perche' si e' perso troppo tempo".

19 luglio - "Borsellino non doveva essere ammazzato dopo un mese e mezzo dalla strage di Capaci. Ma ha fatto un errore madornale. Quello che fanno gli uomini onesti. Si e' confidato con persone dello Stato, con qualche ministro. Poi qualcuno ha parlato e gli hanno fatto il pacco". E' il testo del verbale di interrogatorio reso al Procuratore di Palermo Pietro Grasso ed al pm della Dda Nino Di Matteo da Calogero Pulci, ex braccio destro del boss nisseno Piddu Madonia, del quale si sta ancora valutando l'attendibilita'. Il verbale con le rivelazioni di Pulci e' stato depositato nei giorni scorsi agli atti del processo Grande Oriente che vede imputati di associazione mafiosa sei presunti favoreggiatori del superlatitante Bernardo Provenzano. Oltre alle dichiarazioni sulla strage di via D' Amelio, Pulci, ha riferito agli investigatori dei suoi rapporti con uomini d' onore bagheresi come Simone Castello, il cosiddetto postino di Provenzano e Nicolo' Giammanco, ex capo dell' ufficio tecnico del Comune di Bagheria, entrambi imputati al processo Grande Oriente.

19 luglio - "Mi hanno riferito che Borsellino fu indicato come capo della superprocura ma lui rifiuto' perche' aveva promesso di seguire a Palermo un processo ad un pentito". Lo ha ricordato il procuratore della Repubblica a Torino, Marcello Maddalena, a Palermo per ricordare le vittime della strage di Via D' Amelio. "Questo dimostra quanto Paolo - ha aggiunto - tenesse piu' al suo lavoro che alla carriera".

19 luglio - "La strage di via D' Amelio non e' il frutto del solo pensare mafioso". Lo ha sostenuto Giuseppe Bucaro nell' omelia pronunciata nella chiesa di San Francesco d' Assisi a Palermo per il nono anniversario della strage Borsellino. "Attorno a questa strage hanno ruotato troppi interessi convergenti". In una chiesa affollata di personalita' e gente comune, il sacerdote ha scelto per la liturgia uno dei testi piu' noti del Vecchio Testamento: la chiamata di Mose' e la rivelazione del nome di Dio. "In questi nove anni non abbiamo completamente acquisito la coscienza del cambiamento che si e' verificato e ci siamo limitati a delegare alla sola magistratura e alle forze dell' ordine la ricerca di una verita' solo processuale. La magistratura si e' cosi' sovraesposta. Da parte della societa' civile non sono mancati atti concreti di solidarieta', ma sono rimasti a un livello emotivo, affievolendosi nel tempo. Abbiamo avuto paura della verita' forse perche' ancora oggi l' Italia non e' pronta". Il sacerdote ha chiuso la sua omelia pronunciando i nomi di Paolo Borsellino e degli uomini della scorta: Emanuela Loy, Agostino Catalano, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina: "Nel nome del sangue versato in via D' Amelio "nessuno si rassegni - ha detto Bucaro citando le parole del Papa - ad un mondo in cui altri essere umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro".

19 luglio - Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso dalla mafia, ha preferito disertare le cerimonie ufficiali. Ma a notte fonda, in un dibattito, ha detto come la pensava: "Ho esposto un lenzuolo bianco sul balcone di casa per dire che la vera sceneggiata era quella che si stava svolgendo di sotto, con il presidente Cuffaro". La polemica, nel giorno delle commemorazioni per il nono anniversario della strage di via D' Amelio, si riferisce ad alcune dichiarazioni rilasciate dal neo presidente della Regione siciliana in campagna elettorale. Il candidato della Casa delle Liberta' aveva definito una "sceneggiata" l' iniziativa lanciata da un comitato di cittadini, subito dopo le stragi del '92, di esporre sui balconi di casa alcune lenzuola. "Invece - osserva Rita Borsellino- quel gesto era la prima denuncia contro la mafia che veniva firmata pubblicamente dai palermitani". La sorella del magistrato, intervenuta nel centro sociale Santa Chiara a un dibattito sulla liberta' di stampa, ha spiegato anche i motivi che l' hanno spinta a non partecipare alla messa commemorativa che si e' svolta a San Francesco d' Assisi: "Paolo non avrebbe approvato la mia scelta, perche' lui aveva un grande rispetto per le istituzioni. Ma io non ce l' ho fatta ad assistere a quella parata. Ho preferito partecipare alla celebrazione eucaristica officiata da Don Ciotti a Corleone, in un terreno confiscato alla mafia". Rita Borsellino, che e' vice presidente nazionale dell' associazione Libera, ha infine raccontato la sua iniziativa personale di protesta: "Hanno pulito via D' Amelio, l' hanno bonificata dalle auto, come non era avvenuto quando fecero saltare in aria Paolo con l' esplosivo, hanno detto che bisognava tenere chiuse le finestre per motivi di sicurezza. Ho risposto che le avrei comunque sbarrate, per non sentire quello che stava accadendo. Poi, invece, ho deciso di esporre un lenzuolo sul balcone. Forse nessuno si e' accorto di quel drappo bianco al quarto piano. Non sono abituati a guardare in alto, preferiscono tenere gli occhi bassi per inchini e convenevoli". Rita Borsellino ha anche polemizzato con il coordinatore del comitato di reggenza dei Ds Pietro Folena, che ha inviato un telegramma di sostegno all' iniziativa in favore della liberta' di stampa:"Questo messaggio avrebbe dovuto inviarlo prima, cosa ha fatto negli ultimi cinque anni per difendere la liberta' di stampa? La tentazione oggi e' quello di rispedirlo al mittente". Il presidente della Regione Sicilia Toto' Cuffaro, replica a Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso dalla mafia: "Ho preso impegni contro la mafia per una lotta forte che sia soprattutto prevenzione, e che consenta ai giovani di avere un lavoro che li affranchi dai bisogni e dalla mafia".

19 luglio - Il procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna, a Palermo per partecipare alle manifestazioni in occasione del nono anniversario della strage di via D' Amelio, non commenta le parole di Padre Giuseppe Bucaro e utilizza una metafora "alpina" per sintetizzare lo stato dell'arte sui cosidetti "mandanti occulti" delle stragi mafiose del '92: "E' come quando si va in montagna: solo alla fine del cammino si puo' dire se e' stata raggiunta la cima". "Ci sono indagini in corso - spiega il responsabile della  Dna - indagini difficili. Sono stati esplorati vari sentieri per arrivare alla cima, che per ora non hanno dato esito. Pero' abbiamo bravi 'scalatori', magistrati competenti ed esperti che stanno lavorando bene". Rivolgendosi alla vedova del magistrato ucciso Agnese Piraino Leto, Vigna ha detto: "Le morti lasciano qualcosa di positivo, con molte virgolette. Ecco perche' possiamo dire che Paolo Borsellino non e' morto invano". Vigna, intervenuto al dibattito organizzato da magistratura indipendente nel centro Paolo Borsellino, ha osservato che "c' e' stato un impegno da parte dei magistrati ad andare al di la' degli esecutori delle stragi. I magistrati devono percorrere questo sentiero per capire se ci sono elementi utili per le indagini. E' bello dire non toccate Caino, ma sopratutto non bisogna toccare Abele". Il Procuratore Nazionale Antimafia ha parlato infine delle "ripartenze" dello Stato nella lotta contro la mafia dopo le stragi: "dopo Ciaculli nel '63, inizia l' offensiva. Poi, dopo l' '82, con le morti di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa si riparte ancora, e nel '92 si mette in ginocchio il lato militare della mafia".

19 luglio - La nuova commissione Antimafia sta per diventare operativa: la commissione Affari Costituzionali della Camera ha espresso parere favorevole, dopo aver apportato qualche modifica, alla proposta di legge presentata dal relatore Francesco Nitto Palma (FI). La parola adesso spetta all'Aula, che dal 24 luglio iniziera' a discutere la proposta. Ecco le principali caratteristiche e i compiti piu' importanti che spetteranno alla commissione secondo il testo che e' stato definito:
 - NON SOLO MAFIA
Non si chiamera' semplicemente Antimafia, il testo approvato propone la piu' complessa dicitura: Commissione parlamentare sul fenomeno della criminalita' organizzata mafiosa o similare e su quello del riciclaggio.
- I COMPITI
Verificare l'attuazione e la congruita' delle leggi in materia di criminalita' organizzata. Formulare proposte amministrative e legislative per rendere piu' incisiva la lotta di Stato e enti locali alle attivita' criminali. Monitorare le trasformazioni del fenomeno mafioso. Difendere il sistema di appalti e opere pubbliche dai condizionamenti mafiosi. Prevenire e contrastare le varie forme di accumulazione di patrimoni illeciti. Verificare l'adeguatezza delle misure di prevenzione patrimoniale, sulla confisca dei beni e sul loro uso sociale e produttivo. Riferire al Parlamento;
- PRESIDENTE
Sara' eletto dai componenti la commissione nella prima seduta del nuovo organismo parlamentare.
- LA COMPETENZA
La commissione procede a indagini e esami con gli stessi poteri, e le stesse limitazioni, dell'autorita' giudiziaria. I compiti della Commissione si estendono anche alle associazioni criminali di stampo mafioso di matrice straniera.
- LA COMPOSIZIONE
La Commissione e' composta da 25 deputati e da 25 senatori, nominati, rispettivamente, dal Presidente della Camera e da quello del Senato. Dopo un biennio viene rinnovata, ma i componenti possono essere confermati. L'ufficio di presidenza e' composto da un presidente, due vice e due segretari eletti dalla Commissione stessa. I lavori possono essere organizzati attraverso uno o piu' comitati;
- LE GARANZIE
I fatti di mafia sono eversivi dell'ordine costituzionale, in nessun caso dunque puo' essere opposto il segreto di Stato o quello d'ufficio. Gli agenti e gli ufficiali di polizia non sono tenuti a rivelare alla Commissione i nomi dei propri informatori;
- I POTERI
La Commissione puo' ottenere, anche in deroga al divieto stabilito dall'articolo 329 del codice penale, copie di e atti e documenti relativi a procedimenti in corso presso l'autorita' giudiziaria o altri organi inquirenti. L'autorita' giudiziaria puo' sospendere la richiesta, con decreto motivato per il termine massimo e non rinnovabile di sei mesi, per gravi ragioni di riserbo istruttorio.
 - DURATA
L'intera XIV Legislatura.

21 luglio - "Non ho mai accusato i magistrati di non aver cercato la verita'. E' stata un' interpretazione di qualcuno" dice il sacerdote Giuseppe Bucaro che ha celebrato l' omelia per commemorare l' anniversario della strage di via D' Amelio in cui morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta. "Nella mia omelia - aggiunge - si parlava del bisogno di non accontentarsi della solo verita' processuale, ma bisogna ricercare tutta la verita' politica, storica e culturale. Compito della magistratura e' la ricerca della verita' processuale. Il resto spetta ad altri". "In fondo - prosegue - e' quanto hanno ribadito alcuni magistrati e ha confermato Giuseppe Lumia, presidente della Commissione antimafia nella scorsa legislatura. La ricerca della verita' non e' compito della sola magistratura, ma di tutte le componenti delle Istituzioni della societa' civile, ciascuno per la sua responsabilita'. La mia era una esortazione a non lasciare sola la magistratura".

21 luglio - La madre e i due fratelli di Emmanuela Setti Carraro, uccisa con il marito Carlo Alberto Dalla Chiesa e l' agente della scorta Domenico Russo il 3 settembre 1982 a Palermo, hanno avuto riconosciuto un indennizzo di due miliardi e mezzo di lire. La decisione e' adottata dal giudice unico della prima sezione civile del tribunale Roberto Conti a conclusione di un iter avviato quattro anni fa con un' istanza del legale dei Setti Carraro, l' avvocato Nino Lo Presti che e' anche deputato di An. I soldi, come rende noto stamattina il Giornale di Sicilia, saranno tratti dal Fondo di garanzia per le vittime della mafia istituito presso la Presidenza del Consiglio e alimentato con i proventi dei beni sequestrati ai boss di Cosa Nostra. Il Fondo e' stato creato in forza di una legge approvata di recente con il proposito di rendere possibili i risarcimenti posto che numerosi esponenti di Cosa Nostra, avendo avuti confiscati i loro patrimoni, sono nella materiale impossibilita' di far fronte personalmente ai risarcimenti dei danni morali e materiali arrecati ai congiunti delle loro vittime.

25 luglio - Giovanni Tinebra, ex procuratore di Caltanissetta, nominato direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria dice: "Lascio una procura che ha ottenuto in questi ultimi nove anni tanti successi nella lotta alla mafia e alla criminalita', adesso pensero' al mio nuovo incarico alla guida del Dap. Quando sono arrivato a Caltanissetta nel 1992 era un piccolo ufficio. E' poi cresciuto poco alla volta, per numero di magistrati e inchieste svolte, fino ad arrivare ai successi di questi anni con l' arresto degli esecutori materiali delle stragi di Falcone e Borsellino e scardinando le cosche mafiose locali". Tinebra indica l' ufficio che ha guidato per nove anni come "il primo in Italia" per i successi conseguiti. "Le nostre ipotesi d' accusa - dice l' ex procuratore - sono state sempre accolte dai giudici della corte d' assise e confermate anche in appello". "Mi dispiace non poter vedere concluse alcune delle inchieste che avevo avviato - conclude Tinebra - ma credo che l' incarico a cui sono stato chiamato mi dara' soddisfazioni".

26 luglio - La Camera approvato all' unanimita' la legge che istituisce la nuova commissione Antimafia. Il testo votato e' frutto di una mediazione tra maggioranza e opposizione. Nei giorni scorsi, infatti, Cdl e Ulivo si erano divisi in commissione Affari costituzionali e solo nel comitato dei nove hanno trovato accordo. La differenza di vedute aveva riguardato il rapporto Commissione-Magistratura e il meccanismo di nomina del presidente dell'Antimafia. Al di la' della differenza di indirizzi la nuova commissione si caratterizza per dover indagare sui rapporti mafia e politica e mafia e economia e per allargare il suo campo d'azione a organizzazioni «similari» a quelle mafiose.
Ecco, in sintesi, il testo approvato dalla Camera:
- IL NOME - Commissione parlamentare sul fenomeno della criminalita' organizzata mafiosa o similare e su quello del riciclaggio;
- I COMPITI - Verificare l' attuazione e la congruita' delle leggi in materia di criminalita' organizzata. Formulare proposte amministrative e legislative per rendere piu' incisiva la lotta di Stato ed enti locali alle attivita' criminali. Monitorare le trasformazioni del fenomeno mafioso. Difendere il sistema di appalti e di opere pubbliche dai condizionamenti mafiosi. Prevenire e contrastare le varie forme di accumulazione di patrimonio illecito. Verificare l' adeguatezza delle misure di prevenzione patrimoniale, sulla confisca dei beni e sul loro uso sociale e produttivo. Riferire al Parlamento;
- IL PRESIDENTE - Sara' eletto dai componenti della Commissione nella prima seduta del nuovo organismo parlamentare;
- LA COMPETENZA - La Commissione precede a indagini ed esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell' autorita' giudiziaria. I compiti della Commissione si estendono anche alle associazioni criminali di stampo mafioso e di matrice straniera;
- LA COMPOSIZIONE - La Commissione e' composta da 25 deputati e 25 senatori nominati, rispettivamente, dal presidente della Camera e da quello del Senato. Dopo un biennio viene rinnovata, ma i componenti possono essere confermati. L' Ufficio di presidenza e' composto da un presidente, due vice e due segretari eletti dalla Commissione stessa. I lavori possono essere organizzati attraverso uno o piu' comitati;
- LE GARANZIE - I fatti di mafia sono eversivi dell' ordine costituzionale, in nessun caso dunque puo' essere posto il segreto di Stato o quello d' ufficio. Gli agenti e gli ufficiali di polizia non sono tenuti a rivelare alla Commissione i nomi dei propri informatori;
- I POTERI - La Commissione puo' ottenere, anche un deroga al divieto stabilito dall' art.329 del codice penale, copie di atti e documenti relativi a procedimenti in corso presso l' autorita' giudiziaria o altri organi inquirenti. L' autorita' giudiziaria puo' ritardare la trasmissione di atti e documenti richiesti con decreto motivato solo per ragioni di natura istruttoria. Il decreto ha efficacia per sei mesi e puo' essere rinnovato;
- LA DURATA -    L' intera XIV legislatura.
La commissione parlamentare antimafia e' stata istituita per la prima volta con una legge del dicembre 1962, e costituita effettivamente nel febbraio 1963, poco prima della scadenza della legislatura (presieduta da Paolo Rossi, la prima commissione non tenne alcuna seduta a causa dello scioglimento delle Camere). Era molto diversa da quella attuale e aveva essenzialmente il compito di analizzare, limitatamente alla regione Sicilia, genesi e caratteristiche del fenomeno mafioso, e «proporre le misure necessarie a reprimere le manifestazioni e ad eliminare le cause» della mafia. La legge non prevedeva una scadenza e la sua attivita' ando' avanti, nelle diverse legislature, fino al 1976. Tra il 1968 e il 1972, la commissione raccolse migliaia di «schede nominative» che raccoglievano notizie, molte di fonte anonima o non documentate. Le schede, 163 delle quali riguardavano politici, furono inizialmente coperte da segreto e poi pubblicate nel 1989. A fine 1982 la commissione fu ricostituita, in base alla legge Rognoni- La Torre e con poteri piu' ampi, anche se ancora senza quei poteri di inchiesta che arriveranno solo nel 1988. Da allora, con alcune modifiche dei suoi compiti, la commissione bicamerale antimafia e' stata sempre ricostituita, in tutte le legislazioni successive. Nell' ultima legislatura, la commissione Antimafia, commissione d' inchiesta con gli stessi poteri e limitazioni dell' autorita' giudiziaria, ha presentato 17 relazioni al Parlamento, compiuto 54 missioni con visite in 70 localita', svolto audizioni ascoltando 1.283 persone. Dalla sua istituzione, i presidenti della commissione sono stati undici:
1963 - Paolo Rossi (Psdi)
1963 - Donato Pafundi (Dc)
1968 - Francesco Cattanei (Dc)
1972 - Luigi Carraro (Dc)
1983 - Nicola Lapenta (Dc)
1983 - Abdon Alinovi (Pci)
1988 - Gerardo Chiaromonte (Pci)
1992 - Luciano Violante (Pds)
1994 - Tiziana Parenti (Forza Italia)
1996 - Ottaviano Del Turco (Ri)
2000 - Giuseppe Lumia (Ds).

2 agosto - "La Repubblica" edizione siciliana:
La lezione di Borsellino proiettata nelle scuole
il video
"Un video per raccontare la storia di un uomo, come testimonianza di impegno civile ancor prima che professionale". Pippo Ardini spiega così la realizzazione del suo nuovo video, "Paolo Borsellino, un progetto: amare Palermo", recentemente presentato alla città in occasione dell'anniversario della strage di via D'Amelio. Dopo "La catena umana", video sulle manifestazioni antimafia, Ardini prosegue così il suo lavoro di sensibilizzazione. Il nuovo video, che dura 75 minuti e contiene alcuni materiali inediti, è diviso in due parti. Nella prima, la sorella del magistrato, Rita Borsellino, ricorda i momenti più intimi, disegnando un ritratto intenso e profondamente umano. La seconda parte, più documentaristica, propone integralmente l'ultimo discorso pubblico di Borsellino, tenuto nella biblioteca comunale in ricordo dell'amico Giovanni Falcone. Oltre alla ricostruzione cronologica dei fatti accaduti, il video contiene importanti denunce, come quella del magistrato Giuseppe Di Lello all'indomani dell'uccisione di Borsellino, e messaggi di solidarietà, come quello del regista Giorgio Strehler. Il video, promosso dall'assessorato regionale ai Beni culturali, sarà proiettato nelle scuole cittadine.

3 agosto - "L' Espresso"
ESCLUSIVO / LA PRIMA INTERVISTA A MANNINO DA ASSOLTO
La resurrezione di Calogero
Le strategie della mafia. Le connivenze democristiane. L'amicizia con Falcone. E il vero perché di tutti i suoi guai
di Alfio Caruso
Della drammaticità del nascere siciliani Calogero Mannino ha provato l'illusione e la sofferenza, l'orgoglio e l'avvilimento, l'ambizione e lo sconforto. Di sé oggi dice: "Sono un uomo finito, un vecchio che come tutti i vecchi ha l'ansia del tempo che fugge". Ma in un'altra vita Mannino è stato deputato regionale a 28 anni, deputato nazionale a 37, ministro a 41, uomo di potere - lui rettifica: "di Stato" - a 44. Scrivevano che era una delle intelligenze più lucide della Dc, un probabile segretario di partito, addirittura un possibile capo di governo. Poi.
"Poi una mattina del '93 leggo che l'ingegnere agrigentino Filippo Salomone, arrestato per tangenti, afferma di avermi dato soldi, che non mi ha mai dato: anche da questa imputazione verrò assolto con formula piena. Capisco che sto per finire nel tritacarne: da un lato la mafia, per la quale ero un ostacolo da eliminare, dall'altro la procura di Palermo. Al processo Salomone smentirà di avermi mai dato una lira, spiegherà che persino i contributi per la Dc li ha versati a Citaristi".
Salomone, comunque, è soltanto l'inizio.
"A fine estate Sergio Mattarella convoca a Palermo un'assemblea degli iscritti siciliani al nascente Ppi e non m'invita. Badi che anche lui per le stesse dichiarazioni di Salomone riceverà un'informazione di garanzia".
Non la candidano nelle politiche del '94, lei si presenta da solo, ma non viene eletto.
"Quando nel febbraio '95 mi arrestano, si leva quasi un coro di esultanza. Io rispetto Caselli e i suoi procuratori, anche se per me sono stati causa di grande dolore, mi chiedo però se prima di partire con un'azione giudiziaria così perentoria nei tempi e nelle conseguenze non avrebbero dovuto approfondire, verificare, riscontrare. Eppure era chiara la strategia terroristica di Cosa Nostra in quegli anni".
Terrorismo di che marca?
"Io credo che su preciso mandato i corleonesi di Riina abbiano attaccato la Dc, insensibile a ogni loro profferta, perché simboleggiava lo Stato, anzi il vecchio Stato".
Cioè?
"La fine del comunismo rendeva inutile e sotto certi aspetti dannosa l'esistenza dello Stato Pontificio Italiano. Andava sostituito con un soggetto meno clericale, meno aperto a soluzioni ecumeniche, meno portato alla ricerca di una mediazione. Bisognava distruggere la Dc perno di quel sistema. Non a caso è finito nel mirino Andreotti, il politico che ne incarnava la sintesi".
Il suo ragionamento conduce allo stesso burattinaio già indicato da Andreotti: gli Usa.
"Uno dei ricordi più inquietanti di Scelba riguardava Giuliano. "Noi lottavamo nelle piazze contro i comunisti - mi spiegava - e loro tenevano Giuliano come una pistola puntata contro di noi a causa dei comunisti". Questo nostro povero Paese è sempre stato a sovranità limitata e lo è anche ora. Scelba raccontava che gli americani erano preoccupati dalla violenta opposizione di Togliatti al Patto Atlantico: non bastava che nel '48 fosse stato il governo italiano a chiedere di entrarvi. I comunisti li terrorizzavano".
Giuliano aveva contatti stabili con i servizi segreti statunitensi.
"Con il tramite della mafia: senza di essa, non ci sarebbe stato Giuliano. Quella mafia che ha aiutato lo sbarco alleato in Sicilia, che in seguito sarà imbottita di picciotti, mandati indietro dagli Stati Uniti con la scusa di dover fare pulizia in casa. Scelba mi diceva che ad ogni poliziotto e carabiniere ucciso da Giuliano lui giurava che avrebbe fatto un culo così alla mafia".
Tuttavia altri democristiani la pensavano diversamente. Nel gennaio '45 Bernardo Mattarella, padre di Piersanti e di Sergio, scrive una lettera aperta agli amici villalbesi di don Calò Vizzini invitandoli a lasciare i separatisti e a iscriversi alla Dc.
"Immagino che Mattarella l'abbia scritta con il consenso dei maggiorenti del partito, probabilmente dello stesso De Gasperi. Bisognava salvare l'integrità territoriale dell'Italia minacciata dal Separatismo, con cui trescavano inglesi, americani, massoneria internazionale. Fu un prezzo da pagare per togliere il consenso ai separatisti".
Comincia lì la grande alleanza tra la mafia e alcuni settori della Dc.
"La mafia dell'epoca è un potere in connessione con altri, il mafioso è un personaggio pubblico alla don Mariano Arena del "Giorno della civetta". Alcuni politici, non soltanto democristiani, si fanno attrarre dal suo ruolo di mediazione tra la società e lo Stato. Purtroppo pochi hanno compreso la lezione di Scelba. Lui tenne la mafia chiusa nel recinto, convinto che in questo modo le avrebbe reciso i fili".
Dunque a Caselli e ai suoi sostituti è mancata la visione storica per capire la strategia corleonese?
"Dietro lo schermo dell'obbligatorietà dell'azione penale è stata imbastita contro di me un'iniziativa giudiziaria sulla base di un articolo pubblicato da "L'Espresso" nel 1981. Vi stava scritto che nel 1977 avevo fatto il testimone di nozze di Silvana Parisi alle nozze con Gerlando Caruana, figlio di Leonardo; che avevo partecipato a un pranzo con Peppino Settecasi; che ero il dominus degli appalti della Sitas. Come sostiene Sciascia: prima si discute di una persona, poi si dice che è discussa".
Vittima delle coincidenze?
"Vittima di circostanze occasionali, di comportamenti fortuiti. Il mio caso dimostra che noi siciliani continuiamo a essere prigionieri del sospetto generalizzato. Eppure su questi episodi aveva a lungo indagato Giovanni Falcone: negli atti del maxi processo scrive che ho dimostrato la mia totale estraneità "con chiarezza e onestà intellettuale". Dieci anni dopo mi trovo davanti ad accuse pesantissime, subisco dieci mesi di carcere e 12 di reclusione domiciliare, sono processato per sei anni prima di una totale assoluzione".
Se l'immaginava un simile epilogo quando all'inizio del 1970 lei, Mattarella e Nicoletti parlavate di cambiare la Dc?
"Ci muovevano due considerazioni: i grandi capi della Dc poco si curavano dei problemi dell'isola; alcuni onorevoli siciliani, non soltanto Lima, avevano rapporti con personaggi chiacchierati".
La verità è che di Lima non vi siete mai liberati.
"Lima andava bene anche al Pci quando facevamo l'accordo con Occhetto o quando gli davamo la presidenza dell'assemblea regionale con Pancrazio De Pasquale. Questa è cronaca, questa è storia. Fino ai corleonesi la separazione tra bene e male non era così netta. Lima di me diceva che ero un riccio, che non gli davo confidenza, ma con lui bisognava confrontarsi, fare i conti. Nel '77 è Lima a proporre la presidenza per Mattarella moroteo. Spiega che vuole aiutare Andreotti e far felice Moro, il quale già persegue il disegno di un grande accordo con Berlinguer".
Cambiar tutto per non cambiar niente.
"Io ho fatto un'altra riflessione. A metà degli anni Settanta si affacciano i corleonesi. Sono la variabile impazzita della mafia, il primo gruppo che ne sovverte le regole. Fin lì la mafia ha avuto la stessa organizzazione della chiesa, la raccolta del pizzo secondo una scala gerarchica: capo decina, capo famiglia, capo mandamento. Ma chi sono i corleonesi? Chi li sostiene, chi li aiuta a spazzare via clan potentissimi come quelli di Bontate, Badalamenti, Inzerillo? I "viddani" s'installano al vertice, Corleone spodesta Palermo. Le pare possibile senza un concreto aiuto esterno?"
Sin dall'inizio del Novecento Corleone è definita la Cassazione della Mafia.
"Puzo scrive il "Padrino" e chiama il protagonista Vito Corleone. Curioso, no? Con tanti cognomi a disposizione proprio quello doveva scegliere per un libro che rappresenta la più riuscita operazione di marketing e pubblicità di Cosa Nostra".
Così risiamo al piano americano.
"Nel 1983 divento ministro dell'Agricoltura perché Marcora dal suo letto di morte suggerisce a De Mita di puntare su di me e su Goria alle Finanze. Ho saputo dopo che per quel posto ci voleva il placet Usa avendo l'Italia il ruolo di granaio dell'Alleanza atlantica".
Anche lei, allora, uomo degli Stati Uniti?
"Eh no, da quel giro sono sempre rimasto fuori. Le faccio io una domanda: Sindona che cosa è venuto a fare in Sicilia durante il suo finto rapimento gestito da italo-americani e massoni?".
L'ha mai chiesto ad Andreotti?
"Non abbiamo avuto questa intimità. Andreotti ha bazzicato poco il partito, lui non rappresenta un momento fondante della Dc, ma un momento coessenziale".
Tradotto significa che.
".Andreotti non è nella storia della Dc, sennò ne sarebbe diventato almeno una volta il segretario. Lui si è rivelato un grande uomo di Stato, magari di due Stati.".
Sia più preciso.
"Lo Stato italiano e lo Stato della Città del Vaticano. D'altronde i suoi esordi sono quale inviato di Pio XII nel primo governo De Gasperi. A soli 28 anni era già al centro del potere. L'ho visto all'opera nelle riunioni internazionali, un genio assoluto, stimatissimo dalla Thatcher, da Mitterrand, da Kohl".
In Italia tra i suoi interlocutori c'erano invece Gelli, Sindona, soprattutto Lima.
"Sindona magari gli era stato raccomandato da un monsignore. Quanto a Lima, dopo la sua morte ho rivisto parecchi miei giudizi. L'ho combattuto tutta la vita, niente mi piaceva di lui, ma se fosse stato quel mascalzone che dicono, i corleonesi non l'avrebbero ammazzato. Falcone non l'ha mai incriminato. C'erano le prove dei suoi pasticci, non dei suoi reati o dei suoi tradimenti.".
Lima era il referente politico di Bontate, di Badalamenti, dei Salvo.
"Bontate e Badalamenti erano mafiosi che amavano stare in pubblico, che frequentavano i salotti, erano moderati che inseguivano l'accordo con i potenti. Sono i corleonesi che vivono in clandestinità, che sferrano da subito l'attacco agli uomini e agli apparati dello Stato".
Ma voi contro Riina e Provenzano avete fatto ben poco.
"Non è vero. Quando ho capito, mi sono subito schierato e anche qui parlano le cronache, gli archivi".
Quand'è che ha capito?
"Nel '79. A marzo uccidono Michele Reina, il segretario provinciale della Dc. Io credo che possa essere una conseguenza della sua vita spericolata: donne, carte. Viene, invece, da me Piersanti Mattarella e mi dice che quel delitto è un assordante campanello d'allarme".
Nicoletti dice di più, riferendosi a voi tre afferma: "Qui finiremo ammazzati, suicidi o in galera".
"Quella frase è stata peggio di una maledizione. A gennaio dell'80 assassinano Mattarella. Un delitto politico, ma di chi e da parte di chi? Poi si perde il conto".
Dopo il suicidio di Nicoletti ha ripensato a quella incredibile profezia?
"Sempre. C'era stato quello ammazzato, c'era stato quello suicidatosi, mancava quello in galera. Ma non immaginavo di finire in manette, pensavo, caso mai, di venire ucciso dalla mafia. Gli atti parlamentari, i decreti dei miei ministeri, le relazioni dei congressi spiegano perché mi detestassero. Nell'85 Cosa Nostra cerca di fregare me e Falcone. Spunta una mia presunta lettera a Nino Salvo, detenuto a Rebibbia: lo invito a tacere su un contributo di 300 milioni e gli prometto di corrompere Falcone. Un falso macroscopico, scoperto dallo stesso Falcone. Io dal '71 ero la bestia nera dei Salvo. Anche questo è negli atti del maxi processo".
Nasce da qui la sua grande amicizia con Giovanni Falcone?
"No. Detta così potrebbe sembrare uno scambio di favori. È stata graduale. Ero molto legato a Borsellino dall'Università, ci davamo il tu. Con Falcone ci davamo ancora del lei quando nel settembre dell'88, durante una visita al Parco dell'Abruzzo, propongo al presidente Cossiga di nominarlo direttore degli uffici penali del Ministero".
Quando l'incarico matura, si annuncia già la tempesta.
"Io di quel '91 ho due ricordi. In febbraio il capo della Polizia, Parisi, m'invita a pranzo e mi dice che la Dc è logora, che deve rilanciarsi al nord contro le Leghe, che devo essere io a sostituire Forlani alla segreteria e non Martinazzoli, il candidato in pectore. In autunno Falcone mi fa giungere un messaggio drammatico: hanno deciso di ammazzarci tutti".
Però cominciano da Lima.
"Quella mattina ero a Palermo. Il secondo a telefonarmi fu Falcone: mi ripetè che ci avrebbero ammazzati tutti, m'invitò a lasciare subito Palermo e a stare tappato in casa fino al momento della partenza".
Una vita scandita da profezie di morte.
"Una vita scandita da troppi funerali, a volte senza neppure il tempo di piangere. Poche settimane dopo la strage di Capaci compare una lettera anonima, battezzata del "corvo2": si parla di un piano di Sergio Mattarella e mio per arruolare Cosa Nostra, lui avrebbe incontrato i colletti bianchi della mafia, io avrei incontrato Riina nella sacrestia di una chiesa. Il 16 luglio Violante mi consegna l'anonimo; poche ore dopo telefona Borsellino: mi annuncia che ha fatto diramare una precisazione pubblica da De Gennaro, ma soprattutto mi proibisce di tornare in Sicilia fino al mercoledì successivo. "Vieni", dice, "senza farlo sapere a nessuno e ce ne andiamo a mangiare tu e io da soli per tentare di comprendere che cosa sta avvenendo". Il 19 luglio Borsellino è dilaniato dal tritolo con cinque poliziotti. Che cosa voleva dirmi?".
Chi ha ucciso Falcone e Borsellino?
"I corleonesi, ci sono sentenze molto circostanziate".
Da soli?
"No. L'attacco terroristico fa parte di un piano finissimo".
Nella sua assoluzione ha influito che il presidente della corte fosse Leonardo Guarnotta, l'allievo prediletto e una sorta di fratello minore di Falcone?
"Ritengo che abbia forse influito l'esatta conoscenza che il dottor Guarnotta ha degli atti del maxi processo".

6 agosto - Michele Costa, figlio del Procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa, ucciso il 6 agosto del 1980 a Palermo, alla cerimonia di commemorazione dice:"Abbiamo sempre pensato che c' e' stata una mancanza di volonta' a trovare i veri responsabili dell' omicidio di mio padre". "Questo e' il peggiore momento - ha continuato Costa – dagli ultimi vent' anni nella lotta contro la mafia. Devo pensare che o c' e' un' assenza di volonta' nel proseguire la battaglia oppure si e' sbagliato ad individuare uomini e movente".

7 agosto - A Chiavari, in Liguria, i carabinieri arrestano il boss latitante Gaetano Scotto, ritenuto il capofamiglia dell'Acquasanta, ricercato da otto anni. Condannato all'ergastolo in primo grado, Gaetano Scotto e' l'uomo dei misteri del processo per la strage di via D'Amelio. Nella sua deposizione il funzionario di polizia Gioacchino Genchi l'ha indicato come un possible uomo di raccordo della mafia con i servizi segreti deviati. Dal suo cellulare, infatti, ha rivelato in aula Genchi, nel febbraio del '92 parti' una telefonata diretta ad un'utenza del Cerisdi, una scuola per manager che sorge sul monte Pellegrino che sarebbe stata utilizzata in quel periodo come base di una cellula del Sisde. Dal monte Pellegrino, peraltro, ha aggiunto Genchi, gli eventuali killer appostati avrebbero avuto una perfetta visuale di via D'Amelio senza correre il rischio di restare coinvolti nella violentissima esplosione. Scotto rimase coinvolto nelle indagini sulla strage dopo essere stato chiamato in causa dal pentito Vincenzo Scarantino, che disse di averlo incontrato a piazza Guadagna, il venerdi precedente la strage, riferire ai boss che l'intercettazione compiuta dal fratello Pietro era andata a buon fine. La difesa dell'imputato sostenne, invece, che Gaetano Scotto, quel giorno si trovava in Emilia Romagna (lo avrebbero provato le telefonate del suo cellulare) e che nessun mezzo, ne' terrestre, ne' aereo, ne' navale poteva condurlo in brevissimo tempo in Sicilia per essere presente, come aveva detto Scarantino, nel bar della Guadagna. I carabinieri hanno spiegato di essere risaliti al latitante a seguito di una segnalazione che riferiva della presenza in citta' di un "pezzo grosso" appartenente a 'Cosa Nostra'. Sono scattate le indagini e dopo una serie di investigazioni, hanno spiegato i carabinieri, e' stata individuata una persona sospetta. Si trattava di Scotto, che, sotto falso nome, conduceva una vita tranquilla: faceva lavori saltuari come manovale, frequentava conoscenti presso alcuni locali pubblici, andava al mare a fare bagni. Il procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Grasso definisce "un segnale molto positivo" l' arresto del mafioso Gaetano Scotto. Parlando con i giornalisti a Procida, dove ha presentato il suo libro-intervista "La mafia invisibile", il procuratore ha pero' aggiunto che "le cosche mafiose stanno ricucendo le proprie fila". "La nuova mafia che sta nascendo ha detto ancora Grasso - tende a scomparire come delitti eclatanti sui giornali ma e' ben radicata nel tessuto sociale siciliano. Di qui - per il procuratore di Palermo - la necessita' e l' urgenza di una rinnovata lotta alla mafia da parte degli uomini delle istituzioni, oltre gli schieramenti di centro-destra e centro-sinistra. "Oggi molto piu' che in passato - ha spiegato il procuratore di Palermo - la sopravvivenza di Cosa Nostra dipende dagli orientamenti dell' amministrazione pubblica, della politica, delle istituzioni. La situazione e' difficilissima. Quando si tratta di lotta alla mafia, maggioranza ed opposizione dovrebbero agire di comune accordo".

8 agosto – Ansa:
«Le dichiarazioni di La Piana in relazione a promesse di sovvenzioni da parte di Marcello Dell' Utri per traffici di stupefacenti sono, da parte del La Piana indirette, non avendo egli assistito ai colloqui e comunque non specificamente supportate da ulteriore riscontro». E' uno dei passi delle motivazioni della sentenza con la quale il 24 aprile scorso i giudici del tribunale di Milano assolsero tre persone accusate di aver costituito al Nord una cellula di Cosa Nostra. Nicola Sartori, Antonino Curro' (due imprenditori del settore delle pulizie) e Daniele Formisano (un loro collaboratore) furono assolti dall'accusa di associazione a delinquere di tipo mafioso al termine di un processo legato alla vicenda processuale palermitana che vede protagonista Marcello Dell'Utri. I tre, pero', furono condannati per altri reati. I giudici della sesta sezione penale condannarono Sartori a quattro anni e nove mesi di carcere per corruzione (relativa al denaro dato ad un colonnello dei Carabinieri, Andrea Benedetti Michelangeli, il quale patteggio' in udienza preliminare) e favoreggiamento personale, Curro' a due anni e mezzo per favoreggiamento e Formisano a cinque anni per traffico di stupefacenti. Curro' e Sartori erano ritenuti dal Pm i punti di riferimento milanesi per i presunti esponenti mafiosi Enrico Di Grusa e Vittorio Mangano (l'ex 'stalliere' di Arcore), un'organizzazione accusata anche di aver favorito e gestito la latitanza di Di Grusa, genero di Vittorio Mangano, e, per quanto riguarda Formisano, di aver organizzato un traffico di stupefacenti sull'asse Milano-Messina. Il pentito Vincenzo La Piana riferi' di un incontro tra Marcello Dell' Utri incontro' Sartori. «Anche il documentato incontro fra Sartori e dell' Utri - si legge nelle 122 pagine di motivazioni - non e' certo prova della commissione dei fatti addebitati, tenendosi peraltro conto che il traffico di stupefacente che secondo il La Piana avrebbe dovuto essere sovvenzionato con denaro fornito dal Dell'Utri, non venne poi effettuato». «E' assodata - scrivono i giudici - la conoscenza Dell'Utri-Sartori per motivi di lavoro, cosi' come la conoscenza Dell'Utri-Mangano Vittorio» ma, come dichiaro' Sartori, potrebbe essere che l' incontro aveva lo scopo di cercare di ottenere del lavoro per le imprese di pulizie. Per spiegare perche' non si possa parlare di un' associazione mafiosa, i giudici rilevano che il ruolo dell' ufficiale dei Carabinieri era quello di aiutare la Cisa (una delle imprese) a trovare clienti. Questi, interrogati, hanno negato di aver mai subito pressioni di alcun genere. Se si fosse trattato di mafiosi, i metodi per procacciare clientela sarebbero stati diversi e piu' violenti. Anche l' interessamento per la scarcerazione di Mangano ha una sua parte nella sentenza. Per i giudici ci fu, ma e' anche vero che «Mangano risultava gravemente malato, tant' e' che successivamente e' deceduto» e «nel periodo in cui era ristretto a Pianosa in regime di 42bis si riscontrarono gravi abusi da parte del personale carcerario». Quell' aiuto, quindi, «assume il senso di un aiuto proposto alla persona in quanto tale e non in quanto aderente all' associazione mafiosa Cosa Nostra». Il Pm, Maurizio Romanelli, che aveva chiesto pesanti condanne per associazione mafiosa a carico degli imputati, ricorrera' in appello.

28 agosto - "La Stampa"
"Uccidono ancora, io non mi rassegno"
Martedì 28 Agosto 2001
LA SIGNORA HA APERTO LA "NUOVA SIGMA" PER CONTINUARE A COMBATTERE
La vedova: a qualcuno dà fastidio parlare di corruzione
ROMA
IL telefono del negozio squilla a lungo: "Pronto? Aspetti, aspetti un attimo. Sono molto emozionata: ho appena ricevuto la bellissima lettera del presidente Ciampi e ho appena venduto la prima vestaglia della nuova Sigma". Pina Grassi è a Palermo, dove con i figli continua la battaglia intrapresa da suo marito, Libero, ucciso dalla mafia perché non voleva pagare il pizzo. Dieci anni di battaglie per non far morire il simbolo dell'Antimafia "produttiva", quella "Sigma" che aveva cento dipendenti e produceva pigiameria maschile e che la mafia voleva cancellare perché rappresentava un'anomalia, non volendosi piegare alle regole di Palermo, di Cosa nostra. Quel "bisogna convivere con la mafia" pronunciato dal ministro Lunardi l'ha indignata: Pina Maisano vedova Grassi si è rivolta al presidente Ciampi, con una lettera pubblica, e ieri il capo dello Stato le ha risposto.
"La lotta alla mafia rimane un'assoluta priorità per il nostro Paese". Le parole del presidente Ciampi non sono equivocabili...
"Il presidente Ciampi non delude mai. E' un amico. Sono molto emozionata perché era proprio quello che volevo che mi rispondesse. Ciampi ha questo di bello: arriva dritto al cuore della gente. Sono orgogliosa di averlo come Presidente, così come lo sono stata quando capo dello Stato era Sandro Pertini".
Allora, non ci si deve rassegnare a convivere con la mafia? Ma chi parla ancora di lotta alla mafia?
"Per annulllare la mafia non basta non parlarne perché la mafia continua a fare i suoi affari, ad uccidere, a chiedere il pizzo, a trafficare in droga, in esseri umani. Non possiamo rassegnarci a questa realtà, a questa tragedia. Capisco il ministro Lunardi quando dice che la mafia non si può sconfiggere".
Giovanni Falcone diceva che la mafia prima o dopo è destinata a essere sconfitta, come tutte le cose naturali. Il ministro Lunardi è più pessimista. E lei?
"Anch'io sono convinta che la mafia è invincibile. Ma lo posso dire io, che sono una cittadina, non lo può affermare un ministro della repubblica. La mafia è sempre di più una realtà internazionale, sempre più proiettata nell'era della globalizzazione. C'è la mafia russa, quella cinese, i traffici internazionali, Internet. Questa mafia, questa criminalità non la si può sconfiggere".
Ma almeno un barlume di speranza deve continuare ad esserci, non ci si può rassegnare. Proprio lei e i suoi figli siete l'esempio che la lotta alla mafia può dare risultati concreti...
"Quello che dobbiamo, che probabilmente possiamo vincere nel nostro paese, nella nostra Palermo, è la mentalità mafiosa".
E come si può vincerla?
"Non abbassando la guardia, riaffermando una etica e una pratica collettiva di comportamenti legali, non corrompendo e non facendosi corrompere. E anche indignandoci. Quando per vincere un appalto si corrompe, questo comportamento non solo è illegale ma produce un danno per la collettività. E invece, senza voler fare i nomi, ci si adegua a un sentire comune, a un fastidio che si coglie quando si vuole parlare di mafia, di corruzione. Non parlare di mafia è anche un alibi. Ecco perché dobbiamo continuare a tenere sempre la guardia alta".
Il presidente Ciampi le risponde e nello stesso momento nel suo negozio arriva la prima cliente della Nuova Sigma. E' un segnale incoraggiante..
"E come non potrei non essere felice ed emozionata oggi? E' proprio andata così: è entrata nel negozio una turista, una signora di Udine che ha visto le nostre vestaglie, ne ha scelta una e l'ha comprata. Questo è successo proprio in contemporanea alla lettera di risposta del presidente Ciampi".
Dieci anni di battaglie per non darla vinta alla mafia, che voleva cancellare la "Sigma" di Libero Grassi. Oggi la "Nuova Sigma" ha riaperto. Come è stato possibile?
"Con il contributo della legge antiracket, un contributo finalizzato alla creazione di posti di lavoro. Mio figlio Davide è stato il più ostinato a voler riaprire la "Sigma". Certo non è più quella di Libero Grassi, con i suoi cento dipendenti. Davide ha fatto una ricerca di mercato e ha individuato un segmento produttivo che non dovrebbe temere la concorrenza dei paesi dell'Est. La vecchia "Sigma" produceva pigiameria maschile, che oggi, prodotta nei paesi dell'Est, trovi in tutti i mercatini a prezzi stracciati. La produzione di vestaglie da donna non è una scelta avventata".

29 agosto -  A distanza di dieci anni, l’ uccisione di Libero Grassi viene rocordata, di fronte ad una folla insolitamente numerosa per una commemorazione antimafia. Gioacchino Natoli, che fu tra gli uomini di punta del pool antimafia e oggi componente togato del Csm, dice che “se Libero Grassi fosse vivo non potrebbe che manifestare lo scoramento peggiore per la manifesta mancanza di volonta' della societa' civile di affrancarsi dal giogo mafioso”. Del fatto che poco sia cambiato e’ convinto anche il Commissario antiracket Tano Grasso: "Il fenomeno delle estorsioni e' ancora diffusissimo a Palermo, piu' di quanto non si riesca ad immaginare. L'assenza di atti intimidatori e' solo il sintomo della debolezza della reazione degli imprenditori. Si paga poco - ha concluso Grasso - ma pagano tutti". Mentre in via Alfieri personalita' della politica (tra i presenti il sottosegretario agli interni Antonio D' Ali') e della magistratura commemoravano l' imprenditore nel luogo dove avvenne l' agguato, a qualche centinaio di metri in linea d' aria, la Sigma, l' azienda tessile della famiglia Grassi, rimetteva in moto le macchine. La fabbrica chiuse nel 1992 e riapre nel decimo anniversario della morte del suo fondatore, grazie al finanziamento della legge antiracket. La vedova di Libero Grassi, Pina Maisano, ex senatrice dei Verdi, e' 'contenta che questo decimo anniversario coincide con la riapertura della nostra fabbrica", ma sa di essere ancora sola: 'Non si puo' certo dire che la battaglia contro il ricatto delle cosche e per l'affermazione della legalita' sia vinta'. La Maisano Grassi ha detto di volere superare la polemica dei giorni scorsi con il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, che aveva sostenuto la necessita' di "convivenza con la mafia". Lo stesso Lunardi aveva poi chiarito il suo pensiero e una lettera del presidente Ciampi aveva rassicurato la vedova. Ma per il procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Grasso, e' 'sul controllo delle risorse finanziarie che si verifica l' impegno antimafia del governo e delle amministrazioni locali'.

3 settembre - Il 19° anniversario dell' uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell' agente Domenico Russo e' commemorato a Milano con una messa nella chiesa di Santa Maria Delle Grazie e con la deposizione di corone d' alloro ai caduti dei carabinieri in piazza Diaz. Dopo la cerimonia in piazza Diaz, il giovane Carlo Alberto Dalla Chiesa, 23 anni, figlio di Nando e nipote del generale, ha avvicinato Tiziana Maiolo chiedendole conto della sua presenza e accusando di aver preso in passato posizioni contrarie all'operato del nonno. La Maiolo ha replicato: "Lei sta sbagliando". Polemiche anche alla commemorazione a Palermo, dove il senatore dell' Ulivo Nando Dalla Chiesa, figlio del generale, critica la politica della maggioranza di centro destra: "Sono amareggiato, in Parlamento approvano dei provvedimenti che aprono dei varchi alla criminalita' organizzata, mentre a Palermo si commemora mio padre, caduto nella lotta per l' affermazione della legalita’". Antonio D'Ali', sottosegretario agli Interni, presente alla commemorazione in rappresentanza del governo, ribatte: "Vorrei capire a quali provvedimenti si riferisce Dalla Chiesa. La lotta alla criminalita' organizzata, secondo me, non deve avere colore politico". Dalla Chiesa ha replicato citando il provvedimento "sul falso in bilancio" che ha aperto l' attivita' legislativa del nuovo governo. "Mentre l' ultimo provvedimento dell' esecutivo di centro-sinistra - ha aggiunto - era stata la legge sulle rogatorie in Svizzera".       La polemica e' proseguita con un commento di Dalla Chiesa sulle dichiarazioni del ministro per le Infrastrutture Pietro Lunardi (che alcuni giorni fa aveva parlato della "possibilita' di convivenza con la mafia"). Su questo, il senatore e' stato categorico: "Non credo a un equivoco, se Lunardi ha detto quelle cose vuol dire che le pensava". E ha proseguito: "La mafia si regge su droga e grandi appalti, se sui grandi appalti il ministro ha detto quello che ha detto, e' chiaro che c'e' da preoccuparsi". La cerimonia e' cominciata con la celebrazione di una Messa nella chiesa delle Croci, ed e' proseguita  con la deposizione di alcune corone di fiori, sul luogo dell' eccidio, alla presenza delle autorita' civili e militari. In prima fila, il prefetto Renato Profili, il questore Francesco Cirillo e il comandante della Regione carabinieri Sicilia Carlo Gualdi. Tra i politici, c' erano il presidente del governo regionale Salvatore Cuffaro, il presidente dell' assemblea regionale siciliana Guido Lo Porto, il presidente della Provincia di Palermo Francesco Musotto e il commissario straordinario del comune di Palermo Guglielmo Serio. C'erano anche il senatore di Forza Italia Carlo Vizzini, il capogruppo forzista del Senato Renato Schifani, il segretario della Federazione provinciale dei Ds Attilio Licciardi e il senatore Ds Costantino Garraffa.

6 settembre - ANSA:
La procura di Caltanissetta ha iscritto nel registro degli indagati i nomi di due persone nell' ambito dell' inchiesta sui mandanti esterni occulti delle stragi di Capaci e via D' Amelio. I nomi degli indagati sono top secret. Non si tratterebbe, comunque, di boss mafiosi ma di persone legate al mondo politico-imprenditoriale. Questa nuova inchiesta, aperta poco piu' di sei mesi fa era coordinata dal procuratore Giovanni Tinebra, adesso Direttore del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), dal suo aggiunto, Francesco Paolo Giordano, dai sostituti Salvatore Leopardi e Alessandro Centonze e dal sostituto della Direzione nazionale antimafia Roberto Alfonso. Tutti, tranne Giordano, non lavorano piu' negli uffici giudiziari nisseni, trasferiti ad altre sedi. Nell'inchiesta sono stati acquisiti dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, interrogati nei mesi scorsi, e il verbale di assunzioni di informazioni dell'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. La nuova inchiesta e' nata da uno stralcio compiuto dalla procura di indagini sui mandanti occulti, per le quali i magistrati avevano chiesto l'archiviazione, che puntavano a verificare la responsabilita' di due esponenti politici nella stagione stragista. La loro posizione e' ancora al vaglio del gip, che non si e' ancora pronunciato. Nella richiesta di archiviazione presentata dalla procura di Caltanissetta, i magistrati hanno sottolineato l' impegno e 'gli sforzi investigativi' che i pm nisseni stanno portando avanti 'per individuare in altri settori, segnatamente in quello dell' inquietante intreccio mafia-appalti, i mandanti esterni delle stragi del 1992'. Il provvedimento del 19 febbraio scorso e' stato firmato dal procuratore Giovanni Tinebra, dall' aggiunto Paolo Giordano e dal sostituto Salvatore Leopardi (in attesa di essere destinato al Dap, attualmente diretto da Tinebra). Indicando le possibili, future, piste gli inquirenti puntano "sull'importante informativa della Dia, del 30 luglio '99". Il rapporto 'riferisce sull'esistenza di elementi di correlazione fra le imprese societarie indicate nell' elenco predisposto dal Ros dei carabinieri e le 401 societa' del Gruppo Fininvest, e conclude puntando lo sguardo sulla Tecnofin Group spa (riconducibile a Filippo Salamone e Giovanni Micciche'), alla Co.Ge. spa (ricoducibile a Paolo Berlusconi), alla Tunnedil spa, alla Cipedil spa (Rappa di Borgetto), alla Rti spa".

8 settembre - "La Stampa"
Cossiga: nella Dc c'era già un posto pronto per Falcone
Sabato 8 Settembre 2001
Le dichiarazioni a verbale dell'ex presidente ai pm palermitani che conducevano le indagini sui mandanti occulti delle stragi
ROMA - Una radiografia dettagliata del momento politico che precedeva le stragi di Capaci e via D'Amelio, il racconto - dall'interno - di come le istituzioni vivevano quei tragici avvenimenti. Giovanni Falcone probabile candidato nelle liste dc, l'esplodere di "tangentopoli" a Milano, l'elezione del presidente Scalfaro, il declino di Craxi, Martelli ministro della Giustizia, l'accordo dei socialisti con Andreotti per la presidenza del Consiglio al segretario psi, la caduta del muro di Berlino, un'oscura vicenda di rubli del Kgb forse riciclati in Italia, la "discesa in campo di Silvio Berlusconi". Tutto questo viene raccontato da Francesco Cossiga ai magistrati che si sono occupati dell'inchiesta sui "mandanti occulti" delle stragi palermitane e che dovranno, adesso, affrontare uno stralcio di quella indagine che conta già due indagati, personaggi della cosiddetta "zona grigia" del potere politico-economico. Il lungo verbale con le dichiarazioni dell'ex presidente della Repubblica è già entrato nel nuovo fascicolo: non è certo quale valore processuale potrà assumere - specialmente dopo la richiesta di archiviazione della prima inchiesta (erano indagati Berlusconi e Marcello Dell'Utri) avanzata dai pm - mentre è innegabile l'interesse per una testimonianza che rappresenta un pezzo di storia recente del nostro Paese. Una testimonianza giudicata da alcuni magistrati contraddittoria o lacunosa e che va controcorrente rispetto ad alcune "verità" - per esempio il rapporto di Falcone col suo "capo", il procuratore Giammanco, e più in generale col mondo politico - che sono state lette in maniera diversa, a volte addirittura opposta. Francesco Cossiga è stato interrogato, nella sua casa romana di via Visconti, il 23 marzo dell'anno scorso. L'incontro avviene con l'allora procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra (oggi direttore del Dap), e coi sostituti Alfonso e Tescaroli. Il racconto, dopo le formalità di rito - per una persona informata sui fatti - circa l'obbligo di dire la verità, comincia con le dimissioni di Cossiga: "Decisi di dimettermi il 23 aprile del 1992 in quanto ero entrato nel semestre bianco, non ero sostenuto dal mio partito ed era in corso il procedimento di "impeachment" da parte dei partiti di sinistra nei miei confronti". Quindi prosegue con le elezioni del 5 aprile successivo: "Venni informato del fatto che i partiti avrebbero indicato nella persona di Bettino Craxi il nuovo presidente del Consiglio". Secondo Cossiga, l'operazione era frutto di un accordo con la dc e "in particolare con l'on. Andreotti". Craxi avrebbe ricevuto l'appoggio, "secondo voci di palazzo" precisa l'ex Capo dello Stato, in cambio dell'impegno di Craxi "a non portare avanti la necessità di avviare un processo di riforme nel Paese tra cui quella della Repubblica presidenziale". Tale accordo sarebbe stato sottoscritto al tempo della nascita del governo Andreotti-Martelli. Al momento di designare il nuovo premier, però, Cossiga si trova di fronte allo scandalo della corruzione e alle inchieste della magistratura milanese. Le voci del coinvolgimento di Craxi si inseguono, tanto che "ritenni doveroso verificarle". Il Presidente si mette in contatto con Catelani e Borrelli, procuratore generale il primo, capo dei pm, l'altro: "Quest'ultimo, con un certo imbarazzo, mi comunicò telefonicamente che nei confronti di Craxi non vi era nulla in quel momento". Ma aggiunse che "erano stati acquisiti elementi nei confronti del suo "entourage" politico".
Non sarà Cossiga, comunque, a gestire la crisi di governo. "Subito dopo la strage di Capaci, venne eletto Presidente della Repubblica l'on. Scalfaro. Detta candidatura fu appoggiata da Craxi che era legato all'on. Scalfaro da rapporti di strettissima confidenza. Scalfaro fu dispiaciuto di non poter conferire l'incarico a Craxi, anche se si uniformò per la relativa designazione alle indicazione che quest'ultimo gli aveva dato. Più in particolare, Craxi indicò i nomi di Amato e di Martelli". I magistrati chiedono allora a Cossiga se, prima della strage di Capaci, abbia percepito "segnali di disgregazione politica". Il teste risponde negativamente, tranne per la parte che riguarda il successo elettorale della Lega Nord, evidentemente vissuto (allora) come segnale politico negativo. Il tema della "disgregrazione" verrà ripreso, nel corso del colloquio coi magistrati, e Cossiga correggerà le sue prime impressioni. Ai pm che chiedono quando si accorge della crisi della politica, dice: "In epoca succesiva alla caduta del muro di Berlino... pertanto in epoca precedente alle stragi era in atto un processo di indebolimento del sistema partitico". Una crisi che si manifesta con l'avvento di Tangentopoli. E precisa: "La persona beneficiata da questo mutamento va identificata nell'on. Berlusconi, il quale ebbe la capacità di creare un contenitore in cui quadri intermedi ed elettori dei vecchi partiti trovassero identità e sicurezza". Poi rivela l'esistenza di una sorta di trattativa fra il "cavaliere" e Mino Martinazzoli: "Berlusconi aveva pensato che la funzione di antagonista della sinistra ("rimasta sostanzialmente intatta e dalla caduta del muro di Berlino e dal primo avvento di Tangentopoli") potesse essere svolta dall'area del ppi riconducibile a Martinazzoli". Ma ci vuol poco a prendere atto dell'inconciliabilità dei personaggi protagonisti, tanto che Berlusconi "si determinò a scendere direttamente in politica". Una ulteriore precisazione di Cossiga, quindi, fa retrodatare all'estate del 1993 la nascita di Forza Italia: "Mi risulta che egli (Berlusconi ndr) era disposto anche a devolvere a favore del partito popolare di Martinazzoli la struttura riconducibile a Forza Italia che aveva iniziato a creare a far data dall'estate del 1993". Quando conobbe Giovanni Falcone? Francesco Cossiga ricorda una visita a Palermo, in occasione dell'omicidio Cassarà, ma racconta di averlo avuto presentato da Calogero Mannino. Rivela di aver ricevuto entrambi al Quirinale: "Questi venne nominato commissario straordinario della dc siciliana da Ciriaco De Mita. Mi risulta che Mannino fu incoraggiato ad accettare l'incarico proprio da Falcone, per impedire l'ingresso nelle liste della dc di soggetti vicini ad ambienti mafiosi. L'on. Mannino aveva idea di far entrare Falcone nelle liste democristiane". Poi rivela un rapporto inedito tra Falcone e il procuratore Giammanco, conosciuto come il "grande nemico" del magistrato assassinato, ma presentato da Cossiga in modo opposto. Addirittura come un amico a cui Falcone "cede" la carica di procuratore appena offertagli dal presidente: "Ricordo che nell'occasione aggiunse che aveva nei confronti di quest'ultimo un debito di gratitudine, in quanto lo aveva sempre sostenuto ed era sempre stato solidale con lui". Il capitolo mafia occupa molto spazio. Cossiga è prodigo di aneddoti e particolari, come quando per combattere Cosa nostra "lanciai l'idea di creare un Procuratore regionale, ma la stessa fu osteggiata da settori della magistratura. Pensai alla creazione di una nuova struttura da affidare all'avvocato generale della Cassazione, ma anche tale iniziativa non trovò spazio". E ancora su Falcone, ricorda gli attacchi che il magistrato ricevette dalla sinistra quando decise di candidarsi al Csm e alla "Superprocura". Torna sulla nota vicenda del pentito Pellegriti, smentito da Falcone sulle accuse lanciate ad Andreotti e Lima a proposito dell'assassinio di Piersanti Mattarella. Si accredita come amico del giudice ucciso a Capaci, quando ripercorre le tappe del suo interessamento con Vassalli e con Martelli per portare Giovanni Falcone alla direzione degli Affari Penali di via Arenula. Anche su Salvo Lima, la deposizione di Cossiga è controcorrente. "Quando fu ucciso non andai ai funerali, ritenendo sufficiente la presenza del Presidente del Consiglio. Durante un successivo viaggio in Sicilia, però, "mi recai dai familiari dell'on. Lima a porgere loro le condoglianze. Quanto a Lima, i carabinieri mi dissero che aveva preso le distanze dalla mafia a far data dal 1984. Le ragioni dell'uccisione venivano ricondotte a "cose di appalti" , oppure al proposito di Cosa Nostra di vendicarsi e di inviare segnali e avvertimenti. Il racconto di Cossiga, quindi, si sposta spontaneamente sulla "questione del viaggio in Russia di Giovanni Falcone". "Premetto - dice il teste - che il governo russo aveva chiesto la collaborazione per accertare se in Italia erano stati fatti confluire capitali del partito comunista o del Kgb. Di tale argomento parlammo nel corso di uno dei nostri colloqui, ma non chiesi mai a Falcone di verificare la situazione. So che doveva andare in Russia e che parlò con un procuratore facendo riferimento al colloquio con me intercorso". E, per finire, l'incontro con Paolo Borsellino dopo Capaci: Cossiga lo invita ad accettare la carica di Procuratore nazionale antimafia ma, aggiunge, "non ebbi occasione di affrontare la questione relativa ai moventi della strage a causa della prostrazione in cui il dott. Borsellino versava.

13 settembre - E' pubblicato il libro "Una storia vera a Palermo" di Rita Bartoli, vedova del procuratore Gaetano Costa ed ex deputato regionale del Pci in Sicilia, (Salvatore Sciascia Editore), che rompe la personale ritrosia e il silenzio di tanti anni per testimoniare la propria esperienza di vita, che intreccia alla militanza politica e alla passione civile, la rabbia, il dolore, la frustrazione di fronte all'impossibilita' di sconfiggere Cosa nostra, di ottenere pienamente verita' e giustizia. "Non avrei voluto affliggere la giovinezza dei miei cari - scrive Bartoli Costa - lasciando loro un bagaglio di mortificante tristezza, ma ognuno di noi ha la propria storia: e la mia non va dimenticata". Nel volume si raccontano le ultime inchieste coordinate dal procuratore Costa, ucciso in un agguato mafioso il 6 agosto del 1980, si ripercorre il tentativo del valoroso magistrato di dare impulso all'ufficio della procura, cuore pulsante delle indagini contro Cosa nostra, si denunciano per l'ennesima volta le cautele di quei sostituti che, a giudizio dell'autrice, lo abbandonarono a un isolamento poi risultato fatale. "Dopo oltre vent'anni - scrive Rita Bartoli - non riesco a rassegnarmi ai ritardi, alle omissioni che oggi, piu' di ieri, considero volonta' politica di non far luce a Palermo, sui grandi delitti". "Le Goff ha scritto che l' oblio - si legge nelle ultime pagine del volume - e' 'il piu' spietato strumento di potere', ed io, riferendomi al potere mafioso, aggiungo che ha coinvolto la societa' civile e quanti avevano e ancora hanno il dovere istituzionale di ricordare, sempre, costantemente, fino al raggiungimento della verita'".

17 settembre - Comincia a Palermo il processo a Marcello Dell' Utri, accusato di aver calunniato collaboratori di giustizia. Il processo, davanti ai giudici della quinta sezione del tribunale presieduta da Salvatore Di Vitale, riguarda la calunnia nei confronti dei collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo (presente in aula come parte offesa), Domenico Guglielmini e Francesco Onorato, in concorso con altri due pentiti, Cosimo Cirfeta e Giuseppe Chiofalo. Secondo la Procura di Palermo il parlamentare con l' aiuto di Cirfeta e Chiofalo avrebbe cercato di screditare i collaboratori che lo accusano nel processo in cui e' imputato per concorso in associazione mafiosa. I difensori di Dell' Utri hanno sollevato numerose eccezioni, fra le quali quella che l' imputato ha l' immunita' parlamentare europea.

21 settembre - Il giudice Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre del 1990 in un agguato mafioso, e' ricordato ad Agrigento con un convegno sul nuovo processo penale, organizzato dalla sezione di Agrigento dell' Anm.

24 settembre - Il boss Pippo Calo', accusato di essere il cassiere della mafia e condannato all' ergastolo in primo grado per le stragi del 1992, invia una lettera al presidente della corte di assise d' appello di Caltanissetta, nella quale ammette, per la prima volta, di avere fatto parte di Cosa Nostra e della cupola. Secondo il boss vicino ai corleonesi, dalla missiva fa trasparire una sua dissociazione da Cosa Nostra e afferma che "la cupola non e' stata creata per deliberare decisioni collegiali perche' gli omicidi in particolare quelli eccellenti sono stati sempre presi unilateralmente sempre da un solo soggetto di cui non posso fare il nome". Il presidente della corte di assise d' appello di Caltanissetta ha trasmesso alla Procura della Repubblica copia della lettera in cui il boss sollecita un confronto con il pentito Salvatore Cancemi, che ha sostenuto di avere sostituito Calo' nella Commissione mafiosa dopo circa un anno e mezzo dall' arresto dello stesso capomafia, avvenuto il 29 marzo 1985; "Quello che sto per dire - scrive Calo' - l' avrei voluto dire in presenza di Cancemi, se la Corte mi avesse concesso il confronto prima di chiudere il dibattimento". "Sono un boss mafioso ma non sono uno stragista" scrive Calo' che nelle cinque pagine della lettera sottolinea che non sara' mai un pentito, "anche perche' per le responsabilita' che ho - dice - non so di cosa pentirmi, e non faro' nomi". Il boss sembra sacrificarsi pur di screditare i collaboratori Tommaso Buscetta e Salvatore Cancemi ed esce allo scoperto ammettendo la sua partecipazione alla cupola mafiosa e puntando il dito contro uno solo dei boss ( che avrebbe deciso gli omicidi eccellenti. "Ho 70 anni, condannato gia' con sentenze passate in giudicato all' ergastolo - scrive Calo' - giudicato sempre per teoremi con processi sommari e per sentito dire. Sono rassegnato e consapevole che gli ultimi anni della mia vita dovro' trascorrerli in carcere, ma non mi rassegnero' di essere condannato per strage, di qualsiasi strage. Non sono uno stragista non ho deciso nessuna strage e non sono un sanguinario. Per me e' una questione morale". Il boss tiene a precisare che si e' estraniato da Cosa nostra "e cosi' sara' per il futuro". "Ho fatto parte della commissione - scrive Calo' - nel periodo che va dal 1979 all' aprile del 1981. Dopo questa data non esiste piu' la commissione, cosi' come non esistono piu' le regole. Contrariamente a quello che dicono i collaboratori". Il boss difende il ruolo della cupola mafiosa. "Quando esisteva la commissione - scrive - non decise mai omicidi, specialmente quelli eccellenti". Per Calo' "ogni omicidio eccellente ha una storia a se'". Poi parla di Buscetta e delle "false" dichiarazioni che avrebbe fatto al giudice Giovanni Falcone per vendicarsi dei nemici, ma anche del collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo ("dal 1977 non ha piu' fatto parte di Cosa nostra ed e' stato inviato lontano dalla Sicilia per non fare piu' ritorno"). Il cassiere di Cosa nsotra chiude la lettera scusandosi per l' ortografia, e chiedendo al presidente della Corte "per la verita', a nome della verita"', il confronto con Cancemi prima dell' inizio della requisitoria.

24 settembre - ANSA:
Da quando e' finito in carcere, il 30 marzo 1985, Pippo Calo' ha orientato tutta la sua strategia verso l'affermazione della tesi secondo cui Cosa nostra non ha nulla a che fare con le stragi e con i delitti eccellenti. Prima di ammettere con la lettera ai giudici di Caltanissetta la sua appartenenza alla 'cupola' mafiosa, Calo' aveva sviluppato la sua linea in varie occasioni: nei drammatici confronti con i pentiti, sostenuti in numerosi processi, e nelle audizioni davanti alla Commissione antimafia e alla commissione stragi. Tanto che gia' nel 1993 l'allora presidente della commissione stragi, Libero Gualtieri, commento': 'Calo' ha uno scopo ben preciso: scrollarsi di dosso la condanna definitiva'. Fino a quel momento le uniche condanne definitive del 'cassiere della mafia', entrambe all'ergastolo, si riferivano al maxiprocesso di Palermo e all'attentato al treno 904. Come componente della 'cupola' il boss era stato riconosciuto colpevole della strage Dalla Chiesa, dell' uccisione del vicequestore Boris Giuliano e di altri omicidi collegati alla guerra di mafia degli anni '80. Successivamente sono arrivate anche le condanne per i cosiddetti delitti politici (Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Michele Reina), per l'uccisione dell'eurodeputato Salvo Lima, per gli attentati nei quali sono morti i giudici Cesare Terranova, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Solo per il delitto Lima la Cassazione ha annullato la condanna di Calo' con una motivazione che ridimensiona fortemente il cosiddetto 'teorema Buscetta'. Secondo la suprema corte, infatti, non si puo' estendere il giudizio di responsabilita' anche a coloro che, come Calo', all'epoca dei fatti erano detenuti. In quel periodo inoltre il ruolo della 'cupola' sarebbe stato svuotato dalla 'dittatura' di Toto' Riina. Allontanando da se' l'ombra della partecipazione alle stragi e ai delitti di Cosa nostra, Calo' era disposto a fare concessioni, giudicate pero' dalle varie Procure ambigue e insufficienti, sui suoi compiti finanziari nell'organizzazione corrispondenti all'etichetta criminale che gli era stata attribuita di 'cassiere della mafia'. Di questo ruolo aveva parlato per primo Tommaso Buscetta. Anche le inchieste avevano comunque confermato che Calo' gestiva e riciclava ingenti capitali riconducibili non solo a Cosa nostra ma anche alla banda della Magliana e a faccendieri come Francesco Pazienza e Flavio Carboni. Un segno della grande disponibilita' del denaro era dato anche dal fatto che a Roma Calo' abitava nella zona residenziale di Monte Mario e aveva un altro lussuoso appartamento in via delle Carrozze, nella zona di piazza di Spagna. Del coinvolgimento del boss, una volta capo della cosca di Porta Nuova, nelle stragi e nei delitti hanno parlato numerosi pentiti, da Tommaso Buscetta a Salvatore Cancemi, da Giovanni Brusca a Salvatore Cucuzza. Il piu' risoluto e' stato Buscetta che ha anche accusato Calo' di avere avallato l'eliminazione dei suoi figli con il sistema della lupara bianca.

24 settembre - Alla vigilia del ventiduesimo anniversario dell' uccisione del giudice Cesare Terranova e del maresciallo Lenin Mancuso, il figlio di quest' ultimo, Carmine Mancuso protesta contro l' Amministrazione comunale che non gli ha comunicato se e quando sara' celebrata una cerimonia in ricordo dei due caduti sul fronte della lotta a Cosa nostra. Mancuso, leader del neonato movimento Citta'mia e finora unico candidato ufficiale alla poltrona di sindaco di Palermo, invita amici e simpatizzanti a deporre, il 25 settembre, un fiore sul luogo dell' eccidio, in via Mario Rutelli. Mancuso ricorda che "nonostante l' esercito di pentiti premiati da una legislazione benevola ed un processo di primo grado che non e' riuscito a sollevare il velo sul volto dei killer, gli inquirenti non hanno mai accettato nulla di rilevante sui tanti come e sui tanti perche'". "Mi sento orgoglioso di essere figlio di Lenin Mancuso, medaglia d' oro al valor civile - dice Carmine Mancuso - e non comprendo come i Mandarini dello Stato vogliano sempre ricordare solo i caduti eccellenti senza mai neppure ricordare per nome gli umili servitori delle scorte che hanno immolato la propria vita con pari spirito di sacrificio. Voglio dire basta con l' usanza di discriminare i morti di serie A da quelli di serie B e di serie C, perche' penso sia venuta l' ora di tributare uguale onore e rispetto a tutte le vittime, umili ed eccellenti, che hanno contribuito a rendere grande la democrazia".

24 settembre - Giovanni Brusca depone in videoconferenza nel processo contro Marcello Dell' Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa, che si svolge davanti ai giudici della seconda sezione del tribunale di Palermo. Il capomafia oggi pentito dice che "Di quanto accadeva nel '92 con le stragi di Capaci e via D' Amelio e nel '93 con gli attentati a Roma, Firenze e Milano, la sinistra era a conoscenza" ma precisa:"Non voglio dire che la sinistra e' mandante delle stragi. Voglio dire che in quel momento chi comandava sapeva quello che accadeva in Sicilia e nel Nord Italia". Per Brusca le autobombe sarebbero stato un monito rivolto successivamente anche a Berlusconi che avrebbe manifestato "stupore". Nel rispondere al pm Antonio Ingroia, Brusca ha affermato di avere cercato di contattare, insieme a Leoluca Bagarella, Silvio Berlusconi verso la fine del 1993. Ha aggiunto di averlo fatto tramite Vittorio Mangano ("era il factotum della famiglia Berlusconi e ha dovuto lasciare il posto di lavoro per motivi di opportunita', ma con lui era rimasto in buoni rapporti") al quale con Bagarella spiego' "che nonostante le prime bombe del '93 nessuno si era fatto sentire e ogni bomba era uno stimolo". "In quel momento - ha anche dichiarato il pentito - al governo c' era una parte della sinistra e Berlusconi doveva ancora scendere in campo. Assieme a Bagarella decidemmo di rivolgerci a Mangano affinche' parlasse con Berlusconi". Le richieste, sempre secondo Brusca, sarebbero proseguite anche dopo la vittoria elettorale del Polo e la nomina di Berlusconi a presidente del consiglio: "Volevamo fargli capire - ha proseguito il pentito - che, se non ci avesse aiutato, avremmo continuato con le bombe, mettendo cosi' in difficolta' il suo governo". L' ex boss ha sostenuto che il messaggio venne recapitato e che "dall' altra parte ci fu stupore". Secondo Brusca la "trattativa" sarebbe stata interrotta "perche' Vittorio Mangano venne arrestato e per la  caduta del governo Berlusconi". Giovanni Brusca ha dichiarato inoltre che Vittorio Mangano non avrebbe mai parlato di Marcello Dell'Utri. In aula Brusca stamane ha aggiunto di avere appreso "dei buoni rapporti che c' erano fra Silvio Berlusconi e Vittorio Mangano dopo aver letto tra la fine del '93 ed il '94 un articolo sul settimanale L' Espresso". "Chiamai allora Mangano - spiega il collaboratore di giustizia - il quale mi confermo' quasi tutto il contenuto dell' articolo, spiegandomi che era stato costretto a mollare, a licenziarsi per non creare problemi a Berlusconi e al suo staff. Mangano mi sottolineo' che era rimasto in buoni rapporti". "Con Bagarella - spiega Brusca - gli abbiamo chiesto di contattare Berlusconi e Mangano si mise a disposizione, era lui il nostro interlocutore con Berlusconi". Per gli avvocati Enzo ed Enrico Trantino, la deposizione di Brusca "costituisce la definitiva capitolazione del teorema accusatorio. "Nel corso della lunga militanza in Cosa nostra - dice Trantino - anche con ruolo di vertice Brusca non ha mai conosciuto ne' sentito parlare del senatore Marcello Dell' Utri. La categorica ed ennesima smentita della principale fonte d' accusa, Salvatore Cangemi e' la riprova di una inquietante trama costruita ai danni del nostro assistito da parte di alcuni collaboranti, come abbiamo sempre sostenuto'. I legali sollecitano la Procura a prendere iniziative 'nei confronti di chi ha calunniato il senatore Dell' Utri al solo scopo di ottenere riconoscimenti giudiziari e benefici economici". Per il pm del processo Antonio Ingroia invece "Non e' vero quanto sostiene la difesa e cioe' che l' impostazione accusatoria del processo si fondava sulle dichiarazioni di Giovanni Brusca e lo dimostra il fatto che il gup ha rinviato a giudizio Dell' Utri quando ancora le dichiarazioni del boss di San Giuseppe Jato dovevano essere fatte". "Le dichiarazioni di Brusca - spiega Ingroia - sono arrivate dopo che per Dell' Utri era gia' stato fissato il processo in tribunale. Gli elementi contro di lui sono ben altri. Non posso che essere sorpreso che da parte della difesa vi siano commenti nel senso di valorizzare l' attendibilita' di Giovanni Brusca, il quale in primo luogo ha confermato l' appartenza di Vittorio Mangano a Cosa nostra con ruolo di vertice nel periodo in cui manteneva rapporti con Dell' Utri". Ingroia sottolinea uno dei passaggi della deposizione del collaboratore di giustizia: "Ha dichiarato in aula di avere inviato nel '94 tramite Vittorio Mangano un messaggio a Silvio Berlusconi, ricevendo la risposta che era stato recapitato". Gli inquirenti, intanto, avrebbero indicato che l' imprenditore 'Roberto', di cui ha parlato oggi in aula Giovanni Brusca, sarebbe Natale Sartori, gia' condannato dal tribunale di Milano a 4 anni e 9 mesi di carcere per corruzione e favoreggiamento. L' uomo, che ha interessi economici in alcune imprese di pulizie a Milano, sarebbe stato per gli investigatori il tramite fra Vittorio Mangano e Marcello Dell' Utri.

26 settembre – ANSA:
E' stata interamente dedicata alla vicenda del vassoio d' argento che sarebbe stato regalato a Gaetano Sangiorgi da Giulio Andreotti, circostanza per altro sempre smentita da quest' ultimo, l' ultima udienza davanti al tribunale di Perugia del processo al medico siciliano accusato di calunnia ai danni dei pm di Palermo. A caratterizzarla sono state la deposizioni dell' ex procuratore del capoluogo siciliano, Giancarlo Caselli, del pm Roberto Scarpinato e di vari investigatori della Dia. Caselli, in particolare, ha spiegato di avere appreso del vassoio dal tenente dei carabinieri Carmelo Canale, gia' stretto collaboratore di Paolo Borsellino e ora processato per concorso esterno in associazione mafiosa. Il procuratore ha poi aggiunto che la vicenda gli era stata prospettata anche da qualcuno dei suoi sostituti. Caselli ha infine affermato di avere ritenuto "attendibile l' indicazione ricevuta" riguardo al vassoio. "Anche la motivazione della sentenza con la quale il tribunale di Palermo ha assolto Andreotti - ha detto l' ex procuratore palermitano - riconosce la validita' di questa ipotesi accusatoria". Scarpinato ha quindi ripercorso le indagini sul presunto regalo che sarebbe stato fatto da Andreotti a Sangiorgi in occasione delle nozze di quest' ultimo con la figlia di Nino Salvo. Secondo il magistrato, dal medico siciliano arrivarono nella prima fase dell' inchiesta delle indicazioni che "forse non vennero ben comprese all' epoca". Il processo e' stato quindi rinviato al 6 marzo prossimo.
"Smentisco categoricamente la dichiarazione del dottor Gian Carlo Caselli sul fatto che io gli avrei parlato del vassoio d' argento che sarebbe stato regalato a Gaetano Sangiorgi da Giulio Andreotti". Lo afferma il tenente dei carabinieri Carmelo Canale che e' stato chiamato in causa a Perugia durante la deposizine in aula dell' ex procuratore. "Sono pronto - dice Canale - a sostenere in aula un confronto con Caselli. Io posso dire che di quel regalo non so nulla". L' ufficiale dell' Arma, sotto processo a Palermo per concorso in associazione mafiosa, ammette di essersi occupato, in un primo momento, dell' inchiesta su Giulio Andreotti. "Mi e' stata delegata una indagine dalla procura di Palermo – spiega Canale - ma non riguardava il regalo che avrebbe fatto il senatore alla figlia di Nino Salvo".

26 settembre - "La Repubblica" edizione di Palermo
Borsellino, sospetti su Giammanco
Nella requisitoria il pg Dolcino Favi lancia pesantissime accuse all'ex procuratore
il processo
Caltanissetta - Il sospetto intorno a una telefonata. Il dubbio che in molti sapessero dell'imminente fine di Borsellino, tanto da non considerarlo più un pericolo per le inchieste in corso. Parte da un fatto e da un clima la ricostruzione dell'accusa al Borsellinoter. La requisitoria al terzo troncone del processo per l'eccidio giunto in appello è iniziata nello stesso giorno dell'annuncio della dissociazione di Pippo Calò, imputato con altri componenti della commissione rimasti fuori dal Borsellino bis. Il pg Dolcino Favi ha ricostruito la telefonata dell'allora capo della Procura Pietro Giammanco al giudice assassinato, giunta all'utenza di Borsellino la mattina del giorno della strage. Per Favi è verosimile che la telefonata avesse a che fare con un via libera alle indagini antimafia su Palermo che il giudice aveva richiesto e per le quali attendeva una espressa delega del capo dell'ufficio. Probabilmente, è la tesi dell'accusa, Giammanco, da parte dei propri referenti politici, aveva ottenuto un assenso a che Borsellino prendesse a indagare. Per Favi, evidentemente, in alcuni ambienti si era già a conoscenza che il giudice avesse i giorni contati e pertanto non sarebbe stato in condizione di nuocere. "Non credo che Giammanco sia tra i mandanti o tra i complici della strage - ha detto il pg – però è possibile che abbia ricevuto un ok, un via libera. Chi – ha continuato a chiedersi Favi - alle spalle di Giammanco, quale forza politica, uomo politico o di potere ha dato il 19 luglio del '92 il via libera perché Borsellino potesse occuparsi delle indagini antimafia su Palermo? Qualcuno alle spalle di Giammanco ha capito e così Giammanco viene autorizzato a dare questo via libera a Borsellino". In altri passaggi Favi è stato durissimo su Giammanco che lasciò Palermo dopo la sollevazione dei sostituti del suo ufficio. Il pg lo ha chiamato in causa per il clima di isolamento creato intorno a Borsellino: "Non si isola - ha detto - una persona che ha bisogno di un ambiente compatto, di sostenitori, allievi e seguaci. Borsellino viene isolato chirurgicamente". Poi tornando ancora sui referenti politici di Giammanco, Favi ha richiamato le dichiarazioni del tenente Carmelo Canale, già collaboratore di Borsellino e poi finito sotto inchiesta per mafia: "Se leggete quelle dichiarazioni – ha affermato rivolto ai giudici - potete intuire che Borsellino aveva capito alcuni meccanismi, legami e rapporti tra Salvo Lima e lo stesso procuratore Giammanco. Certo, non é provato, né è certo, però è molto probabile e verosimile. Una verosimiglianza che è assai prossima alla verità processuale".
e.b.

26 settembre - "La Repubblica" edizione di Palermo
"Una strategia a lungo termine per ottenere la revoca del 41 bis"
Il pm Luca Tescaroli analizza la dissociazione di Pippo Calò e le inedite dichiarazioni di Brusca
Francesco Viviano
Pippo Calò annuncia una clamorosa "dissociazione" da Cosa nostra, il pentito Giovanni Brusca, a sorpresa tira in ballo "la sinistra" che sarebbe stata a conoscenza delle stragi del '92 e '93. Costa sta accadendo dentro la vecchia e nuova mafia? Luca Tescaroli, che è stato pm delle stragi di Capaci e di via D'Amelio, che ha scavato nelle indagini relativi agli intrecci tra mafia e politica, e sul "papello", quella sorta di trattativa che era stata avviata da Totò Riina con esponenti delle istituzioni, ritiene che si tratti di una "strategia a lungo termine".
Per raggiungere che cosa?
"Probabilmente questa strategia si prefigge l'obiettivo di fare apparire Cosa nostra come una realtà non più pericolosa, come una realtà criminale che si è inabissata e questo per cercare di creare le condizioni per riappropriarsi del controllo del territorio e riprendere le vecchie attività criminali".
Come interpreta le dichiarazioni di Pippo Calò?
"La lettura che si può dare all'intervento di Calò è che ammette cose ovvie. Che Cosa nostra esiste è ormai accertato in maniera incontrovertibile, e non si accusa di alcun fatto criminale, prendendo le distanze dalle stragi quando risulta già condannato per quelle dell'Italicus, per Capaci e per via D'Amelio".
Ma è la prima volta che un boss di rango si "dissocia" pubblicamente.
"E' l'aspetto innovativo che induce a riflettere, mi domando, come si inserisce questa iniziativa nella strategia di Cosa nostra".
E' un risultato della "trattativa", i cosiddetti "colloqui investigativi" tra istituzioni e boss?
"L'obiettivo di ottenere il riconoscimento giuridico della dissociazione è un obiettivo funzionale a Cosa nostra perché propedeutico ad ottenere vantaggi per creare il presupposto per la revoca del 41 bis, perché una volta che si dimostra che Cosa nostra non c'è più, a quel punto non ha più ragione d'essere una misura coniata per i mafiosi. Ma la dissociazione come istituto, è un istituto che va aborrito, l'unica possibilità per un appartenente alla criminalità organizzata è la collaborazione incondizionata".
Revoca del 41 bis, abolizione dell'ergastolo ed altri benefici carcerari erano già richieste nel famoso "papello".
"Durante la stagione stragista si erano portati avanti questi obiettivi che erano in qualche modo accostati alle stragi e Cosa nostra voleva raggiungere questi obiettivi. L'abolizione dell'ergastolo oppure la revisione dei processi o il sequestro dei beni, la sterilizzazione dei collaboratori di giustizia rappresentano le preoccupazioni maggiori dell'organizzazione e alcuni di questi obiettivi sono stati raggiunti".
Quali?
"I collaboratori di giustizia, per esempio. E' stata approvata una normativa che disincentiva queste collaborazioni, la commissione dei collaboratori di giustizia è paralizzata e quindi questo obiettivo è stato raggiunto".
Torniamo a Brusca. Ieri a sorpresa, il pentito ha tirato in ballo "la sinistra". E' una novità?
"Si, è una novità, debbo dire per altro che ogni dichiarazione resa da un collaboratore va verificata però è anche vero che è un aspetto inedito di questo collaborante, che nel passato, all'inizio della sua collaborazione aveva anche progettato un "complotto" nei confronti dell'onorevole Violante e questo è un dato che non occorre dimenticare e non occorre nemmeno dimenticare che Brusca è stato lungamente sentito in diversi processi e dibattimenti. Si tratta di capire perchè in questo momento storico renda queste dichiarazioni. Non vuole essere certamente un'anticipazione sull'attendibilità delle sue dichiarazioni, bisogna però capire se si tratta di una dichiarazione genuina, frutto del suo bagaglio conoscitivo, o se viceversa di un suggerimento esterno".

27 settembre - "La Repubblica"
Una nuova sentenza inguaia Dell'Utri
La Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta: contatti con Riina
MARCO TRAVAGLIO FRANCESCO VIVIANO
PALERMO - Una nuova sentenza rischia di aggravare la posizione di Marcello Dell'Utri, imputato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. E crea nuovi imbarazzi a Silvio Berlusconi, sulle presunte liaisons dangereuses con esponenti mafiosi, all'indomani della deposizione di Giovanni Brusca. La sentenza - che i pm chiederanno di acquisire al processo - è quella della Corte d'assise d'appello di Caltanissetta sulla strage di Capaci. Che, alla voce "I moventi", contiene un capitolo dal titolo inquietante: "I contatti tra Salvatore Riina e gli On.li Dell'Utri e Berlusconi". Secondo i giudici e i giurati popolari, Cosa Nostra intrecciò con Berlusconi e Dell'Utri un "rapporto fruttuoso, quanto meno sotto il profilo economico". Per anni il gruppo Fininvest versò alla mafia "regalie" sotto forma di "consistenti somme di denaro". All'incasso provvedeva Vittorio Mangano, l'ex fattore della villa di Arcore, finchè dagli anni '90 Totò Riina decise di gestire il rapporto in prima persona: "nell'ottica di Cosa Nostra, questo rapporto era certamente da coltivare, e ciò spiega il diretto interessamento di Riina e l'estromissione di Mangano dal ruolo assegnatogli".
La Corte ricorda le parole dei pentiti Angelo Siino ("Provenzano stava adoperandosi per "agganciare Craxi tramite Berlusconi"") e Salvatore Cancemi ("Riina, prima di Capaci, si era incontrato con persone importanti: Dell'Utri e Berlusconi"). E concludono: "Il progetto politico di Cosa Nostra sul versante istituzionale mirava a realizzare nuovi equilibri e alleanze con nuovi referenti nella politica e nell'economia": cioè a "indurre alla trattativa lo Stato ovvero a consentire un ricambio politico che, attraverso nuovi rapporti, assicurasse come nel passato le complicità di cui Cosa Nostra aveva beneficiato". Riina diceva: "Fare la guerra per fare la pace".
Quelle che finora erano bollate come dicerie di pentiti e teoremi di pm vengono consacrate "in nome del Popolo Italiano" dalla sentenza depositata il 23 giugno da due giudici che passano per ultramoderati (il presidente Giancarlo Trizzino e il relatore Vincenzo Pedone): la stessa che ha condannato 37 boss (di cui 29 all'ergastolo) per l'assassinio di Falcone, della moglie e della scorta. Anche di questo si parlerà quando il Cavaliere sarà chiamato a testimoniare al processo Dell'Utri, come indagato di reato connesso. La Procura chiede di sentirlo a proposito delle 22 holding Fininvest (il dirigente di Bankitalia, autore della famosa consulenza, deporrà in ottobre), ma anche dei rapporti con Mangano, il finanziere Rapisarda e altri amici degli amici. E i legali di parte civile per la Provincia di Palermo vogliono sentire Cancemi proprio sulle sue accuse a Berlusconi e Dell'Utri per le stragi.
Ma la sentenza potrebbe pesare anche sull'imminente decisione del Gip di Caltanissetta sulla richiesta di archiviazione avanzata dall'ex procuratore Giovanni Tinebra per Berlusconi e Dell'Utri, indagati per strage. Prima d'essere promosso al Dap dal governo Berlusconi, Tinebra aveva smentito i suoi tre pm, che indagavano sulle stragi in base alle dichiarazioni di Brusca e Cancemi, bocciandole come "divergenti". La Corte invece le ritiene "convergenti" su molti punti. Ed elogia la collaborazione di Cancemi, "spontanea, lineare, importante e leale".
Dov'è la prova che il "gruppo economico riconducibile all'on. Silvio Berlusconi" pagava Cosa Nostra? "Le indicazioni di Cancemi, con riferimento alle dazioni di denaro - scrivono i giudici - hanno trovato puntuali conferme nelle dichiarazioni dei collaboranti Anzelmo, Ganci, Neri, Galliano e Ferrante", e nella "documentazione prodotta dall'accusa, tra cui le agende (sequestrate in un covo mafioso, ndr) con le diciture "Can 5 n.8", "Regalo 990 5000 nr.8". E Brusca ha riferito che l'on. Berlusconi "mandava qualche cosa giù come regalo, come contributo, come estorsione" al cugino Ignazio Pullarà.
Tutto ciò non basta a "individuare negli on. Dell'Utri e Berlusconi i mandanti occulti della strage", né a spiegare, con le loro "promesse di interventi futuri, l'accelerazione impressa da Riina alla strage di via d'Amelio". Ma bisognerà "indagare nelle opportune direzioni per individuare i convergenti interessi di chi era in rapporto di reciproco scambio coi vertici di Cosa nostra"; e per "meglio sviscerare i collegamenti e le reciproche influenze con gli eventi politicoistituzionali". I "non improbabili mandanti occulti" delle stragi del 1992'93, infatti, "costituiscono il principale enigma di questo processo".

27 settembre – Processo Impastato: Il boss di Cinisi Tano Badalamenti, imputato dell' omicidio del giovane militante di Democrazia Proletaria Peppino Impastato, in una breve dichiarazione in videoconferenza dal supercarcere del New Jersey, nega qualunque coinvolgimento nel traffico di stupefacenti che, secondo gli investigatori, avrebbe avuto come punto di transito l' aeroporto di Punta Raisi. Badalamenti ha detto ai giudici che delle vicende legate all'aeroporto si interesso' solo perche' era proprietario di un terreno espropriato per la costruzione delle piste. "Speravo che per l'espropriazione mi fosse data una cifra alta - ha detto Badalamenti - ma non fu cosi"'. Al processo ha poi deposto il generale dei carabinieri in pensione Tito Baldi Honorati, che ha confermato quanto scritto in una nota informale inviata ai suoi superiore nel 1984. "Scrissi - ha detto l' ufficiale - che il giudice Chinnici premeva per la riapertura delle indagini sull' omicidio Impastato per compiacere i partiti della Sinistra, interessati a fare luce sul caso".

28 settembre – ANSA:
“I nostri sospetti trovano consacrazione e conferma in immagini televisive inequivoche, che si commentano da sole”. Cosi' l'avvocato Rosalba Di Gregorio, difensore del boss Pietro Aglieri, ha commentato un servizio televisivo andato in onda questa sera sulla rete regionale della Rai che ha riproposto le immagini riprese dalle telecamere pochi minuti dopo la devastante esplosione del 19 luglio 1992 in via D'Amelio, che uccise il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Nelle immagini, girate da una telecamera amatoriale dei vigili del fuoco e acquisite agli atti del processo, non c'e' traccia del blocco motore dell' autobonba ritrovato il giorno dopo alle 13 nei pressi di una Croma azzurra della scorta del magistrato, dal quale partirono le indagini sfociate poi nell'arresto dei boss ritenuti autori dell'eccidio. “Sospetti iniziati - ha aggiunto il legale - con il ritrovamento tardivo del blocco motore, con la mancata identificazione del numero del telaio dell'autovettura, con le oscillazioni del percorso collaborativo del pentito Scarantino, con le dichiarazioni di Giovanni Brusca sulla necessita' di ingaggiare un bravo perito per l'auto suggeritogli da Biondino, e con l'ultima edizione del pentito Ferrante che ipotizza il collocamento dell'esplosivo in un bidone". "Se queste immagini si fossero cercate prima - ha concluso il legale - qualche imputato avrebbe evitato Pianosa?".

29 settembre – ANSA:
"Paolo Borsellino muore per la trattativa che era stata avviata fra i boss corleonesi e pezzi delle istituzioni. Il magistrato, dopo la strage di Capaci ne era venuto a conoscenza e qualcuno gli aveva detto di starsene in silenzio, ma lui si era rifiutato". Lo ha sostenuto il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca in un verbale della Procura di Palermo su cui sono ancora in corso accertamenti. Le dichiarazioni dell' ex boss di San Giuseppe Jato sull' accelerazione subita dal progetto di attentato a Borsellino, anticipate oggi dal quotidiano 'La Repubblica', sono contenute in un verbale della meta' del '98 firmato dai magistrati di Palermo, secretato, e poi acquisito agli atti dell' inchiesta denominata 'sistemi criminali', una parte della quale e' stata chiusa con la richiesta di archiviazione formulata dai pm al gip. "A Borsellino - dice Brusca - era stato proposto di non opporsi alla revisione del maxi processo e di chiudere un occhio su altre vicende. Il suo rifiuto ha portato venti giorni dopo a progettare ed eseguire l' attentato in via D' Amelio". In questi anni gli accertamenti e le indagini eseguite in base alle dichiarazioni dell' ex boss, hanno riscontrato alcune dichiarazioni, mentre altre non sarebbero state provate. Il pentito, infatti, a domanda dei pm dice di non conoscere il nome della persona con la quale i boss e in particolare Toto' Riina avevano avviato la 'trattativa' per alleggerire la lotta a Cosa nostra. Brusca dice di avere appreso della 'trattativa' direttamente da Toto' Riina che aveva preparato un 'papello' (un foglio con le richieste rivolte allo Stato, ndr) per interrompere la strategia stragista in cambio di vantaggi per i mafiosi. Di questo fatto si sarebbe parlato nel dicembre del '92, secondo quanto dice Brusca, durante un incontro fra alcuni boss riuniti a casa di Toto' Riina per scambiarsi gli auguri di Natale. “In quell' occasione - racconta Brusca - Biondino fece vedere a Riina i verbali di un interrogatorio del pentito Gaspare Mutolo che era stato ascoltato dal giudice Paolo Borsellino due giorni prima della strage dicendo: 'Quando un infame dice le cose vere nessuno gli crede’". I magistrati, si legge nel verbale, chiedono subito "cosa c' entra questo episodio con la trattativa?". Brusca appare titubante, poi risponde: "Ho l' impressione che ci possa essere qualche riferimento". Secondo i magistrati si potrebbe trattare dell' incontro, raccontato dal pentito Gaspare Mutolo, in cui Borsellino il 1 luglio '92, interrompendo un interrogatorio di Mutolo, a Roma, si sarebbe recato al ministero dell' Interno in occasione della cerimonia di insediamento dell'ex ministro Nicola Mancino, tornando poi in carcere in evidente stato di agitazione. Su quell'incontro la procura di Caltanisetta avvio' un' indagine, interrogando sia Mutolo, che Mancino che Vittorio Aliquo', il magistrato che accompagno' Borsellino al Viminale. Aliquo' confermo' la visita al ministero, l'ex ministro dell' Interno disse di non ricordare di avere incontrato quel giorno Borsellino ma di non poterlo neanche escludere con certezza. Secondo la nuova legge sulle collaborazioni ogni pentito deve adesso riversare tutte le sue conoscenze ai magistrati entro 180 giorni, pena l'inutilizzabilita' delle dichiarazioni fatte 'fuori termine'. Per i 'vecchi pentiti' per i quali piu' procure avevano proposto l'ammissione al programma di protezione, ogni singolo ufficio del pm puo' procedere agli interrogatori anche autonomamente, senza concordare le date con le altre procure.

29 settembre - La procura di Palermo sta indagando sui tabulati telefonici di una serie di cellulari riservati in uso al boss nisseno Giuseppe Madonia all' epoca delle stragi di Capaci e Via D' Amelio. I magistrati della Dda stanno tentando di scoprire se, come sostiene il dichiarante Calogero Pulci, per anni braccio destro di Madonia, in quel periodo il boss avesse contatti con uomini delle istituzioni. Pulci, sentito come teste al processo per mafia e turbativa d' asta a carico dell' imprenditore Giacinto Scianna, ha ribadito in aula di avere saputo da Madonia che le stragi erano state ordinate alla mafia da personaggi estranei a Cosa nostra.

2 ottobre – ANSA:
Il funzionario della Regione Filippo Basile sarebbe stato "ucciso perche' non serviva piu' a Cosa nostra". Il collega Giovanni Bonsignore, invece fu assassinato da uomini d'onore del messinese. L'avvocato Giuseppe Ramirez, venne eliminato da due killer milanesi. Sono queste le tre piste alternative dei difensori del funzionario regionale Nino Velio Sprio accusato dalla procura di essere il mandante dei tre omicidi palermitani ancora rimasti impuniti. Ad indicare ai giudici della corte d' assise che processano responsabili e moventi dei delitti, sono stati oggi tre collaboratori di giustizia citati dalla difesa dell'imputato. Emanuele Di Natale, che ha fatto rivelazioni sulle stragi di Roma, Firenze e Milano, del 93 aveva, gia' nel 1994, riferito ai magistrati di Palermo che due milanesi, ospitati da lui a Roma, gli avevano raccontato di essere stati incaricati di uccidere Ramirez. Sul racconto di Di Natale i pm aprirono un'inchiesta che fu pero' archiviata. Dell' omicidio Bonsignore, assassinato  nel '90, ha invece parlato Salvatore Giorgianni, ex uomo d'onore messinese che ha detto di essere stato contattato da un amico per eseguire un delitto "eccellente". Il progetto pero' fu accantonato perche' Giorgianni venne arrestato. Poco dopo Bonsignore fu ucciso. Fatto che fa dedurre al collaboratore che proprio quella fosse la vittima di cui si sarebbe dovuto "occupare". Infine, Massimiliano Mercurio, un teste sulla cui attendibilita' ha espresso perplessita' il dirigente della sezione omicidi della Squadra Mobile Leoluca Rocche', ha sostenuto che Filippo Basile sarebbe stato vicino alla famiglia mafiosa di Brancaccio e che "la sua eliminazione sarebbe stata decisa dal boss Pinuzzo Battaglia perche' non sarebbe piu' servito a Cosa nostra".

2 ottobre – ANSA:
I misteri di un blocco motore che non c'e' e le nuove dichiarazioni di Giovanni Brusca su possibili mandanti 'a volto coperto', stampate su un verbale che i pm di Caltanissetta non avrebbero mai ricevuto saranno al centro della ripresa, domani mattina nel capoluogo nisseno, del processo Borsellino bis di appello. I legali della difesa dei boss imputati e condannati all'ergastolo in primo grado chiederanno probabilmente alla corte di acquisire i filmati girati in via d'Amelio subito dopo l'esplosione e mandati in onda dalla Rai dai quali si evince che il blocco motore dell'autobomba non e' dove sarebbe stato trovato il giorno dopo dagli agenti della polizia scientifica. La circostanza, sottolineano i legali, non e' di poco conto: dal blocco motore, infatti, sono partite le indagini che hanno condotto all'identificazione di alcuni dei componenti del commando, dei presunti mandanti, e ad una ricostruzione della dinamica della strage finora confermata da tutte le sentenze, compresa l'unica passata in giudicato. Richieste della difesa sono annunciate anche sul versante dei mandanti: i legali chiederanno infatti alla corte di acquisire le dichiarazioni di Giovanni Brusca, che in un verbale, che i pm di Caltanissetta, secondo alcune indiscrezioni, non avrebbero mai ricevuto, avrebbe lasciato intendere che Borsellino potrebbe essere stato ucciso per essersi opposto alla trattativa tra lo Stato e la mafia: Cosa Nostra avrebbe chiesto vantaggi normativi, processuali e carcerari per interrompere l'uso devastante del tritolo. Si tratta di dichiarazioni importantissime per la prosecuzione delle inchieste, ha commentato il procuratore aggiunto di Caltanissetta, Paolo Giordano. Sull'esistenza di 'mandanti col volto coperto' della strage di via D'Amelio la procura di Caltanissetta ha da tempo avviato un fascicolo di indagini ancora secretate.

2 ottobre – ANSA:
Il primo processo per la strage di via D' Amelio si concluse il 26 gennaio del 1996: la corte d' assise presieduta da Renato Di Natale (oggi procuratore aggiunto a Caltanissetta) condanno' all' ergastolo  Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto, mentre al collaborante Vincenzo Scarantino furono irrogati 18 anni. La condanna di Scarantino e' diventata definitiva in quanto la sentenza non fu appellata dall' imputato. I pm erano Carmelo Petralia e Anna Maria Palma. In appello invece il carcere a vita fu confermato solo per Profeta, mentre a Orofino furono inflitti solo nove anni per favoreggiamento e Scotto fu assolto. La Cassazione il 18 dicembre del 2000 ha reso definitiva la massima pena per Profeta, ribadendo i nove anni per Orofino e l' assoluzione per Scotto. La sentenza di primo grado del processo "Borsellino bis" a a  18 imputati e' del 13 febbraio del 1999. La corte d' assise presieduta da Pietro Falcone decreto' sette ergastoli (Toto' Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino e Gaetano Scotto). Condannati a 10 anni per associazione mafiosa Giuseppe Calascibetta, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso, Salvatore Vitale, a 8 anni e 6 mesi Salvatore Tomaselli, a 8 Antonino Gambino e Gaetano Murana. Il processo "Borsellino ter" (27 imputati) in prima istanza si concluse il 9 dicembre del 1999. La corte presieduta da Carmelo Zuccaro inflisse 17 ergastoli e 175 anni di reclusione, mentre furono dieci le assoluzioni. Carcere a vita per Giuseppe "Piddu" Madonia, Nitto Santapaola, Bernardo Brusca (morto nei mesi scorsi), Giuseppe Calo', Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffre', Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe Montalto, Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Salvatore Biondo (del 1955), Cristoforo Cannella, Domenico Ganci, Stefano Ganci. A 26 anni fu condannato Salvatore Cancemi (pentito), a 23 anni Giovambattista Ferrante (pentito), a 18 anni Francesco Madonia, 16 anni a Mariano Agate, Giovanni Brusca (pentito), Salvatore Buscemi, Antonio Geraci, Giuseppe Lucchese, Benedetto Spera, 12 anni a Salvatore Biondo (del 1956). Nel "bis" e nel "ter" l' accusa e' stata rappresentata da Antonino Di Matteo e Anna Maria Palma.

3 ottobre - Presentato il libro "Accadeva in Sicilia", edito da Sellerio, in cui Vittorio Nistico' ricostruisce, attraverso gli editoriali, la storia del quotidiano "L' Ora" di Palermo, che ha diretto tra il 1954 e il 1975. Anni che vanno dalla rivolta autonomista che con l' "operazione Milazzo" estromise la Dc dal governo della Regione all'esplosione della mafia; dal terremoto nel Belice alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro; dall'uccisione del procuratore Pietro Scaglione al "sacco edilizio" di Palermo.

3 ottobre - Al processo d' appello per la strage di via D'Amelio in cui furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, a Caltanissetta, la difesa chiede la proiezione in aula delle immagini girate poco dopo l'esplosione da una telecamera amatoriale dei vigili del fuoco e da quelle di Rai e Mediaset. "Dopo la visione - ha detto l'avvocato Rosalba Di Gregorio - chiedo alla Corte di dare atto a verbale se si vede, o meno, nelle immagini il blocco motore dell'auto bomba". Per la difesa, che ha gia' esaminato i filmati, trasmessi anche dalla Rai, il motore non e' dove e' stato ritrovato l'indomani. "Non e' un pacchetto di sigarette - ha affermato l'avvocato Pino Scozzola - e accanto alla Croma non c'e' si vede chiaramente anche dalle immagini Mediaset e Rai". La difesa ha chiesto anche la nuova audizione di Giovanni Brusca, che in un verbale ancora secretato avrebbe offerto alcune deduzioni sul movente della strage, ipotizzando che Borsellino si fosse opposto a una trattativa fra mafia e Stato intercorsa tra le stragi di Capaci (vittime Giovanni Falcone, la moglie e tre poliziotti) e via D' Amelio. Per la difesa Brusca dovrebbe essere pure interrogato sulle dichiarazioni rese in aula a Palermo venerdi' scorso nel processo al senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri, quando, parlando delle stragi e della trattativa, ha detto che "che chi era al governo, la sinistra, sapeva". Secondo l'accusa "il problema del blocco motore non esiste". "Quell' angolazione dell'auto non venne fotografata nella concitazione del momento - ha detto il pubblico ministero Maria Giovanna Romeo - e uno dei periti ipotizzo' in aula che poteva essere stato spostato". Parlando con i giornalisti il Pm ha sottolineato che "il blocco motore c'era, ma non e' solo da quel numero di serie che e' partita l'indagine sui mandanti e gli esecutori della strage di via D'Amelio". "So solo - ha detto - che il presidente era pronto a darmi la parola per la requisitoria, ma queste nuove richieste determinano un allungamento dei tempi e a breve termine, per la precisione a febbraio, vedo la scadenza dei termini massimi di custodia cautelare per gli imputati di questo processo. Sono convinta che in questo processo esiste un accanimento difensivo che non riesco a comprendere". Al termine di una breve camera di consiglio la corte ha ammesso la visione in aula delle riprese dei vigili del fuoco, ma anche di quelle eseguite dalla polizia nell' immediatezza e si e' riservata di visionare gli altri filmati dopo avere visto questi. I giudici hanno ammesso anche un' intercettazione ambientale, chiesta dalla difesa, di una conversazione, in carcere, tra Scarantino e la moglie e si sono riservati di decidere sulla nuova audizione di Giovanni Brusca dopo avere letto i verbali gia' acquisiti. La visione del filmato salta a causa di un impedimento tecnico, dopo alcuni tentativi falliti. La cassetta, infatti, era visibile solo su uno dei due monitor istallati nell'aula. Il presidente ha allora  rinviato l'udienza a mercoledi prossimo.

3 ottobre - Il gup di Palermo Giacomo Montalbano condanna a dodici anni di reclusione per omicidio l'ex boss di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca, oggi collaboratore di giustizia. Brusca era accusato dell' assassinio del capitano di lungo corso Paolo Ficalora, avvenuto a Castellammare del Golfo (Trapani) il 28 novembre del 1992. Il delitto Ficalora e' rimasto impunito per anni. A fare luce sul movente dell'agguato era stato proprio Giovanni Brusca, che aveva raccontato agli investigatori di avere ideato l'omicidio con Toto' Riina perche' sospettava che la vittima fosse vicina al nemico storico dei corleonesi, Totuccio Contorno, capomafia di Santa Maria del Gesu'. Ficalora nel 1989 aveva affittato la propria casa di Scopello a Agostino D'Agati, fedelissimo di Contorno, assassinato nel '91 a Rimini. Nella villa, secondo gli investigatori, sarebbe piu' volte andato lo stesso Contorno. E proprio questa circostanza avrebbe indotto gli uomini di Riina a ritenere che Ficalora fosse dalla parte del boss di Santa Maria di Gesu'. Dal processo, in cui si e' costituita parte civile la moglie di Ficalora, e' invece emerso che il capitano ignorava la vicinanza di D'Agati agli ambienti mafiosi.

3 ottobre - ANSA:
La Procura della Repubblica di Palermo rileva alcune "inesattezze e illazioni" in un articolo pubblicato nei giorni scorsi da un quotidiano su dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca che riguardano il movente della strage di via d' Amelio. "L' articolo contiene una serie di inesattezze e gratuite illazioni - sostiene in una nota il procuratore Piero Grasso - soprattutto nella parte in cui, per quanto sappia la Procura di Palermo, si afferma che Brusca avrebbe dichiarato che Borsellino e' morto perche' a conoscenza della trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra". In un articolo pubblicato il giorno dopo dallo stesso quotidiano si sosteneva che quel verbale non sarebbe mai stato trasmesso alla Procura di Caltanissetta. "Tutti i verbali che riguardano la strage di via d' Amelio - precisa il procuratore Grasso - sono stati trasmessi alla competente Procura della Repubblica di Caltanissetta".

4 ottobre - Undici condanne sono state chieste ai giudici della Corte d' Assise di Palermo dal pm Nino Di Matteo per il rapimento e l' uccisione, organizzati dalla mafia 11 anni fa, dell' ex agente del Sisde Emanuele Piazza. Il pm ha sollecitato in particolare tre ergastoli e pene per 204 anni di reclusione. "Nella vicenda di Emanuele Piazza ci sono state reticenze istituzionali ed individuali. Mi riferisco all' intollerabile ritardo con cui il Sisde ha confermato quanto, subito, detto dai familiari dell'agente e cioe' che Emanuele collaborava con i servizi segreti". E' l'inizio della lunga requisitoria dei pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia, pubblica accusa al processo che vede alla sbarra, imputati dell' omicidio di Emanuele Piazza, undici boss di San Lorenzo. "Il prefetto Riccardo Malpica ex capo del Sisde -  ha continuato Di Matteo - solo il 22 settembre del 1990, sette mesi dopo la scomparsa di Piazza, ha ammesso i contatti dei servizi con il giovane". Un ritardo grave, per il pm, in un momento cruciale per le indagini. Alla base del delitto, secondo la ricostruzione della pubblica accusa, ci sarebbe stata l'attivita' di intelligence, finalizzata alla cattura del latitanti di mafia, che Piazza svolgeva proprio per i servizi. Ma i magistrati puntano il dito anche contro Vincenzo Di Blasi, ispettore del commissariato di Mondello, collega del giovane agente. "Di Blasi - ha detto il pm - sapeva perfettamente che Piazza tentava di acquisire dal boss Francesco Onorato notizie sui ricercati, ma lo ha ammesso solo dopo un anno, dicendo di avere taciuto fino ad allora su ordine dei superiori". La sua versione dei fatti, pero', ha continuato Di Matteo, e' sempre stata smentita dai vertici del commissariato. Ma le responsabilita' delle istituzioni per l'accusa sarebbero anche morali. "Piazza - ha concluso il pm - e' stato mandato a caccia dei boss senza alcuna copertura". Al termine della requisitoria i magistrati hanno chiesto la condanna all' ergastolo per i boss Salvatore Biondino, Nino Troia e Giovanni Battaglia. Trenta anni di carcere, la pena chiesta per i due omonimi Salvatore Biondo, Salvatore Graziano, Antonino Erasmo Troia, Vincenzo Troia e Simone Scalici. Dodici anni l'uno, infine, per i collaboratori di giustizia Francesco Onorato e Gian Battista Ferrante.

4 ottobre - ANSA:
Ci sarebbero i nomi di alcuni imprenditori del gruppo Ferruzzi - Gardini, l'ing. Bini e i fratelli mafiosi Buscemi, tra i nuovi indagati dell'inchiesta sui mandanti occulti delle stragi. I nuovi spunti investigativi seguiti dalla Procura di Caltanissetta emergono dall'intreccio mafia-appalti-politica descritto dal pentito Angelo Siino nel processo d'appello per la strage di Capaci. Rivelazioni che avrebbero indotto il procuratore aggiunto Francesco Paolo Giordano ad approfondire quanto riferito dal collaborante in merito ai motivi per cui fu ucciso il giudice Falcone. Nuove deleghe di indagine sono state affidate alla polizia giudiziaria. Secondo Siino le indagini promosse da Falcone nel settore della gestione illecita degli appalti, 'verso cui aveva mostrato un crescendo di interessi, avevano portato alla sua eliminazione. In Cosa nostra, e in particolare da Pino Lipari e Antonio Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore degli appalti e per questo dissero 'questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare'. Al vaglio della procura anche le dichiarazioni di Giovanni Brusca, inserite nella motivazione della sentenza d'appello per l'eccidio di Capaci, che dice di avere appreso da Salvatore Riina che a seguito della legge Rognoni-La Torre i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese (la cava Bigliemi e una Soc. Calcestruzzi) al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all'interno della struttura societaria come impiegato; che i fratelli Buscemi si 'tenevano in mano questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte' e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo di cui non ha voluto rivelare il nome; che Salvatore Riina in epoca precedente all'interesse per l'impresa Reale si era lamentato del fatto che i Buscemi non mettevano a disposizione dell'intera organizzazione i loro referenti. Secondo quanto ha appurato la Procura il ruolo di Siino venne limitato alla gestione degli appalti per un valore non superiore ai cinque miliardi di lire, posto che quest'ultimo doveva tornare a quelle che' erano le sue origini', vale a dire occuparsi dei lavori dell'amministrazione provinciale di Palermo. Brusca, pertanto, avrebbe invitato Siino a presentare all' imprenditore Filippo Salomone l'ing. Bini che da quel momento avrebbe dovuto prendere il posto di Siino.

4 ottobre - "La Repubblica"
Via D'Amelio, Brusca conferma
"Borsellino era incorruttibile"
Caltanissetta, alla ripresa del processo i difensori chiedono l'acquisizione dei nuovi verbali
FRANCESCO VIVIANO
Caltanissetta - "La trattativa tra Stato e Cosa nostra inizia dopo l'attentato al giudice Giovanni Falcone (23 maggio 1992 ndr) e si interrompe con l'arresto di Totò Riina (15 gennaio 1993 ndr)". Il boss pentito Giovanni Brusca conferma e arricchisce con inediti particolari la strategia del terrore di Cosa nostra avviata con la strage di Capaci e la indica come il probabile movente che avrebbe accelerato la morte del giudice Paolo Borsellino che rappresentava un "ostacolo" alla trattativa. Anche perché, aggiunge Brusca, "Borsellino non era un giudice abbordabile con la corruzione o con qualche altro sistema". Dichiarazioni, anticipate da "Repubblica" la scorsa settimana, in cui Brusca ha meglio precisato quel che in parte aveva accennato a magistrati di Palermo, Firenze, Caltanissetta e della Direzione nazionale antimafia qualche anno fa, e che ha ribadito in un recentissimo interrogatorio del luglio scorso davanti al sostituto procuratore fiorentino Gabriele Chelazzi. Il verbale è finito nell'inchiesta collettore su tutte le stragi, da quelle del '92 a quelle del '93 compiute a Roma, Firenze e Milano. E ieri, all'udienza del processo bis d'appello della strage di via D'Amelio, ripreso nell'aula bunker di Caltanissetta, gli avvocati degli imputati  hanno chiesto che le dichiarazioni di Brusca siano acquisite insieme a un filmato della Rai girato sul luogo della strage qualche ora dopo l'attentato, per "dimostrare" che nelle indagini c'è stato qualche "buco nero". Secondo i difensori quelle immagini proverebbero che il blocco motore della Fiat 126 che sarebbe stata utilizzata come autobomba per la strage fu ritrovato soltanto il giorno dopo l'attentato. Insomma, questa la tesi della difesa, quel blocco motore fu portato 24 ore dopo in via D'Amelio per "depistare". L'accusa, rappresentata dal sostituto procuratore generale, Maria Giovanna Romeo, si è opposta ma il presidente della Corte ha deciso di ammettere il filmato che verrà proiettato in aula alla prossima udienza, fissata per mercoledì. Già ieri pomeriggio, per la verità, si era tentato di visionare la cassetta, ma problemi tecnici lo hanno impedito. La corte si è invece riservata di decidere sull'acquisizione dei verbali di Brusca. Verbali che, si è appreso ieri in aula, il pentito aveva di fatto già anticipato proprio nel corso della sua recente deposizione al dibattimento di Caltanissetta, avvenuta nel giugno scorso e passata sotto silenzio. Brusca, come ha poi ribadito nel luglio scorso nei verbali che sono ancora secretati, ha dichiarato che dopo la strage di Capaci venne avviata la trattativa tra Cosa nostra e lo Stato "e si pressava per andare avanti" perché c'era stato qualche problema. "Visto che la trattativa si era "arenata" - racconta Brusca - ci voleva un altro colpetto per continuare a riprenderla e portarla a buon fine". E quando gli viene chiesto di precisare come e da chi avrebbe appreso della "trattativa" il pentito risponde: "Non posso dire con certezza, non posso dire ho ragionato con Tizio o Caio... Le risposte erano quelle che erano, quindi si doveva pressare per andare avanti e io capisco che la strage del dottor Borsellino è per me per due motivi: una è accelerare, due che il dottor Borsellino poteva essere l'ostacolo, quello che poteva non garantire quelle trattative che erano state richieste e quindi era un elemento di ostacolo da togliere di mezzo a tutti i costi, visto che non era abbordabile con la corruzione o qualche altro sistema". Ma Cosa nostra era anche preoccupata, racconta Brusca, della probabile nomina del giudice Paolo Borsellino a capo della Procura nazionale antimafia. "Ed anche se non fosse riuscito a ricoprire incarichi istituzionali - sottolinea Brusca - il giudice Borsellino era la persona che denunciava pubblicamente fatti e misfatti, quindi era un ostacolo a tutti i livelli". Per Brusca la strategia di Totò Riina era quella stragista: "Più si faceva danno (stragi ndr) e più le prospettive di un accordo (la "trattativa" ndr) aumentavano". Le cose però precipitano e la "trattativa" s'interrompe quando, racconta Brusca, "i carabinieri, il generale Mario Mori ha l'imbeccata giusta per arrivare all'arresto di Totò Riina". Dichiarazioni pubbliche che confermano e precisano quelle messe a verbale davanti ai pm di Palermo e Firenze. Ieri il procuratore di Palermo, Pietro Grasso, a distanza di 7 sette giorni, ha definito in un comunicato "inesattezze e illazioni" le anticipazioni di "Repubblica" sulla trattativa e sul movente della strage Borsellino rivelate da Giovanni Brusca. "L'articolo contiene una serie di inesattezze e gratuite illazioni - dice tra l'altro il procuratore Grasso - soprattutto nella parte in cui, per quanto sappia la Procura di Palermo, si afferma che Brusca avrebbe dichiarato che Borsellino è morto perché a conoscenza della trattativa tra lo Stato e Cosa nostra". Ma le dichiarazioni di Brusca nei verbali sembrano molto chiare.

5 ottobre - Nel processo d' appello Borsellino-ter sulla strage del 19 luglio 1992 in via D' Amelio a Palermo, il sostituto procuratore generale Maria Giovanna Romeo chiede 22 condanne all' ergastolo (in primo grado gli ergastoli erano 17). Escluso Bernardo Brusca, deceduto tre mesi e condannato all' ergastolo il 9 dicembre del 1999, per il quale e' stato chiesto di non doversi procedere, la conferma del carcere a vita e' stata sollecitata per Giuseppe «Piddu» Madonia, Nitto Santapaola, Giuseppe Calo', Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffre', Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe Montalto, Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Salvatore Biondo (del 1955), Cristoforo Cannella, Domenico Ganci, Stefano Ganci. Le nuove richieste di ergastolo riguardano invece Francesco Madonia (condannato a 18 anni in primo grado), Mariano Agate, Salvatore  Buscemi, Benedetto Spera, Antonio Geraci (tutti condannati in primo grado a 16 anni) e Salvatore Biondo del 1956 (12 anni). Per i pentiti Salvatore Cancemi, Giovambattista Ferrante e Giovanni Brusca il pg ha chiesto rispettivamente 17, 15 e 12 anni mentre in primo grado era stati condannati a 26, 23 e 16 anni di reclusione. L'unico per il quale non è stato fatto appello da parte della Procura e' Giuseppe Lucchese condannato in primo grado a 16 anni. Due anni fa la Corte d' assise presieduta da Carmelo Zuccaro inflisse 17 ergastoli e 175 anni di reclusione, mentre furono dieci le assoluzioni. Il processo scaturisce dal terzo troncone d' indagine sulla strage di via D' Amelio in cui morirono il 19 luglio del 1992 il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta.

7 ottobre - Il giudice di sorveglianza Raffaele Agostini, commentando una notizia pubblicata nell' ultimo numero di Panorama, dichiara che il boss mafioso Toto' Riina, recluso in regime di 41 bis nel supercarcere di Marino del Tronto (Ascoli), ha problemi di salute, non di particolare entita', ma piuttosto disturbi fisiologici, legati all' eta'. Panorama aveva invece parlato di una «misteriosa malattia», indicata piu' avanti nell' articolo come una «seria malattia al fegato» diagnosticata poi come epatite C, per la quale Riina sarebbe stato sottoposto ad esami negli «ospedali piu' attrezzati delle Marche» grazie a trasferte «superblindate». «Il mio ufficio - ha precisato Agostini - in realta' non ha mai autorizzato trasferimenti di questo genere, a meno che questo non sia avvenuto durante un mio periodo di vacanze. Ma lo escludo. E' vero, invece, che Riina accusa problemi di salute (ma non da ora) e che nel corso degli ultimi anni e' stato visitato da sanitari e specialisti esterni. Tuttora e' sotto controllo e mi risulta che effettivamente dei macchinari siano stati portati a Marino del Tronto per gli accertamenti del caso».

8 ottobre – ANSA:
Si e' aperta stamane ed e' stata subito rinviata al 15 ottobre prossimo l' udienza del processo al senatore di F.I. Marcello Dell' Utri, accusato di concorso in associazione mafiosa, davanti alla seconda sezione del Tribunale presieduta da Leonardo Guarnotta. Entrambi i testi citati per oggi, infatti, non si sono presentati per deporre. Si tratta dell' avvocato Antonio Gamberale di Milano e del magistrato Giorgio Della Lucia, assenti per ragioni diverse.
Gamberale ha inviato un certificato medico nel quale la sua assenza di stamane nell' aula di Palermo viene motivata da 'crisi acute di panico'. Il Tribunale, su richiesta dei pm Nico Gozzo e Antonio Ingroia, ha disposto nei suoi confronti una visita medica di verifica. Della Lucia ha invece inviato un fax spiegando di non esser presente perche' impegnato, domani, in un processo davanti al Tribunale di Milano, definito testualmente 'semi gravoso'. Per lui il tribunale ha disposto la diffida a non mancare alla prossima udienza, pena l' accompagnamento coatto. Il presidente Guarnotta ha infine reso noto alle parti di aver ricevuto la lettera di un detenuto, tale Salvatore Conte, che sostiene di essere a conoscenza di fatti riguardanti il processo Dell' Utri, che avrebbe appreso mentre si trovava nelle carceri di Rebibbia, Brescia e Alessandria. Il detenuto si e' messo a disposizione del Tribunale per rendere dichiarazioni.

10 ottobre – ANSA:
Non si vede il blocco motore della Fiat 126 utilizzata per la strage di via D'Amelio nei filmati registrati dai vigili del fuoco e dalla polizia scientifica e proiettati oggi in aula al processo d'appello Borsellino bis. Il blocco motore non e' vicino alla Croma blindata di Borsellino, ne' tra le auto annerite ed i resti umani ripresi dalle immagini. Il blocco motore ha scatenato una polemica tra accusa e difesa: i pm hanno sostenuto che le richieste difensive hanno lo scopo di far passare il tempo in funzione della decorrenza, a gennaio, dei termini di custodia cautelare; gli avvocati hanno rivendicato il diritto di sollevare una questione che appare cruciale per la coerenza e la solidita' delle primissine indagini. Erano stati i legali degli imputati a chiedere la proiezione dei filmati in udienza e questo nuovo elemento, a loro dire, getterebbe nuova luce sul castello accusatorio. Secondo i sostituti procuratore generale Maria Giovanna Romeo e Dolcino Favi, pero', l' assenza del blocco motore dalle immagini non ha alcun valore poiche' potrebbe essere stato spostato, e a carico degli imputati esistono altre consistenti prove. Il filmato e' stato proiettato in aula per circa due ore e in varie occasioni i due rappresentanti della pubblica accusa hanno chiesto di bloccare le immagini per focalizzare gli oggetti ripresi dalle telecamere. Al termine la corte ha respinto la richiesta della difesa, di visionare in aula le immagini registrate da Mediaset e Rai per rafforzare ulteriormente la tesi della sparizione del blocco motore su cui furono rinvenuti, il giorno dopo la strage, i numeri di serie grazie ai quali si risalì ai ladri della Fiat 126 che agirono su ordine di Vincenzo Scarantino, il pentito già condannato a 18 anni. Respinta anche la richiesta di portare in aula, dall'ufficio corpi di reato, il blocco motore.

10 ottobre – Al processo per l’ uccisione del giornalista Mario Francese, cronista giudiziario del «Giornale di Sicilia» assassinato il 26 gennaio 1979 a Palermo, Giulio Francese, figlio di Mario e anche lui giornalista, dice:«Mio padre e' morto per il suo giornale al quale era molto legato». Rispondendo alle domande del pm Laura Vaccaro, Giulio Francese, che lavora nello stesso quotidiano, ha ricordato la professionalita' del padre e di come si sacrificava per il lavoro al Giornale di Sicilia, «in cui - ha aggiunto – si sentiva penalizzato economicamente rispetto agli altri colleghi». Giulio Francese ha affermato che il padre gia' 30 anni fa aveva iniziato ad analizzare i fatti di mafia e i corleonesi in maniera diversa da come altri giornalisti ne scrivevano. «Gia' allora - ha detto in aula Francese - mio padre aveva visto bene, descrivendo che era in atto una spaccatura in Cosa nostra e che i corleonesi avevano avviato una guerra di cui lui si era reso conto e ne aveva iniziato a scrivere sul giornale e in un dossier. Oggi i fatti gli danno ragione». A conclusione dell' udienza il pm ha chiesto alla corte di acquisire le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Antonino Calderone e Francesco Di Carlo. Il processo e' rinviato al 21 novembre.

10 ottobre – ANSA:
Accusa e difesa chiederanno l' acquisizione di nuove prove nel processo per concorso esterno in associazione mafiosa a Giulio Andreotti, assolto in primo grado il 23 ottobre del 1999, che riprende domani in corte d' appello. Il senatore a vita ha fatto sapere che sara' presente. Il dibattimento era cominciato in aprile, ma era stato subito rinviato perche' Andreotti era impegnato nella campagna elettorale per Democrazia europea e preferiva evitare la concomitanza dell' impegno politico con l' appuntamento davanti alla Corte, presieduta da Salvatore Scaduti. Domani quindi il processo ricomincia con un'iniziativa dell' accusa. I pg Daniela Giglio e Anna Maria Leone hanno gia' richiamato alcuni atti del processo all' ex presidente di sezione della Corte di Cassazione Corrado Carnevale, condannato a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta di verbali con le deposizioni di alcuni testi dai quali risulterebbe un legame diretto e personale, sempre negato da entrambi, tra Andreotti e Carnevale. L' accusa chiedera' anche di acquisire il «contratto» con il programma di protezione accordato a Enzo Salvatore Brusca, fratello di Giovanni. La difesa invece chiedera' alla Corte di acquisire altri documenti dai quali risulterebbe che tra il giugno e il dicembre del 1979 Andreotti era impegnato in molteplici appuntamenti politici e istituzionali. Di conseguenza non sarebbe stato in grado di partecipare, come ha riferito il pentito Francesco Marino Mannoia, a un incontro con il boss Stefano Bontade. Si prevede percio' la riapertura dell' istruzione dibattimentale, ma questo non lascia supporre un' evccessiva dilatazione dei tempi processuali.

11 ottobre – ANSA:
"Non voglio fare la mia commemorazione da vivo, ma sono stato presentato dall' accusa in un modo non corretto". L' ha detto Giulio Andreotti rendendo oggi dichiarazioni spontanee in corte d' appello a Palermo alla ripresa del processo nel quale, dopo l' assoluzione due anni fa, e' accusato di concorso in associazione mafiosa. Il processo e' stato aggiornato al 25 ottobre prossimo poiche' la Corte presieduta da Salvatore Scaduti si e' riservata di decidere su richieste di nuove testimonianze avanzate dalla pubblica accusa e dalla difesa. L' intervento di Andreotti ha toccato essenzialmente due punti: suoi presunti incontri con il boss mafioso Stefano Bontade (ne parlarono i collaboratori della giustizia Francesco Marino Mannoia, Angelo, Siino e Vito Di Maggio) e quella che ha definito la sua biografia politica. Quando e' giunto nel Palazzo di giustizia, accompagnato dagli avvocati Franco Coppi, Gioacchino Sbacchi e Giulia Bongiorno, il senatore a vita ai giornalisti che l' hanno subito circondato ha detto di essere "molto sereno" nell' affrontare il nuovo giudizio anche per essere stato assolto in quello di prima istanza. E ha ammesso che in occasione del precedente processo era giunto in aula "un po' piu' teso". Su Bontade, assassinato nel 1981 dal clan dei corlenesi che voleva scalzarlo, Andreotti ha fra l' altro dichiarato: "Sono rimasto sconvolto per il ragionamento che e' stato fatto su Bontade. Mi avrebbe incontrato la prima volta per dirmi 'Attenzione, se Mattarella (il Presidente della Regione ucciso dalla mafia nel 1980,ndr) non cambia strada saranno altissimi guai'. Sono sconvolto perche' e' come se Mattarella fosse considerato un contiguo alla mafia. Lo sono anche perche' ho appreso che la Procura ha chiesto ai questori siciliani di sapere se avessero elementi circa eventuali rapporti con Cosa Nostra di Bernardo Mattarella e del figlio Piersanti". Il senatore ha poi definito "una leggenda" il suo presunto incontro con lo stesso Bontade in una tenuta di caccia. Siino ha sostenuto che l' abboccamento avvenne mentre lui si preparava a una corsa automobilistica, spostando cosi' in avanti il momento in cui l' episodio era stato temporalmente collocato. "Di questo passo - ha esclamato Andreotti - si fa il giuoco delle tre carte. Non conosco Siino ne' voglio la morte di ogni peccatore, ma si faccia i fatti suoi". Dopo aver lamentato di non aver potuto rendere un organico interrogatorio al termine del primo processo, Andreotti ha smentito il ruolo di collegamento con la mafia che la Procura della Repubblica gli attribuisce. "Sono stato definito come il punto di riferimento in tutto quello che la mafia doveva fare a Roma - ha detto - in campo politico, finanziario e perfino legislativo. Per fortuna poi il tribunale ha accertato che era tutto inesistente". Andreotti, nel riferirsi ai magistrati della Procura palermitana, ha contestato i "biografi politici" secondo i quali l' adesione di Salvo Lima alla sua corrente nella Dc gli avrebbe consentito "di uscire dal ghetto laziale". "Vorrei ricordare - ha sottolineato - che ero gia' stato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e piu' volte ministro e non e' vero che nel 1979 ero ripiombato nel buio dato che sono stato poi ministro degli Esteri e Presidente del Consiglio tra il 1989 e il 1982". I sostituti procuratore generale Anna Maria Leone e Daniela Giglio in apertura di udienza hanno chiesto di acquisire alcuni atti testimoniali del processo all' ex giudice della Cassazione Corrado Carnevale (assolto in primo grado, ma condannato in appello a sei anni di reclusione per concorso in associazione mafiosa). Il collegio di difesa di Andreotti ha replicato, sollecitando a sua volta l' acquisizione di altre testimonianze che smentirebbero a loro giudizio gli accusatori. La difesa ha anche chiesto di poter produrre il diario e l' agenda di Andreotti per dimostrare la sua impossibilita' a incontrare Stefano Bontade tra agosto e dicembre 1979. E' su queste istanze che, nel rinviare al 25 ottobre, la Corte si e' riservata la decisione.

16 ottobre - La prima sezione penale della Corte di Cassazione conferma la condanna all'ergastolo per Salvatore Gallea e Salvatore Calafato accusati di essere i mandanti dell'omicidio del giudice Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 in un agguato sulla strada statale Canicatti'-Agrigento. La Corte ha invece stralciato la posizione degli altri due imputati, Giuseppe Montanti e Salvatore Parla, che saranno giudicati in una nuova udienza in data da fissare. I quattro imputati avevano presentato ricorso contro la sentenza di secondo grado emessa il 29 settembre 1999 dalla Corte di Assise d'Appello di Caltanissetta che aveva comminato a tutti il carcere a vita. In primo grado, invece, Parla e Montanti erano stati assolti, Calafato era stato condannato a 24 anni di reclusione e Gallea all'ergastolo. A questo filone dell'inchiesta hanno contribuito i pentiti Giovanni Calafato e Giuseppe Croce Benvenuto. Secondo i collaboratori, il giovane magistrato venne fatto ammazzare dagli 'stiddari' per "lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa Nostra" e per punire un giudice severo e imparziale. Gli esecutori materiali del delitto sono gia' stati condannati, con sentenza definitiva, al carcere a vita: si tratta di Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro.

16 ottobre - I giudici della prima sezione della corte d' appello di Caltanissetta condannano ad otto anni il magistrato Giuseppe Prinzivalli accusato di concorso in associazione mafiosa. La pena e' stata ridotta di due anni rispetto al primo grado. Il sostituto procuratore generale Dolcino Favi aveva chiesto nella sua requisitoria la conferma della condanna a 10 anni di reclusione. Prinzivalli, ex presidente di corte d' assise di Palermo, ex procuratore della Repubblica di Termini Imerese (Palermo), e' in pensione da quattro anni. L' inchiesta nei suoi confronti venne avviata nel 1995 dopo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Gaspare Mutolo e Giuseppe Marchese. Secondo i pentiti, Prinzivalli era un giudice "avvicinabile" da Cosa nostra. Il magistrato e' stato accusato dal pentito Salvatore Cancemi e da altri collaboratori di giustizia di avere "aggiustato" processi in favore dei boss mafiosi fin da quando fu sostituto procuratore a Palermo fino al sua nomina a presidente della Corte d' assise palermitana. I collaboratori hanno fatto riferimento anche alla sentenza del terzo maxiprocesso a Cosa nostra (la corte era presieduta proprio da Prinzivalli) con la quale furono assolti Salvatore Riina e Michele Greco. La magistratura nissena ha svolto su di lui anche indagini patrimoniali, rilevando che il tenore di vita e' risultato sproporzionato rispetto al suo reddito. Secondo l' accusa, Prinzivalli sarebbe stato avvicinato anche mentre era procuratore della Repubblica a Termini Imerese. Per gli inquirenti "il dottor Prinzivalli con il suo comportamento ha strumentalizzato i suoi poteri quando ha celebrato il processo maxiter di Palermo, e quando ha ricevuto nella sua abitazione il mafioso Lombardo probabilmente per aggiustare processi". "A Termini Imerese, poi - ha detto in aula il pm – ha compresso l' autonomia dei suoi consiglieri favorendo Salvatore Catanese, suo fratello massone, il boss Giuseppe Farinella e Salvatore Rinella. Queste circostanze, secondo l' accusa, si sono concretizzate con versamenti di centinaia di milioni di lire".

18 ottobre - Il gup di Palermo Florestano Cristodaro condanna con il rito abbreviato quattro imprenditori accusati di associazione mafiosa e di avere coperto la latitanza del boss Bernardo Provenzano. Si tratta dei fratelli Agostino e Salvatore Sansone, condannati a sei anni di reclusione, mentre Gaetano Sansone, fratello dei primi due, e' stato condannato ad un anno insieme a Giovanni Aurelio Chiovaro. Tutti e quattro erano stati arrestati nel maggio dello scorso anno. L' inchiesta e' stata coordinata dal sostituto procuratore della Dda Michele Prestipino. Gaetano Sansone venne arrestato e condannato nel 1993 perche' aveva favorito la latitanza di Toto' Riina; adesso, con la condanna ad un anno, il giudice ne ha ordinato la scarcerazione perche' l' ha gia scontata. Riina aveva trascorso dieci anni della sua latitanza nella villa accanto a quella di Sansone in via Bernini a Palermo. Le indagini, fatte di intercettazioni ambientali e telefoniche, prendono il via in seguito alle ricerche del boss latitante Bernardo Provenzano. Per quasi un anno e mezzo i microfoni piazzati dagli agenti nelle automobili e negli appartamenti degli imprenditori hanno portato a registrare conversazioni su appalti e politica, ma in particolare e' emerso un rapporto diretto con Provenzano. Gli investigatori hanno tratto anche una serie di indicazioni utili sulla fisionomia del ricercato, la cui foto piu' recente risale ad alcune decine di anni fa. Commentando l' immagine del boss elaborata dal computer, i Sansone affermano: "Questo di qua... e' meno calvo". E' la frase che, secondo gli inquirenti, prova "una conoscenza diretta ed un contatto recente con il latitante". I Sansone dimostrano poi di essere a conoscenza del fatto che Provenzano avrebbe trovato una rete di fiancheggiatori a Bagheria "trasformandola in una sorta di succursale di Corleone".

19 ottobre - Il sen. Nando Dalla Chiesa (Margherita) dichiara:"Anche per i magistrati di Palermo, dopo quelli di Milano, e' arrivata la parola d'ordine meno scorte, via le scorte. Questa frenesia mirata nel ridurre o eliminare le protezioni per i magistrati a rischio ha ben poco a che vedere con le proclamate esigenze di risparmio o di lotta agli status-symbol". "Ministri e Sottosegretari continuano a viaggiare - sottolinea Dalla Chiesa - con auto e scorte, anche in carovana, anche quando non ne hanno alcun bisogno e, secondo recenti notizie di stampa, anche quando sono in vacanza. Siamo di fronte a una strategia che e' si simbolica, ma nel senso che vuole far capire a tutto il Paese, quello legale e quello illegale, che la magistratura che tocca i nervi scoperti della criminalita' non gode piu' del pieno apprezzamento e della piena protezione dello Stato".

19 ottobre - A Palermo, a Palazzo dei Normanni, presentazione del libro "Una storia vera a Palermo" di Rita Bartoli Costa, vedova del procuratore della Repubblica di Palermo ucciso dalla mafia nel 1980. Il presidente dell' Assemblea regionale siciliana Guido Lo Porto (An) dice che "L' omicidio del giudice Gaetano Costa e' un delitto che cade sull' immagine di Palermo in dimensioni incancellabili, un delitto sicuramente non ancora chiarito". Lo Porto, che era stato capogruppo del suo partito nella Commissione Antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte, ha aggiunto che "in quegli anni ci fu incuria, silenzio, ingenuita' e omerta' nella gestione della cosa pubblica palermitana. Nessuno doveva turbare quella impressione di benessere e felicita' che pervadeva in quegli anni ogni settore della citta', e quindi chi disturbava il manovratore, in una logica aberrante, andava eliminato".

19 ottobre - Il processo d' appello per la strage di via d' Amelio, cosiddetto Borsellino bis, e' stato rinviato al 24 ottobre per la requisitoria del pm, anche se il presidente Caruso non ha formalmente chiuso l' istruzione dibattimentale. La Corte ha respinto la richiesta della difesa di ascoltare ancora una volta in aula il pentito Giovanni Brusca, ma ha acquisito i verbali di interrogatorio di Brusca nel processo Dell' Utri in corso a Palermo.

19 ottobre - Primavera Siciliana esprime "allarme e preoccupazione per la decisione di ridurre drasticamente la protezione ai magistrati impegnati in prima fila contro la mafia e auspica il ripristino dei servizi di sicurezza revocati" e osserva:"Strana coincidenza quella della presentazione del libro che Rita Bartoli Costa dedica alla figura del marito, il magistrato Gaetano Costa, assassinato dalla mafia agevolmente perche' senza alcuna protezione, e la revoca delle scorte ai magistrati antimafia di Palermo". "Nel denunciare questo gravissimo provvedimento quale inquietante segnale del calo di attenzione del Governo nell' azione di contrasto alla criminalita' organizzata", Primavera Siciliana conferma la "propria solidarieta' a quanti - magistrati e forza dell' ordine - quotidianamente sono impegnati per difendere i valori della democrazia".

19 ottobre - Esce il libro "L' altra mafia" di Salvo Palazzolo e Ernesto Oliva, edito da Rubettino. Salvo Palazzolo ed Ernesto Oliva, giornalisti palermitani, con atti giudiziari in parte inediti, tracciano la prima biografia di Provenzano, soprannominato Binu' u' ragioniere, in omaggio alla sua precisa capacita' di calcolo delle convenienze per un' organizzazione a caccia di una nuova, ma sempre antica, identita'. Il capo di Cosa Nostra e' un vecchietto di 69 anni, alto 1,64, i radi capelli grigi, gli occhi castano chiari, latitante da 39 anni. Dai suoi rifugi nascosti nella campagna siciliana governa senza dissensi il popolo dei mafiosi, impegnati a lasciarsi alle spalle la stagione delle bombe che ha prodotto soltanto lacrime amare e carcere duro. Controllo della violenza, abilita' di mediazione, fiuto imprenditoriale, relazioni politiche a 360 gradi e l' aura di un' intoccabilita' alimentata da decenni di ricerche andate a vuoto sono gli ingredienti di un consenso che ha assunto le dimensioni del mito fondato non sul terrore ma sulla fiducia. Se la grammatica delle sue lettere puo' far sorridere, si torna immediatamente seri guardando agli affari gestiti, dalla sanita' allo smaltimento dei rifiuti, e a gli allarmi del procuratore Grasso sul fiume di miliardi in arrivo in Sicilia per Agenda 2000. Affari gestiti sempre con il sorriso sulle labbra: gli ordini del boss sono camuffati da consigli, il suo temperamento e' calmo e prudente, la sua parola d' ordine e' "riflessione". Palazzolo e Oliva aiutano a capire i segreti di una mafia che, nell' era informatica e della globalizzazione, per gestire appalti miliardari  resta saldamente ancorata alle sue radici contadine e ad una "saggezza" elementare spia dell' esercizio di un potere antico, che non ha bisogno dell' esibizione dei muscoli, ma parla il linguaggio semplice e pero' profondamente autorevole ed immediatamente compreso dagli uomini d' onore e da chi, nella societa' civile, per convenienza o semplice condivisione del modello subculturale, ne agevola gli affari. Su Provenzano esce anche un libro del giornalista palermitano Leone Zingales, "Provenzano. Il re di Cosa nostra. La vera storia dell' ultimo padrino" (Luigi Pellegrino editore) che sulla base di fatti di cronaca e acquisizioni processuali, ha tentato di ricostruire in un libro la vita del "capo dei capi" di "cosa nostra". Il libro raccoglie una serie di testimonianze sull'  uomo che e' diventato ormai una sorta di fantasma nonostante gli investigatori di tutto il mondo lo stiano cercando. Tra gli argomenti affrontati nel volume, nella cui copertina spicca l' unica foto del boss a disposizione delle forze dell' ordine, il processo di Bari del 1969 nel quale il capo riconosciuto della mafia figurava tra i responsabili della guerra nel corleonese della fine degli anni '50. Il libro inoltre contiene il testo integrale delle lettere inviate dai familiari al latitante e intercettate dalla Squadra mobile di Palermo lo scorso 30 gennaio.

20 ottobre - Il tribunale di Palermo rigetta la richiesta di revoca della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale presentata dai difensori di Enzo Salvatore Brusca, fratello del boss di San Giuseppe Jato, Giovanni, che dal 1995 collabora con la giustizia. Per i magistrati l' ammissione del pentito al programma di protezione non prova la sua rottura con le regole di Cosa nostra. "L'ammissione al programma di protezione - scrivono i giudici - e' il frutto di un giudizio basato esclusivamente sulla natura e la qualita' delle dichiarazioni rese dall' aspirante collaboratore di giustizia, senza alcuna indagine sulle motivazioni interiori della scelta collaborativa che, come purtroppo e' accaduto, potrebbe essere dettata da ragioni di tipo squisitamente utilitaristico". "Il giudizio di prevenzione, invece - continuano i magistrati - si basa su un esame globale della personalita' che deve fondarsi su tutti gli elementi da cui potrebbe desumersi la pericolosita' del prevenuto". Pericolosita' che nel caso di Brusca "deve ritenersi particolarmente qualificata per il suo livello di inserimento nell'associazione Cosa nostra e per i reati di cui si e' macchiato". E' troppo presto, concludono i giudici, per esprimere un giudizio sul ravvedimento dell'ex boss. Il suo pentimento, definito dal collegio "magmatico", e' troppo recente per trovarvi evidenti segnali del venir meno della pericolosita' sociale.

22 ottobre - La copia della deposizione fatta in aula dall' ex deputato di Forza Italia, Amedeo Matacena, nell' ambito del processo Dell' Utri, accusato di concorso in associazione mafiosa, e' stata chiesta al tribunale dalla procura per valutare se procedere per falsa testimonianza. L' ex deputato, condannato lo scorso marzo a cinque anni e quattro mesi di reclusione per concorso in associazione mafiosa, e' stato citato per la seconda volta nel processo a Dell' Utri dopo l' intervista pubblicata dal Corriere della sera alla vigilia della campagna elettorale, in cui Matacena lamentava la sua mancata candidatura e lanciava frecciate a Silvio Berlusconi: "Ritengo di essermi comportato da amico con il presidente Berlusconi. Sono andato a Palermo a testimoniare al processo di Dell' Utri contro Rapisarda. Mi sono trascinato dietro altri testimoni che avevano perplessita' a raccontare i fatti per come si sono svolti. Poi su richiesta di Berlusconi sono andato a testimoniare a Caltanissetta contro la Procura di Palermo. Sono stato ripagato molto male". I contenuti dell' intervista sono stati confermati dal gionalista del Corriere Carlo Macri', sentito anche lui in aula, il quale ha fornito al tribunale la registrazione della conversazione avuta con Matacena. L' ex deputato, che prima di entrare in aula e alla fine della deposizione si e' intrattenuto a parlare con l' imputato, ha confermato di avere avuto un incontro con Filippo Rapisarda che gli aveva chiesto di fare da tramite per parlare con Dell' Utri e chiarirgli i motivi per i quali lo aveva accusato con dichiarazioni ai pm di Palermo. Marcello Dell' Utri, a conclusione, ha fatto spontanee dichiarazioni sostenendo di volere indicare nella prossima udienza tre nomi di persone, che potrebbero testimoniare di avere saputo da Rapisarda che le sue accuse nascevano dalla paura di essere arrestato. Il processo e' rinviato al 5 novembre prossimo.

23 ottobre - ANSA:
Presunti contatti fra agenti dei servizi segreti israeliani e trafficanti di droga legati a Cosa nostra sono al centro di una inchiesta condotta dai pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Gli investigatori, delegati dai magistrati siciliani, stanno accertando i collegamenti fra il trafficante di droga Salvatore Marsalone, arrestato due anni fa a Roma con 12 chilogrammi di cocaina, ritenuto vicino alla cosca mafiosa di Santa Maria del Gesu' a Palermo, e una donna che farebbe parte dell' intelligence israeliana sospettata di aver venduto droga per ottenere somme di denaro destinate all' acquisto di armi. La vicenda emerge da una intercettazione ambientale in cui Salvatore Marsalone spiega ad un amico che investigatori antimafia lo hanno interrogato in carcere "per chiedere chiarimenti relativamente ad un incontro avuto con una donna a Piazza di Spagna a Roma, sospettata di appartenere ai servizi segreti israeliani e con un 'capitano', che avevano un'agenzia a Montecarlo per il noleggio di imbarcazioni". Marsalone, nei confronti del quale e' in corso a Roma un processo per traffico di droga, mentre a Palermo e' gia' stato condannato, durante la conversazione registrata dalle microspie afferma tra l' altro: "la femmina con la quale mi incontravo a Piazza di Spagna, dove c'e' il ...coso, i servizi segreti, era una grossa trafficante... per i paesi arabi e portava questa cosa qua, per aprire fondi per comprare armi per la guerriglia". Il trafficante spiega inoltre che la donna "si voleva mettere in contatto" tramite lui, "con la mafia palermitana". Gli inquirenti avrebbero accertato che Marsalone aveva conosciuto la donna tramite un armatore che aveva una imbarcazione in Spagna che gli sarebbe servita per trasportare droga in Sicilia.

23 ottobre - In una conferenza stampa, la Fondazione Giovanni e Francesca Falcone lancia l' allarme sulle conseguenze del decreto sull' Euro che permetterebbe una gigantesca operazione di 'lavaggio' in euro di denaro sporco. "E' la prima volta che la Fondazione viene a Roma per fare una conferenza stampa su un argomento che sarebbe stato tanto a cuore a Giovanni" ha esordito Maria Falcone chiedendo al Governo "un ripensamento" sulla parte del decreto legge che non riguarda l'introduzione dell'euro ma il rimpatrio di capitali illeciti. "Autorita' monetarie e istituzioni della sicurezza europee - ha ricordato la sorella del magistrato ucciso dalla mafia - hanno previsto che ingenti quantita' di denaro proveniente da profitti illeciti e depositati in moneta locale dei vari paesi europei potrebbero essere 'puliti' mediante conversione in Euro. Con il decreto in questione e' offerta la possibilita' di rimpatriare i capitali comunque detenuti all'estero mediante il pagamento di una somma pari al 2,5% della somma dichiarata all'atto del rimpatrio con effetti di condono fiscale e penale. Il meccanismo del provvedimento - ha osservato - e' congegnato in modo tale da non consentire l'accertamento sull'origine e la natura delle somme reintrodotte e il richiamo alla normativa antiriciclaggio e' solo formale dal momento che sono precluse le informazioni all'amministrazione finanziaria". Sottolineando come le difficolta' di accertamento siano amplificate dalle recenti modifiche al sistema delle rogatorie e puntando l'indice sulla mancanza di sanzioni per le intermediazioni fittizie, Maria Falcone ha definito il decreto "una inversione clamorosa della rotta tracciata con 20 anni di legislazione antimafiosa e antiterroristica. In gioco c'e' anche la credibilita' internazionale dell'Italia" ha detto ancora Falcone denunciando la palese contraddizione del decreto 350 con il recentissimo provvedimento varato dal Governo per congelare i beni delle organizzazioni terroristiche internazionali.

25 ottobre - Il bandito Salvatore Giuliano diventa una voce della Enciclopedia Treccani, accanto a Dante, Boccaccio e Leonardo Da Vinci, e l' associazione dei familiari delle vittime della strage di Portella della Ginestra giudica l'iniziativa una "grave provocazione contro il buon gusto, l'intelligenza e i familiari dellle centinaia di vittime". "Il noto re di Montelepre - e' scritto in un comunicato dell'associazione 'Non solo Portella' - braccio armato dei separatisti e della mafia, di forze eversive occulte e uno dei piu' efferati criminali del mondo, figurera' accanto a Dante, Boccaccio, Petrarca, Leonardo da Vinci, gli eroi della Resistenza e i personaggi piu' illustri della nostra storia culturale e scientifica". "L' iniziativa della Treccani - prosegue la nota - e' anche il segno del degrado culturale nel quale e' ormai caduto uno dei piu' importanti Istituti enciclopedici d' Italia, e porta in se’ i limiti propri di una cultura enciclopedica e omnicomprensiva: spesso la qualita' e la scientificita' dell' informazione sono sacrificate a una visione superficiale e non approfondita dei fatti". "Nel riservarsi ogni iniziativa volta a impedire il perpetrarsi di una vera e propria apologia di reato, o della semplice disinformazione - conclude la nota - l' associazione Non Solo Portella denuncia l' irresponsabile uccisione dell' Istituto a fronte dei crimini che gravano su Salvatore Giuliano: 430 fascicoli giudiziari aperti per reati di strage, omicidi, sequestri di persona, furti, rapine e ogni altro reato che meriterebbe di stare in una enciclopedia del crimine piuttosto che in un' opera culturale". Il vicepresidente della Treccani, Vincenzo Cappelletti, e il direttore del Dizionario Biografico degli italiani, Mario Caravale, reagiscono all' indignazione dell'associazione dei familiari delle vittime della Strage di Portella della Ginestra. "Rivendico - ha detto Cappelletti - la rigorosa aderenza al criterio  di oggettivita' ricostruttiva ed espositiva che presiede fin dall'origine alle opere pubblicate dall'Istituto e imposte al rispetto della cultura mondiale". Cappelletti ha ricordato che la Grande Enciclopedia degli anni '30 registro', ad esempio, le imprese brigantesche di Jose' Borjes, un precorritore di Giuliano, nel 'nucleo di malandrini e grassatori' attivi in Calabria dopo la spedizione dei Mille e la proclamazione dello Stato unitario. Lo stesso e' avvenuto per l"'orda brigatesca" di Carmine Crocco Donatelli. "Giuliano - ha detto Cappelletti - e' presentato nel volume 56 del Biografico con la ricostruzione della sua 'carriera criminale' che, dopo una serie di spietati delitti, si concluse con l'uccisione in circostanze precisate con piena attendibilita' storica". "L'emotivita' nelle sue pur giustificate e condivisibili forme - ha concluso – deve rivolgersi ad opere diverse da quelle pubblicate dall'Enciclopedia itliana". Sorpresa e costernazione per la reazione dell'Associazione 'Non solo Portella' e' stata espressa da Mario Caravale per il quale l'inserimento e' motivato dal fatto che "il personaggio in questione ha avuto notorieta' nelle vicende italiane del dopoguerra come espressione dei collegamenti tra mafia, malavita e forze politiche e come tale e' stato oggetto di studi da parte della storiografia piu' accreditata. La biografia ricostruisce in maniera precisa tali legami e certamente non offre alcuno spazio per un giudizio diverso da quello che i familiari delle vittime esprimono ancora e giustamente con tanta veemenza".

25 ottobre - La procura generale chiede la conferma dell'ergastolo per Salvatore Riina, Francesco Madonia e Pietro Ribisi al processo d'appello per l'omicidio del giudice Antonino Saetta e del figlio Stefano, uccisi da Cosa nostra il 25 settembre del 1988 sulla statale Caltanissetta-Agrigento. I tre imputati avevano chiesto di essere processati con il rito abbreviato, ma l'accusa aveva ritenuto incostituzionale la richiesta e la Corte aveva rinviato la decisione alla Cassazione che a sua volta ha rimandato gli atti alla Corte d' appello di Caltanissetta. Riina ha revocato l'istanza di abbreviato chiedendo di essere processato con il rito ordinario, mentre Madonia e Ribisi hanno reiterato la loro istanza che adesso e' stata rigettata. Con la sentenza di primo grado emessa il 5 agosto del 1998 la Corte d'assise condanno' all' ergastolo Riina e Madonia ritenendoli mandanti dell'esecuzione del magistrato di Canicattì e Ribisi poiche' accusato di essere uno degli esecutori materiali. A compiere l' agguato, infatti, sarebbero stati anche Michele Montagna, di Delia (Caltanissetta), e Nicola Brancato di Palma di Montechiaro (Agrigento), entrambi uccisi in agguati differenti. Il gruppo di killer, invece, sarebbe stato coordinato da Giuseppe Di Caro, ritenuto uno dei capi di Cosa nostra a Canicatti' e anch' egli ucciso alcuni anni fa. Secondo l'accusa, Saetta fu eliminato per una triplice finalita': di vendetta contro un giudice che non si era piegato alle minacce; di prevenzione, e cioe' per evitare che il magistrato presiedesse il maxiprocesso d'appello alle cosche palermitane, e di intimidazione nei confronti degli altri magistrati giudicanti. Saetta si apprestava anche a presiedere in Corte d'assise d'appello un nuovo processo per l' uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, avvenuta nel maggio del 1980 a Monreale, a carico del boss Michele Greco. Tra gli altri processi presieduti da Antonino Saetta l'appello per la strage di piazza Scaffa a Palermo dell'ottobre del 1984, e l'appello per l'agguato al giudice istruttore Rocco Chinnici del luglio del 1986 poi annullato e ricominciato a Caltanissetta. Il 25 settembre del 1988 Saetta viaggiava senza scorta assieme al figlio disabile sulla sua Lancia Prisma e i sicari lo bloccarono su un viadotto tra Canicatti' e Caltanissetta dove esplosero raffiche di mitra e pistola.

25 ottobre – ANSA:
La disponibilita' del senatore Giulio Andreotti nei confronti della mafia sarebbe stata 'permanente, in cambio di appoggi elettorali': lo ha detto il sostituto procuratore generale Anna Maria Leone iniziando la sua requisitoria nel processo di appello al senatore a vita accusato di associazione mafiosa e assolto in primo grado. Secondo il pg "non si puo' pretendere di trovare un accordo scritto tra i mafiosi e il senatore", e 'bisogna leggere globalmente tutti i fatti oggetto delle accuse". Prima dell'inizio della requisitoria la Corte di appello ha respinto la richiesta del pg di acquisire stralci del processo a Corrado Carnevale, condannato in appello per concorso in associazione mafiosa. Le "menzogne processuali" dell'autodifesa del senatore Andreotti, citate nella sentenza di assoluzione, sono state al centro della prima udienza dedicata alla requisitoria del pg Anna Maria Leone nel processo di appello. Secondo il Pg "la condotta e le relazioni personali di Andreotti avrebbero portato a favorire Cosa Nostra" e cio' sarebbe provato, anche, dagli incontri di Andreotti con personaggi collusi, in particolare con il boss trapanese Manciaracina o i presunti contatti con i cugini Nino e Ignazio Salvo ('avrebbero prestato ad Andreotti la loro auto blindata per muoversi in Sicilia'). Il pm ha ripreso alcuni episodi che riguardano i contatti tra Andreotti e i cugini Salvo, tra i quali il numero del telefono diretto del senatore trovato nell' agendina di Nino Salvo, o il regalo del vassoio fatto da Andreotti alla figlia dell' esattore in occasione del suo matrimonio con Tani Sangiorgi avvenuto nel 1976. Qualunque sia la decisione finale, ha detto alla fine il pg Anna Maria Leone, la sentenza dovra' essere riscritta tenendo conto della globalita' dei fatti che sono inseriti nel processo ricordando la 'liberta' di convincimento del giudice'. La requisitoria e' stata interrotta e proseguira' l' 8 novembre.

26 ottobre – Per Giuseppe Lumia, ex presidente della commissione antimafia nella scorsa legislatura "Ormai sono 39 anni dalla morte di Enrico Mattei. Appena ricostituita, la nuova Commissione Parlamentare Antimafia si dovrebbe occupare del caso di Mauro De Mauro ed Enrico Mattei. Bisognerebbe fare un lavoro di indagine indipendente, come quello che è stato fatto sul caso Impastato. Non è da escludere il ruolo della mafia nella morte di Mattei. Andrebbero indagati e fatti emergere gli interessi allora in gioco nei rapporti mafia-politica e mafia-economia, sia in Italia che a livello internazionale".

30 ottobre - Con una lettera inviata al ministro degli Interni Claudio Scajola, il commissario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura Tano Grasso si dimette dall' incarico che ricopriva dal 15 agosto 1999. La decisione e' legata alla nomina, avvenuta nei giorni scorsi, del prefetto Rino Monaco a commissario straordinario antiracket, praticamente un "doppione", in sostituzione di Grasso che aveva ricoperto anche questa carica fino alla scadenza nel settembre scorso. "Debbo constatare - scrive Grasso nella lettera di dimissioni inviata stamane a Scajola da Capo d' Orlando, suo paese natale e culla del movimento antiracket - che la decisione adottata nella seduta del consiglio dei ministri del 18 ottobre di nominare commissario straordinario una persona diversa dal commissario ha costituito una grave delegittimazione del ruolo di questi, e cio' in una attivita' nella quale non e' consentito il minimo indebolimento, perche' sono in gioco la vita e la speranza delle vittime del racket e dell' usura". Secondo Tano Grasso, la nomina del commissario straordinario costituisce "una grave scorrettezza istituzionale ed anzi una vera e propria violenza alla forma ed allo spirito della legge 44 del 1999, che istituiva la figura ordinaria del commissario, dato che, di fatto, con questa nomina viene abolito il principio della stabilita', della durata e della autonomia dalle dinamiche politiche del commissario". "Preso atto di cio' - aggiunge Grasso - malgrado la mia volonta' di proseguire il lavoro iniziato, mi vedo costretto a rassegnare le dimissioni dall' incarico che ho avuto l' onore di ricoprire". Il commissario dimissionario conclude ringraziando i collaboratori del suo ufficio, quelli dell' ufficio di supporto, e i componenti del comitato antiracket per il sostegno offerto in questi anni. Tano Grasso era stato nominato commissario ordinario in base all' articolo 19 della legge 44 del '99 che fissa la durata dell' incarico in quattro anni, per assicurare autonomia e stabilita' ad un ruolo considerato istituzionale. "Forte di cio' - ricorda Grasso nella sua lettera -  avevo iniziato il mio lavoro i cui risultati sono oggettivamente riscontrabili anche con la sola lettura delle statistiche e nei confronti del quale nessun giudizio di merito di segno negativo e' stato formulato". Grasso si apprestebbe a dirigere la Fai, la federazione antiracket italiana che raggruppa le associazioni di commercianti e imprenditori ribelli alla legge del "pizzo".

30 ottobre - In una intervista a "Il fatto" di Enzo Biagi, su Raiuno, Tano Grasso spiega i motivi della sua decisione di dimettersi dall' incarico di commissario antiracket e antiusura. "Non potevo che dimettermi - ha detto Grasso - sono stato costretto a dimettermi. Io affronto un argomento delicato. La lotta al racket riguarda la vita e la speranza degli uomini. Essere indebolito significa non essere di aiuto a queste persone". Alla domanda se, dopo la nomina dell' ex prefetto Rino Monaco a commissario antiracket, non fosse possibile la coabitazione, Grasso risponde di no: "perche' c'e' una legge del Parlamento che ha superato la figura del commissario strordinario e che ha stabilito che il commissario non e' piu' ne' straordinario ne'di governo, ma e' una istituzione permanente della durata di quattro anni. Non si tratta di avvicendamento perche' il mio incarico scade nel 2003. Io ho dato tanto fastidio in questi anni, e sono fiero di aver dato tanto fastidio agli uomini del pizzo e di Cosa Nostra, cosi' come continuero' a darne nei mesi e negli anni che verranno". "Il peggior nemico e' la solitudine - continua Grasso - e' piu' facile di quanto si creda sconfiggere la mafia, se lo si vuole. Il trucco e' usare il cervello. La mafia usa le armi e tu usi la tua intelligenza. Devi capire che devi metterti insieme con tante altre persone. Perche'solo cosi' non puo' colpirti. Se c'e' uno che si espone, e quello e' stato Libero Grassi, allora lo si colpisce. Ma se si e' in tanti, e tu attivi la tua intelligenza, la mafia diventa un castello di sabbia. E' avvenuto, puo' avvenire". E a Biagi che gli chiede "ma lo Stato perche' vi molla ? O come vi molla ?", Tano Grasso risponde: "sicuramente male. In malo modo. Io mi auguro che la scelta su Tano Grasso non sia, e Tano Grasso fara' di tutto perche' non sia, la scelta nei confronti del mondo dell' associazionismo antiracket. L' antiracket senza le associazioni non ci sarebbe. I racket non e' possibile combatterli senza la denuncia degli operatori economici".

30 ottobre - Pina Maisano Grassi, vedova dell' imprenditore palermitano Libero Grassi ucciso dalla mafia per aver detto "no" al racket del pizzo di Cosa nostra, commenta le dimissioni di Grasso:"I ministri del governo non hanno intenzione di contrastare il fenomeno mafioso. Il prefetto che sostituira' Grasso non ha l' esperienza, la competenza e la conoscenza del suo predecessore. Grasso conosce singolarmente tutti i casi. Il governo sta facendo interessi privati e non quelli degli imprenditori e dei commercianti. Le denunce di estorsioni, grazie all' attivita' di Grasso erano aumentate. In molti vedevano in lui, un commerciante che aveva subito le intimidazioni del racket, un punto di riferimento. Non si capisce perche' una struttura che lavorava cosi' bene e che dava speranza sia stata decapitata. Ora la situazione mi pare estremamente grave".

31 ottobre - Una manifestazione nazionale "contro le mafie e contro la politica del governo Berlusconi" viene proposta dal Centro Impastato all' indomani delle dimissioni di Tano Grasso da commissario antiracket. "Con la nomina di un commissario straordinario antiracket - si legge in una nota - si e' voluto delegittimare Tano Grasso che giustamente ha presentato le sue dimissioni, ma il siluramento di Grasso e' solo l' ultimo di una serie di provvedimenti che dimostrano come il governo Berlusconi non vuole soltanto 'convivere con la mafia', ma sta attuando un preciso progetto di legalizzazione dell' illegalita'". Secondo il Centro Impastato "di fronte a una strategia cosi' chiara e cosi' pervicacemente perseguita, non basta qualche attestato di solidarieta' e qualche manifestazione di protesta". Il Centro Impastato conclude rivolgendo un appello "alle forze sindacali e alla forze politiche che vogliono condurre un' opposizione seria e conseguente perche' diano il loro contributo a una mobilitazione di massa che dia una risposta adeguata a una politica che favorisce le mafie, incentiva la corruzione e smantella le conquiste di questi anni, pagate con un altissimo prezzo di sangue".

3 novembre - ANSA:
Per mezzo dei carabinieri i corleonesi trattavano con lo Stato prima e dopo le stragi, Riina e' stato 'venduto' al Ros dagli uomini di Bernardo Provenzano, e i militari dell'Arma non entrarono nel suo covo di via Bernini, a Palermo, per paura di trovare tracce del 'papello', l'elenco di richieste oggetto della trattativa. In un verbale del 1998, ancora secretato, il pentito Giovanni Brusca racconta la sua verita' riaprendo il capitolo dei misteri del '92 legati ai contatti tra mafia e Stato ed accusando i carabinieri di avere avviato trattative segrete con i capimafia condensate nel 'papello' custodito, secondo Brusca, nella villa di Riina. Il verbale e' acquisito agli atti dell' inchiesta condotta dalla Procura di Palermo sui misteri del covo di Riina che si avvia verso l' archiviazione. Secondo la ricostruzione di Brusca "i carabinieri, nel periodo delle stragi, avevano gli strumenti per capire le nostre mosse. Infatti con loro stavamo portando avanti contemporaneamente due trattative con lo Stato: quella del papello e quella riconducibile ai miei rapporti con Bellini per cui i carabinieri sapevano benissimo quello che noi volevamo ottenere". La difesa dell'Arma, durante l'interrogatorio, e' sostenuta dalla procura, che mostra di non condividere questa tesi: "Non v'e' nulla di anormale - scrivono i pm - nel fatto che, dopo le stragi, qualche esponente delle istituzioni si attivasse, piu' o meno apertamente, per cercare di capire cosa stesse succedendo e per porre fine alla strategia sanguinaria di Riina". Ma Brusca replica: "Se fosse stata scoperta traccia del papello, sarebbe stata compromessa l' immagine dell' Arma". La prova, secondo Brusca, consisterebbe nel fatto che l'allora colonnello Mori, che pure ha rivelato di avere incontrato piu' volte Vito Ciancimino, l'ex sindaco di Palermo condannato per mafia, nel periodo delle stragi, ha parlato dei suoi contatti "solo dopo che ne avevo parlato io". Brusca rivelo' per primo di avere appreso di una trattativa tra Riina e personaggi delle istituzioni nel processo di Firenze. Pochi giorni dopo il generale Mori, in un'intervista ad un quotidiano, parlo' per la prima volta dei suoi incontri con Ciancimino. Ma davanti ai giudici, di Firenze e di Caltanissetta, l' ufficiale ha sempre negato di avere condotto una trattativa con i mafiosi. "Volevamo solo informazioni per catturare latitanti" ha detto. Ciancimino, secondo Brusca, sarebbe stato uomo di fiducia di Provenzano. "A mio avviso - dice Brusca - Ciancimino ha fatto sapere dei suoi contatti con i carabinieri a Provenzano il quale ne ha parlato con Riina. Quest' ultimo, al fine di dirigere personalmente la trattativa, ha incaricato Antonino Cina' (medico di fiducia del boss, ndr)". E per dimostrare che tra l' ex sindaco e Provenzano i rapporti erano davvero stretti Brusca racconta un episodio inedito: "Era stato Ciancimino a proporre a Provenzano di far trasferire Falcone a Roma per potere avere piu' possibilita' di ucciderlo, ma Riina si oppose".

4 novembre - ANSA:
Fu un confidente del maresciallo dei carabinieri Nino Lombardo, morto suicida in caserma, a mettere l'Arma sulle tracce di Riina. Un confidente, poi ucciso, imbeccato dagli uomini di Bernardo Provenzano. Mescolando fatti e deduzioni, nel verbale secretato del '98 e acquisito agli atti dell'inchiesta sui misteri del covo di via Bernini, Giovanni Brusca spiega come, secondo lui, Binu u ragioniere, che "fino al giorno dell'arresto di Riina non rivestiva alcuna carica in Cosa Nostra", consegno' 'la belva' di Corleone allo Stato diventando il nuovo capo della mafia. Un 'tradimento' raffinato inserito in un contesto di presunte 'relazioni pericolose' e inconfessabili tra il nuovo capo di Cosa Nostra, latitante ormai da 40 anni, e i carabinieri che, secondo Brusca, trattarono con la mafia durante la stagione delle stragi. 'Il giorno dell'arresto di Riina - racconta Brusca - Bagarella e io eravamo rimasti perplessi in quanto non era stata individuata la casa e non erano stati arrestati i Sansone e Vincenzo Di Marco (che assistevano il boss latitante, ndr) mentre sappiamo bene che Balduccio di Maggio era in condizione di spiegare chi erano queste persone, compreso Biondino". "Bagarella - prosegue Brusca - sospettava di Toto' Cancemi, persona che non vedeva di buon occhio; l'ipotesi pero' che sia io che lui prediligevamo era che la soffiata giusta fosse arrivata da Partinico e abbiamo subito pensato a Francesco Lojacono e Antonino Geraci (boss mafiosi, ndr), i quali avrebbero fatto arrivare l'informazione a Brugnano, e di conseguenza al maresciallo Lombardo". Brugnano era un sofisticatore di vino ucciso dieci giorni prima che Lombardo si suicidasse. "Sapevamo da tantissimo tempo che Brugnano era confidente del maresciallo - aggiunge Brusca - che non gli aveva mai impedito di portare a termine le sofisticazioni di vini. Ulteriori conferme ai nostri sospetti le abbiamo ricavate dal tenore della lettera scritta dal maresciallo prima di suicidarsi, il quale faceva riferimento proprio al contributo che egli aveva fornito per la cattura di Riina". Brusca offre anche una lettura nuova dei rapporti tra Riina e Provenzano, entrambi corleonesi, sostenendo che i due avevano spesso contrasti e che Lojacono era molto vicino a Bernardo Provenzano. Cosi', quando una volta Brusca dovette compiere un omicidio a Partinico chiese un incontro con Lojacono, reggente del mandamento, per avvertirlo. Il boss, pero', si rivolse a Provenzano, chiedendo di conoscere i motivi dell'incontro. Riina, racconta Brusca, si adiro' moltissimo: 'mi diede l' autorizzazione ad uccidere e mi disse seccato che quando sarebbe venuto il suo paesano (Provenzano, ndr) a chiedere spiegazioni glielo avrebbe fatto sapere lui come stavano le cose".

5 novembre - Gli attentati incendiari ai magazzini della Standa di Catania dei primi anni Novanta, ad opera delle cosche mafiose, e' l' argomento al centro dell' udienza del processo al senatore di Forza Italia Marcello Dell' Utri, accusato di concorso in associazione mafiosa, davanti ai giudici del tribunale di Palermo. Il collaboratore di giustizia Claudio Samperi Severino, affiliato alla famiglia catanese di Santapaola dal 1984 al 1993, ha ricordato che il boss Aldo Ercolano gli aveva ordinato di danneggiare i magazzini Standa di Catania, "per piegare Silvio Berlusconi e dargli una lezione". Il pentito pero' non ha saputo spiegare i motivi per i quali la cosca catanese aveva preso di mira la Standa. Samperi Severino ha detto che sotto queste vicende ci sarebbe stato qualcosa di "segreto" perche', ha sostenuto, "non si parlava mai di denaro, mentre per le altre estorsioni, come quella a Citta' mercato, era chiaro che gli attentati erano mirati ad ottenere il pagamento del pizzo". Il pentito ha comunque sottolineato che l'incendio che distrusse la Standa di via Etnea fu un incidente. "Le fiamme - ha spiegato Samperi - hanno avvolto tutto il magazzino provocando un grosso incendio che non era nelle nostre intenzioni". "Ercolano - ha aggiunto - dopo questo attentato ci disse di fermarci". Sollecitato dalle domande dell' avvocato Enrico Trantino, il pentito ha detto che "Berlusconi aveva fatto sapere che non avrebbe pagato, e non si sarebbe piegato ai ricatti della mafia". Per questo motivo si sarebbe creato un "braccio di ferro" fra i dirigenti della Standa ed i boss catanesi, "che non so - dice il collaboratore - come si e' concluso".

8 novembre - Il pg Anna Maria Leone, proseguendo la sua requisitoria nel processo di appello al senatore a vita Giulio Andreotti, dice che Andreotti non poteva non essere consapevole dello scambio di favori tra esponenti della sua corrente e l'organizzazione mafiosa. Il pm ha citato un abbraccio tra Andreotti e Pino Giammarinaro, deputato Dc della sua corrente, in occasione di una campagna elettorale all'inizio degli anni '90 nel Palasport di Trapani. "Quell'abbraccio - ha detto il pm - doveva dimostrare agli elettori che Giammarinaro era un uomo di fiducia di Andreotti, ma la sua cattiva reputazione era nota a tutta la Dc". Un altro esempio della consapevolezza di Andeeotti e' secondo il pm, il suo incontro a Mazara con il presunto boss Andrea Mangiaracina, allora ventitreenne, con il quale, secondo un rapporto di polizia, avrebbe avuto un colloquio privato: "Mangiaracina, probabilmente - ha sostenuto il pm - era portavoce di Riina". Il pm ha smentito anche l'impegno antimafia dell' ultimo governo Andreotti, che varo', nel 1990 e 1991, dure misure contro i boss. "Promotori di quelle iniziative - ha sostenuto Leone - furono Scotti e Martelli che agirono seguendo gli impulsi del giudice Falcone. Andreotti ebbe un atteggiamento di assoluta neutralita', rimase praticamente inerte. La requisitoria e' rinviata al 29 novembre per le richieste.

10 novembre - Dovra' essere fissato il processo d'appello a carico di Salvatore Riina per l' omicidio del giudice Antonino Saetta e del figlio Stefano, uccisi il 25 settembre 1988 sulla statale Caltanissetta-Agrigento. La posizione di Riina e' stata infatti stralciata dal dibattimento principale. Gli altri due imputati, Francesco Madonia di Palermo e Pietro Ribisi di Palma di Montechiaro, che avevano chiesto di essere giudicati con il rito abbreviato, hanno avuto confermato l' ergastolo dalla Corte d' assise d' appello di Caltanissetta. Inizialmente l'istanza per il rito abbreviato era stata presentata da tutti e tre gli imputati, ma l' accusa aveva ritenuto incostituzionale la richiesta. La Corte ha cosi' rinviato la decisione alla Cassazione che a sua volta ha rimandato gli atti alla Corte d' appello di Caltanissetta. Nelle more Riina ha revocato l' istanza chiedendo di essere processato con il rito ordinario, mentre Madonia e Ribisi hanno reiterato la loro richiesta. Con la sentenza di primo grado emessa il 5 agosto del 1998 la Corte d' assise condanno' all' ergastolo Riina e Madonia, in quanto ritenuti mandanti dell' esecuzione del magistrato di Canicatti', e Ribisi, accusato di essere uno degli esecutori materiali. A compiere l'agguato sarebbero stati anche Michele Montagna, di Delia (Caltanissetta), e Nicola Brancato di Palma di Montechiaro (Agrigento), entrambi poi uccisi. Il gruppo di killer, invece, sarebbe stato coordinato da Giuseppe Di Caro, ritenuto uno dei capi di Cosa nostra a Canicatti', anch' egli ucciso alcuni anni fa.

12 novembre - ANSA:
"Sono pronto a fare rivelazioni clamorose": l' annuncio viene dall' ex  collaboratore di giustizia Balduccio Di Maggio, imputato di omicidio davanti ai giudici della prima sezione della corte d' assise di Palermo. Di Maggio e' accusato di avere organizzato una vera e propria "guerra" contro il clan Brusca mentre era sotto protezione. L' ex pentito, teste chiave del processo Andreotti, doveva essere sentito oggi in video conferenza, ma non si e' presentato e ha fatto sapere, attraverso il suo legale, che rispondera' in aula alle domande dei giudici nella prossima udienza, fissata per lunedi'. Oltre a Di Maggio sono imputati cinque collaboratori di giustizia, coinvolti nella faida che segno' il clamoroso ritorno in armi del pentito che, per primo parlo' del presunto bacio tra Riina ed Andreotti. Alla sbarra Nicolo' Lazio, Michelangelo Camarda, Giuseppe Maniscalco, Domenico La Barbera, Giuseppe La Rosa. Coinvolti nell'indagine, condotta dai pm Franca Imbergamo e Salvo De Luca, anche Salvatore Genovese, boss emergente di San Giuseppe Jato,  Angelo Pirrone e Santino Di Matteo (accusato anche di associazione mafiosa). Secondo la ricostruzione degli investigatori, Balduccio Di Maggio, nonostante fosse un collaboratore tra i piu' accreditati per il contributo offerto alla cattura del superboss Toto' Riina, tra il '96 e il '97  torno' in Sicilia ordinando gli omicidi di Antonino Di Matteo, Giovanni Caffri' e Vincenzo Arato, personaggi vicini al boss rivale Giovanni Brusca. Nello scontro tra le cosche, esploso tra San Giuseppe Jato, Altofonte e San Cipirello, riuscirono a sfuggire alla morte Francesco Costanza e Salvatore Fascellaro, bersagli di falliti agguati.

12 novembre - La difesa del senatore Marcello Dell' Utri, di Fi, imputato davanti al tribunale di Palermo di concorso esterno in associazione mafiosa si oppone alla richiesta dei pm di rinunciare ad ascoltare 93 testimoni dell' accusa. Il legale di Dell' Utri, Giuseppe Di Peri, ha sostenuto che si tratta di testi che potrebbero essere utili anche alla difesa per "provare l' innocenza dell' imputato". I tempi del processo sono dunque destinati ad allungarsi. Tra i testi vi sono alcuni collaboratori di giustizia. Il dibattimento e' stato rinviato dal presidente della seconda sezione Leonardo Guarnotta a lunedi' 19 per stabilire il calendario delle audizioni dei testimoni.

13 novembre - La prima sezione del tribunale di Palermo, presieduta da Silvana Saguto, condanna a ventisei anni di reclusione per tentativo di omicidio, traffico di stupefacenti ed armi il boss di Corleone Leoluca Bagarella. Il pm Laura Vaccaro aveva chiesto 19 anni. Vittima del fallito agguato, messo a segno nel giugno del 1992 nella borgata palermitana di Boccadifalco e per cui e' stato processato separatamente anche l'ex boss Giovanni Brusca, fu Roberto Pitarresi, tra gli ultimi esponenti di una famiglia di Casteldaccia decimata nel corso della guerra di mafia del 1982. Per il tentativo di omicidio i giudici della corte d' appello di Palermo avevano condannato Brusca a 12 anni di carcere. Il traffico di armi, invece, era stato scoperto nel 1996 dagli uomini della Dia. Nelle campagne di San Giuseppe Jato, in contrada Giambascio, furono trovati un  bazooka, lanciarazzi, fucili mitragliatori e pistole.

13 novembre - ANSA:
La sola frequentazione di Bruno Contrada con i boss Rosario Riccobono e Stefano Bontade, secondo i giudici della corte d' appello che hanno assolto l' ex funzionario del Sisde, non proverebbe l'accusa di concorso in associazione mafiosa per la quale e' stato condannato in primo grado a 10 anni di reclusione. Per i giudici di appello il comportamento di Contrada 'mediante la sola frequentazione' con i boss mafiosi Riccobono e Bontate, "senza il corredo di ulteriori manifestazioni significative o indizianti - scrive l' estensore della motivazione della sentenza di assoluzione - della sua volonta' di prestare sostegno all'associazione criminosa cui essa appartenevano" non costituisce elemento di prova. Anche se l' ex funzionario di polizia, aggiungono i giudici, avesse favorito Cosa nostra e per cui "si sarebbe potuto configurare il delitto di favoreggiamento personale", questo reato, sottolineano i magistrati, adesso e' prescritto. Arrestato il 24 dicembre 1992 perche' accusato di avere favorito i boss di Cosa nostra, Contrada e' stato condannato il 5 aprile del 1996 a dieci anni di carcere. Nella sentenza i giudici sostengono che alcuni pentiti che hanno accusato il funzionario di polizia potevano essere portatori di 'sindrome rivendicatoria'. Le accuse dei collaboranti contro Contrada "difettano in linea di massima - scrivono i giudici nella sentenza - della necessaria specificita, riducendosi a mere affermazioni basate su apprezzamenti personali o considerazioni soggettive, mentre le circostanze esaminate dal collegio e considerate come elementi di riscontro si rivelano, sempre per la loro genericita' o ininfluenza, prive di valore probatorio". La corte definisce 'non accettabili le generiche espressioni di Tommaso Buscetta, Salvatore Cancemi e Rosario Spatola'. Per i giudici di appello, inoltre, quello investigativo e' un impegno border-line, che puo' condurre l'investigatore, persino, a commettere reati. 'L'attivita' dei poliziotti - scrivono i giudici - notoriamente comporta la frequentazione e il rapporto con elementi della malavita, da essi contattati per assumere informazioni, magari retribuendoli non mediante elargizioni in denaro ma attraverso sorte di compensazioni implicanti un "non facere" oggettivamente illecito dei funzionari (in definitiva concretatesi nel "chiudere gli occhi" al cospetto di talune malefatte pregresse o attuali dei delatori)". "Inoltre la stessa attivita' investigativa, com'e' risaputo - proseguono i giudici - non di rado si connota per la necessita' di assumere atteggiamenti che normalmente sembrerebbero anomali o addirittura sospetti: si pensi ai travestimenti, agli appostamenti, ai colloqui informali o addirittura alle infiltrazioni in compagini criminali, spinte sino alla consumazione di reati o al concorso nella commissione di essi".

14 novembre - Il sostituto procuratore generale di Caltanissetta, Dolcino Favi, chiede 14 ergastoli nel processo d' appello denominato 'Borsellino bis'. Oltre a chiedere la conferma delle condanne gia' inflitte in primo grado a sette imputati, fra i quali Riina e Biondino, l' accusa ha sollecitato la condanna a vita anche per i 7 imputati assolti in primo grado dai giudici del tribunale. A conclusione della requisitoria, il pg ha chiesto la conferma della condanna all' ergastolo per Toto' Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino e Gaetano Scotto. I sette imputati che erano stati assolti e per i quali adesso e' stato chiesto il carcere a vita sono Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso, detto Franco, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Calascibetta e Natale Gambino. Per tutti e' stato proposto anche l' isolamento diurno per 18 mesi. L' assoluzione, ma solo per l' accusa di strage, e' stata chiesta per Nino Gambino. Il pg Favi rivolgendosi alla corte d' appello ha chiesto, in subordine alla conferma delle assoluzioni, di aumentare le pene per il reato associativo. La sentenza di primo grado del processo "Borsellino bis" nei confronti di 18 imputati fu emessa il 13 febbraio del 1999 dalla corte d' assise presieduta da Pietro Falcone. Furono sette le condanne a vita. Vennero inflitti dieci anni di reclusione per associazione mafiosa a Giuseppe Calascibetta, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso, Salvatore Vitale, mentre otto anni e sei mesi a Salvatore Tomaselli, otto a Antonino Gambino e Gaetano Murana. L' accusa ha rivalutato la figura del collaboratore di giustizia Tullio Cannella nella parte in cui parla dei mandati esterni alla strage e inoltre del dichiarante Calogero Pulci. Da rivalutare, secondo il pg, anche Vincenzo Scarantino, ritenuto attendibile da Favi, nonostante la sua ritrattazione, nei punti che sono stati riscontrati e provati. Ricostruendo le vicende mafiose dopo l' arresto di Riina ("era il notaio delle cosche"), il pg ha detto che si sarebbero formati in Cosa nostra tre schieramenti: i 'falchi', di cui facevano parte gli uomini di Bagarella che erano dell' idea di proseguire le stragi; le 'colombe', a cui avrebbero aderito gli uomini del boss Raffaele Ganci; e gli 'attendisti', formati da Pietro Aglieri e dai suoi affiliati i quali sarebbero stati a guardare senza prendere posizione. La funzione di moderatore e' stata ricoperta dal boss latitante Bernardo Provenzano che il pg definisce 'la stessa cosa di Riina'. L' udienza e' rinviata al 19 novembre con la requisitoria delle parti civili.

16 novembre - Il senatore della Margherita Giuseppe Ayala, ex pm dello "storico" maxiprocesso di Palermo, in un' intervista al' ultimo numero de "L'Eco di San Gabriele", il mensile del Santuario dei Padri Passionisti, che sorge a Teramo, ai piedi del Gran Sasso, dichiara:"Diciamocelo chiaramente: Provenzano si trova a Palermo". "Prendiamo atto - dice Ayala - che c'e' questa difficolta' a trovarlo, come c' e' stata anche per Riina che e' stato catturato, credo, oltre il ventesimo anno di latitanza. Pero' ripeto: Provenzano si trova ancora a Palermo, non puo' andarsene, altrimenti perderebbe ogni potere. Egli deve essere sul posto a seguire gli affari, a controllare i suoi uomini e a occuparsi della gestione dell' organizzazione". L' intervista prosegue affrontando il tema delle nuove strategie adottate in questi anni da Cosa nostra dopo la stagione del terrore e delle stragi. "Questa nuova strategia io l'avevo prevista nel '93 - dice Ayala - quando ci furono gli attentati a Roma, Firenze e Milano, e quando cercarono di uccidere Murizio Costanzo. In quel momento capii che questi avevano ormai superato ogni criterio e che stavano tornando 'sottotraccia'". "Stavano tentando - prosegue Ayala - di intimidire lo Stato per indurlo a trattare. Ma trattare cosa?... Alcuni rappresentanti dello Stato avevano fatto altre cose con la mafia...ma lasciamo perdere. E la nuova strategia, nel tempo, li sta pagando. Sono sempre piu' forti proprio perche' sono meno visibili, perche' riescono a mantenere i rapporti o intrecciarne di nuovi con chi gestisce il potere. Adesso, per esempio, in Sicilia arrivano dall' Europa un sacco di soldi. Voglio proprio vedere dove andranno a finire..." Sull' uccisione di Giovanni Falcone, infine, Ayala dice di aver sempre avuto "la sensazione che oltre alla mafia potesse esserci dietro qualcos' altro". "Io delle idee in testa ce le ho - conclude l' ex magistrato - ma sono una persona seria e responsabile e pertanto non posso enunciare quelle che sono solo delle sensazioni". Il procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Grasso, in un' intervista al Tg3 Sicilia, commenta: "Se Bernardo Provenzano e' a Palermo, saremmo grati ad Ayala se ci desse l' indirizzo".

16 novembre - La corte d' Assise di Palermo, presieduta da Claudio Dell' Acqua, condanna 73 dei 107 imputati accusati di omicidi e di associazione mafiosa. I giudici hanno inflitto numerosi ergastoli sulla base del cosidetto "teorema Buscetta", vale a dire la responsabilita' dei componenti della Commissione come mandanti di tutti gli omicidi della guerra di mafia degli anni '80. I giudici hanno inflitto 52 ergastoli per circa 100 omicidi di mafia, e numerose condanne a trent'anni di reclusione. Ai collaboratori di giustizia e' stata riconosciuta l'attenuante della collaborazione, e sono stati condannati a pene varianti da dieci anni (Francesco Paolo Anselmo, Salvatore Cucuzza e Giovambattista Ferrante) a 16 anni (Brusca, Cancemi e Mario Santo Di Matteo). La corte era entrata in camera di consiglio il 6 novembre. Il processo, iniziato il 7 ottobre 1996, e' durato circa 150 udienze. Tra i 52 condananti alla massima pena vi sono Riina, Provenzano, Aglieri, Biondino, Antonio Giuffre', Raffeale Ganci, Graviano, Madonia. Leoluca Bagarella e' stato condannato a trent'anni. Il processo ha preso in esame circa 100 omicidi dal 1973 al 1992. Per Cosa Nostra e' una condanna record: e' la prima volta che una corte di assise infligge a Palermo 52 ergastoli a boss e gregari. E il colpo piu' duro alla mafia questa volta e' stato inflitto grazie alle richieste dell'accusa sostenuta da due donne, i pubblici ministeri Olga Capasso e Marzia Sabella. "Nonostante la diffidenza creata sul contributo dei collaboratori - dicono le due pm - questa sentenza dimostra che lo strumento delle dichiarazioni dei pentiti e' correttamente utilizzato e puo' portare a infliggere ergastoli e dimostrare la colpevolezza degli imputati. I giudici hanno separato i delitti commissionati dalla Cupola da quelli deliberati all'interno di una stessa famiglia, come l'uccisione di Gaetano Carollo o di Piddu Panno, per i quali la commissione non ha responsabilita". Secondo le due pm 'il teorema Buscetta ha retto e lo dimostrano le condanne anche per i boss che non erano presenti alla riunione in cui si deliberavano gli omicidi'.

19 novembre – ANSA:
Una lettera anonima in cui venivano rivolte minacce alla moglie ed al figlio di Balduccio Di Maggio, sarebbe stata mostrata nei mesi scorsi dall'ex pentito al procuratore di Palermo il quale, secondo l'ex boss, avrebbe detto che si trattava di minacce scritte da polizia o carabinieri 'che non sopportavano la sua presenza a Tarquinia'. Di Maggio avrebbe mostrato la lettere al magistrato, di cui non ricordava il nome ed ha sottolineato che era “il procuratore arrivato dopo Caselli”, e cioe' Pietro Grasso. Dal suo ufficio a Palazzo di giustizia il procuratore replica con ironia a queste affermazioni. “Non avrei fatto un' affermazione del genere nemmeno sotto tortura - spiega Grasso - tanto che l' interrogatorio e' stato registrato alla presenza di un collega e di un verbalizzante”. “Non e' la prima volta - aggiunge Grasso - che Di Maggio fa delle promesse di rivelazioni che puntualmente non mantiene. La procura di Palermo non appena sara' in grado di leggere le trascrizioni delle sue dichiarazioni adottera' i provvedimenti conseguenti”. L'ex collaboratore la scorsa settimana aveva chiesto alla corte d'assise, davanti alla quale e' imputato con l'accusa di omicidio, di fare spontanee dichiarazioni, direttamente in aula. “Se sono queste le importanti rivelazioni - dice Grasso – che avrebbe dovuto fare e di presenza e non in video conferenza, forse lo Stato avrebbe fatto meglio a risparmiare le spese per il suo trasferimento a Palermo e la relativa protezione”. Adagiato su una barella e visibilmente sofferente, Balduccio Di Maggio ha detto di avere sempre collaborato lealmente con lo Stato, ma di essere stato poi abbandonato. “Ho iniziato a dare il mio contributo alla giustizia nel gennaio del '93 in occasione dell' arresto di Riina - ha detto il pentito -, ma non ho incassato alcuna taglia. Ho preso 500 milioni che erano una tranche di un miliardo e mezzo che mi erano stati deliberati per altri contributi di collaborazione e che dovevano servire per comprarmi una casa e vivere con la mia famiglia”. “Il restante miliardo - ha aggiunto Di Maggio - non mi e' stato consegnato”. Parlando dell' arresto del capo di Cosa nostra, Di Maggio ha detto che il suo contributo si e' limitato a “riconoscere in volto Riina”. Il boss di San Giuseppe Jato avrebbe, inoltre, tentato di trovare notizie sul nascondiglio dove veniva segregato il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Mario Santo, strangolato e poi sciolto nell' acido dopo un sequestro durato circa due anni. Di Maggio ha rivelato di essere tornato in Sicilia insieme con Di Matteo, mentre i due erano ancora sotto portezione, per avere notizie del bambino. L' ex collaboratore di giustizia ha inoltre rivendicato il contributo fornito per individuare il nascondiglio di Giovanni Brusca, arrestato nel maggio del 1996: Di Maggio informo' Nicola Lazio, in contatto con gli investigatori, che il latitante era stato visto insieme con un macellaio del paese, Santo Sottile.
“Nel 1993 ho fornito ai carabinieri una serie di infiltrati per agevolare la cattura di latitanti a San Giuseppe Jato. I pm sapevano, ma mi hanno sempre detto: noi non ti abbiamo detto nulla”. Nell'aula bunker del carcere di Pagliarelli Balduccio Di Maggio, il pentito che accuso' Andreotti di avere incontrato Riina, lancia nuove accuse a carabinieri e procura di Palermo, annunciate nei giorni scorsi: “I carabinieri mi chiesero un appoggio per lavorare sul territorio di San Giuseppe – ha esordito il pentito - io fornii i nomi di Francesco Reda, Nicola Lazio e Michelangelo Camarda. Le notizie che assumevano le riferivano agli ufficiali dei carabinieri Balsamo, Inzolia e Meli, del gruppo 2. Io tenevo i contatti telefonici dalla scuola allievi ufficiali di Roma”. “La procura sapeva tutto cio' - ha aggiunto Di Maggio - ma i pm mi hanno sempre detto: noi non ti abbiamo detto niente”. Il pentito ha chiesto di deporre nel processo nel quale e' imputato di associazione mafiosa ed omicidio relativo al suo ritorno in armi in Sicilia, per il quale venne arrestato nell'ottobre nel 1997. “Nell' agosto del '96 ho ucciso ad Altofonte Giovanni Caffri' perche' voleva assassinare gli uomini che avevo messo a disposizione di carabinieri e polizia per aiutarli a catturare Giovanni Brusca”. E' la confessione fatta in aula dell' ex pentito Balduccio Di Maggio, sentito oggi nel processo in cui e' imputato di omicidio. Durante la sua deposizione, l' ex boss ha sottolineato che ha sempre “agito in favore dello Stato”. Ha quindi ricordato che prima della cattura di Giovanni Brusca e' tornato in Sicilia, mentre era ancora sotto protezione, “per mettere a segno danneggiamenti in modo da far uscire allo scoperto il boss latitante e consentirne il suo arresto”. E per portare gli investigatori sulle tracce di Brusca, Di Maggio dice di aver dato il suo assenso a Nicola Lazio, suo uomo di fiducia, per collaborare con la polizia che ha poi arrestato il boss. “Con la polizia - ha detto Di Maggio - la collaborazione ha funzionato bene, tramite le informazioni di Lazio hanno eseguito arresti. Non e' andata cosi', invece, con i carabinieri i quali dicevano che sarebbero intervenuti per bloccare mafiosi, ma poi non lo facevano”.

23 novembre – Giovanni Riina, 25 anni, figlio del boss Toto' Riina, e' condannato all'ergastolo dai giudici della terza sezione della corte d' assise di Palermo, per quattro omicidi. I giudici hanno letto il dispositivo di sentenza nell' aula bunker del carcere di Pagliarelli dopo circa 24 ore di camera di consiglio. Giovanni Riina era presente in aula. I giudici hanno condannato all' ergastolo anche il boss di Partinico Vito Vitale, mentre hanno inflitto trent'anni di reclusione a Francesco Di Piazza; vent' anni ad Antonino Mangano e Francesco La Rosa; 12 anni e 8 mesi ai pentiti Giuseppe Monticciolo e Giovanni Brusca, che hanno usufruito delle attenuanti previste dalla legge per i collaboratori di giustizia; 12 anni a Vincenzo Chiodo e 10 anni a Enzo Salvatore Brusca. Per uno dei cinque omicidi di cui trattava il processo sono stati infine assolti gli imputati Francesco La Rosa e Giuseppe Lo Bianco. Alla lettura della sentenza hanno assistito anche le parti civili, rappresentate dal sindaco di Corleone, Giuseppe Cipriani e da Caterina Somellini, madre di Giuseppe e Giovanna Giammona, assassinati nel '95. La Corte ha condannato gli imputati al pagamento di una provvisionale di 150 milioni in favore del Comune di Corleone e di 300 milioni in favore di Caterina Somellini.

29 novembre - La sentenza della corte d' assise di Palermo, presieduta da Giuseppe Nobile, condanna all’ ergastolo Salvatore Biondino, Antonino Troia e Giovanni Battaglia per l' omicidio dell' ex agente del Sisde Emanuele Piazza, assassinato nel 1990 con il metodo della lupara bianca. I giudici hanno inoltre condannato a 30 anni di reclusione Antonino Erasmo Troia, Simone Scalici, Salvatore Biondo "Il lungo" di 46 anni,  e Salvatore Biondo "il corto", di 45; altri 12 anni sono stati inflitti ai pentiti Giovambattista Ferrante e Francesco Paolo Onorato, ai quali sono state riconosciute le attenuanti previste per i collaboratori. Sono stati infine assolti per non aver commesso il fatto Salvatore Graziano e Vincenzo Troia. La Corte ha condannato gli imputati anche risarcimento del danno nei confronti delle parti civili rappresentate dai familiari di Piazza (con una provvisionale di 500 milioni) e dalla Provincia (50 milioni). Secondo la pubblica accusa sostenuta in aula dai pm Mino Di Matteo e Antonio Ingroia alla base del delitto, ordinato ed eseguito dalla famiglia mafiosa di San Lorenzo, ci sarebbe stata l' attivita' di 'intelligence' del giovane agente che operava per i servizi alla ricerca di latitanti di mafia. Il Pm Nino Di Matteo, che aveva sollecitato i tre ergastoli e la condanna a 30 anni per tutti gli imputati, tranne i collaboratori di giustizia, ha osservato:”L' impianto accusatorio ha retto. Nel dibattimento sono emersi chiaramente contrasti nelle testimonianze tra funzionari e agenti di polizia. Le indagini proseguono per capire se qualcuno e' stato reticente o ha mentito e perche' lo abbia fatto. Resta il fatto che la sentenza finalmente riconosce che Emanuele Piazza fu ucciso da Cosa Nostra per l' attivita' che svolgeva per conto dei servizi". Il fratello di Piazza, Andrea, avvocato, che ha sostenuto in aula la difesa di parte civile insieme al padre, ha affermato: "Giustizia e' fatta. E' stata riabilitata la memoria di Emanuele, che molti colleghi hanno cercato di emarginare". Il legale ha aggiunto che "i collaboratori di giustizia sono un male necessario, ma solo grazie a loro e' possibile svelare i retroscena della realta' mafiosa". Il padre dell' ex agente del Sisde, Giustino Piazza, che alla lettura della sentenza e' scoppiato in lacrime, ha detto che mandera' copia della sua arringa agli imputati "nella speranza che si pentano per male che hanno fatto alla mia famiglia" e ha annunciato che destinera' il risarcimento che gli verra' assegnato in sede civile al centro socio culturale intestato al figlio, che si occupa di interventi nei quartieri "a rischio" di Palermo. Giustino Piazza parla anche di "Un ordine di scuderia, una congiura del silenzio" per indurre colleghi e superiori di Emanuele Piazza a non parlare dei rapporti che il giovane aveva con il Sisde. "Non posso dimenticare - ha detto - le parole di un magistrato che, subito dopo la scomparsa di Emanuele, mi racconto' di avere sentito un superiore di mio figlio negare di averlo mai conosciuto, nonostante giorni prima fosse stato lui stesso a presentarlo al giudice. Questo e' solo un esempio del clima di reticenza che ha circondato l' omicidio di Emanuele". "Dopo la scomparsa di mio figlio - ha continuato Giustino Piazza - diversi superiori del ragazzo ci chiesero di non parlare della vicenda. Chiunque ha provato a fare luce su quanto era accaduto si e' scontrato contro un muoro di gomma". Il padre dell' ex agente ha parlato anche delle responsabilita' dei superiori di Emanuele che "lo mandarono allo sbaraglio alla ricerca dei latitanti senza mai preoccuparsi della sua incolumita’". Emanuele Piazza, 29 anni, ex agente di polizia, scomparve nel 1990 dal suo villino nella borgata marinara di Sferracavallo, con il suo cane da guardia rottweiler. I familiari rivelarono che il giovane svolgeva servizio, sotto copertura, nella ricerca dei latitanti mafiosi per conto del Sisde. In un primo momento i servizi smentirono qualsiasi rapporto con Piazza; successivamente ammisero di essersi serviti della sua collaborazione.

29 novembre – Al processo d' appello a Giulio Andreotti davanti alla prima sezione penale della Corte d' appello di Palermo, le vicende relative al salvataggio della Banca Privata Italiana di Michele Sindona; i rapporti del finanziere siciliano con Andreotti, e l' uccisione del commissario liquidatore Giorgio Ambrosoli sono i temi al centro della requisitoria del sostituto procuratore generale di Palermo Anna Maria Leone. Riprendendo la tesi sostenuta in primo grado dalla Procura di Palermo, il Pg ha ribadito che "Sindona esercitava pressioni ricattatorie nei confronti di Andreotti". In particolare il Pg ha parlato di presunte pressioni che sarebbero state esercitate da Andreotti, anche attraverso uomini del boss Stefano Bontade, sull' avvocato Giorgio Ambrosoli, incaricato di liquidare la Banca privata italiana di Sindona, per salvare il finanziere di Patti dal crack. Il boss di Santa Maria del Gesu', secondo l' accusa, aveva interesse a salvare le banche di Sindona perche' quest' ultimo avrebbe riciclato il denaro di Cosa Nostra. Il sostituto procuratore generale ha citato anche un altro episodio che dimostrerebbe l' esistenza di rapporti tra l' ex presidente del consiglio e Bontade, che secondo il pentito Francesco Marino Mannoia si sarebbero anche incontrati in due occasioni. La vicenda riguarda un intervento che sarebbe stato esercitato dal capomafia, su richiesta di Andreotti, nei confronti del boss della 'ndrangheta Girolamo Piromalli finalizzato a far cessare l' estorsione ai danni del petroliere laziale Bruno Nardini, amico del senatore. La requisitoria proseguira' il 13 dicembre quando il Pg dovrebbe pronunciare la sua richiesta. Il senatore Giulio Andreotti, ad una domanda dei giornalisti a proposito della requisitoria, risponde:"I procuratori devono ripetere quello che hanno detto i colleghi di primo grado. Senno' che ci stanno a fare?".

29 novembre – ANSA:
"Ero a conoscenza dei rapporti tra Carmelo Canale e Giuseppe Giammarinaro. Sapevo che era stato proprio quest' ultimo a fare avere a Canale i soldi per la costruzione della cappella in cui venne sepolta sua figlia". Lo ha detto, deponendo al processo all' ufficiale dell' Arma accusato di concorso in associazione mafiosa e corruzione, Gabriele Salvo, titolare di un laboratorio di analisi a Mazara del Vallo. La testimonianza smentisce quanto aveva dichiarato pochi minuti prima l' imputato, nel corso di lunghe dichiarazioni spontanee. "Non ho mai frequentato Giammarinaro", aveva detto ai giudici della seconda sezione del tribunale l' ufficiale che aveva anche ricordato un episodio specifico. Dopo la morte della figlia l' ex politico democristiano, assolto dall' accusa di associazione mafiosa ma sottoposto alla sorveglianza speciale, sottoposto alla misura della sorveglianza speciale sarebbe andato a casa di Canale. "Mi rifiutai di riceverlo - ha detto ai giudici l' imputato - e successivamente gli scrissi  per lamentarmi della sua visita che ritenevo inopportuna dal momento che io stesso avevo indagato su di lui".

29 novembre – Al processo d' appello a Giulio Andreotti davanti alla prima sezione penale della Corte d' appello di Palermo, le vicende relative al salvataggio della Banca Privata Italiana di Michele Sindona; i rapporti del finanziere siciliano con Andreotti, e l' uccisione del commissario liquidatore Giorgio Ambrosoli sono i temi al centro della requisitoria del sostituto procuratore generale di Palermo Anna Maria Leone. Riprendendo la tesi sostenuta in primo grado dalla Procura di Palermo, il Pg ha ribadito che "Sindona esercitava pressioni ricattatorie nei confronti di Andreotti". In particolare il Pg ha parlato di presunte pressioni che sarebbero state esercitate da Andreotti, anche attraverso uomini del boss Stefano Bontade, sull' avvocato Giorgio Ambrosoli, incaricato di liquidare la Banca privata italiana di Sindona, per salvare il finanziere di Patti dal crack. Il boss di Santa Maria del Gesu', secondo l' accusa, aveva interesse a salvare le banche di Sindona perche' quest' ultimo avrebbe riciclato il denaro di Cosa Nostra. Il sostituto procuratore generale ha citato anche un altro episodio che dimostrerebbe l' esistenza di rapporti tra l' ex presidente del consiglio e Bontade, che secondo il pentito Francesco Marino Mannoia si sarebbero anche incontrati in due occasioni. La vicenda riguarda un intervento che sarebbe stato esercitato dal capomafia, su richiesta di Andreotti, nei confronti del boss della 'ndrangheta Girolamo Piromalli finalizzato a far cessare l' estorsione ai danni del petroliere laziale Bruno Nardini, amico del senatore. La requisitoria proseguira' il 13 dicembre quando il Pg dovrebbe pronunciare la sua richiesta. Il senatore Giulio Andreotti, ad una domanda dei giornalisti a proposito della requisitoria, risponde:"I procuratori devono ripetere quello che hanno detto i colleghi di primo grado. Senno' che ci stanno a fare?".

29 novembre – La commissione antimafia elegge presidente il senatore Roberto Centaro, di Forza Italia. Centaro e’ nato il 21 novembre 1953 a Siracusa, dove risiede, e' magistrato di Cassazione e gia’ nella precedente legislatura ha fatto parte dell'Antimafia. E’ stato eletto con 27 voti su 50. Vice presidenti sono stati eletti, con 27 voti ciascuno, l'on. Angela Napoli (An) e Enzo Ceremigna (Sdi). Segretari della commissione sono stati eletti invece Federico Bricolo (Lega Nord) con 27 voti e Donato Tommaso Veraldi (Ulivo) con 15 voti. L' Antimafia della XIV Legislatura lavorera', ha annunciato Centaro incontrando i giornalisti a san Macuto "perche' il parlamento adotti provvedimenti legislativi per la lotta alla criminalita' organizzata. Lavorera' perche' la ricerca dei tesori mafiosi prosegua; si adoperera' perche' vi sia chiarezza e trasparenza negli appalti. Ancora, lavorera' per liberare il territorio dai condizionamenti mafiosi". Centaro ha anche auspicato che i disegni di legge che nel prossimo periodo i vari gruppi parlamentari presenteranno in materia di antimafia "portino le firme di tutti componenti dell'Antimafia" cosi' da significare che "la lotta alla mafia e' di tutti e tutti devono fare la lotta alla mafia". Riferendosi poi alle passate polemiche di alcuni magistrati di Palermo, il presidente dell'Antimafia ha sottolineato che "la lotta alla mafia non puo' essere considerata morta solo perche' le tesi accusatorie sono cadute. La lotta alla mafia - ha sottolineato - deve proseguire con la stessa tensione e nessuno deve deporre le armi". Centaro, che intende proseguire nel solco della precedente Commissione antimafia per quanto riguarda il rapporto con le scuole e con gli Enti locali ha poi aggiunto che "cercheremo, per la sicurezza del paese, di far dialogare in maniera aperta magistrati e forze dell'ordine per le loro necessita’".
La Commissione Antimafia "Nasce tardi e sotto cattivi auspici anche per la presenza di alcuni personaggi inquietanti che spiegheremo piu' in la’". E' questo il primo commento del deputato di Rifondazione comunista Nichi Vendola, gia' vicepresidente dell'Antimafia nella scorsa legislatura. Vendola, secondo cui questa commissione "nasce non per lottare la mafia ma per far finire la lotta alla mafia", stigmatizza anche la posizione del centrosinistra e dice: vi e' una divisione del centrosinistra inspiegabile: aver lasciato fuori Riforndazione comunista in un momento cosi' delicato, soprattutto dopo la sconfitta in Sicilia e' veramente ignominevole. La scelta dell'esponente dell'Ulivo come vice presidente, non mettendo in discussione l'onorabilita' e la professionalita' del prescelto, e' stata effettuata col piu' classico del manuale Cencelli, senza tener conto delle situazioni effettive".

30 novembre - Il pubblico ministero Dino Cerami ha chiesto la riapertura dell'istruttoria dibattimentale nel nuovo processo di appello per l'omicidio dell'eurodeputato dc Salvo Lima, ucciso a Mondello il 12 marzo del 1992. Il processo si e' aperto davanti ad una nuova sezione di corte di assise di appello dopo che la Cassazione ha 'bocciato' la condanna dei componenti della cupola mafiosa. Il pg chiede di approfondire tre aspetti: i rapporti politici di Lima dal 1980 in poi, le responsabilita' della cupola e degli esecutori materiali. A confessare di avere ucciso Salvo Lima fu il boss Francesco Onorato, poi pentito, che disse di avere sparato dopo essere sceso da una moto condotta da Giuseppe D'Angelo, rimasto vittima della lupara bianca. Sull' istanza di riapertura dell' istruttoria dibattimentale, avanzata dalla procura generale, la Corte d' Assisse d' appello, presieduta da Alfredo Laurino, decidera' il prossimo 27 dicembre. Critiche le osservazioni dei difensori degli imputati. "Accogliere le richieste della pubblica accusa - ha detto Rosalba Di Gregorio, difensore del boss Pietro Aglieri - significherebbe andare ben oltre i margini aperti dalla sentenza di annullamento della Cassazione".

30 novembre – ANSA:
(di Giuseppe Lo Bianco) Dopo due gradi di giudizio, quando si attendeva solo un assestamento delle responsabilita' interne alla Cupola, la richiesta di un pm riapre un capitolo centrale della lotta alle cosche che sembrava avviato su un binario scontato di condanna per il vertice mafioso, sferrando un colpo a certezze acquisite e trasformando l'omicidio Lima in un vero e proprio 'giallo'. Chi ha ucciso Salvo Lima, una mattina di sole del 12 marzo 1992 su un marciapiede di Mondello, avviando la stagione mafiosa di attacco allo Stato, proseguita con le stragi di Capaci e di via D'Amelio?. Che sia stata la mafia non sembrano esserci dubbi, anche se il pm non si accontenta delle verita' fin qui narrate dai pentiti e chiede alla corte di assise di appello di approfondire tutti i rapporti politici di Lima dal 1980 in poi, accendendo i riflettori anche sulle reali responsabilita' interne alla Cupola, guidata, hanno detto numerosi pentiti, da un gruppo stretto di fedelissimi di Riina. Ma e' la richiesta del pm di approfondire la dinamica del delitto che rischia di aprire nuovi, e inediti, scenari. A confessare di avere sparato contro l'eurodeputato dc fu Francesco Onorato, gia' detenuto come mandante nella qualita' di capo della famiglia mafiosa di Partanna Mondello. Disse di avere seguito quella mattina l'auto dell'eurodeputato a bordo di una moto Enduro guidata da Giuseppe D'Angelo, di avere esploso i primi colpi contro il parabrezza dell'opel Vectra guidata dal professor Alfredo Li Vecchi, e di avere inseguito Lima sul marciapiede finendolo con altri colpi di pistola sparati da 2-3 metri. Nessuno mise in dubbio la sua versione, ritenuta credibile dai giudici di primo grado e di appello. Eppure tra i riscontri raccolti sul luogo dell'omicidio, alcuni potevano sollevare piu' d'una perplessita' sulla dinamica, cosi' come l'aveva raccontata Onorato. Un agente di polizia, Vincenzo Marchiano, testimone oculare del delitto disse che il killer era alto 1,75 al massimo 1,80, di corporatura esile. Onorato e' alto 1,91 e pesa 105 chili. Il killer pentito ricordava di indossare un casco bianco con visiera fume', ma tutti i testimoni (Marchiano, Li Vecchi, e Nando Liggio, anche quest' ultimo in auto con Lima) parlarono di un casco scuro (Marchiano disse con certezza:rosso). Onorato sostiene di avere sparato a Lima da circa 2-3 metri di distanza, ma la perizia medica colloca l'arma a non piu' di 60 cm dalla vittima. Armi che non e' stato possibile analizzare visto che il pentito ha dichiarato che sono state distrutte. Onorato, infine, disse di avere rivolto l'arma contro i due uomini che accompagnavano Lima e che, per la paura, si erano nascosti dietro un cassonetto dell'immondizia, ma di essere stato impietosito da un uomo con gli occhiali di avere desistito dal fare fuoco. Sia Li Vecchi che Liggio hanno pero' negato questo particolare. Elementi valorizzati dalla Cassazione che ha definito 'manchevole' l'attendibilita' intrinseca soggettiva di Onorato, e ha chiesto ai nuovi giudici di fare chiarezza. Con la sua richiesta 'a sorpresa', inserita in un contesto tracciato dalla Cassazione, il pm Dino Cerami, che fu sostituto procuratore a Palermo a meta' degli anni '80, chiede ora alla Corte uno sforzo investigativo piu' robusto al di la' delle parole dei pentiti. Per il ruolo e le responsabilita' di singoli componenti della Cupola cio' poteva apparire comprensibile: alla luce di alcune divergenze dei collaboratori, una rilettura del teorema Buscetta, la cui validita' e' stata confermata recentemente proprio fino al '92, e' apparsa al pm doverosa. Se non altro per capire se, dal '92 in poi, la stagione di attacco allo Stato sia stata gestita collegialmente dal vertice mafioso o se, invece, siano stati Riina e il suo stretto gruppo di fedelissimi a lanciare l'offensiva stragista rivelatosi, per i corleonesi, un tunnel senza uscita. Ma l'indagine sui rapporti politici, e quella sugli esecutori materiali, spingono piu' in la' la soglia delle domande: nel solco della Cassazione il pm, probabilmente, vuole capire se, accanto al movente finora riconosciuto, la reazione alla sentenza della Cassazione sul maxiprocesso che sanciva la prima, dura, sconfitta giudiziaria di Cosa Nostra, possano esservi state altre ragioni che hanno spinto i mafiosi ad eliminare Salvo Lima.

30 novembre - Su internet e' infatti possibile consultare un nuovo sito www.bernardoprovenzano.net, che racconta gli ultimi "misteri" che circondano l' imprendibile boss corleonese. I giornalisti Ernesto Oliva e Salvo Palazzolo, autori della prima biografia sulla "primula rossa" di Corleone ("L’ altra mafia", Rubbettino editore) documentano su un sito web le piu' recenti indagini sulla nuova mafia siciliana. Un miniportale, disegnato da Cesare Ausili, su cui si possono consultare gli atti di alcuni processi (deposizioni dei pentiti, requisitorie e sentenze) nonche' le misteriose lettere dalla latitanza e le perizie tecniche per decifrarle. In particolare viene in parte decrittato il codice utilizzato da Provenzano per continuare a comunicare con i familiari e impartire ordini. Il sito curato dai due giornalisti contiene anche una ricerca sulla mafia imprenditrice del sociologo Umberto Santino, presidente del centro Impastato e l’ inedita relazione della commissione parlamentare antimafia sulle assoluzioni per insufficienza di prove, desecretata dopo 36 anni nella scorsa legislatura. I due giornalisti palermitani Salvo Palazzolo, del quotidiano "La Repubblica", ed Ernesto Oliva, che lavora nel portale Inn, hanno gia' realizzato in passato un altro sito su Bernardo Provenzano, sfociato nella pubblicazione del libro sul boss. Ma questa volta, oltre ad aggiornare la vastissima documentazione raccolta con gli ultimi risultati delle inchieste e dei processi che coinvolgono Provenzano, Palazzolo e Oliva hanno voluto registrare anche il "dominio" con il nome del superlatitante. "Si tratta di un' operazione che ha un valore simbolico - spiegano - sopratutto in questo momento di calo di tensione sui temi della lotta alla mafia. Un invito alla societa' civile a riappropriarsi di tutti quegli spazi, fisici e virtuali, che sono stati e continuano a essere 'dominio' della cultura mafiosa".

4 dicembre – ANSA:
"Non parlo perche' oltraggerei la corte americana". Don Tano Badalamenti, il boss di Cinisi in carcere negli Usa per traffico di droga, ha rifiutato di sottoporsi ad interrogatorio davanti ai giudici della corte d' assise di Palermo che lo processano per l' omicidio del giovane militante di Democrazia Proletaria di Cinisi Peppino Impastato. Dal supercarcere di Fairton, nel New Jersey, in cui deve scontare 45 anni di reclusione, il capomafia che pure attraverso il suo legale aveva chiesto di essere esaminato dai giudici del processo Impastato, ha fatto sapere che non rispondera' alle domande del pm e delle parti civili. "Se dovessero chiedergli - ha spiegato il suo difensore, l' avvocato Paolo Gullo - se ha fatto parte di Cosa nostra, Badalamenti sarebbe costretto a dire la verita' e cioe' che con la mafia non ha nulla a che vedere, ma siccome per questo reato e' stato condannato dall' autorita' giudiziaria degli Usa, la risposta potrebbe costargli una condanna per oltraggio alla corte americana". Per il penalista la legge italiana non assicurerebbe il diritto di difesa al boss, costretto a partecipare alle udienze in videoconferenza dagli Stati Uniti. Una tesi sempre sostenuta nel corso del dibattimento, utilizzata oggi da Gullo per chiedere la dichiarazione di illegittimita' costituzionale della norma del codice di procedura penale sull'interrogatorio dell' imputato.  L' istanza, a cui si sono opposti sia il pm Franca Imbergamo che i difensori di parte civile, e' stata respinta dai giudici. Il processo e' stato rinviato al prossimo 15 gennaio per la requisitoria.

7 dicembre - Con due lettere (una indirizzata al segretario Ds Piero Fassino con la comunicazione dell' avvenuta remissione del mandato; l' altra spedita, sotto forma di istanza, al tribunale di Roma per ottenere il sequestro conservativo delle somme dovutegli) Armando Sorrentino, "storico" esponente del Pci-Pds, ex presidente provinciale del partito, accusa i dirigenti di essersi completamente disinteressati ad incassare la provvisionale liquidata al partito nel troncone principale del processo, conclusosi due anni fa con la condanna di cinque boss di Cosa nostra, riconosciuti come i mandanti dell' omicidio La Torre e rimette il mandato di legale di parte civile della Quercia a Palermo nel troncone ancora aperto del processo per l' uccisione dell' ex segretario siciliano del Pci Pio La Torre. Nella sua qualita' di legale di parte civile, Sorrentino ha avuto riconosciuto dai giudici del primo processo La Torre il pagamento delle spese: 230 milioni, trenta dei quali assegnatigli nominativamente. Per mesi, pero', il legale ha chiesto invano ai dirigenti dei Ds di presentare istanza per ottenere le somme in forza di una legge regionale. Scaduti i termini, Sorrentino ha provato a sollecitare l' accesso al fondo costituito presso il ministero degli Interni per il pagamento delle spese legali per le vittime di mafia. Anche questa sollecitazione, pero', e' caduta nel vuoto. La tesoreria del partito non ha mai risposto. Stanco dell' inutile attesa, Sorrentino ha nominato un proprio legale, l' avvocato Carlo D' Inzillo, e lo ha incaricato di presentare al tribunale di Roma l' istanza di sequestro delle somme. Il filone principale del processo La Torre, iniziato a Palermo nel 1992, si e' concluso in Cassazione nel 1999 con la condanna dei boss Michele Greco, Toto' Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca e Pippo Calo' riconosciuti colpevoli di essere i mandanti del delitto. Resta ancora aperto un troncone del processo: il giudizio a carico del boss Nene' Geraci, i cui atti sono depositati alla Corte Costituzionale in attesa di un parere sull' utilizzabilita' di alcune dichiarazioni dei pentiti.

7 dicembre - La Corte di Cassazione conferma le condanne all'ergastolo per i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, boss della borgata di Brancaccio, accusati di avere ordinato l'uccisione di padre Pino Puglisi, il sacerdote assassinato a Palermo il 15 settembre 1993. La Suprema Corte ha confermato la condanna a 16 anni per il killer pentito Salvatore Grigoli, che ha confessato di avere sparato al sacerdote. La sentenza era stata emessa il 19 febbraio dalla prima sezione della corte d' assise d' appello di Palermo.

8 dicembre - A Caltanissetta, prima udienza del processo in Corte d'assise d'appello, presieduta da Antonio Maffa, contro i presunti mandanti ed esecutori dell' uccisione del consigliere istruttore Rocco Chinnici, ucciso il 28 luglio del 1983 in via Pipitone Federico a Palermo. Nell' attentato morirono anche il maresciallo Mario Trapassi e l'appuntato Salvatore Bartolotta, entrambi componenti della sua scorta, e Stefano Li Sacchi, portiere dello stabile in cui viveva il giudice. Il processo di primo grado si è concluso il 16 febbraio 2000 con 15 ergastoli inflitti dalla Corte d'assise presieduta da Ottavio Sferlazza nei confronti di Antonino Madonia, Toto' Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Giuseppe Calo', Antonino Geraci, Matteo Motisi, Raffaele Ganci, Salvatore Buscemi, Giuseppe Farinella, tutti accusati di essere mandanti, e Stefano Ganci, Vincenzo Galatolo, Salvatore e Giuseppe Montalto, ritenuti esecutori. A 18 anni di reclusione vennero condannati i pentiti Giovanni Brusca, Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo e Giovan Battista Ferrante, anch'essi ritenuti esecutori. Nell' udienza e' letta la relazione introduttiva, quindi il collegio giudicante si ritira in camera di consiglio per disporre la sospensione dei termini di custodia cautelare che scadono per gran parte degli imputati il 14 gennaio. Il processo e' stato poi aggiornato al 12 dicembre ma probabilmente slittera' al 21 dicembre.

12 dicembre - La scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, avvenuta nel settembre del 1970 a Palermo, sulla quale gli investigatori non hanno ancora fatto luce, viene ricostruita nella puntata di 'Blu notte - misteri italiani', in onda su Rai Tre alle ore 23,30, condotta da Carlo Lucarelli. 'Blu notte' ripercorre gli ultimi mesi di vita di Mauro De Mauro, gli incontri che ebbe, e raccoglie inoltre le testimonianze del giornalista Lucio Galluzzo, dell' ex funzionario della squadra mobile di Palermo, Bruno Contrada che si occupo' delle prime indagini sul caso e del pm Antonio Ingroia, titolare dell' inchiesta che la procura di Palermo ha riaperto da un anno.La trasmissione si avvale dei contributo dei giornalisti Francesco La Licata, Guido Ruotolo e Lirio Abbate.

13 dicembre – ANSA:
A fine 1979 Giulio Andreotti avrebbe incontrato i boss Stefano Bontade e Nitto Santapaola. Quanto detto in proposito da pentiti e da un teste, gia' valutato criticamente dal tribunale, e' ritenuto "pienamente attendibile" dal sostituto pg, Daniela Giglio, che ha proseguito la requisitoria nel processo d' appello al senatore a vita. Gli "incontri" a Catania presi in esame dall' accusa si sarebbero svolti nell' estate del 1979. Quello con Santapaola e' stato ricostruito da Vito Di Maggio, barman dell' hotel Nettuno, il quale ha riferito di avere visto arrivare davanti all' albergo un' auto blu con Andreotti e il suo referente siciliano Salvo Lima attesi, a suo dire, dal dc catanese, Salvatore Urso. Di Maggio ha affermato di avere visto Santapaola avvicinarsi all' auto con Andreotti e scambiare alcune battute con Lima. L' altro presunto incontro, del quale hanno parlato i collaboratori della giustizia Francesco Marino Mannoia e Angelo Siino, sarebbe avvenuto in una tenuta di caccia del costruttore edile Carmelo Costanzo. Siino ha detto di avere assistito all' arrivo di "alcune auto di rappresentanza" e di avere riconosciuto Andreotti atteso da Bontade. Il senatore ha sempre negato quegli incontri che, secondo la sua difesa, oltretutto sarebbero stati "incompatibili" con gli impegni politici di Andreotti a quel tempo impegnato nella formazione di un nuovo governo. Il rapporto del senatore con Bontade sarebbe comunque confermato, sempre a giudizio del sostituto procuratore generale, dal fatto che sempre nel 1979 il boss con l' intervento di Pippo Calo', il "cassiere della mafia", avrebbe regalato a Giulio Andreotti un quadro del pittore Gino Rossi ("Panorama collinare") che lo "faceva impazzire". Cio' e' stato riferito per la prima volta da Marino Mannoia e indirettamente confermato dalla gallerista Angela Sassu chiamata da Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti, a valutare l' opera esposta nel negozio di un antiquario romano. Di quel quadro pero' non si trovano piu' tracce neppure nel catalogo generale di Rossi. E le testimonianze raccolte dall' accusa sono state gia' giudicate "contraddittorie" dal tribunale che ha assolto Andreotti due anni fa. L' accusa ritiene invece che la ricostruzione dell' episodio non presenti alcuna ombra e che riveli ancora una volta la disponibilita' di Andreotti a intrattenere rapporti con esponenti di Cosa nostra. La requisitoria proseguira' nell' udienza del 17 gennaio prossimo.

13 dicembre - La Corte d' Assise d' Appello di Reggio Calabria conferma la condanna di primo grado a carico di alcuni componenti la cupola mafiosa di Palermo accusati di essere i mandanti dell' omicidio del giudice Cesare Terranova e del sottufficiale di polizia Lenin Mancuso, assassinati a Palermo il 25 settembre 1979. La condanna all' ergastolo e' stata decisa per Salvatore Riina, 71 anni; Michele Greco, 77,; Antonino Geraci, 84, e Francesco Madonia, 67 anni. In primo grado, il 15 gennaio dello scorso anno, era stato condannato alla massima pena anche Giuseppe Calo'. Erano stati, invece assolti, per insufficienza di prove, Leoluca Bagarella, Giuseppe Farinella e Giuseppe Madonia. L' avv. Alessandro Scalfari, difensore degli imputati, si e' detto sorpreso per la sentenza emessa dai giudici d' appello e ha preannunciato ricorso per Cassazione.

15 dicembre - Nel cosiddetto processo Grande Oriente, Angelo Siino dice che "Nel '97 le forze dell' ordine fermarono ad un posto di blocco nei pressi di Casteldaccia Bernardo Provenzano, ma nessuno lo riconobbe ed il boss si allontano' indisturbato". Il pentito, salito sul banco dei testi per parlare dei rapporti tra Provenzano e la mafia di Bagheria, ha raccontato di avere saputo dal capomafia nisseno Lorenzo Vaccaro, mentre era agli arresti domiciliari, che Provenzano si nascondeva in contrada Traversa, vicino Casteldaccia. "Era una notizia che circolava in Cosa nostra - ha detto Siino - e di cui era a conoscenza anche Giovanni Brusca. Proprio Brusca la riferi' agli investigatori che organizzarono una serie di posti di blocco. Tempo dopo mi raccontarono che Provenzano era stato fermato mentre si trovava con un contadino a bordo di una 850. Sul bagagliaio tenevano delle balle di fieno. Le forze dell' ordine, pero', non lo riconobbero e lo lasciarono andare".

17 dicembre – Il vice capo vicario della polizia, Antonio Manganelli, depone al processo di Palermo in cui e’ imputato Marcello Dell' Utri, accusato di concorso in associazione mafiosa. Manganelli parla dell' attendibilita' di Tommaso Buscetta e di Francesco Marino Mannoia, sostenendo che Buscetta non aveva riferito tutto quello che sapeva su alcuni episodi accaduti a Milano. Rispondendo alle domande dei pm Antonio Ingroia e Nico Gozzo, il vice capo della polizia ha parlato del pentito Marino Mannoia ed ha sottolineato che era vicino al boss Stefano Bontade. La difesa ha poi chiesto a Manganelli di rispondere su una nota che lui aveva firmato quando si occupo', oltre vent' anni fa, di sequestri di persona. In quella occasione, Manganelli aveva individuato alcuni fornitori di false carte di identita' utilizzate da  sequestratori sardi. Gli stessi documenti, ha confermato in aula il vice capo della polizia, erano stati forniti anche a Filippo Alberto Rapisarda, che pero' non venne mai processato per questi fatti. Il funzionario ha poi ricordato che fra l' 82 e l'83, quando era sulle tracce di Rapisarda e lo individuo' a Parigi, l' imprenditore circolava con una carta di identita' intestata ad Alberto Dell' Utri, fratello dell' imputato. Manganelli ha infine ricordato che un inserviente del residence di Parigi in cui viveva Rapisarda, gli parlo' di un episodio accaduto nella stanza dell' imprenditore. Il testimone aveva visto armeggiare Rapisarda e un libanese, tale Roland, senza una gamba, attorno ad una borsa che cadendo a terra si apri' facendo fuoriuscire tante banconote. Il processo e' poi rinviato al 7 gennaio.

7 dicembre - Con due lettere (una indirizzata al segretario Ds Piero Fassino con la comunicazione dell' avvenuta remissione del mandato; l' altra spedita, sotto forma di istanza, al tribunale di Roma per ottenere il sequestro conservativo delle somme dovutegli) Armando Sorrentino, "storico" esponente del Pci-Pds, ex presidente provinciale del partito, accusa i dirigenti di essersi completamente disinteressati ad incassare la provvisionale liquidata al partito nel troncone principale del processo, conclusosi due anni fa con la condanna di cinque boss di Cosa nostra, riconosciuti come i mandanti dell' omicidio La Torre e rimette il mandato di legale di parte civile della Quercia a Palermo nel troncone ancora aperto del processo per l' uccisione dell' ex segretario siciliano del Pci Pio La Torre. Nella sua qualita' di legale di parte civile, Sorrentino ha avuto riconosciuto dai giudici del primo processo La Torre il pagamento delle spese: 230 milioni, trenta dei quali assegnatigli nominativamente. Per mesi, pero', il legale ha chiesto invano ai dirigenti dei Ds di presentare istanza per ottenere le somme in forza di una legge regionale. Scaduti i termini, Sorrentino ha provato a sollecitare l' accesso al fondo costituito presso il ministero degli Interni per il pagamento delle spese legali per le vittime di mafia. Anche questa sollecitazione, pero', e' caduta nel vuoto. La tesoreria del partito non ha mai risposto. Stanco dell' inutile attesa, Sorrentino ha nominato un proprio legale, l' avvocato Carlo D' Inzillo, e lo ha incaricato di presentare al tribunale di Roma l' istanza di sequestro delle somme. Il filone principale del processo La Torre, iniziato a Palermo nel 1992, si e' concluso in Cassazione nel 1999 con la condanna dei boss Michele Greco, Toto' Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca e Pippo Calo' riconosciuti colpevoli di essere i mandanti del delitto. Resta ancora aperto un troncone del processo: il giudizio a carico del boss Nene' Geraci, i cui atti sono depositati alla Corte Costituzionale in attesa di un parere sull' utilizzabilita' di alcune dichiarazioni dei pentiti.

7 dicembre - La Corte di Cassazione conferma le condanne all'ergastolo per i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, boss della borgata di Brancaccio, accusati di avere ordinato l'uccisione di padre Pino Puglisi, il sacerdote assassinato a Palermo il 15 settembre 1993. La Suprema Corte ha confermato la condanna a 16 anni per il killer pentito Salvatore Grigoli, che ha confessato di avere sparato al sacerdote. La sentenza era stata emessa il 19 febbraio dalla prima sezione della corte d' assise d' appello di Palermo.

8 dicembre - A Caltanissetta, prima udienza del processo in Corte d'assise d'appello, presieduta da Antonio Maffa, contro i presunti mandanti ed esecutori dell' uccisione del consigliere istruttore Rocco Chinnici, ucciso il 28 luglio del 1983 in via Pipitone Federico a Palermo. Nell' attentato morirono anche il maresciallo Mario Trapassi e l'appuntato Salvatore Bartolotta, entrambi componenti della sua scorta, e Stefano Li Sacchi, portiere dello stabile in cui viveva il giudice. Il processo di primo grado si è concluso il 16 febbraio 2000 con 15 ergastoli inflitti dalla Corte d'assise presieduta da Ottavio Sferlazza nei confronti di Antonino Madonia, Toto' Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Giuseppe Calo', Antonino Geraci, Matteo Motisi, Raffaele Ganci, Salvatore Buscemi, Giuseppe Farinella, tutti accusati di essere mandanti, e Stefano Ganci, Vincenzo Galatolo, Salvatore e Giuseppe Montalto, ritenuti esecutori. A 18 anni di reclusione vennero condannati i pentiti Giovanni Brusca, Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo e Giovan Battista Ferrante, anch'essi ritenuti esecutori. Nell' udienza e' letta la relazione introduttiva, quindi il collegio giudicante si ritira in camera di consiglio per disporre la sospensione dei termini di custodia cautelare che scadono per gran parte degli imputati il 14 gennaio. Il processo e' stato poi aggiornato al 12 dicembre ma probabilmente slittera' al 21 dicembre.

12 dicembre - La scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, avvenuta nel settembre del 1970 a Palermo, sulla quale gli investigatori non hanno ancora fatto luce, viene ricostruita nella puntata di 'Blu notte - misteri italiani', in onda su Rai Tre alle ore 23,30, condotta da Carlo Lucarelli. 'Blu notte' ripercorre gli ultimi mesi di vita di Mauro De Mauro, gli incontri che ebbe, e raccoglie inoltre le testimonianze del giornalista Lucio Galluzzo, dell' ex funzionario della squadra mobile di Palermo, Bruno Contrada che si occupo' delle prime indagini sul caso e del pm Antonio Ingroia, titolare dell' inchiesta che la procura di Palermo ha riaperto da un anno.La trasmissione si avvale dei contributo dei giornalisti Francesco La Licata, Guido Ruotolo e Lirio Abbate.

13 dicembre – ANSA:
A fine 1979 Giulio Andreotti avrebbe incontrato i boss Stefano Bontade e Nitto Santapaola. Quanto detto in proposito da pentiti e da un teste, gia' valutato criticamente dal tribunale, e' ritenuto "pienamente attendibile" dal sostituto pg, Daniela Giglio, che ha proseguito la requisitoria nel processo d' appello al senatore a vita. Gli "incontri" a Catania presi in esame dall' accusa si sarebbero svolti nell' estate del 1979. Quello con Santapaola e' stato ricostruito da Vito Di Maggio, barman dell' hotel Nettuno, il quale ha riferito di avere visto arrivare davanti all' albergo un' auto blu con Andreotti e il suo referente siciliano Salvo Lima attesi, a suo dire, dal dc catanese, Salvatore Urso. Di Maggio ha affermato di avere visto Santapaola avvicinarsi all' auto con Andreotti e scambiare alcune battute con Lima. L' altro presunto incontro, del quale hanno parlato i collaboratori della giustizia Francesco Marino Mannoia e Angelo Siino, sarebbe avvenuto in una tenuta di caccia del costruttore edile Carmelo Costanzo. Siino ha detto di avere assistito all' arrivo di "alcune auto di rappresentanza" e di avere riconosciuto Andreotti atteso da Bontade. Il senatore ha sempre negato quegli incontri che, secondo la sua difesa, oltretutto sarebbero stati "incompatibili" con gli impegni politici di Andreotti a quel tempo impegnato nella formazione di un nuovo governo. Il rapporto del senatore con Bontade sarebbe comunque confermato, sempre a giudizio del sostituto procuratore generale, dal fatto che sempre nel 1979 il boss con l' intervento di Pippo Calo', il "cassiere della mafia", avrebbe regalato a Giulio Andreotti un quadro del pittore Gino Rossi ("Panorama collinare") che lo "faceva impazzire". Cio' e' stato riferito per la prima volta da Marino Mannoia e indirettamente confermato dalla gallerista Angela Sassu chiamata da Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti, a valutare l' opera esposta nel negozio di un antiquario romano. Di quel quadro pero' non si trovano piu' tracce neppure nel catalogo generale di Rossi. E le testimonianze raccolte dall' accusa sono state gia' giudicate "contraddittorie" dal tribunale che ha assolto Andreotti due anni fa. L' accusa ritiene invece che la ricostruzione dell' episodio non presenti alcuna ombra e che riveli ancora una volta la disponibilita' di Andreotti a intrattenere rapporti con esponenti di Cosa nostra. La requisitoria proseguira' nell' udienza del 17 gennaio prossimo.

13 dicembre - La Corte d' Assise d' Appello di Reggio Calabria conferma la condanna di primo grado a carico di alcuni componenti la cupola mafiosa di Palermo accusati di essere i mandanti dell' omicidio del giudice Cesare Terranova e del sottufficiale di polizia Lenin Mancuso, assassinati a Palermo il 25 settembre 1979. La condanna all' ergastolo e' stata decisa per Salvatore Riina, 71 anni; Michele Greco, 77,; Antonino Geraci, 84, e Francesco Madonia, 67 anni. In primo grado, il 15 gennaio dello scorso anno, era stato condannato alla massima pena anche Giuseppe Calo'. Erano stati, invece assolti, per insufficienza di prove, Leoluca Bagarella, Giuseppe Farinella e Giuseppe Madonia. L' avv. Alessandro Scalfari, difensore degli imputati, si e' detto sorpreso per la sentenza emessa dai giudici d' appello e ha preannunciato ricorso per Cassazione.

15 dicembre - Nel cosiddetto processo Grande Oriente, Angelo Siino dice che "Nel '97 le forze dell' ordine fermarono ad un posto di blocco nei pressi di Casteldaccia Bernardo Provenzano, ma nessuno lo riconobbe ed il boss si allontano' indisturbato". Il pentito, salito sul banco dei testi per parlare dei rapporti tra Provenzano e la mafia di Bagheria, ha raccontato di avere saputo dal capomafia nisseno Lorenzo Vaccaro, mentre era agli arresti domiciliari, che Provenzano si nascondeva in contrada Traversa, vicino Casteldaccia. "Era una notizia che circolava in Cosa nostra - ha detto Siino - e di cui era a conoscenza anche Giovanni Brusca. Proprio Brusca la riferi' agli investigatori che organizzarono una serie di posti di blocco. Tempo dopo mi raccontarono che Provenzano era stato fermato mentre si trovava con un contadino a bordo di una 850. Sul bagagliaio tenevano delle balle di fieno. Le forze dell' ordine, pero', non lo riconobbero e lo lasciarono andare".

17 dicembre – Il vice capo vicario della polizia, Antonio Manganelli, depone al processo di Palermo in cui e’ imputato Marcello Dell' Utri, accusato di concorso in associazione mafiosa. Manganelli parla dell' attendibilita' di Tommaso Buscetta e di Francesco Marino Mannoia, sostenendo che Buscetta non aveva riferito tutto quello che sapeva su alcuni episodi accaduti a Milano. Rispondendo alle domande dei pm Antonio Ingroia e Nico Gozzo, il vice capo della polizia ha parlato del pentito Marino Mannoia ed ha sottolineato che era vicino al boss Stefano Bontade. La difesa ha poi chiesto a Manganelli di rispondere su una nota che lui aveva firmato quando si occupo', oltre vent' anni fa, di sequestri di persona. In quella occasione, Manganelli aveva individuato alcuni fornitori di false carte di identita' utilizzate da  sequestratori sardi. Gli stessi documenti, ha confermato in aula il vice capo della polizia, erano stati forniti anche a Filippo Alberto Rapisarda, che pero' non venne mai processato per questi fatti. Il funzionario ha poi ricordato che fra l' 82 e l'83, quando era sulle tracce di Rapisarda e lo individuo' a Parigi, l' imprenditore circolava con una carta di identita' intestata ad Alberto Dell' Utri, fratello dell' imputato. Manganelli ha infine ricordato che un inserviente del residence di Parigi in cui viveva Rapisarda, gli parlo' di un episodio accaduto nella stanza dell' imprenditore. Il testimone aveva visto armeggiare Rapisarda e un libanese, tale Roland, senza una gamba, attorno ad una borsa che cadendo a terra si apri' facendo fuoriuscire tante banconote. Il processo e' poi rinviato al 7 gennaio.

18 dicembre – ANSA:
Anche il Sisde in Sicilia potenzia la caccia al capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, latitante da 39 anni. Il nuovo piano disposto dal direttore Mario Mori intende rafforzare il centro operativo di Palermo, con uomini e mezzi, attivando un gruppo investigativo che attraverso il lavoro di intelligence, possa contribuire ad individuare boss latitanti mafiosi, in particolare Bernardo Provenzano, e membri di cellule terroristiche. E' una delle modifiche dell' organizzazione del Sisde in Sicilia dopo la nomina di Mori; sarebbe stata decisa, tra l'altro, la soppressione di tutti gli uffici nei capoluoghi di provincia, esclusi Palermo e Catania, che resterebbero con il preciso compito di vigilare sulla criminalita' mafiosa e sulle comunita' musulmane presenti nell' Isola. Alcuni militari del raggruppamento operativo speciale dei carabinieri da anni impegnati a Palermo nella ricerca del capo di Cosa nostra, avrebbero offerto al generale Mori, gia' comandante del Ros, la propria disponibilita' a lavorare nel servizio segreto.

19 dicembre – La puntata di «Blu notte misteri italiani», su Raitre, si occupa del “Caso Gioe”. Il 28 luglio 1993 il mafioso Antonino Gioe' detenuto a Rebibbia in isolamento, scrive poche righe in cui annuncia il suicidio: 'Io rappresento la fine di tutto'. Viene ritrovato impiccato alcune ore dopo. Gioe', legato ai corleonesi, era accusato di aver preparato la strage di Capaci, in cui perse la vita Giovanni Falcone.

19 dicembre - Il gup Vincenzina Massa condanna a nove anni e quattro mesi Antonino Cina', il medico di Toto' Riina, accusato di associazione mafiosa; in particolare di essere componente del 'direttorio' di Cosa nostra, la ristretta cupola mafiosa voluta da Bernardo Provenzano. Il processo si e' svolto con il rito abbreviato. Secondo l' accusa Cina' sarebbe stato protagonista anche della 'trattativa' fra Cosa nostra e lo Stato dopo la strage di Capaci, facendo da intermediario fra i boss mafiosi e uomini delle istituzioni. Agli atti del processo su Cina' figurano anche le dichiarazioni del collaboratore Giusto Di Natale, che ha rivelato la costituzione di una «nuova cupola» voluta da Provenzano («o visto l' eta' dei componenti - dice il pentito - sarebbe meglio parlare di senato»). Secondo il collaboratore, il «senato» sarebbe stato istituito dal boss corleonese ancora latitante, «per ristabilire l' ordine e le vecchie regole all' interno di Cosa nostra». «Queste persone - sostiene Di Natale – dovevano 'governare' Cosa nostra in generale, lasciando, invece, il governo del territorio ad alcuni soggetti».

20 dicembre – ANSA:
«Fui chiamato in Sicilia...Domenico Sica mi disse che aveva 45 miliardi a disposizione per dare la caccia ai latitanti... la polizia mi porto' qui». E' quanto ha affermato il pentito Totuccio Contorno, deponendo a Trapani nel processo per l'omicidio del capitano di lungo corso Paolo Ficalora. Ficalora era stato assassinato il 28 settembre del 1992 sul litorale di Castellammare del Golfo, proprio per aver ospitato in un suo villino Contorno, il picciotto di Santa Maria del Gesu', al quale i corleonesi l'avevano giurata. La nuova deposizione del pentito, riportata stamane dal Giornale di Sicilia, riaccende i riflettori sull'estate dei veleni, quella del 1989, quando il collaboratore, che tutti credevano al sicuro negli Usa, fu arrestato a sorpresa a San Nicola l'Arena, nei pressi di Palermo. Quell'estate, nel cosidetto «triangolo della morte», tra i comuni di Bagheria, Casteldaccia e Santa Flavia, furono commessi diciotto omicidi, ancora avvolti nel mistero. Contorno, di cui si disse che era tornato in Sicilia per vendicarsi, assieme al cugino Gaetano Grado degli odiatissimi corleonesi, ora afferma che fu Sica, all'epoca Alto commissario per la lotta alla mafia, a «invitarlo per dare la caccia ai latitanti», ma nega di aver commesso omicidi. Nel processo per l'uccisione di Ficalora e' imputato il trapanese Gioacchino Calabro', che secondo l'accusa avrebbe commesso il delitto assieme a Giovanni Brusca (gia' condannato a 12 anni con il rito abbreviato). Davanti alla Corte d'assise di Trapani, presieduta da Gaetano Trainito, ha testimoniato anche Grado, divenuto come il cugino un collaboratore di giustizia, che ha ammesso la paternita' di «alcuni» dei diciotto delitti commessi nell'89, proprio nei giorni precedenti l'arresto suo e di Contorno, ma ha escluso ogni partecipazione del cugino alle azioni criminose. Grado avrebbe forse svelato qualcosa di piu', ma e' stato fermato dal suo legale, l'avvocato Monica Genovese, e dal pm Gaetano Paci che hanno ricordato come sulla vicenda sia in corso un' indagine da parte della Direzione antimafia. I due collaboranti hanno confermato la tesi da sempre sostenuta dalla vedova Ficalora, secondo cui il capitano sarebbe stato totalmente estraneo ad ambienti criminali: «Il villino l' aveva affittato un mio amico - ha detto Contorno - che mi aveva presentato come suo cugino. Il proprietario non sapeva chi fossi». Contorno e Grado furono arrestati nel maggio di dodici anni fa a poche decine di metri l'uno dall'altro, ma Grado nega qualsiasi rapporto col parente. «Lui veniva ogni tanto a 'inquietarmi' (disturbarmi, ndr) - ha detto Grado - perche' aveva bisogno di soldi; non l' ho ucciso, sebbene fosse pentito, solo perche' era mio cugino». Sui misteri di quell'estate dei veleni, la procura di Palermo ha recentemente riaperto l'indagine, a suo tempo chiusa con una archiviazione, affidandola al pm Michele Prestipino.
 
 


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