Almanacco dei misteri d' Italia


P2
le notizie del 2001
18 gennaio - Comincia davanti alla quarta sezione penale del Tribunale di Milano il processo in cui Massimo De Carolis, l'ex presidente del Consiglio Comunale di Milano e attuale presidente della Commissione Stranieri, e' imputato di corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio nella vicenda dell'appalto del depuratore Milano Sud. De Carolis che, a differenza degli altri cinque imputati ha chiesto il giudizio immediato, e' accusato dai pm Gherardo Colombo e Ilda Boccassini di aver ricevuto 25 milioni - una parte dei 200 che gli sarebbero stati promessi - per favorire la Compagnie General des Eaux e altre sue collegate nelle "prequalifiche dell'appalto". Per l'accusa De Carolis avrebbe ricevuto il denaro da Alain Maetz, dipendente della Otv, una societa' specializzata nell' ingegneria e nella gestione degli impianti per il trattamento delle acque che, insieme alla Compagnie General e ad altre societa', fa capo ad un'unica holding. Maetz in cambio, nel settembre del '98, avrebbe ottenuto l'elenco delle imprese che avevano fatto domanda per partecipare alla gara, e una "continua assistenza". L'elenco doveva rimanere segreto. De Carolis si e' sempre difeso sostenendo la sua estraneita' a qualsiasi irregolarita' perche' non ebbe alcun ruolo nelle procedure d'appalto. L'accusa di corruzione riguarda anche Luigi Franconi, Ezio Cartotto e Luigi Sirna: avrebbero messo in contatto De Carolis e Maetz. Agostino Schiavio, il rappresentante di Passavant Italiana, e' invece imputato in violazione del segreto d'ufficio in concorso con Nicola Colicchi, rappresentante di Aerimpianti, e De Carolis. Il difensore di De Carolis, Francesco Isolabella, oggi ha chiesto la nullita' del capo di imputazione e di tutti gli atti precedenti alla sua formulazione: "E' stato violato il diritto di difesa - ha detto l'avv. Isolabella - in relazione agli interrogatori, alle intercettazioni, al deposito atti e alla richiesta di un'ulteriore istruttoria". A tale richiesta in sostanza si sono associate tutte le difese. I giudici del Tribunale scioglieranno la riserva il 6 febbraio, data della prossima udienza.

18 gennaio - Muore il generale di Corpo d' Armata Nino Lugaresi, che fu direttore del Sismi dal 1981 al 1984 e gia' comandante della Regione militare meridionale. Il gen. Lugaresi guido' il Sismi riformato dopo lo scandalo P2. Subentro' a Giuseppe Santovito e nel 1987 fu ascoltato come testimone al processo per la strage di Bologna in cui Licio Gelli, Francesco Pazienza e due ex alti ufficiali del Sismi furono condannati per il depistaggio delle indagini. I funerali del gen.Lugaresi, ravennate di origine, si svolgeranno il 20 gennaio a Ravenna.

20 gennaio - Il presidente della Commissione stranieri del Comune di Milano, Massimo De Carolis, dichiara di essere stato aggredito da due esponenti dei centri sociali che stavano manifestando all'esterno della tensostruttura dove si stanno svolgendo gli Stati Generali del Comune di Milano. “Appena sono uscito dalla macchina - ha detto De Carolis, consigliere comunale di Forza Italia - uno di questi si e' avvicinato definendomi 'bastardo fascista' e poi mi ha sputato in faccia. Subito dopo, un altro mi ha tirato due calci su una gamba. E' stata la polizia a tirarmi fuori da questa situazione e ad accompagnarmi dentro”. “Questi - ha commentato ironicamente De Carolis - sono i positivi fermenti giovanili tanto apprezzati dalla sinistra milanese”.

25 gennaio – Muore a Roma Gianfranco Piazzesi, 77 anni, giornalista. Era malato da tempo. Era nato a San Frediano, il 2 luglio del 1923, e aveva esordito nel quotidiano fiorentino “La Nazione” . Fu inviato speciale alla Stampa , poi nei primi anni Sessanta quando Alfio Russo passò dalla direzione della Nazione a quella del Corriere lo volle a Milano per affiancarlo alla pattuglia di giovani inviati, Enzo Bettiza, Alberto Cavallari, Piero Ottone. Si occupò soprattutto di cronaca politica, partecipò alle grandi inchieste sull'Italia, fece servizi all'estero. Quando Montanelli fondò il suo Giornale lo portò con sé come inviato e commentatore. Nel marzo del 1975 uscì da Rizzoli un libro di autore anonimo “Berlinguer e il professore”, primo esempio di romanzo fantapolitico in Italia. Un successo straordinario di vendita: oltre 400 mila copie, con traduzione in sei lingue. In un Paese dove i segreti hanno vita breve, la casa editrice seppe mantenere a lungo l'anonimato dell'autore, mentre si intrecciavano le ipotesi. Tanto che lo stesso Anonimo fece il bis con “I soldi in Paradiso”, protagonista Gianni Agnelli. Intanto Piazzesi si era dimesso dal Giornale, era tornato al Corriere . Solo nel febbraio del 1976 si decise a rivelare che l'Anonimo dei due libri era lui: aveva voluto fare uno scherzo a colleghi e lettori e, nell'ombra, si era goduto la celebrità. Chiese scusa, ovviamente affatto pentito della mascheratura. Alla fine del 1980 fu chiamato a dirigere La Nazione , nella sua Firenze, ma alcune inchieste sulla P2 gli costarono il posto nel novembre 1981 e torno’ a scrivere per “La Stampa” e “Il Corriere della Sera”. Nel 1983 Garzanti ha pubblicato un suo libro:”Gelli – la carriera di un eroe di questa Italia”.

26 gennaio – Il quotidiano “La Repubblica” pubblica con grande rilievo un servizio di Attilio Bolzoni e Francesco Viviano sull’ uccisione di Mauro De Mauro, che sarebbe legata non al caso Mattei, ma al legame della mafia con il principe Junio Valerio Borghese per il tentato colpo di Stato del 1970.
Il titolo del servizio e’:"De Mauro è stato ucciso perché sapeva del golpe - Il capomafia: "Lo sepellimmo alla foce dell'Oreto"
Scrive “La Repubblica”:“Dice il capomafia di Altofonte, Francesco Di Carlo: "E' qui, alla foce dell'Oreto, il cadavere di Mauro De Mauro. Io so chi lo ha ucciso, so perché è stato ucciso. Ora vi racconto...".  Così è in fondo a questa gola dove il fiume scende lentamente verso il mare di Palermo - si vedono le case popolari del villaggio di Santa Rosalia e più su le guglie della Cattedrale - che si chiuse la vita e oggi il mistero di Mauro De Mauro. Il suo cadavere è da qualche parte qui tra le alte felci e le cavità della roccia, gli antri e i cunicoli scavati dall'acqua, sepolto tra i piccoli massi trascinati dalla corrente, nascosto dentro la terra e la melma di quella che fu la Conca d'Oro. A tre chilometri dalle stanze gonfie di fumo de "L'Ora", il suo giornale in piazzale Ungheria. A sei chilometri dalla sua casa in via delle Magnolie. A due chilometri dalla strada dove poi ritrovarono la sua Bmw color blu notte. Trent'anni fa morì Mauro e aveva tra le mani lo scoop "che - diceva - avrebbe fatto tremare l'Italia" e che invece lo trascinò all'inferno. Scoop. Bisogna essere cronisti per conoscere il sapore aspro che ti dà anche soltanto la parola. Scoop. Mauro De Mauro era uno tosto, se si parla di notizie. Un paio di generazioni di cronisti in Sicilia e in Italia è cresciuta nella sua leggenda. Raccontano che, quando ancora i "pezzi" si dettavano al telefono e i giornalisti si dividevano in chi aveva dettato e chi non lo aveva ancora fatto, Mauro non lasciava chances ai concorrenti. Ora dovete immaginare Mauro De Mauro in quell'estate del 1970. Lo hanno confinato allo sport e il suo ultimo titolo a nove colonne era sul "libero" Alberto Malavasi, ingaggiato dal Palermo per 18 milioni di lire. In redazione c'era chi diceva: "Povero Mauro...". Mauro se la rideva tra sé e tirava diritto. Stava già lavorando da settimane sul suo scoop. Lo scoop era questo: i fascisti di Junio Valerio Borghese avrebbero tentato il colpo di Stato con l'aiuto di Cosa Nostra. La dannazione di notizie come queste è che hai bisogno di riscontri e di conferme e di dettagli. E, per averne, devi scoprirti. Devi fare domande in giro e sei consapevole che più domande fai, più è facile per chi ti ascolta conoscere che cosa hai già saputo e che cosa puoi già scrivere. Mauro sapeva dove cercare ciò di cui aveva bisogno. A quel tempo il Circolo della Stampa di Palermo era, più o meno, una bisca e gli "uomini d' onore" ci andavano a giocare a poker, eleganti come damerini. Mauro li avvicinò. Distrattamente buttò lì qualche domanda. Quelli avvertirono subito i loro capi. "C'è quel De Mauro che fa troppo domande sul 'fatto di Roma'". Mauro fu trascinato in una masseria a Santa Maria del Gesù. La borgata è appena dopo un antico monastero diroccato, trecentocinquanta metri dal fiume, viottoli polverosi, i confini degli orti segnati dai muretti di pietra viva, cortili, piccole piazze deserte, case basse che si confondono tra i mandarini. Lì, nel baglio di una tenuta ai piedi di monte Grifone, Mauro fu torturato e "interrogato". Lui sapeva, ma chi altro sapeva? Poi ci fu chi gli scivolò alle spalle e lo strangolò. Il corpo di Mauro fu seppellito lungo il letto del fiume, in fondo alla gola. La storia della morte di Mauro De Mauro, scomparso la sera del 16 settembre del 1970, è stata raccontata per la prima volta una settimana fa da un mafioso che lo aveva conosciuto, un mafioso che ha svelato i retroscena di quella clamorosa notizia annunciata dal "segugio" de "L'Ora" di Palermo. Mauro De Mauro sapeva del golpe, sapeva che cosa stava progettando in quei mesi il "principe nero" Borghese e, con lui, alcuni boss di Cosa Nostra. Le prime voci le aveva ascoltate negli ambienti militari e in quelli neofascisti, magari gliele aveva "soffiate" un suo compagno d' armi o un vecchio "camerata". Era un mondo, quello, che De Mauro conosceva di diritto e di rovescio. Era stato un repubblichino della Decima Mas, prima di venire a vivere in Sicilia nel 1946 con sua moglie Elda. "Fu ucciso perché aveva scoperto che Borghese e la mafia si erano alleati per il golpe... il giornalista si fece scappare qualcosa con uno dei tanti boss che allora frequentavano il Circolo della Stampa che era dentro il teatro Massimo", ha ricordato giovedì 18 gennaio ai procuratori palermitani Francesco Di Carlo, il padrino di Altofonte che è in qualche modo invischiato anche nella misteriosa morte del banchiere Roberto Calvi e che ora ha deciso di vuotare il sacco. Di Carlo ha fatto i nomi dei mandanti dell'uccisione di Mauro De Mauro. E anche quelli degli assassini. C'era anche Bernardo Provenzano quella sera in via delle Magnolie, il corleonese latitante dal 1963. Era una caldissima sera di settembre, era il sedici, lo scirocco soffiava a 65 l'ora. Mauro sbrigò il suo lavoro in redazione e, come sempre solo, lasciò il palazzo di vetro dell'Ora. Si fermò a un bar di via Pirandello, comprò due etti di caffè macinato, tre pacchetti di "nazionali" senza filtro e la solita bottiglia di bourbon. Sua figlia Franca - che si sarebbe dovuta sposare il mattino seguente - stava aprendo la porta di casa e lo vide vicino alla sua Bmw "parlare con due o tre uomini". Un paio di minuti dopo, via delle Magnolie era deserta. E nessuno - fino a sette giorni fa - ha saputo più nulla di lui. Con chi andò via? Chi lo uccise, e dove? Perché fu ucciso? Mauro De Mauro parlottava sotto casa con quegli uomini e poi la sua Bmw improvvisamente ripartì. Spiega Di Carlo nel suo verbale: "Si è sempre detto che fu rapito. Non fu rapito invece né prelevato con la forza. Non ce ne fu bisogno. De Mauro conosceva bene uno di quei tre uomini, era Emanuele D'Agostino, mafioso di Santa Maria del Gesù. Gli altri due erano Bernardo Provenzano e Stefano Giaconia". Forse Mauro non si insospettì più di tanto, quando i tre gli chiesero di seguirlo. Aveva lavorato duro, alle 7 del mattino in redazione, all'una al lido dell'hotel "La Torre" di Mondello per mangiar qualcosa, nel pomeriggio ancora in redazione. Valeva la pena di lavorare ancora per ore, per tutta la notte se necessario: quell'amico - Emanuele D'Agostino - gli prometteva il pezzo mancante della "sua" storia, del suo scoop. Mauro li fece salire sulla sua auto. Si diressero dal lato opposto della città. Scesero da via Sciuti, poi da via Terrasanta, forse a quel punto svoltarono in piazza Diodoro Siculo e abbandonarono la Bmw di Mauro in via Pietro D'Asaro. Su un'altra macchina puntarono verso i giardini di Santa Maria del Gesù, verso il regno di quello che era allora il più potente mafioso della Sicilia: Stefano Bontate. I ricordi di Francesco Di Carlo sono molto nitidi: "Quando Emanuele D'Agostino seppe al Circolo della Stampa che De Mauro era a conoscenza del golpe, raccontò tutto a Stefano Bontate che era il suo capo. Stefano avvertì gli altri boss della Commissione, tra cui Giuseppe Di Cristina di Riesi e Pippo Calderone di Catania. Tutti volarono subito a Roma insieme a uno che chiamavano "l'avvocato", non esercitava la professione ma era laureato... Andarono a Roma per parlare con il principe Borghese, con un certo Miceli (il generale Vito Miceli, capo del Sid, il Servizio informazioni difesa? ndr) che forse era un militare e forse con un certo Maletti (il generale Gianadelio Maletti, capo dell'ufficio "D" del Sid? ndr)...". Generali e mafiosi si incontrarono, parlarono per ore, cercarono di saperne di più su che cosa aveva scoperto Mauro De Mauro e convennero che era troppo pericoloso per troppi di loro tenere in circolazione "quello lì". A quel punto, era chiaro a tutti i presenti quale sarebbe sato il passo successivo dell'affare. Di Carlo svela ancora chi decise di uccidere il giornalista: "Da Roma partì subito l'ordine di chiudergli la bocca... I miei amici mafiosi, quando ritornarono a Palermo, mi raccontarono che quella gente era molto preoccupata, mi dissero che avevano paura, che se fosse uscita anche la più piccola delle notizie sull'operazione che stavano preparando, loro sarebbero stati tutti arrestati...". Così morì Mauro De Mauro. Cominciò a morire al Circolo della Stampa nei saloni bui del teatro Massimo. Dove c'era sempre Tommaso Buscetta. Dove andava Masino Spadaro, che allora era il più grosso contrabbandiere di "bionde" del Mediterraneo. Dove c'era sempre Emanuele D'Agostino che era l'autista di Stefano Bontate. Era esuberante Mauro De Mauro. Curioso della vita, ciondolava in quei saloni, tra quella gente e chiacchierava volentieri, chiedeva sempre qualcosa ("Ci sono novità?") e rideva e scherzava e sapeva dar fiducia e farsi rispettare come "uomo con una sola faccia" e anche voler bene come un amico sincero. Poi tornava in redazione, infilava la testa nello stanzone della cronaca e ripeteva l'altro suo grido di guerra ai più giovani che pestavano apprensivi i tasti della macchina per scrivere: "Minchiate...sono tutte minchiate...". Mauro era scuro, alto, claudicante e con il naso ricucito per le ferite di un incidente stradale nei pressi di Verona o, come sosteneva qualcuno, per le legnate prese da un gruppo di partigiani. Un suo fratello aviatore era morto in guerra e un altro, Tullio, (l'attuale ministro della Pubblica istruzione) era già allora un autorevole linguista. Sua moglie Elda era stata anche lei braccata dai partigiani del Pavese, alla seconda figlia avevano dato il nome di Junia come quello di Borghese che era stato il suo comandante alla Decima Mas. Aveva 49 anni Mauro De Mauro, la sera che incontrò D'Agostino, Provenzano e Giaconia sotto casa. Aveva lo scoop della vita tra le mani, ma non intuì che era stato già tradito. "Gli interessi in gioco erano troppo grossi e dentro Cosa Nostra non tutti erano d'accordo con quel golpe", ha precisato meglio il mafioso Di Carlo venerdì 19 gennaio, nel suo secondo giorno di interrogatorio sul mistero della scomparsa del giornalista con il procuratore Pietro Grasso, l'aggiunto Guido Lo Forte e il sostituto Vittorio Teresi. La notizia che il principe Borghese stava progettando un colpo di Stato e che aveva chiesto un appoggio alla mafia, Mauro De Mauro la venne a sapere da un suo vecchio amico di estrema destra, uno che conosceva tutti i dettagli dell'operazione "Tora Tora", nome in codice del piano insurrezionale che sarebbe dovuto scattare la notte tra il 7 e l'8 dicembre del 1970. Mauro De Mauro aveva scoperto tutto tre mesi prima. Seppe che il principe Borghese aveva "arruolato" anche Cosa Nostra. In cambio di un aiuto aveva promesso di cancellare ergastoli e processi per gli uomini d'onore in gabbia. Lo torturano, ma non fece il nome di chi per primo gli "soffiò" la notizia. Ricorda Francesco Di Carlo: "Ci avevano assicurato che nessuno di noi sarebbe più andato al soggiorno obbligato né avrebbe più subito provvedimenti tipo la sorveglianza speciale, il nuovo governo avrebbe dato un colpo di spugna al passato... ma non tutta Cosa Nostra vedeva di buon occhio il piano dei fascisti". Una parte era d'accordo, altri non volevano sentire ragione di quelle promesse di Junio Valerio Borghese. Il principe pretendeva che alla vigilia del golpe la mafia consegnasse ai generali una "lista" di tutti i mafiosi dell'isola, poi per farsi riconoscere durante il colpo di Stato gli stessi mafiosi avrebbero dovuto portare una fascia al braccio. Ci fu un summit a Milano per decidere cosa fare. C'era tutta la Cupola. E c'era anche Francesco Di Carlo quel giorno con gli altri boss. Il golpe non ci fu più, ma anche Mauro De Mauro non c'era più. Era stato inghiottito nel nulla. Là dove le acque dell'Oreto seguono le colline e poi, lentamente e sempre più torbide, finiscono nel mare di Palermo”.

27 gennaio - Il quotidiano "Il Mattino" intervista il presidente della commisione stragi, Giovanni Pellegrino, sulle nuove rivelazioni sull' uccisione di Mauro De Mauro:
"La ricostruzione potrebbe essere coerente, ma c'è una circostanza narrata dal boss pentito che mi lascia perplesso": il racconto che Franco Di Carlo fa dell'uccisione di Mauro De Mauro non convince Giovanni Pellegrino. Per il presidente Ds della commissione stragi non siamo ancora giunti alla verità su De Mauro. Il racconto di De Carlo appare molto circostanziato. Si indica perfino il luogo dove sarebbe sepolto il giornalista. Cosa non la convince?
"Cominciamo con il dire che si tratta di una ricostruzione che appare coerente con quello che fu il "golpe Borghese", che non fu affatto un golpe da operetta come ci hanno fatto credere per troppo tempo. Detto ciò, mi sembra che vengano utilizzati scenari così noti da fare da sfondo a qualsiasi ricostruzione. E a tanti anni di distanza è facile inserirci anche una vicenda come quella di De Mauro".
Quindi non fu ammazzato per i segreti "Borghese"
"Siamo di recente venuti a conoscenza della documentazione statunitense che dimostra come i servizi segreti di quel paese monitorassero costantemente la preparazione del golpe. Quindi è probabile che ciò che non era sfuggito ai servizi segreti americani non fosse sfuggito a un giornalista come De Mauro. Ma il racconto mi convince poco quando si sofferma sul momento della decisione dell'assassinio".
Poco probabile che lo abbiano ammazzato i mafiosi?
"No, questo è certo. Resto, però, sorpreso di quanto Di Carlo dice a proposito dei vertici dei servizi segreti italiani. Mi sembra abbastanza inverosimile che il generale Miceli abbia accettato di incontrare i vertici della mafia, così come mi appare addirittura improbabile che i vertici mafiosi abbiano incontrato insieme Maletti e Miceli".
Per quale ragione?
"Che Miceli fosse a conoscenza di cosa stesse tramando il generale Borghese è risaputo. Ma che Maletti e Miceli, notoriamente in aperto contrasto tra loro e appartenenti a due "cordate" contrapposte, siano andati insieme dai capimafia mi sembra una ricostruzione a dir poco temeraria. Io, comunque, approfondirei un aspetto mai abbastanza studiato".
Quale?
"La Sicilia restò solo apparentemente estranea alla strategia della tensione. Ecco io comincerei a indagare anche sui rapporti tra terroristi e mafia"".
 

27 gennaio - "La Repubblica" pubblica un' intervista di Daniele Mastrogiacomo al gen. Maletti sulle ipotesi di legami tra il golpe Borghese e l' uccisione di Mauro De Mauro:
"Generale Maletti, si ricorda del giornalista Mauro De Mauro?
Dall'altro capo del telefono, a circa 7 mila chilometri di distanza, si sente solo il gracchiare della linea disturbata. Pochi secondi. Poi la voce nasale e un po' anglosassone della vecchia spia del Sid accenna ad un secco sì.
"E' un nome che non si scorda. Se ne parlò molto negli Anni 70".
Un boss mafioso, oggi collaboratore di giustizia, indica il nome del generale Vito Miceli e il suo come mandanti dell'omicidio del giornalista. De Mauro aveva scoperto i piani golpisti di Junio Valerio Borghese. Lei e Miceli, secondo il boss mafioso, avreste partecipato ad una riunione con esponenti di rilievo di Cosa nostra durante la quale sarebbe stata decretata la sua morte.
"E quando sarebbe avvenuto questo incontro?".
Nell'estate del 1970.
"Fare il nome di Gianadelio Maletti è comodo, visto che quasi tutti i dirigenti del Sid sono morti... Se vogliamo spaccare il capello, nell' agosto del 1970 non ero al Sid. Sono stato nominato capo dell'ufficio D il 15 giugno del 1971".
Ma dopo il suo ingresso al Sid non ha mai saputo qualcosa di simile?
"Mai. Erano note le divergenze tra me e Vito Miceli. Su di lui non posso certo giurare nulla. Se Miceli può essere stato il grilletto che ha esploso il colpo contro il giornalista io non avrei mai potuto essere il calcio che impugnava l'arma".
Il generale Miceli fu coinvolto nel golpe Borghese. Non è quindi inverosimile la tesi del collaboratore di giustizia.
"Il generale Miceli era anche siciliano, oltre che notoriamente su posizioni di destra estrema. Era chiuso, sospettoso e si circondava di una serie di ufficiali del Sid di cui si fidava ciecamente. Volendo credere a quella riunione è molto più facile che abbia coinvolto qualcuno di loro".
Chi, per esempio?
"Il colonnello Pace. Faceva parte di quel gruppo di ufficiali ad alto livello di impiego legatissimi a Miceli".
Nel libro "Delitto al potere", di Riccardo De Santis, pubblicato nel 1972 ma tolto dalla circolazione in poche ore, si ricostruisce la vicenda De Mauro. Si parla di un certo maggiore P., del Sid, che nei giorni precedenti l'omicidio era presente a Palermo. Potrebbe essere Cosimo Pace?
"Nel 1971, quando sono entrato al Sid, Pace era tenente colonello. Può darsi che fosse lui e che un anno prima avesse il grado di maggiore. Lui era legatissimo a Miceli, siciliano anche lui, credo di Palermo o di Trapani. Non so se sia ancora vivo".
Alla riunione, sempre secondo il pentito, avrebbe partecipato anche un ufficiale del Sid, conosciuto come "l'avvocato". Molte persone dell'epoca sostengono si tratti del colonnello Bonaventura. Lei, generale, lo conosceva?
"Certo. Era un colonnello dei carabinieri, capo del Controspionaggio di Palermo. Morì qualche anno dopo, assieme alla moglie, in un incidente stradale. Un incidente misterioso".
Il Sid si occupò mai del caso De Mauro?
"Se ne occupò in termini molto vaghi. Era scomparso, si parlava di mafia, di droga, di armi. L'ufficio indagò, raccogliendo le informazioni di routine. Tutto ciò che faceva clamore rientrava nella sfera dei nostri interessi. Il nome di Mauro De Mauro era famoso, lo ricordavano tutti. Ma quando arrivai al Sid e durante la mia permanenza a Forte Braschi non ho mai visto un rapporto, un atto ufficiale su di lui".
Il boss Francesco Di Carlo è considerato attendibile dai magistrati. Ha svelato molti retroscena su casi difficili e rimasti nell'ombra per anni.
"Non voglio mettere in discussione l'attendibilità di quel pentito. Il generale Miceli era sicuramente interessato a nascondere qualsiasi voce legata ai progetti di golpe di Junio Valerio Borghese e a coprire i promotori del colpo di Stato. In quei mesi, infatti, entrò in contatto con Remo Orlandini, l'imprenditore assai attivo nel progetto".
Lei, generale, raccolse un dossier sul golpe. Nella lista dei promotori c'era anche il nome di Miceli?
"Non lo ricordo. Un fatto è certo. Quando consegnai il famoso malloppone all'allora ministro della Difesa Giulio Andreotti, il generale Miceli figurava tra i sostenitori e i probabili protagonisti del progetto".
Quel malloppone le procurò dei guai.
"Fu l'inizio dei miei guai. Ma questa è un'altra storia. Voglio solo ricordare, a chi ha la memoria corta, che io fui l'unico tra i dirigenti del Sid ad aver svolto un lavoro di vero controspionaggio interno nei confronti dei movimenti eversivi di destra. E che segnalò all'autorità politica e poi a quella giudiziaria i nomi dei promotori dei vari golpe. Primo fra tutti quello di Junio Valerio Borghese che considero il più serio e il più pericoloso messo in atto in quel periodo".
Nel dossier non emerse il ruolo della mafia nel golpe?
"Il malloppone era soprattutto una lista di nomi. Gente coinvolta nel piano della notte dell'Immacolata. Furono processati. Il pm era Claudio Vitalone, legatissimo a Miceli, che svolse una requisitoria durissima. Credo che fosse un gioco delle parti, la soluzione era già stata trovata: vennero tutti assolti"."
"La Repubblica" pubblica anche un' intervista a Bruno Carbone, "compagno di scrivania" di Mauro De Mauro a "L'Ora":
"Sulla sua scrivania di ferro color verdastro c'erano sempre due o tre pacchetti di "nazionali" senza filtro e una bottiglia di whisky. E poi ci faceva volare su anche il solito maglione un po' largo che si sfilava ogni volta che doveva picchiare le dita sulla macchina per scrivere, cinque o sei cartelle di trenta righe l'una buttate giù in meno di un paio d'ore, fogli che scivolavano via cronaca dopo cronaca, giorno dopo giorno. "Fumava come un turco ma beveva solo dopo che avevamo chiuso, cioè solo di pomeriggio...io ho sempre creduto che l'avessero ucciso per il golpe ma ormai si sono persi 30 anni prima di seguire la pista giusta", ricorda il collega che ha vissuto a fianco di Mauro De Mauro, prima stanza a sinistra al secondo piano del palazzotto di vetro dove si stampava "L'Ora", quotidiano della sera che in quell'epoca era voce e cuore dell'altra Palermo, "L'Ora morti e feriti" venduto dagli strilloni che annunciavano sempre nuove sparatorie agli angoli delle vie. Si chiama Bruno Carbone, il giovanissimo "compagno di banco" del povero Mauro alla fine di quell'estate del 1970. Aveva cominciato con Achille Occhetto a "Nuova Generazione", l'avevano mandato giù in Sicilia a farsi le ossa affidandolo proprio a lui, il principe della "nera", quel De Mauro che era già famoso per i suoi scoop sui fatti di mafia. La memoria di Bruno Carbone - che poi sarebbe anche diventato direttore di quel giornale - torna all'estate del 1970: "Era sempre in contatto con quel mondo neofascista, io prendevo le sue telefonate, lo sentivo parlare, mi aveva detto che aveva per le mani un colpo straordinario... eppure nessun poliziotto e nessun magistrato mi ha mai ascoltato: sono stato testimone della vita e forse della morte di Mauro e nessuno mi ha mai chiesto nulla: è incredibile ma è così. Certi miei sospetti li ho confidati solo in privato, sono sempre stato convinto che De Mauro era stato ucciso perché a conoscenza di qualcosa sul quel piano militare...". Un altro ricordo: "Pochi giorni prima di sparire gli suggerii di parlare con il procuratore capo Pietro Scaglione, lui ci andò... dopo pochi mesi uccisero anche Scaglione". Il giornale era proprio al centro di Palermo, le finestre della stanza di De Mauro e di Carbone davano sul fioraio di piazzetta Napoli. "L'avevo conosciuto lì, primo servizio con lui in un paesino dove un uomo era fuggito con la cognata ma dopo poche ore li trovarono morti tutti e due: si erano suicidati. De Mauro mi portò a casa della moglie, c'era anche Gigi Petix il fotografo, appena quella aprì la porta lui la tramortì raccontandole cosa era successo al marito e alla sorella. Intanto Mauro aveva già ripulito la casa di tutte le foto e quando arrivarono quelli del "Giornale di Sicilia" non trovarono più niente. Io ero sconvolto, ma allora si faceva così...". Bruno Carbone racconta le scorribande di De Mauro cronista e poi torna a quei rapporti che aveva sempre mantenuto con i neri: "Sentiva tanta gente che era stata come lui nella Decima Mas, conosceva sicuramente bene anche quel Giacomo Micalizio che poi fu coinvolto e poi ancora assolto per il golpe Borghese... non so se ebbe contatti con lui in quegli ultimi giorni, questo non mi risulta...". Giacomo Micalizio è un medico che ha un laboratorio di analisi a Palermo. Risponde al telefono: "Non ho sentito De Mauro in quei giorni, lo frequentavo ma tantissimi anni prima. Non voglio parlare di queste cose fino a quando non capirò che piega prende tutta questa vicenda... quando capirò, e solo allora, offrirò la mia testimonianza". Caporedattore de "L'Ora" in quell'anno, il 70, era Etrio Fidora. Ricorda come se fosse ieri la mattina di quel 17 settembre, quando "quello straordinario giornalista che era Mauro" non si trovava dalla notte prima. "Non ci preoccupammo più di tanto, era già accaduto altre volte...qualche mese prima non era venuto al giornale per due giorni, io e il direttore amministrativo Giovanni Fantozzi lo trovammo a casa completamente sbronzo". Fu sempre Etrio Fidora a entrare nella stessa casa di via delle Magnolie tre giorni dopo la scomparsa, quando ritrovarono la sua auto, la Bmw blu. Accade qualcosa che non è facile dimenticare. E' sempre Fidora che parla: "Il commissario Boris Giuliano voleva prendere impronte digitali di Mauro ma in casa sua non ne aveva trovata neanche una, allora io gli dissi che c'era un posto dove sicuramente le avrebbe trovate: sui tasti della sua macchina per scrivere. Mi sbagliavo... non c'erano neppure lì sopra... in casa mi dissero che avevano pulito tutto, che era loro abitudine pulire tutto ogni mattina"."

28 gennaio - "La Repubblica" scrive:
"Sulla morte del giornalista Mauro De Mauro le vere indagini stanno cominciando dopo trent'anni. Forse cercheranno anche i resti del suo corpo alla foce del fiume Oreto, sicuramente scaverrano di più e meglio nei misteri della sua scomparsa. Dopo aver annunciato che l'inchiesta è stata ufficialmente riaperta, ecco cosa dichiara il procuratore capo di Palermo Pietro Grasso all'agenzia Ansa: "Ci siamo resi conto che molti personaggi legati a De Mauro e al contesto in cui si muoveva non sono stati mai sentiti. Dobbiamo riprendere le fila di tutto il caso". E' stato chiaro il procuratore di Palermo: sul sequestro del 16 settembre 1970 si ricomincia daccapo. Dopo le rivelazioni del pentito Francesco Di Carlo sull'ordine venuto da Roma "di chiudere la bocca al giornalista" che aveva saputo del golpe Borghese, i magistrati del pool ripescano tutti i fascicoli, seguono tutte le piste, Mattei, le esattorie dei Salvo, naturalmente s'indaga soprattutto tra i "neri" che volevano fare il colpo di Stato con i mafiosi. S'indaga anche su quel "livello clandestino" del Fuan (l'organizzazione universitaria del Movimento sociale) di cui parlò qualche anno fa il terrorista nero palermitano Pierluigi Concutelli, si ascolteranno i giornalisti che non si sono incredibilmente mai ascoltati (i colleghi più vicini a Mauro De Mauro in quell'estate di 30 anni fa), si interrogheranno vecchi personaggi a cavallo tra ambienti neofascisti e ambienti mafiosi. Insomma, si rileggerà ogni singola carta. Ma qualcosa "agli atti" c'è già, qualcosa che nei giorni scorsi ha spinto la Procura a chiedere al giudice degli indagini preliminari la riapertura dell'inchiesta. Un paio di personaggi sono nel mirino delle ultime investigazioni. E dagli archivi blindati è già stata prelevata una bobina che era in mano ai vecchi servizi segreti, il Sid. E' un nastro dove è ricostruita la storia dell'operazione "Tora Tora", il golpe che vide - ma solo fino a un certo punto - mafiosi e fascisti a braccetto. Il contenuto delle registrazioni all'epoca non finì mai nel "rapporto" degli ufficiali del Servizio. Fu consegnato - e solo nel 1992 - dal capitano Antonio La Bruna al giudice milanese Guido Salvini che istruiva il processo sulla strage di piazza Fontana. Tre anni dopo il giudice Salvini inviò le sue carte a Palermo. Finirono in mezzo a quel milione di pagine che è diventato il processo Andreotti. Nella bobina sparita ci sono voci che parlano, ci sono nomi che si sentono, ci sono legami che riaffiorano da vicende molto lontane. Lì dentro c'è la voce di un ufficiale che chiede: "Tu mi dici che un nucleo di uomini provenienti dalla Sicilia era già stato messo a disposizione per far fuori il capo della polizia Vicari?". Risponde la voce di una fonte: "Da quello che so, c'era un'intesa mafia e...". E cita il nome di due uomini, uno di Palermo e l'altro di Catania. Il primo è Giacomo Micalizio, l'analista arrestato, processato e assolto per il colpo di Stato. Il secondo era Salvatore Drago, medico all'epoca in servizio al ministero degli Interni. Il "caso De Mauro" riparte anche da qui. Da due lunghe conversazione avvenute il 30 e il 31 maggio 1974 in un appartamento del Servizio informazione difesa in via degli Avignonesi a Roma. Presenti due ufficiali, lo stesso La Bruna e il vice del comandante Gianadelio Maletti, il tenente colonnello Sandro Romagnoli. E presenti anche due "fonti", l'avvocato romano Maurizio degli Innocenti e l'odontotecnico spezzino Torquato Nicoli. Tutti parlavano del golpe Borghese e di "quei siciliani" che erano sbarcati a Roma quattro anni prima. Alloggiavano al "Residence Cavalieri" dove non si erano fatti registrare. Torniamo a quell'intercettazione negli uffici del Sid. Raccontava ancora una delle fonti - l'odontotecnico Nicoli - al tenente colonnello Romagnoli: "Questi mafiosi avrebbero dovuto far fuori Vicari ma non avevano le armi". La voce del capitano La Bruna: "E questi mafiosi che poi conoscevano le abitudini di Vicari...". Ancora Nicoli: "A me sembrò molto impossibile... improbabile che dei mafiosi non venissero armati con i loro ferri....". Il colonello Romagnoli: "Adesso da dimostrare è questo: c'era uno al ministero degli Interni... che lì si vede che c'era una certa azione che andava fatta in una certa maniera". La chiacchierata va avanti ancora. Si parla della Forestale che avrebbe dovuto occuparsi della Rai, "degli spezzini e dei genovesi" che sarebbero dovuti entrare al ministero della Difesa, poi sempre di quei siciliani che dovevano uccidere il capo della Polizia. Scrive il giudice Salvini: "Nel discorso di Torquato Nicoli il collegamento fra il gruppo dei mafiosi e il medico catanese e l'altro importante congiurato Giacomo Micalizio non è l'elemento che basta a spiegare l'omissione operata dal rapporto...". E aggiunge: "E' probabile che il generale Maletti... aveva espunto il nome ed il ruolo di Gelli dal rapporto sul golpe censurando l'intero episodio relativo alla presenza del gruppo di mafiosi collegati allo stesso dottor Drago...". La mafia che "sparisce" dal piano golpista grazie ai servizi segreti. Saranno poi pentiti come Buscetta o boss come Liggio e per ultimo Francesco Di Carlo, a ricordare cosa in realtà era accaduto. E' tutta materia per le nuove indagini su Mauro De Mauro”.

29 gennaio – “La Stampa” pubblica un’ intervista a Graziano Verzotto, a Parigi, che ricostruisce in maniera del tutto diversa da Di Carlo lo scenario dell’ uccisione di De Mauro:
“Era mio amico, Mauro De Mauro. Ci davamo del tu. Venne a trovarmi, quell' estate, chiedendomi se fosse stato risolto il problema legato al contratto di collaborazione saltuaria che aveva chiesto all'Ente minerario siciliano, all'Ems. Ma forse era un pretesto, un modo di entrare in conversazione, per arrivare al dunque. Voleva sapere di Enrico Mattei, della sua morte, dell'incidente di Bascapè, degli ultimi due giorni di vita che il presidente dell'Eni trascorse in Sicilia, prima di schiantarsi con l'aereo. E io ho cercato di aiutarlo". Parla a fatica Graziano Verzotto, a Parigi - a lui cara tanto da averla scelta come luogo di una quindicennale latitanza – per sottoporsi ad una terapia specialistica. Fu un personaggio, in Sicilia, l'ex senatore democristiano originario di Padova ma siracusano di adozione. Prima segretario provinciale del partito, poi vicesegretario regionale, quindi segretario e presidente dell'Ems dopo essere stato responsabile, nell'Isola, per le relazioni esterne dell'Eni di Enrico Mattei. Un vero uomo di potere. E, come tale, gli sono passati davanti vicende e personaggi che hanno segnato la storia siciliana e non soltanto. Per questo stesso motivo non si può dire sia stato uomo facilmente decifrabile, almeno fino al suo inarrestabile declino, dopo un trentennio che lo vide protagonista insieme con una galleria di ritratti che vanno da Lucky Luciano al procuratore Scaglione, da Silvio Milazzo al misterioso "avvocato", Vito Guarrasi, considerato come una sorta di stratega delle intricate vicende politico-economiche (e non sempre chiare) dell'autonomia siciliana. Graziano Verzotto ancora oggi ha paura, si porta dietro le tracce indelebili di una stagione difficile, pericolosa, si porta dentro ancora oggi le "cicatrici" di quella stagione e, quando gli si chiede di affrontare alcuni temi cruciali, la sua risposta tradisce ancora il peso del passato: "Lasciatemi campare ancora qualche anno....". Certo, come dare torto a uno che - seppure tra luci e ombre, tra omissioni e silenzi – dice che si è imbattuto in un attentato dinamitardo, è stato vittima di minacce ed è rimasto ferito mentre cercavano di sequestrarlo? Senatore Verzotto, procediamo con ordine. Iniziamo da Mauro DE MAURO. Lei lo incontrò due volte, prima di quel tragico 16 settembre 1970. Cosa gli disse? "Gli raccontai tutto quello che sapevo dei due giorni di Mattei in Sicilia. Gli indicai pure le persone che potevano completare quel quadro: Vito Guarrasi, Pompeo Colajanni, partigiano con Mattei, intellettuale e dirigente comunista, e l'ex presidente della Regione Mario D'Angelo". Parlaste anche dell'attentato? "Certamente. Mi sembrò convinto che l'aereo di Mattei fosse stato sabotato. Ricordo che eravamo nel suo studio, a casa sua. Sfogliava quegli appunti che stava preparando per il regista Franco Rosi, che gli aveva commissionato una sorta di sceneggiatura degli ultimi giorni di Mattei in Sicilia. E in quegli appunti lui aveva scritto le ragioni di quell'attentato. Ne parlammo insieme, chiedendoci a chi avesse giovato la scomparsa di Mattei. La risposta portava a Cefis, che divenne presidente dell'Eni, e all'avvocato Vito Guarrasi, che era stato allontanato dall'Eni di Mattei". Senta senatore, sta dicendo che Cefis e Guarrasi hanno firmato la condanna a morte di Mauro DE MAURO e di conseguenza di Enrico Mattei? "Non riesco a convincermene neppure adesso: decidere la soppressione di Mattei per trarre vantaggi a venire... ci  vuole uno stomaco d'acciaio. Mah... tutto è possibile, mi fa fatica a crederlo... in ogni caso un conto è parlarne e un altro è provarlo in un'aula di Tribunale". Ma DE MAURO in quei giorni bussò anche alla porta di Vito Guarrasi? "Io gli suggerii di andare e Guarrasi non me lo perdonò. Credette volessi metterlo in cattiva luce e dargli un ruolo in quel contesto. Sapete perché? Perché quando Mattei venne in Sicilia in quell'ottobre del 1962, Guarrasi era stato allontanato dal Consiglio di amministrazione dell'Anic di Gela". Quindi il giornalista aveva ultimato il lavoro per Rosi? "Immagino di sì. Io vidi quello che aveva scritto". E lei condivideva il pensiero di DE MAURO sulla morte del presidente dell'Eni, Enrico Mattei? "In un primo momento credetti alle risultanze dell'inchiesta della commissione nominata dalla Difesa, e d'altra parte era impossibile non prendere atto della categoricità con cui veniva esclusa la pista dell'attentato. Nel 1970 mi convinsi che Mattei era rimasto vittima di un attentato". Come mai tanta certezza? "Ho vissuto la scomparsa di DE MAURO anche come una sorta di avvertimento nei miei confronti, tant'è che subito dopo ho cominciato ad avvertire un tam tam sotterraneo che mi coinvolgeva direttamente nei misteri di Bascapè e di Palermo. Ho avuto paura. Ricordo un giorno, appena atterrato a Punta Raisi, chiesi al mio addetto stampa, Tonino Zito, di convocare gli inviati dei grandi giornali che seguivano l'inchiesta DE MAURO, per far sapere che io con quelle vicende non c'entravo nulla". Temeva che cosa, senatore? "Avevo la sensazione che il corridoio che metteva in giro la parola d'ordine: "DE MAURO scomparso, Verzotto sa", fosse organizzato da qualcuno, un piromane che voleva incendiare Palermo". Ma chi erano i suoi nemici? "Ne ho avuti sempre tanti, sin da quando sbarcai in Sicilia. In quella terra non puoi prevedere le conseguenze di certe decisioni importanti. Ricordo quella volta che mi toccò di bloccare la nomina fatta dal ministro Emilio Colombo del presidente del Banco di Sicilia. Il governo scelse il professore Orlando Cascio. Io dovetti andare a Roma a far cambiare idea al ministro. Fu così nominato un ispettore della Banca d'Italia, mi pare si chiamasse Di Martino. E durò sedici anni". Sono stati, dunque, i nemici la causa delle sue disavventure giudiziarie? "Sono rimasto coinvolto nella vicenda dei fondi neri di Sindona. La regione Sicilia aveva stanziato un finanziamento di 20 miliardi per costituire una società con il petroliere Rovelli. Nell'attesa che il progetto partisse ci siamo trovati a dover decidere dove depositare quei finanziamenti. Scegliemmo la Banca privata di Sindona - i cui dirigenti mi erano stati indicati dall'amministratore delegato dei giornali Paese Sera e L'Ora - perché offriva il miglior tasso d'interesse. Ebbi la premonizione che qualcosa non andava per il verso giusto. E dopo solo nove mesi prelevai i depositi, proprio in tempo per non essere travolto dal crack di Sindona. Altri enti avevano fatto la nostra stessa operazione, come la Gescal di Franco Briatico (30 miliardi) o la Finmeccanica di Giorgio Tupini (40 miliardi). Un anno dopo, un'ispezione della Banca d'Italia scopre il meccanismo dei cosiddetti fondi neri ma a pagare sarò solo io. Eppure chi mi chiamò in causa, un funzionario della banca di Sindona, disse che quei soldi al nero servivano per finanziare Fanfani, Andreotti, Colombo e Verzotto. Ma a pagare fui solo io". Ma, tra amici e nemici, ha mai sentito qualcosa sulla cosiddetta pista Borghese? DE MAURO le parlò mai del tentativo di golpe di Stato del principe Junio Valerio Borghese? "Cado dalle nuvole. Con me ha sempre parlato di Mattei. E anche con altri. Dall'avvocato Guarrasi cercava risposte sui misteri siciliani di Mattei". Lei descrive Guarrasi quasi come il "Grande Vecchio" siciliano. Anch'egli un nemico? "Era un uomo abile, la sua forza stava nell'abilità con cui riusciva a trovare una soluzione giuridica per ogni problema. Conosceva tutti e tutti si rivolgevano a lui. Lui fu la grande levatrice del governo Milazzo, quella scandalosa anomalia che per la prima volta mise insieme comunisti e destra per relegare all'opposizione la Democrazia Cristiana nel governo autonomista. La sua mente ha partorito i progetti più ambiziosi, lui è stato presente, come consulente o membro dei consigli d'amministrazione, in quasi tutte le imprese e società regionali". Però Mattei lo allontana dall'Eni. "Questo resta un mistero. Non so se fu Mattei o addirittura lo stesso Cefis ad allontanare Guarrasi. E restano un mistero anche i motivi di quell'allontanamento. Forse, Giorgio Ruffolo potrebbe spiegarli e anche il dottor Gandolfi, che di Mattei era il segretario". Pure lei, però, ha qualcosa da farsi perdonare. Per esempio, l'assunzione del mafioso Beppe Di Cristina di Riesi all'Ente Minerario Siciliano... "Fu Aristide Gunnella il repubblicano ad assumerlo. Io commisi la leggerezza, da stupido "polentone", di essere il suo testimone di nozze. Me lo chiese il partito di Caltanissetta: Di Cristina sposava la figlia del segretario della sezione comunista. Alcuni anni dopo lo stesso Di Cristina venne nel mio ufficio a chiedere una promozione, gliela negai e raccontai tutto all'allora colonnello Dalla Chiesa. Mi portarono a confronto con Di Cristina, recluso all'Ucciardone. Una esperienza terrificante: quello che gridava e sputava e mi chiamava "vigliacco e traditore"". L'ha vista da vicino, la mafia. "Una volta mi volevano costringere ad assumere quattro mafiosi. Mi bloccarono per strada ma io ho resistito. Ricordo i Salvo. C'era un problema da risolvere: una concessione per lo sfruttamento del giacimento di Gagliano. L'assessore regionale D'Antoni voleva centocinquanta assunzioni in cambio della concessione. Il capogruppo della Dc all'Assemblea Regionale, all'epoca, era Alessi che mi avversava. Convinco il gruppo regionale della necessità della concessione, ma non D'Antoni, che era un repubblicano. Mi rivolsi all'amico Nino Salvo che mi suggerì la soluzione: mi portò nel giorno di San Pietro nelle terre di D'Antoni, mentre si trebbiava. Ebbi con l'assessore una discussione tanto calorosa quanto polverosa. Alla fine, D'Antoni capitolò e firmò. Questo lo devo a Nino Salvo, lo devo alla sua presenza quel giorno. Mi aspettavo qualche richiesta in cambio, ma lui non pretese nulla. Evidentemente gli bastava di aver dimostrato quanto valesse la sua presenza". Senatore Verzotto, nella Sicilia degli Anni 50 e 60, la Dc i mafiosi li aveva in lista. Erano suoi iscritti.... "E' vero, non si può negarlo. Anche Genco Russo fu candidato nelle nostre liste a Mussomeli. La cosa non piacque a Roma. Il segretario Rumor mi diede mandato di depennare quel nome. Andai a Mussomeli e portai con me il giovane Lillo Pumilia, che poi sarebbe diventato parlamentare, dicendogli: "Adesso ti faccio fare una bella esperienza". L'assemblea fu convocata al Circolo dei Nobili. Bel palazzo, spazioso, con grandi saloni. Il primo, il secondo, il terzo erano pieni di "coppole storte". La riunione si tenne in uno stanzino. Dissi senza perifrasi che volevo vedere la lista elettorale. Arrivammo al nome di Genco Russo. Chiesi a quale titolo stava in lista. Mi fu risposto che rappresentava la Confraternita del Santissimo Sacramento. Andai dal parroco che mi confidò di averlo dovuto fare presidente della Confraternita perché solo lui era capace di garantire una presenza di popolo in chiesa e nelle processioni. Convinsi il partito che un cotanto candidato andava speso per consultazioni più impegnative e il nome di Genco Russo fu cancellato". Altri "incontri ravvicinati"? "A parte il tentativo di sequestro, che è storia risaputa, ricordo una notte sulla strada di Valguarnera. Ero rimasto in panne. Una macchina sbucata dal nulla mi prende a bordo e mi porta al ristorante. Quando esco la mia auto è di nuovo in condizione di camminare. Chiedo: "Quant'è il disturbo?". E mi viene risposto: "Lei è persona conosciuta. Non ci deve nulla". Quello era il territorio di Calogero Volpe, mio grande elettore. Un'altra volta incontrai Lucky Luciano all'Hotel Des Palmes di Palermo. Mi volle incontrare per ringraziarmi di aver liberato la Sicilia e il Paese da quella iattura che era il governo Milazzo. Con me c'era Mauro De Mauro ed ero contento di poter offrire al mio amico un vero scoop. Luciano, infatti, parlò a ruota libera affermando che la mafia aveva collaborato per lo sbarco degli alleati in Sicilia. Anzi, era andata oltre eliminando nel porto di New York le spie tedesche che sabotavano le navi destinate agli Alleati. Ma DE MAURO preferì non scrivere nulla". Ci dica, senatore: è vero che lei incontrò il 4 maggio del 1971, il giorno prima che fosse assassinato da Cosa nostra, il procuratore Scaglione? "E' vero. Ci vedemmo a cena, e c'era anche il presidente del Tribunale Piraino Leto, suocero di Paolo Borsellino. Il procuratore era avido di notizie sulla storia del metanodotto. Era scomparso DE MAURO e la cosiddetta pista Eni non era ancora del tutto dimenticata". E la corruzione, Verzotto? Lei ha finanziato i partiti siciliani? "Come? Non sento bene. Il traffico di Parigi è troppo assordante".

8 febbraio - "La Repubblica" scrive che a Genova il movimento di Antonio Di Pietro intenderebbe candidare l' anziano avv. Filippo De Jorio, il cui nome era nelle liste dei presunti iscritti alla P2 (tessera 511), accusato e assolto per il golpe Borghese del 1970. La candidatura di De Jorio avrebbe provocato malumori nel movimento. Filippo De Jorio, che ormai ha 80 anni passati, ha fatto a lungo parte della destra democristiana, legata a certi ambienti militari. Per la Dc e’ stato consigliere regionale del Lazio. Ha diretto per molto tempo la rivista “Politica e strategia”. Nell’ aprile 1975 sarebbe stato oggetto di un fallito agguato da parte dei Nap (Nuclei armati proletari). Nel 1981, quando negli uffici della Gio.Le. a Castiglion Fibocchi (Arezzo) la Guardia di finanza trova gli elenchi dei presunti iscritti alla loggia P2 guidata ufficialmente da Licio Gelli, nelle liste c’ e’ anche il nome di De Jorio, che naturalmente smentisce, minaccia querele e precisa:”c' e' una circostanza che, semmai ce ne fosse bisogno, chiarisce la mia estraneita': la data della mia pretesa iscrizione recata nel famoso elenco accanto al mio nome e' 1/1/1977; ebbene dai primi mesi del 1975 io mi trovavo all' estero donde sono tornato, dopo la sentenza di assoluzione con formula piena, nella seconda meta' del 1978. Si deve, quindi, concludere che l' inclusione del mio nome nella lista e' un falso”. In effetti nel 1977 De Jorio si trovava all’ estero, tra Parigi e Montecarlo, dove era fuggito dopo che nei suoi confronti era stato emesso un mandato di cattura per insurrezione armata contro le istituzioni dello Stato per il tentativo di colpo di stato del principe Junio Valerio Borghese (dicembre 1970). Dall’ accusa di aver partecipato in primo piano al golpe Borghese (gli sarebbe stato promesso un posto di ministro degli Esteri nel governo golpista), De Jorio viene pero’ assolto nel luglio 1978. Per la vicenda P2 comunque, il collegio dei probiviri della Dc adotta nei confronti di De Jorio il provvedimento disciplinare della sospensione per sei mesi. Negli anni ottanta De Jorio fonda un partito dei pensionati e riesce a farsi eleggere di nuovo nel consiglio regionale del Lazio con la lista “Alleanza italiana pensionati-Liga veneta”. Nell’ ottobre 1986 pero’ l' Alleanza italiana pensionati fa sapere di aver deliberato il “dimissionamento” dal movimento dell' avv. Filippo De Jorio, co-segretario e co-tesoriere dell' Aip, “per ragioni politiche e morali”, invitandolo a dimettersi anche dalla carica di consigliere regionale del Lazio per far subentrare il primo dei non eletti, gen. Giulio Cesare Graziani. Nel 1988, al processo per la strage di Bologna, Paolo Aleandri, terrorista neofascista che teneva contatti diretti con Licio Gelli e che e' diventato uno dei pentiti della destra eversiva, racconta che avrebbe avuto, tra l’ altro, l' incarico di far da tramite tra il capo della P2 e De Jorio, quando questi era latitante perche' coinvolto nell' inchiesta sul golpe Borghese. Poi De Jorio comincia un lungo girovagare tra partiti diversi, tenendo sempre un suo “zoccolo duro” di organizzatore di movimenti di pensionati. Nel 1988 De Jorio e’ alla testa di una alleanza tra una serie di associazioni dei pensionati (partito nazionale pensionati, alleanza italiana pensionati, movimento pensionati e alleanza pensionati), nel 1989 e’ candidato (non eletto) alle elezioni europee nelle liste del Psdi, nel 1992 e’ candidato (non eletto) in Liguria alle elezioni politiche per la lista “Lega casalinghe pensionati”, nel 1996 e’ candidato (sconfitto) alle politiche per Alleanza nazionale in un collegio uninominale, nel 1999 e’ candidato (ancora sconfitto), per il Movimento Sociale-Fiamma tricolore di Rauti, alle elezioni comunali di Avellino e anche alle elezioni europee.

8 febbraio – Paolo Flores D’Arcais, in un' intervista al "Secolo XIX" che sara' pubblicata domani e di cui il quotidiano ha anticipato alcuni brani, definisce De Jorio come "l' antitesi perfetta di quello che l' Italia dei Valori rappresenta in quanto frequentatore non occasionale, per anni, di ambienti golpisti, democristiani e piduisti" e "se Antonio Di Pietro confermasse la candidatura come capolista in Liguria dell' avvocato Filippo De Jorio, per lui sarebbe un suicidio politico". Filippo De Jorio intanto smentisce quanto scritto da 'Repubblica', che lo definisce "un ex della P2", coinvolto inoltre nell'inchiesta sul golpe Borghese e avverte che per aver scritto queste cose l'Unita' e' gia' stata "condannata quattro volte in sede civile e penale". De Jorio chiede una smentita a ”Repubblica” e annuncia querela contro il direttore, Ezio Mauro, e l'autore dell'articolo, Ferruccio Sansa. Un articolo che, secondo De Jorio, ha lo scopo di "infangare il mio nome" e "colpire e denigrare" il movimento di Antonio Di Pietro. "Nessuno ha mai provato che io facessi parte della P2", scrive fra l'altro De Jorio in una lettera alla Repubblica, ricordando di non essere stato mai coinvolto nel processo contro gli appartenenti alla disciolta loggia massonica, e di aver anzi difeso alcuni imputati che sono stati assolti (come i generali Picchiotti e Russo). Il senatore Antonio Di Pietro ha inviato ai direttori del Secolo XIX e al direttore della Repubblica una lettera sul caso De Jorio in cui spiega che sulla vicenda di una presunta appartenenza del candidato dell'Italia dei Valori alla P2 sara' fatta piena luce. "Noi da parte nostra - scrive Di Pietro - abbiamo provveduto immediatamente a congelare la candidatura in attesa di verificare come stanno le cose, e stia pur certo che non candideremo appartenenti alla P2 o golpisti. Il problema sta proprio qui: fino ad oggi tale circostanza non era e non e' a noi nota e siccome siamo per la legalita', quella vera a 360 gradi, non demonizziamo nessuno prima di prendere decisioni e diamo la possibilita' a tutti, quindi anche all'avv. De Jorio di esercitare il diritto di replica". Nella lettera l'ex pm di Mani Pulite rivendica la "trasparenza" del suo movimento. "Le candidature come lei sa - sottolinea - vengono depositate 40 giorni prima delle elezioni, mentre noi abbiamo posto all'attenzione dell'opinione pubblica le nostre ipotesi di candidature molto prima al fine di verificarne la bonta’". "Quanti altri partiti - sostiene Di Pietro - possono comportarsi con eguale trasparenza, con il coraggio di fermarsi e con l'umilta' di verificare in tempo utile cio' che ci viene segnalato?".

9 febbraio - Filippo De Jorio lascia Italia dei Valori accusando Antonio Di Pietro di "'slealta"', e di credere piu' alle accuse degli "ex comunisti" e giornali "notoriamente di sinistra" che alla magistratura. Per questo De Jorio, la cui candidatura per Idv in Liguria era stata sospesa da Di Pietro dopo le accuse rivoltegli, chiedera' il risarcimento dei danni. I “Pensionati uniti”, il movimento di De Jorio, ha diffuso un comunicato in cui rivela che Di Pietro, poco prima di annunciare la sospensione di De Jorio, aveva inviato un fax ai responsabili liguri del movimento e allo stesso De Jorio, in cui invitava invece "ad andare avanti con serenita"' e definiva De Jorio vittima di una "grave intimidazione". La stessa accusa, De Jorio l'ha rivolta a Di Pietro in una lettera, che accusa l'ex magistrato di "atti di slealta' che parlano da soli". "Trovo grave che un leader politico possa esprimersi cosi' diversamente a un'ora di distanza", scrive De Jorio, che considera "annullato ogni precedente accordo e annullata ogni candidatura" con Idv, dove "la presenza degli ex comunisti e' ancora troppo forte". De Jorio rinfaccia poi a Di Pietro di essere stato eletto nel Mugello "con il determinante appoggio del Pds", e di credere piu' alle "farneticazioni degli ex comunisti" che alle sentenze della magistratura "cui tu hai appartenuto", nonostante che, nota il comunicato dei Pensionati Uniti, lo stesso ex pm sia stato "sottoposto a numerosi procedimenti giudiziari, dai quali fu prosciolto". Antonio Di Pietro contesta l'accusa di 'slealta” rivoltagli da Filippo De Jorio, al quale rimprovera di aver taciuto le accuse rivoltegli a suo tempo relativamente alla P2 e al golpe Borghese. Un silenzio che, secondo Di Pietro, rende ora impossibile la sua candidatura con Italia dei valori nonostante assoluzioni e proscioglimenti. “Caro De Jorio, non e' cosi”', risponde Di Pietro alle accuse del leader dei Pensionati uniti “quando sei venuto da noi, presente Elio Lannutti, a mia specifica domanda - afferma Di Pietro - hai taciuto il fatto che su di te in passato qualcuno aveva avuto da ridire in merito al tuo ruolo nella P2 e nel Golpe Borghese”. “Tu ieri, e solo ieri - prosegue Di Pietro - dopo che erano uscite le notizie, hai detto che non ci entravi niente, e ne sono contento per te, ma tu avresti dovuto dirmi prima cosa ti era accaduto nel passato”. “Ti faccio i miei migliori auguri - conclude Di Pietro – ma non possiamo candidarti”.

15 febbraio - La sesta sezione del tribunale di Roma respinge la richiesta di sequestro dei beni di Licio Gelli e dei suoi familiari giudicandola inammissibile per incompetenza territoriale. A sollecitare la misura di prevenzione era stata nell' aprile scorso la Questura di Roma che ritiene tali beni provento di attivita' illecita. Analogo rigetto era stato deciso nel novembre 1998 dalla magistratura di Arezzo, dove vive Gelli, e sempre per incompetenza territoriale. Quella decisione era stata confermata dalla corte d' Appello di Firenze. Soddisfazione per l' esito del procedimento romano e' stato espresso dal legale di Gelli, Michele Gentiloni. "Giustamente - ha sottolineato il penalista  - il tribunale ha respinto una richiesta immotivata".

17 febbraio - L' edizione napoletana di "La Repubblica" scrive:
"Arriva davanti al giudice dell'udienza preliminare il casomassoneria. Chiuso dal pubblico ministero Antonio D'Amato con tre richieste di rinvio a giudizio. La Procura di Napoli vuole il processo per Salvatore e Nicola Spinello, padre e figlio (difesi dagli avvocati Massimo Gizzi e Lorenzo D'Agostini); e per il commercialista napoletano Ubaldo Procaccini (assistito dal penalista Clemente Biondi). Il capo di accusa: "(...) perché, operando dall'interno di organizzazioni massoniche palesi, promuovevano e dirigevano un'associazione segreta, della quale occultavano esistenza, finalità ed attività sociali, rendendone sconosciuti gli aderenti". Per il pm Antonio D'Amato "(...) in tal modo svolgevano attività dirette ad interferire nell'esercizio delle funzioni di organi costituzionali (del Parlamento in particolare), nonché di enti pubblici, con la finalità di acquisire posizioni di potere in ambito economico, finanziario e politico". In sostanza sono stati contestati gli articoli 1 e 2 della legge Anselmi, nata dopo lo scandalo P2. La Procura identifica la parte lesa nel ministero dell'Interno. Fissata la data dell'udienza preliminare: giovedì prossimo davanti al giudice Todisco.

19 febbraio - Due consulenti della Commissione stragi hanno acquisito dalla Digos di Roma due faldoni che sembrano legare un nuovo elenco di Gladio, con nomi che sembrano diversi da quelli finora conosciuti, e la vicenda  del ritrovamento delle carte di Aldo  Moro in via Monte Nevoso, il 9 ottobre del 1990. I due faldoni della Digos, classificati in passato con "segretissimo" recano le intestazioni: "A-4. Sequestro Moro-Covo di via Monte Nevoso-Rinvenimento del 9 ottobre 1990-Carteggio" e "Sequestro Moro-Elenchi appartenenti Organizzazione Gladio". La titolazione del secondo faldone e' "sorprendente" , affermano i due consulenti Gerardo Padulo e Libero Mancuso, perche' "nessuno aveva mai accostato, alle carte di Moro, gli elenchi dei gladiatori". Il secondo faldone contiene documentazione scambiata tra uffici diversi del Viminale per verificare informazioni sugli aderenti a Gladio  i cui nomi, in ordine alfabetico, vengono riportati su fogli che recano l'intestazione "MOROELENCO". Anche il primo faldone contiene un elenco intestato pero' 'MORONOMI' e riguardante persone che  per logiche e incombenze diverse si erano occupate del sequestro Moro e delle carte di via Monte Nevoso. Nel secondo faldone c'e' la richiesta di stilare dei "cartellini" per tutti i nominativi, comprese le date di nascita presenti nel fascicolo "Sequestro Moro-Via Monte Nevoso- Elenchi". L'originale del fascicolo, classificato "segretissimo", venne conservato in cassaforte. Ci sono poi una serie di elenchi con indicazioni diverse di segretezza, l'ultimo del 1991, che riportano elenchi di aderenti a Gladio. Da un primo esame degli elenchi, segnalano i due consulenti nel documento inviato in commissione, "sembra che diversi nominativi oggetto di identificazione e notizie da parte della questura non figurino nel noto elenco dei 622". Attualmente e' in corso un processo nel quale si ipotizza che gli aderenti a Gladio possano essere stati 860 e 1909 i nominativi complessivamente sequestrati a Forte Braschi nel 1991. Le note manoscritte sul registro di protocollo "appaiono redatte contestualmente con la medesima penna e successivamente alle date di riferimento". I due consulenti rinviano ad un piu' approfondito esame degli elenchi ma se dovesse essere confermata la prima impressione non ci sarebbe che da ritenere che in occasione della diffusione dell'elenco degli aderenti a Gladio "vi sarebbero state opportune scremature presso il Sismi prima e dopo l'acquisizione di notizie richieste a Ucigos, Gdf a Carabinieri e che dunque le richieste avanzate a tali Autorita' di Polizia erano dirette ad impedire che figurassero nominativi privi di quelle caratteristiche  tranquillizzanti gia' riferiti dal Sismi". I consulenti avanzano due ipotesi su questa commistione di temi tra Gladio e le carte di Moro ritrovate nel 1990. Un  "passaggio", quello individuato, per provvedere a ripulire le liste prima di inviarle al giudice; un modo per avere una sorta di giustificazione nel non averle mai inviate al giudici. "Altra ipotesi, ben piu' inquietante, si potrebbe formulare se - affermano -  quelle intestazioni di fascicoli cosi' delicati da meritare 'segretissimo', corrispondessero al vero, se cioe' si trattasse di elenchi acquisiti in occasione del secondo sequestro delle carte di Moro in via Monte Nevoso. In proposito non si sono rinvenuti ulteriori atti che in qualche modo riconducano a tale ipotesi."
Strane carte e strani elenchi hanno gia' fatto capolino nel caso Moro in diverse circostanze: Il 14 marzo 2000, in un' audizione in commissione stragi, il giornalista Mario Scialoja viene sentito su un articolo pubblicato il 15 ottobre 1978 sull' "Espresso" con il titolo "Libro bianco sul caso Moro". Nell' articolo Scialoja scrive tra l' altro che in via Monte Nevoso "sono state trovate piu' cose di quante gli inquirenti e la stampa abbiano detto" e "e' stata anche trovata la fotocopia di un accordo di cooperazione internazionale tra i servizi segreti italiani e quelli degli altri paesi NATO". Nell' audizione, rispondendo ad una domanda, Scialoja dice che in uno  dei processi sul rapimento del Presidente della Dc aveva gia' detto"che Moro aveva ricevuto, durante il suo sequestro, dei documenti, perche' durante gli interrogatori delle Brigate rosse aveva parlato di certi argomenti. Aveva ricevuto dei documenti che aveva indicato ai suoi collaboratori assistenti e che aveva nel suo studio privato di via Savoia. Su sua indicazione, questi documenti erano stati consegnati alle Brigate rosse". Le stesse cose, Scialoja le aveva in effetti scritte in un articolo del febbraio 1980, pubblicato su "L'Espresso" e intitolato "Cinque segreti intorno al caso Moro":"Qualche tempo dopo un altro episodio venne a confermare che tra le Brigate rosse e la famiglia e gli amici di Moro esisteva un canale che sfuggiva ai controlli. Mediante una serie di messaggi che riuscirono ad aggirare la rete di sorveglianza, Moro fece pervenire ai suoi intimi la richiesta di alcuni documenti riservati contenuti nella sua biblioteca che aveva sede in via Savoia 88 a Roma e da consegnare ad un emissario delle Brigate rosse. Alcuni fascicoli furono effettivamente consegnati ed arrivarono ai brigatisti, ma il fatto si seppe e ne fu informato Cossiga. Il quale si arrabbio' molto e fece sapere che se un altro episodio di quel genere fosse accaduto il Governo avrebbe preso misure severe. In che consistano i documenti di Moro consegnati alle Brigate rosse non si sa. Si sa pero' che quando il Ministro dell'interno espose il problema ad uno staff ristretto di suoi collaboratori e gli fu chiesto se l'importanza dei documenti era tale da costringere il Governo a cambiare strategia, egli rispose di no. Una certa importanza pero' quei documenti la dovevano avere, tant'e' che gli specialisti furono subito incaricati di fare una analisi sul potere destabilizzante di un eventuale loro uso illegittimo". Nel 1982, al processo Moro, l' ex direttore dell' Espresso Livio Zanetti disse che sarebbe stato "qualcuno dello staff di tecnici predisposti all' epoca dal Viminale" a rivelare a Scialoja le informazioni su via Savoia. L' 8 maggio 1978, alla vigilia dell' uccisione di Moro, un quotidiano aveva scritto che a via Gradoli sarebbero stati trovati due elenchi: uno contenente nomi di politici, militari, industriali e funzionari di enti pubblici, l' altro di esponenti regionali della Dc. Del primo elenco si fanno i nomi di Loris Corbi, Beniamino Finocchiaro, Michele Principe e Publio Fiori. Il giorno escono anche i nomi di Gustavo Selva e Giacomo Sedati e le notizie vengono riprese da tutta la stampa. Il 9 pero' Moro viene ucciso e quindi le rivelazioni si interrompono. Il 31 ottobre 1990, i magistrati Franco Ionta e Francesco Nitto Palma, che indagavano sul secondo ritrovamento di via Monte Nevoso a Milano, ascoltano il generale dei carabinieri Vincenzo Morelli che in un' intervista riportata dal settimanale "L' Espresso", a proposito dell' irruzione dei carabinieri in via Monte Nevoso nel 1978, aveva sostenuto che nel covo era stato trovato "un archivio con ingente materiale di natura militare di massima segretezza". Nel libro "Anni di Piombo", il gen. Morelli aveva scritto che tra le altre cose, in via Monte Nevoso, fu trovata una "schedatura di uomini politici, di dirigenti politici, di uomini di partito, di ufficiali dei carabinieri, di magistrati, di esponenti sindacali". Il 15 ottobre 1993, il giorno dopo l' arresto di Germano Maccari e la pubblicazioni delle dichiarazioni di un pentito calabrese sulla presenza in via Fani di un killer della 'ndrangheta, un giornale scrive che il gen. Francesco Delfino "dal 1978 venne inviato dall' allora ministro Francesco Cossiga ad Ankara come capo settore del Sismi, per essere allontanato dall' Italia, dove era in pericolo. Nel covo delle Brigate rosse di via Monte Nevoso era stato infatti trovato un documento con i nomi di tre vittime designate: insieme col colonnello Antonio Varisco e il capitano Cornacchia, c' era anche lui". Anche di questi nomi non si troverebbe pero' traccia negli atti.
Per Walter Bielli, capogruppo Ds in Commissione stragi, "E' comunque un episodio inquietante pero' puo' trovare una spiegazione qualora il senatore Andreotti fornisse ulteriori informazioni che ci potrebbero venire anche dal colonnello Fasano, che della questione pare essersene interessato". "In ogni caso da una prima sommaria analisi dei documenti si capisce che l'elenco dei gladiatori fissato in 622 risulta essere diverso. Il che ha un suo significato non trascurabile. Forse si son voluti coprire dei nomi e anche la 'pericolosita" di Gladio. La dicitura 'sequestro  Moro covo di via Monte Nevoso - rinvenimento del 9 ottobre 1990- Carteggio' e  quella sugli elenchi degli appartenenti a Gladio fa ipotizzare una possibilita': quella che i brigatisti potrebbero essere venuti in possesso dell'elenco dei gladiatori quindi con un effetto straordinario per quanto riguarda  la conoscenza di organizzazioni segrete paramilitari in questo paese. A questo punto chi sa parli per evitare illazioni, fraintendimenti ma in ogni caso per spiegare atti e fatti che non hanno trovato una spiegazione logica e seria". Bielli nota che il 6 e 7 novembre 1990 si chiede esplicitamente di fare una indagine sui nomi. L'8 Androtti si reca alla Camera. C'e' da chiedersi - conclude - se c'e' una connessione tra queste tre date". An invece, con Enzo Fragala' e Alfredo Mantica, attacca il documento che da' conto dei due faldoni della Digos recentemente acquisiti: "prendiamo atto, con enorme preoccupazione, di questi giochini, che una certa componente della sinistra - dicono - sta mettendo in atto, in vista dell'imminente campagna elettorale. Per rispetto della verita' e a dispetto della menzogna chiediamo formalmente che il contenuto di questa relazione venga immmediatamente sottoposta a rigorosissima attivita' di verifica da parte dell'autorita' giudiziaria e, nel caso, qualora, come siamo certi, le notizie contenute non trovino nessun riscontro con la realta', venga promossa immediatamente l'obbligatoria azione penale da parte del pm per tutti i reati ravvisabili". "In questi fascicoli - proseguono i due parlamentari di An - non esiste alcun collegamento tra gli elenchi della Gladio e il secondo ritrovamento delle carte di Moro nel covo di Milano, in via Monte Nevoso".

20 febbraio - "Il Corriere della sera" pubblica in prima pagina un fondo di Ernesto Galli della Loggia che polemizza con un' ennesima presentazione del libro del presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino.

20 febbraio - Alla presentazione del libro di Giovanni Pellegrino dal titolo "Segreto di Stato", il presidente del Consiglio Giuliano Amato dice che quella che noi abbiamo vissuto e' stata la storia di un "paese non normale", con due comunita' politiche con delle varianti estremistiche a sinistra e a destra, in cui esistevano "due patrie", una legata all'occidente, l'altra all'est comunista. Questo fatto consenti' la nascita di due Gladio, entrambe difensive, una bianca e una rossa. "Questa e' l'ipotesi che mette avanti Pellegrino, una ipotesi aspra da accettare: era comodo interpretare la storia - prosegue il premier - sostenendo che l'illegalita' stava tutta da una parte". "Io non sono mai appartenuto al Pci, anzi, ma capisco che digerire un libro di questo genere e' difficile. Il volume di Pellegrino rappresenta un controcanto che non si puo' leggere correttamente solo mettendo in evidenza le illegalita' di certi apparati come la P2. La lettura storica di quegli anni che riconduce tutto a Gladio suona poco credibile anche se altrettanto poco credibile suona il fatto che i gladiatori fossero solo 600". Secondo Amato, non si puo' pensare che tutte le stragi siano state figlie dell'anticomunismo. "Alcune si', ma ci furono anche le stragi della manovalanza estremista scaricata da certi apparati. E questa potrebbe essere una spiegazione per Piazza della Loggia". Amato, nel ricordare il suo "stupore" per gli attacchi ricevuti quando parlo' delle stragi inesplicate dell'Italicus e della stazione di Bologna, vede bene l'ipotesi di "coltivare" un dubbio, cosi' come fa Pellegrino, senza doverlo "appendere al grappolo delle stragi tutte uguali". Di qui, la distinzione che il premier fa tra le stragi di chiara finalita' anticomunista, quelle che nascono dalle rotture all'interno "dell'impasto eversivo" che si era creato nel nostro paese e, quelle che non si spiegano e per le quali la risposta non deve essere necessariamente "provinciale". Per Amato le stragi dell'Italicus e della stazione di Bologna "forse si collocano sul versante di un quadrante internazionale...E' bene fermarsi qua per l'incarico che momentaneamente ricopro, anche se gli stessi Papi quando parlano dei loro incarichi dicono 'pro tempore'". "La strage dell'Italicus, dice Pellegrino, rimane inesplicabile - ha tra l'altro detto il premier - e sono anch'io convinto di cio'. Non sappiamo la motivazione della strage di Bologna anche se conosciamo chi materialmente l'ha fatta". Di queste stragi si puo' anche ipotizzare una  matrice che non e' proprio 'provinciale'". Impostare cosi' queste vicende, ha ancora detto Amato riferendosi al libro di Pellegrino, consente di "coltivare un dubbio senza doverlo appendere al grappolo delle stragi tutte uguali". Amato ritiene inoltre plausibile l'ipotesi che l'eventuale presa del potere da parte del Pci potesse essere bloccata dall'Urss stessa per non avere fastidi dagli americani su altri fronti, "nello spirito di Yalta". Cosi' come, per quanto riguarda il periodo delle Brigate Rosse, il presidente del Consiglio parla di una infatuazione "irresponsabile" da parte di una certa borghesia, di cui facevano parte anche professori universitari: una infatuazione dunque che nasceva da "ruoli superiori" a quelli che erano i tradizionali elettori del Pci. "Gli incontri nella casa a Prati e le rivelazioni su Firenze sono di grande interesse. Mi hanno impressionato tanto da rendermi scettico sulla possibilita' che una soluzione politica possa permetterci di arrivare alla verita'". "Se uno era partecipe non lo dice, anche se puo' avere le garanzie che non sara' condannato. Nel libro ci sono episodi di grande rilevanza legati alle Brigate rosse, episodi legati alla vicenda Moro e caduti nel nulla. A Roma si sta indagando su due giovani in motocicletta che erano in via Fani - ha ancora detto Amato - ma non si e' ancora indagato su fatti acquisibili da altre procure e molto piu' rilevanti". Amato ha anche citato l'ipotesi del "doppio ostaggio" per quanto riguarda il caso Moro. "Si era capito - ha affermato nel commentare il libro di Pellegrino - che Moro stava dando informazioni alle Brigate rosse". Amato sostiene anche che abbiamo il dovere "di continuare comunque a cercare la verita"' sulle stragi. "E' un dovere che va al di la' di cio' che possono fare i giudici". "Anche su Ustica bisogna arrivare a capire quello che e' successo. C'e' un diritto alla verita'" senza porsi limiti del tipo "taci il nemico ti ascolta", ha ancora detto il premier sottolineando come Pellegrino nel suo libro cerca di uscire da una visione "manichea" di queste storie. Il presidente Ds Massimo D'Alema definisce "singolare" la polemica aperta da Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere della Sera". "Scrivere libri non rappresenta una lesione per le prerogative del Parlamento. Non significa sottrarre al Parlamento doveri e prerogative. Questo libro e' una iniziativa di lotta politica e civile e documenta le difficolta' della commissione stragi di arrivare ad una chiave di lettura complessiva condivisa al suo interno. Una certa polemica che non ha senso da parte di chi professa liberalismo anzi se n'e' fatto cattedra. Speriamo che in futuro non ci vietino i dibattiti", ha detto sorridendo, aggiungendo poco dopo: "c'e' una ventata liberale inquietante nel paese". D'Alema ha condiviso pienamente il giudizio che esce dal volume, ma ora chiede "qualche elemento in piu"'. E si rivolge, direttamente e indirettamente, a Francesco Cossiga. "Una volta Cossiga mi riferi', e non e' un segreto, una sua valutazione conclusiva su questa vicenda: 'abbiamo difeso la democrazia possibile' nel quadro di un mondo che era quello. I margini di sovranita' erano quelli. Io sono disposto ad accettare questa conclusione, ma prima di arrivarci vorrei conoscere qualcosa sulla parte precedente. Per curiosita' di verita', non per malizia". D'Alema ha chiesto di conoscere "qualche altro passaggio", "pur avendo ben chiaro - ha rilevato - che la sentenza e' di assoluzione, sentenza che mi sento di condividere fin d'ora". Questo passaggio del presidente dei Ds fa riferimento alla "parte non scritta" del volume di Pellegrino, cioe' quella che non ha trovato dei riscontri tali per essere contenuta nel volume. Il libro puo' essere letto, secondo D'Alema, come "una sentenza". "C'e' pero' - ha concluso - un bisogno di verita', non per fare conti con il passato o per cercare le responsabilita' di Tizio o Caio, ma per liberare il futuro del Paese". Per questo D'Alema condivide l'invito ad uno scambio: verita' sulle stragi e la vicenda Moro in cambio della non punibilita' giudiziaria. Giunti a questo punto, dice l'ex presidente del Consiglio, non e' piu' il caso di andare a cercare le singole responsabilita' giudiziarie, ma si puo' ricercare la verita' garantendo una non punibilita'. "Quello proposto dal sen.Pellegrino - dice D'Alema - e' un obiettivo condivisibile".

20 febbraio - La procura di Roma ha aperto un fascicolo per verificare se sia fondata l' ipotesi di un legame tra un nuovo elenco di appartenenti a Gladio e la vicenda del ritrovamento delle dossier Moro in via Monte Nevoso, come sembrerebbe emergere dopo l' acquisizione di due faldoni di documenti da parte dei consulenti della Commissione stragi. Il fascicolo, intestato "atti relativi a", e' stato aperto dai pm Franco Ionta e Giovanni Salvi, gia' titolari dei procedimenti sul sequestro e l' omicidio di Aldo Moro nonche' sulla struttura cosiddetta 'Stay Behind". I magistrati hanno gia' ricevuto dalla Commissione i faldoni, classificati in passato con "segretissimo", recanti le intestazioni "A-4. Sequestro Moro - covo di via Montenevoso - rinvenimento del 9 ottobre 1990 - carteggio" e "sequestro Moro - elenchi appartenenti organizzazione Gladio". I magistrati dovranno accertare se l' eventuale legame sia frutto anche di una casualita' dovuta alla 'coincidenza' dei tempi in cui si sono verificati i fatti.

22 febbraio - Muore l'ex direttore della Banca Rothschild di Zurigo Jurg Heer, 65 anni. Heer, detto anche il 'banchiere dei misteri', colpito dal virus hiv, ha trascorso le ultime settimane della sua vita al 'Lighthouse', un ospizio per malati di aids in fin di vita. Ex responsabile della sezione crediti della Banca Rothschild di Zurigo, dalla quale fu licenziato in tronco con accuse di frode e irregolarita', Heer usci' allo scoperto nel novembre 1992 con rivelazioni al settimanale tedesco "Bild" e al "Wall Street Journal". "Facevo parte di un sistema criminale", disse Heer, aggiungendo che "il barone Rothschild copriva una gigantesca fuga di capitali dall' Italia" con "collegamenti con la mafia nel nord d' Italia". Heer sosteneva anche di aver consegnato personalmente, con un sistema di riconoscimento basato su una banconota da 100 dollari tagliata a meta', una valigetta che, a quanto avrebbe saputo dopo, conteneva 5 milioni di dollari per i killer di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano trovato impiccato nel 1982 sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra. A dicembre 1992, in un' intervista a "Panorama", Heer aggiungeva che la banca Rothschild aveva costituito una struttura parallela proprio per le operazioni "delicate" (la "Orion") e aveva legami di affari con la "P2". E sulla vicenda Calvi precisava che l' ordine di consegnare la valigia era partito da "una persona con funzione elevata nella P2", "una persona di fiducia di Gelli". Heer, che possedeva diverse ville, aveva collezionato una ottantina di vetture d'epoca ed aveva un livello di vita estremamente lussuoso, era stato arrestato nel luglio 1992 su ordine della magistratura elvetica per aver causato perdite all' istituto di credito per oltre 200 milioni di franchi svizzeri con la concessione di crediti "scoperti". Due mesi dopo venne scarcerato e scomparve. Venne' segnalato in Italia, in Turchia e in Azerbaigian e fu arrestato di nuovo nell' ottobre 1997 a Hat Yai, in Thailandia. Nell' ottobre 1998, la Corte distrettuale di Zurigo lo riconobbe colpevole di appropriazione indebita per 55 milioni di franchi e lo condanno' a quattro anni di reclusione e a 10 mila franchi d'ammenda. Stanco, invecchiato e malato di aids, Heer rinuncio' a presentare appello.

23 febbraio - "La Repubblica" edizione napoletana pubblica una breve intervista con Salvatore Spinello, massone accusato di voler creare una sorta di Loggia P3:
""Io sono il Gran Maestro del Gosi, Grande oriente scozzese d'Italia, Piazza del Gesù, per intenderci, massoneria regolare e non un sovversivo, vorrei tanto poterlo spiegare al procuratore Agostino Cordova, parlandogli di persona...".
Eccolo qui il professore Salvatore Spinello, accusato dalla Procura di voler fondare una sorta di P3. Un'indagine che in ottobre portò agli arresti domiciliari il professore e suo figlio con l'accusa di aver violato la legge Anselmi nata subito dopo lo scandalo P2. Settantanove anni portati gagliardamente, barba e pizzetto bianchi, attende davanti all'aula 211 che si svolga l'udienza preliminare dell'inchiesta che lo vede imputato assieme al figlio Nicola e al commercialista napoletano Ubaldo Procaccini.
"Posso spiegare tutto, io: la massoneria napoletana, Craxi e il pentito della mafia", dice con enfasi a Repubblica.
Allora, professore, voleva imitare Licio Gelli?
"Nooo, noi siamo contro la P2 di Gelli".
Sarà, ma la Procura dice che volevate riscrivere la Costituzione e interferire con il Parlamento...
"Certo che voglio riscrivere la Costituzione, vecchia com'è... Anzi, l'ho già riscritta e spedita a tutti i parlamentari. La prima volta che mi dedicai alla Costituzione fu da consulente di Bettino Craxi, che mi ringraziò ma poi non fece nulla del mio documento".
A Napoli stavate costituendo una loggia segreta, recita l'accusa.
"Per Napoli avevo un progetto...".
Quale?
"Rimettere assieme gli appartenenti a logge regolari. Trovare una sede, aprirla. Niente di segreto. Mi hanno fermato prima".
La Procura le addebita comportamenti a dir poco inquietanti.
"Quel signore che mi accusa non dice il vero".
Si riferisce a...
"Angelo Siino".
Lei conosceva il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra?
"L'ho conosciuto, per 15 minuti 15, negli anni 80, quando era uno stimato imprenditore sposato con una nobildonna e non un mafioso pentito".
Chi glielo presentò?
"Un fratello siciliano. Ma guardi che io conosco tutti, da Craxi ad Andreotti...".
Lei è il Gran Maestro di quanti massoni?
"Sono 8 mila nella mia area. Di tutte le professioni".
È già stato inquisito per vicende massoniche?
"Sì, ed anche prosciolto. Indagini sempre di Cordova, contro il quale non ho nulla. È in buonafede e vuol far qualcosa per il Paese, peccato non abbia mai voluto interrogarmi di persona, guardarmi negli occhi, sentire le mie risposte".
In aula, il figlio del Gran Maestro, Nicola Spinello, annuncia due iniziative. Dice di aver chiesto alla Procura generale l'avocazione di un'indagine su suo padre e lui; aggiunge di voler ricusare il gup per essersi già pronunciato su un aspetto della vicenda. Poi, le solite schermaglie procedurali. Ed il rinvio. Lontano. Al 4 maggio."

26 febbraio - Presentato in Francia il libro "Revelations", di Denis Robert, un giornalista non nuovo ad inchieste sul mondo della finanza e sui paradisi fiscali. Il libro parla di una "camera di compensazione" finanziaria, con base a Lussemburgo, che sarebbe diventata in qualche anno base di un vorticoso giro di conti segreti per centinaia di miliardi di dollari. Il libro, che uscira' in settimana in Francia, cita banche ed imprese di molti paesi che sarebbero coinvolte, lasciando intendere che quei conti segreti servivano per loschi affari, come il riciclaggio di denaro e si basa quasi esclusivamente sulla testimonianza di Ernest Backes, che fu dirigente della Cedel (la "camera di compensazione" lussemburghese che adesso si chiama Clearstream) e che fu poi licenziato. Backes sostiene di essere in possesso di un'impressionante documentazione fatta di dischetti, videocassette, roba da "riempire decine di metri di scaffali" e che rappresenta "un'assicurazione sulla vita". C'e' di tutto, dalla Elf all'Ambrosiano, dalla banca spagnola Banesto ai fondi pensione Chrysler Canada, ai pesos d'oro messicani del dittatore cubano Batista. Per 'Le Figaro', che ha aperto la sua prima pagina con la presentazione del libro, il sistema della Cedel-Clearstream potrebbe essere "la piu' grande macchina di riciclaggio di denaro sporco al mondo". Da parte della finanziaria lussemburghese e' giunta subito una secca smentita, che parla di controlli "draconiani" sui propri conti. La Cedel nacque alla fine degli anni Sessanta per venire incontro alla legittima esigenza delle banche internazionali di minimizzare i tempi e i costi per i trasferimenti di documenti contabili, annullando fra l'altro le somme che gli istituti dovrebbero ogni volta versarsi l'un l'altro. Ma, all'inizio degli anni Novanta, questa la tesi di 'Revelations', si sviluppo' in poco tempo la pratica dei "conti segreti". Prima ogni banca aveva un conto presso Cedel, da un certo momento in poi tutte - comprese quelle con sede nei paradisi fiscali o un'esercito di neonate banche russe di dubbia origine - sono state autorizzate ad aprire dei "sottoconti" in codice. In alcuni casi, grandi gruppi industriali avevano accesso diretto a questi conti. Denis Robert, quando parla di coinvolgimenti italiani, cita praticamente tutti i grandi misteri e scandali italiani degli ultimi anni, da Calvi alla P2, dallo IOR a Gladio, sempre affidandosi a documentazioni gia' note e pubblicate. I conti delle banche italiane, secondo lui, erano particolarmente numerosi (a fine anni Settanta apportavano il 60% del volume di affari trattati da Cedel) in quanto "nel loro paese erano sottomesse a pesanti tassazioni di capitali". "Le Monde", che giudica relativamente affidabilel'inchiesta, scrive pero' oggi che "i fatti che 'Revelations' denuncia restano da provare".

27 febbraio - Il quotidiano online "Il Nuovo" pubblica un altro articolo di Gianni Cipriani sulle carte dell' archivio Cogliandro. Le rivelazioni riguardano i giornalisti e le testate spiate dal Sismi:
"Spie in redazione
Nome per nome, tutti i giornalisti schedati dal Sismi negli anni della gestione Santovito-Cogliandro. Notizie su testate di ogni tendenza e colore finivano negli archivi di Forte Braschi.
ROMA - Quando un giorno sarà scritta una prima storia dello spionaggio in Italia, sicuramente una delle categorie che raggiungerà il vertice tra quelle che hanno prestato ai servizi segreti agenti, informatori, fiduciari e spie, sarà quella dei giornalisti i quali, per la natura stessa del loro mestiere che li autorizza a muoversi e a "domandare", sono sempre stati considerati dagli esperti di intelligence una delle principali fonti. E come tali utilizzati, spesso con il consenso del giornalista stesso. Ma i giornalisti, proprio per la delicatezza del loro ruolo - si pensi solo ai vaticanisti, ai giudiziari e a quelli dei servizi politici - sono stati molte volte anche vittime di attività spionistiche dei servizi segreti stessi, i quali avevano interesse a raccogliere ogni tipo di informazione soprattutto sui personaggi più "scomodi" e, comunque, su ogni persona che, in un futuro indefinito, avrebbe potuto essere avvicinata e convinta a collaborare con le lusinghe o con il ricatto. Ed in effetti l'esame del carteggio del Controspionaggio a suo tempo sequestrato dal giudice Rosario Priore nell'ambito della maxi-inchiesta sulla strage di Ustica, fa emergere una vera e propria schedatura di massa che vede, tra testate e giornalisti, circa 100 fascicoli aperti dal Sismi, molti dei quali sono stati opportunamente distrutti perché, c'è da ritenere, contevano informazioni di natura privata o raccolte in maniera illegittima. Proprio perché la schedatura è di massa, è difficile individuare uno dei criteri seguiti dal servizio segreto, che ha inserito nelle sue liste giornalisti e testate di ogni tendenza politica, con particolare riferimento alle "personalità" e ai cronisti d'inchiesta. Ad ogni modo, da un rapporto, è possibile comprendere che uno degli interessi del Sismi, come detto, era quello di non escludere di poter tentare di "agganciare" in futuro il giornalista, se ciò fosse stato ritenuto utile. Naturalmente i giornalisti nulla sapevano di questo interesse degli 007. La vicenda più significativa, in questo caso, è quella di Jas Gawronsky , corrispondente della Rai da Mosca, sul quale, al momento della nomina, fu preparata una velina. Le indicazioni a margine erano assai eloquenti: "E' possibile avvicinarlo?". Il nome di Gawronsky, tra l'altro, era finito anche all'interno del dossier Mitrokhin sulle spie sovietiche in Italia, ma il dossier, nonostante l'infinita polemica politica, si è dimostrato largamente inattendibile, pieno di imprecisioni. E comunque è da escludere che il giornalista della Rai fosse una spia russa. Al contrario, è evidente come il ruolo di corrispondente da Mosca fosse considerato, sia dal Sismi che dal Kgb, come un posto privilegiato per inserire un informatore. Un "blocco" di giornalisti schedati riguarda, come detto, quelli che si sono più di altri misurati con il terrorismo e i "misteri d'Italia". Molti i nomi di rilievo che non hanno bisogno di presentazioni: Chiara Beria D'Argentine ; Pietro Calderoni; Romano Cantore ; Roberto Chiodi; Roberto Fabiani; Francesco Paolo Giustolisi; Fabio Isman, il giornalista del Messaggero che fu arrestato per aver pubblicato i verbali segreti di Patrizio Peci che gli erano stati dati dal vice-capo del Sisde, Silvano Russomanno; Giulio Obici, inviato di punta di Paese Sera; Mario Scialoia, che realizzò l'intevista-scoop con il brigatista Giovanni Senzani mentre questi era latitante; Pino Bongiorno; Andrea Santini di Paese Sera, "monitorato" per una sua inchiesta sulle Forze Armate e poi Mino Pecorelli, il suo primo direttore Franco Simeoni e Paolo Senise, che negli anni successivi avrebbe collaborato proprio con il colonnello del Sismi, Demetrio Cogliandro. In questo elenco c'era anche Marco Ligini, l'autore del libro-inchiesta Strage di Stato su piazza Fontana, il quale "godeva" di una sorveglianza continua. Nutrito anche il "pacchetto" dei direttori di giornale o di coloro i quali lo sarebbero diventati: Rodolfo Brancoli, per un breve periodo alla guida del Tg1; Ugo Stille del Corriere della Sera; Livio Zanetti ; Emilio Fede, all'epoca celebrato giornalista Rai e adesso alla guida del Tg4; Giuseppe Fiori, di Paese Sera; Antonio Ghirelli, già collaboratore di Pertini; Claudio Rinaldi, finito all'Espresso; Gaetano Scardocchia della Stampa; Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica ; Luigi d'Amato, direttore di Vita; Giano Accame, direttore del Secolo d'Italia. Molti anche i giornalisti autorevoli e famosi tra cui (con la qualifica di giornalista-scrittore) era stato inserito anche Alberto Moravia. Tra loro Giorgio Bocca, Gianni Corbi, Barbara Spinelli, Giulietto Chiesa (chiamato dal Sismi Lucietto, ndr) il vaticanista Alceste Santini, vero e proprio "ambasciatore" del Pci presso la Santa Sede, Giancesare Flesca e Antonio Gambino, Paolo Guzzanti, Alberto Jacoviello, ex Unità passato a Repubblica e Ulderico Munzi . L'elenco, ad ogni modo, è sterminato. Vi compaiono i nomi di molti giornalisti ancora oggi - ma non sempre - in piena attività: Pino Barile, Vincenzo Piero Baroni , Stefano Brusadelli, Matteo Spina, Rosy Talamone, Michele Topa, Paolo Torresani, Massimo Tosti, Massimo Uffreduzzi, Ernesto Viglione, Giuseppe Catalano, Sergio Cecchini, Paolo Cichero, Fabrizio Coisson, Lionello Colozza, Gabriele Invernizzi, Nino Longobardi, Gianni Lazotti, Marcella Leone, Goffredo Parise, Rita Porena, Giorgio Porreca, Eric Salerno, Francesco Lisi, Paolo Torresani , Giuseppe Catalano, Lionello Calozza, Sergio Cecchini e Gianni Rossi. Ciascuno di loro aveva un fascicolo. Anche in questo caso, come era accaduto per i rapporti su Papa Giovanni Paolo II, molte delle carte sono andate distrutte, altre ancora sono conservate negli archivi di Forte Braschi. Infine, tra le persone titolari di un fascicolo, era stato inserito Giorgio Boatti, studioso delle Forze Armate e autore di molti libri sulla strategia della tensione, nonché gli esperti di questioni militari e strategiche Stefano Silvestri ed Enrico Iacchia. Ma non è finita: nella schedatura di massa fatta dal Sismi dell'epoca non solo erano previsti i dossier sui singoli giornalisti, ma anche le pratiche su ogni singola testata. Così, nel carteggio non solo erano finiti i faldoni relativi all'organo del Pci, l'Unità , o al giornale filo-comunista Paese Sera o a Lotta Continua o, ancora, al settimanale satirico il Male , ma anche giornali i quali, almeno secondo le logiche dell'epoca, avrebbero dovuto essere considerati più affidabili. Ecco così che era stata fatta una schedatura addirittura sul quotidiano della Santa Sede l'Osservatore Romano e sull'altro periodico Civiltà Cattolica (forse l'attività era parte integrante dello spionaggio verso il Vaticano) e verso le principali agenzie di stampa: l'Ansa, la Kronos, Radiocor. Tra i quotidiani il Corriere della Sera, il Giorno, il Giornale d'Italia, il quotidiano di Napoli, Roma e il Messaggero. E infine l'Occhio, diretto da Maurizio Costanzo che ebbe vita breve. Non potevano, naturalmente, mancare i settimanali. L'Europeo, il Mondo , l'Espresso e Rivista Confidenziale. E infine Panorama. Una redazione, all'epoca, particolarmente controllata: a margine del registro, infatti, c'era scritto a proposito di un rapporto datato 4 gennaio 1980: collusioni tra giornalisti e presunti capi delle Brigate Rosse. Le accuse non sarebbero mai state provate. Eppure quella "maldicenza" ha continuato a circolare per molto tempo. Tant'è che le stesse cose sarebbero state ripetute, circa dieci anni dopo, da un informatore (un giornalista) del Sismi, che lavorava proprio per il colonnello Cogliandro. Ossia per il responsabile dell'archivio del Controspionaggio."

8 marzo - "La Repubblica", edizione di Firenze, scrive che una lettera intimidatoria su "Berlusconi piduista" è stata recapitata a due consiglieri di Forza Italia in palazzo Vecchio, Bianca Maria Giocoli e Massimo Pieri. La lettera, spedita da Roma, conterrebbe offese ad esponenti di Forza Italia ed a Berlusconi, assieme al riferimento che il leader azzurro è stato iscritto alla loggia massonica P2. "All'inizio non gli avevamo dato molta importanza, ma ci hanno consigliato di non sottovalutare la cosa" afferma Massimo Pieri che, insieme alla sua compagna di partito Giocoli, ha consegnato il testo della lettera al responsabile dell'Ufficio città sicura Stefano Filucchi con il quale hanno poi incontrato il dirigente della Digos fiorentina Benedetti.

13 marzo - Il presidente dell'Unione degli Industriali di Roma Giancarlo Elia Valori, nel convegno “La tesi di Roma per la competitivita': coniugare saperi e nuova economia”, afferma che per gestire il nuovo processo di informatizzazione “e' forse giunto il momento di riconsiderare il modello di organizzazione del mondo del lavoro, delineato dall'articolo 39 della Costituzione” sui sindacati. La proposta parte dalla considerazione che “e' indiscutibile - ha spiegato Valori - che la new economy avra' un'incidenza quanto mai negativa sull'occupazione. Il che si iscrive, a ben vedere, in un trend che possiamo definire storico. I sistemi industriali si sono da sempre evoluti, deprimendo quantitativamente la mano d'opera coinvolta nei processi produttivi. Adesso occorre gestire questo nuovo processo di informatizzazione, che fa paventare lacrime e sangue, se non verra' amministrato con la completa collaborazione di tutti”. Valori afferma anche che, dopo aver incontrato i candidati sindaci dei due schieramenti, Veltroni e Tajani, incontrera' i candidati premier Francesco Rutelli e Silvio Berlusconi.

14 marzo - Daniele Luttazzi, durante la puntata di Satyricon, intervista Marco Travaglio, autore del libro “L'odore dei soldi”, parlando di lui come di “un uomo che ha coraggio” e definendo l' Italia “un paese di merda”. In un' intervista, che fara' probabilmente discutere come alcune delle precedenti andate in onda del programma di Raidue, Luttazzi ha dato spazio all' autore del libro in gran parte dedicato a Silvio Berlusconi. Fra le altre parti del suo libro, Travaglio ha ricordato quella in cui viene citata l' intervista di Paolo Borsellino in cui si parla anche dei rapporti tra Berlusconi e Mangano. Quell' intervista, secondo Luttazzi, se fosse stata fatta oggi avrebbe fatto guadagnare anche a Borsellino, che aveva notoriamente simpatie di destra, l' epiteto di toga rossa. Alla fine Luttazzi, rivolto a Travaglio, ha concluso: “In questo paese di merda tu sei uno che ha coraggio”.

15 marzo – Per Silvio Berlusconi, quelle lanciate nella trasmissione Satyricon sono accuse inverosimili, formulate in base a una "intervista manipolata" e di fronte alle quali non si "abbassa a rispondere", ma annuncia querele. Berlusconi chiede le dimissioni del presidente della Rai Roberto Zaccaria e subito dopo ribadisce: "Evidentemente la sinistra è alla disperazione e deve ricorrere a queste bassezze. Sono sicuri di perdere e questa trasmissione è un boomerang per la sinistra". Prima delle esternazioni serali il leader della Casa delle libertà aveva affidato i suoi giudizi a una lunga dichiarazione scritta. La Rai, sostiene Berlusconi, si è trasformata "in cassa di risonanza di un libercolo diffamatorio presentato come una raccolta di verità da un suo autore" e le "sconvolgenti verità" esposte nella trasmissione Satyricon sono "null'altro che tesi affacciate, scegliendo fior da fiore, e omettendo quanto non di comodo in sede giudiziaria: tesi tanto sballate da non aver mai portato neanche all'emissione di un avviso di garanzia" nei suoi confronti. La cassetta con l'intervista di Paolo Borsellino, dice il Cavaliere, "è stata manipolata". "Davanti all'accusa secondo la quale sarei tra i mandanti occulti delle stragi di Capaci, di via D'Amelio, degli Uffizi - insiste - non mi abbasso a risponderne. Dovranno invece renderne conto l'autore del libercolo, il conduttore della trasmissione e i vertici della Rai". "Con l'avvicinarsi delle elezioni - scrive ancora il leader di Forza Italia - ero stato facile profeta nel prevedere che ne avremmo viste delle belle. Quello che non potevo nemmeno immaginare era che l'azienda che gestisce il servizio pubblico dell'informazione si trasformasse in cassa di risonanza di un libercolo diffamatorio presentato come una raccolta di verità da un suo autore, già condannato per diffamazione, con la complicità di un conduttore che lo aizzava a dire di tutto, di più e anzi di peggio". Berlusconi annuncia quindi che "ovviamente" i suoi legali chiederanno conto nelle opportune sedi giudiziarie del loro operato "ai diffamatori autori del libercolo". "La qualità dell'aggressione, concertata in mio danno - aggiunge - può essere percepita da chiunque quando si consideri il modo in cui il diffamatore e il suo complice hanno sfruttato il nome di Paolo Borsellino e l'intervista, presentata come una sorta di testamento spirituale, da lui resa due giorni prima della strage di Capaci: tutti sanno, e soprattutto lo sa la Rai, che la mandò in onda nel settembre 2000, che quella cassetta è stata manipolata, come risulta dalla trascrizione integrale dell'intervista pubblicata da 'L'Espresso' dell'8 aprile 1994, a pagina 80-84".

15 marzo – In una cerimonia a Palazzo Ruspoli a Roma, il direttore generale dell' Unesco, Koichiro Matsura, conferisce l’ importante riconoscimento internazionale di ambasciatore dell’ Unesco al presidente dell' Unione degli Industriali di Roma. Giancarlo Elia Valori.

19 marzo - Dopo un esilio in Sudafrica durato 21 anni, Gianadelio Maletti ha lasciato ieri sera Johannesburg per Milano dove e' arrivato in mattinata. L'ex capo del Reparto D del Sid, latitante da anni, ha accettato di tornare in patria e domani deporra' davanti alla Corte d'Assise di Milano sulla strage di Piazza Fontana. Il generale Maletti sara' in Italia per alcuni giorni, protetto da un salvacondotto previsto dall'articolo 728 del Codice di Procedura penale, che stabilisce come una persona che compare per deporre non possa essere sottoposta a restrizioni della liberta' personale. L'estate scorsa Maletti e' stato condannato a 15 anni per strage, al termine del processo per l'attentato alla questura di Milano del 17 maggio 1973. La condanna ha spronato Maletti, che in tutti gli anni di latitanza aveva mantenuto il piu' assoluto silenzio sul suo ruolo nella "strategia della tensione", a decidere di parlare. Dopo lunghi e delicati negoziati condotti dal suo legale di fiducia, avvocato Michele Gentiloni, con la Procura di Milano, il generale ha accettato di tornare in Italia per deporre. Considerazioni di natura personale hanno anche giocato un ruolo nella decisone di rientrare: Maletti, hanno fatto sapere fonti a lui vicine, non e' in buona salute e desiderava da tempo rientrare in patria, dove vive sua figlia. Dopo ventuno anni di silenzio, c'e grande attesa per le parole di Maletti, da molti considerato l'unico in grado di rivelare i retroscena e i segreti di uno dei periodi piu' bui della storia della Repubblica italiana. L'ex capo dell'Ufficio D del Sid Gianadelio Maletti, giunto stamani a Milano con un aereo proveniente Johannesburg rimarra' in Italia per cinque giorni. L'ex generale, che domani sara' sentito come imputato in procedimento connesso al processo per la strage di piazza Fontana, in corso a Milano davanti ai giudici della seconda Corte d'Assise, non potra' usufruire dell'intero salvacondotto di 15 giorni che gli e' stato accordato. Dal 24 marzo, infatti, sara' soppresso il volo diretto da Milano per il Sud Africa, sicche' l'ex generale dovrebbe imbarcarsi su altri voli e fare scalo in altri aeroporti europei dove, in teoria, potrebbe esser fermato e arrestato non essendo coperto dal salvacondotto. Dopo la deposizione di domani l'ex generale, giovedi', sara' sentito anche dai magistrati della Procura di Brescia che indagano sulla strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 (otto morti e un centinaio di feriti).

20 marzo - L' ex capo dell' ufficio del Sid, Gianadelio Maletti, arriva alle 9.45 all' aula bunker di piazza Filangeri, a Milano, dove si svolge il processo per la strage di piazza Fontana. Maletti, condannato a 14 anni di reclusione per depistaggio e a 15 anni di reclusione nel processo per la bomba davanti alla questura di Milano, ha ottenuto un salvacondotto di 15 giorni per poter deporre. Maletti da 21 anni vive in Sud Africa dove dal 1980 ha anche ottenuto la cittadinanza. Durante l’ interrogatorio Maletti dice che "E' probabile che la Cia abbia aiutato movimenti eversivi italiani che facevano comodo alla politica americana" e spiega i rapporti che esistevano all'epoca tra il Sid e la Cia. Rapporti sostanzialmente di "sudditanza" da parte del servizio italiano nei confronti di quello americano. A quanto ha raccontato Maletti, insomma, gli agenti della Cia poco o nulla riferivano ai nostri servizi, anche se indagavano sulle questioni italiane. Per fare un esempio, ha citato Edgardo Sogno. "Sogno - ha detto Maletti - ha avuto rapporti con uomini della Cia. Stava raccogliendo le fila per un golpe, di questo ne ha parlato con la Cia che pero' non ha informato i nostri servizi. Questa mi pare una politica scaltra tra alleati". Maletti ha anche spiegato che il servizio americano aveva avuto precise informazioni sulla vicenda della 'Rosa dei Venti'. All'inizio dell' udienza le difese di Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi hanno sollevato un' eccezione sulla possibilita' di sentire l' ex generale del Sid. Secondo gli avvocati delle difese, Maletti dovrebbe essere sentito come testimone e quindi giurare; secondo il pm, invece, Maletti doveva essere sentito come indagato in procedimento connesso. La Corte ha deciso di sentire Maletti in quest'ultima veste. Maletti racconta anche che il Sid aveva infiltrati in Ordine Nuovo e in Avanguardia Nazionale:”Avevamo infiltrati e informatori". Il generale ha spiegato alla corte che, per i servizi, era "normale" infiltrare le organizzazioni di estrema destra, e dice anche che "Il servizio americano contribuiva a finanziare a livello economico il Sid". "Il servizio americano –per Maletti - ha avuto anche una parte importante nella costituzione di Capo Marrargiu". L' ex capo del reparto D del Sid ha riferito che la Cia in Italia aveva molte basi, e tra queste erano operative anche le caserme della Setaf e della Ftase. "Nel 1971 ho appreso che anni prima, attraverso il passo del Brennero, era arrivato dell' esplosivo direttamente dalla Germania per una cellula veneta di destra" afferma anche l' ex capo del reparto D del Sid, spiegando di avere appreso questa notizia nel 1971 direttamente dal capo centro del servizio a Padova. Conversando con i giornalisti durante la pausa dell'udienza, Maletti dice anche:"Ho sempre avuto la sensazione che ci sia stata una matrice e un appoggio oltre frontiera. Certo, non penso ai tedeschi" ha detto ancora Maletti, aggiungendo "L'aiuto non poteva venire che da la'. Pensate che negli Stati Uniti ci sono tutt'oggi gruppi neonazisti". Maletti, che aveva parlato del suo trasferimento durante l' udienza, e' ritornato su questo punto conversando con i giornalisti: "Nel '75 sono stato trasferito. C'e' stato in me un senso di frustrazione, perche' per la strage di Piazza Fontana, come servizio non ci interessavamo piu', in quanto si occupava l'autorita' giudiziaria. C'erano pero' stati altri attentati e io stavo indagando su gruppi dell'eversione di destra e di sinistra". Sul ruolo della Cia e dei servizi militari statunitensi, Maletti ha un' idea chiara: "Aiutavano i movimenti eversivi italiani che facevano comodo alla politica americana". Lo facevano in modo prepotente, senza coinvolgere i servizi italiani: "Un esempio questo - ha detto Maletti - di sovranita' limitata. Loro sostenevano economicamente il Sid ma non davano alcuna informazione". Le basi degli agenti della Cia, proprio come ha detto Digilio, erano le caserme della Ftase e della Setaf di Verona e Vicenza. Anche su questo punto ha detto di non avere prove, ma ha aggiunto: "Io so che le cose stanno cosi' anche perche' ho fatto un corso di due anni negli Usa. Lo so per esperienza, lo so perche' sapere quelle cose era il mio mestiere". L'ex generale ha anche confermato che il servizio segreto italiano infiltrava le organizzazioni di estrema destra. "Tutti infiltravano tutti. Era un groviglio inestricabile". E ha anche ricordato che tra le fonti c'era quella denominata 'Tritone', ovvero l'ordinovista Maurizio Tremonte, ora indagato per la strage di piazza della Loggia a Brescia. Piu' reticente, invece, e' stato sulla riunione del 18 aprile del 1969 avvenuta a Padova, nel corso della quale, secondo Marco Pozzan, che ha poi ritrattato, vennero decisi gli attentati ai treni dell'estate. A quella riunione, secondo il primo racconto di Pozzan, oltre a Freda e Ventura era presente anche Pino Rauti. Su questa vicenda, Maletti non ha detto chi fu la fonte che lo informo' nonostante esista un suo manoscritto nel quale scriveva al capitano La Bruna che non avrebbe fatto quel nome. Di voler tornare in Italia per deporre, a certe condizioni, Maletti aveva parlato all' inizio di agosto del 2000, in un' intervista a “La Repubblica”. Maletti aveva detto:"Ripetero' tutto davanti all' autorita' giudiziaria, purche' ci siano le condizioni. E'chiaro che mi voglio tutelare, ho gia' pagato abbastanza per delle accuse infondate". Ottanta anni ancora da compiere, Maletti e' stato al centro di molte delle vicende piu' oscure della storia italiana. Nato il 30 settembre 1921 a Milano, da una famiglia piemontese di antiche tradizioni militari, finisce anche lui nell' esercito e poi nel Sid, che allora era l' unico servizio segreto italiano. Dirige l' ufficio "D" dal 1971 al 1975 quando il capo del Sid era il gen. Vito Miceli. I due erano divisi da una fiera rivalita', nonostante i nomi di entrambi comparissero poi nelle liste dei presunti iscritti alla loggia massonica P2, trovate nel 1981 negli uffici della Gio.Le. di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. Quando scoppia lo scandalo P2 Maletti si trovava gia' in Sudafrica. Dalla carica nel Sid, secondo quanto scrisse allora Lino Jannuzzi sul settimanale "Tempo", Maletti fu destituito improvvisamente dopo un' intervista rilasciata allo stesso settimanale in cui parlava di una riorganizzazione delle Brigate rosse "sotto forma di un gruppo ancora piu' segreto e clandestino e costituito da persone insospettabili, anche per censo e per cultura, e con programmi piu' cruenti" e che "i mandanti restavano nell' ombra, ma non direi che si potessero definire 'di sinistra"'. Maletti era gia' stato arrestato per qualche settimana nel 1976, insieme al suo braccio destro, il cap. Antonio Labruna, nel corso delle indagini per la strage di piazza Fontana. Per la strage del 1969 alla Banca nazionale dell' Agricoltura il generale ebbe una condanna definitiva ad un anno per falsita' ideologica in atti pubblici (per il passaporto procurato a Marco Pozzan, all' epoca imputato di strage). Ma il gen. Maletti ha avuto anche altri problemi con la giustizia italiana. Nel 1996 e' passata in giudicato anche la condanna a 14 anni subita nel processo per l' attivita' della P2, per procacciamento di notizie riservate. Di un anno fa e' invece la condanna in primo grado a 15 anni nel processo davanti alla quinta Corte d'Assise di Milano sulla strage davanti la questura di Milano del 1973 per l' accusa di occultamento di notizie riguardanti la sicurezza dello Stato. Nelle motivazioni la sua responsabilita' viene definita "manifesta e gravissima". L'allora capo del reparto 'D' del Sid "seppe dei propositi di attentato a Rumor addirittura prima che venisse perpetrato", omise di riferirli alla magistratura e occulto' documenti e nastri magnetici importanti. Nel 1999 invece il generale era stato assolto nel processo per il disastro dell' "Argo 16", l' aereo dei servizi segreti precipitato nel 1973. Per lui il pm aveva chiesto una condanna a 8 anni per soppressione di atti concernenti la sicurezza dello Stato. Nel 1997, la commissione stragi va in Sudafrica per sentire Maletti (che era gia' stato interrogato a Johannesburg l' anno precedente dai giudici perugini del processo Pecorelli e nel 1991 dal giudice veneziano Casson, che indagava su Gladio). Nell' audizione, durata quasi tutto il giorno, Maletti delineo' un quadro di forte dipendenza dei servizi italiani da quelli americani, e disse di aver informato il ministro della Difesa sul "salto di qualita"' delle Br ma che il suo allarme non venne raccolto. Maletti avrebbe avvalorato anche l' ipotesi di una pluralita' di reti anticomuniste operanti in Italia e detto di aver ricevuto, fino a meta' degli anni ottanta, minacce riconducibili ad ambienti italiani. Maletti accuso' politici italiani di aver chiuso gli occhi, volontariamente e per fini politici, prima nei confronti del terrorismo di destra e poi, quando ne venne denunciata la pericolosita', anche verso le Br. "Ci sono stati episodi, non solo nel Sid - disse Maletti - che fanno pensare che alcune direttive venissero impartite nel senso di tollerare, e di chiudere gli occhi su avvenimenti molto gravi. Con cio' mi riferisco al ministro della Difesa, dell' Interno ed anche alla Presidenza del Consiglio". Piu' o meno gli stessi concetti, Maletti li ripete nell' intervista dell' agosto del 2000:"La Cia voleva creare attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell'estrema destra, Ordine nuovo in particolare, l'arresto del generale scivolamento verso sinistra. Questo e' il presupposto di base della strategia della tensione". L' ultima intervista rilasciata da Maletti e' del gennaio di quest' anno, dopo le rivelazioni di un pentito di mafia su un presunto collegamento dell' uccisione del giornalista Mauro De Mauro con il golpe Borghese.

20 marzo – Nel link potete trovare a confronto i resoconti di “Corriere della Sera”, “Stampa”, “Repubblica” e “Messaggero” sull’ interrogatorio del gen. Gianadelio Maletti, al processo per la strage di piazza Fontana.

20 marzo - "Fino ad ora mi pare che si sia scoperta l'acqua calda". Lo ha detto il giudice veneziano Carlo Mastelloni, commentando le dichiarazioni dell'ex capo del reparto D del Sid, gen. Gianadelio Maletti, sentito al processo per la strage di piazza Fontana come testimone indagato in procedimento connesso.

20 marzo - Al processo per la strage di piazza Fontana, il pm Massimo Meroni chiede la testimonianza di Anna Fusco, figlia di Matteo Fusco, ufficiale del Sid che il giorno della strage di piazza Fontana sarebbe dovuto essere a Milano per sventare l'attentato, e qulla di Paolo Emilio Taviani. La vicenda era emersa nel settembre dello scorso anno quando l'ex ministro Paolo Emilio Taviani, sentito dai Ros, aveva raccontato di avere appreso che un uomo del Sid era stato inviato da Roma a Milano per bloccare il piano stragista. In realta' Matteo Fusco, giunto all'aeroporto di Roma aveva appreso alla radio che una bomba era scoppiata alla Banca nazionale dell'Agricoltura, per cui aveva fatto marcia indietro. In questi giorni Anna Fusco, figlia dell'ufficiale del Sid morto qualche anno fa, e' stata sentita e ha sostanzialmente confermato questa versione. La donna, che e' molto malata, e che all'epoca era vicina al Movimento studentesco, ha confermato che il padre visse con il cruccio di non essere riuscito ad evitare la strage.

21 marzo - Il senatore Vincenzo Manca (FI), vicepresidente della commissione stragi, dichiara che la commissione ha condotto riscontri sulle affermazioni fatte nell' agosto dell' anno scorso dal generale Gian Adelio Maletti, gia' responsabile dell' Ufficio D del Sid, sul fatto che l' esplosivo utilizzato per la strage utilizzato per la strage di Piazza Fontana venisse dalla Germania. Questi riscontri sarebbero stati negativi e Manca accusa l' alto ufficiale di aver detto cose false e destituite di ogni riferimento e riscontro probatorio" "Va rilevato con amarezza - dice il senatore di Fi - che un personaggio delle istituzioni che ha indossato l' uniforme non puo' centellinare verita' a rate o, addirittura, affermando l' esatto contrario (arrivando a smentire se' stesso) cosi' come accaduto davanti alla commissione Stragi, durante la sua lunga audizione in Sud Africa nel marzo 1997". Manca afferma infatti che la Commissione ha verificato che l' unico elemento che conforta le affermazioni di Maletti sulla provenienza dell' esplosivo utilizzato per la strage del 12 dicembre 1969 e' contenuta in un appunto generico, datato 1974, relativo a presunte partite di armi ed esplosivo provenienti non gia' dalla Germania ma dall' Olanda. "Ma dalle cronache apprendiamo, inoltre, che il gen. Maletti avrebbe maturato il convincimento di venir a deporre al processo per 'amor di patria'. Dalle stesse apprendiamo che la sua latitanza in Sud Africa e' stata resa possibile oltreche' dalla pensione di ufficiale delle forze armate italiane, anche da un vitalizio versatogli dal Mossad, il servizio di sicurezza israeliano. La domanda e' questa: a quale amor di patria ha fatto riferimento ieri Maletti durante l' udienza in Corte d' Assise?".

22 marzo – Il gen. Gianadelio Maletti non si presenta negli uffici della Procura di Brescia per essere interrogato dai pm bresciani titolari dell'inchiesta sulla strage di piazza della Loggia. Si e' saputo, nel frattempo, che la difesa del generale dei carabinieri Francesco Delfino, indagato nell'inchiesta, ha chiesto che Maletti venga sentito con la formula dell'incidente probatorio. Il gip Francesca Morelli non ha ancora deciso se disporlo o meno. Maletti, che e' giunto in Italia con un salvacondotto dovrebbe pero' ripartire per il Sud Africa gia' domani. Pur avendo ottenuto un salvacondotto di 15 giorni, infatti, Maletti e' costretto ad anticipare il suo rientro in quanto poi sara' soppresso il volo diretto Milano Johannesburg. Il generale dovrebbe quindi fare scalo in altri aeroporti e, in teoria, essere arrestato. Della strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 (8 morti e un centinaio di feriti), l'ex capo del reparto D del Sid, Gianadelio Maletti, non ha mai detto nulla. Il 3 marzo 1997, davanti alla commissione Stragi che lo aveva sentito a Johannesburg, si era limitato a dire che non ricordava nulla. Eppure il generale Gianadelio Maletti era stato nominato capo del Reparto D del Sid nel 1971 ed era rimasto fino al 1975. Alla domanda del senatore Co' se poteva dire qualche cosa sulla strage di Piazza Loggia, Maletti aveva replicato: "No senatore, mi dispiace, ma non ricordo proprio piu' niente di questa questione di piazza Loggia. E' stata purtroppo una delle questioni molto serie e molto gravi, ma non e' stato uno degli elementi della sovversione sul quale noi abbiamo ottenuto successo, se non mi sbaglio: quindi non mi e' rimasto impresso granche' di quella vicenda". Il presidente Giovanni Pellegrino aveva sollecitato Maletti affinche' desse una spiegazione sul ruolo dell'Arma dei carabinieri in relazione alle inchieste sulla strage, sul Mar Fumagalli e sull'uccisione del neofascista Giancarlo Esposti a Pian del Rascino. "A distanza di tanti anni - era stata la risposta dell'ex capo del reparto D del Sid - direi che l'Arma dei carabinieri si e' sempre comportata bene e non so quanti e quali elementi avesse per poter intervenire in modo piu' efficace e se ci fossero state delle limitazioni politiche al suo intervento. Queste sono ipotesi che si possono formulare ma che hanno a mio parere, dette in questo modo da me come soltanto le posso dire, poco valore". A Paolo Corsini, all'epoca parlamentare Ds e membro della commissione Stragi, ora sindaco di Brescia, Maletti aveva risposto di non avere mai conosciuto il generale Francesco Delfino, all' epoca della strage capitano comandante del Nucleo operativo dei carabinieri di Brescia. Delfino, recentemente condannato per truffa in relazione al sequestro dell' imprenditore Giuseppe Soffiantini, aveva condotto le indagini oltre che sulla strage, anche sul Mar Fumagalli. Maletti aveva anche spiegato di non avere avuto conoscenza di eventuali rapporti di Delfino con i servizi italiani e stranieri. Quindi sull'uccisione da parte di Mario Tuti e Pierluigi Concutelli in carcere a Novara di Ermanno Buzzi, l'estremista di destra, condannato all'ergastolo al processo di primo grado per la strage, Maletti aveva replicato di non essersi fatto un'idea. All'insistenza di Corsini, Maletti aveva replicato di non avere seguito quelle vicende. Della strage di piazza della Loggia, l'ex generale, forse, aveva detto piu' cose in un' intervista giornalistica dell' estate scorsa. Parlando del ruolo della Cia nella strategia della tensione, aveva affermato: "La Cia ha cercato di fare cio' che aveva fatto in Grecia nel '67 quando il golpe mise fuori gioco Papandreu. In Italia le e' sfuggita di mano la situazione. L'effetto che alcuni attentati dovevano produrre e' andato oltre. Piazza Fontana, che io sappia, e' andata cosi'. Devo presumere anche per piazza della Loggia, per l'Italicus, per Bologna". E aveva aggiunto: "Riguardo ai politici voglio aggiungere una sensazione che per me e' quasi una certezza. A quel tempo, molti di loro, compreso il Capo dello Stato, Leone, furono costretti ad accettare il gioco".

22 marzo - All'unanimita' e dopo un confronto dai toni pacati la commissione di inchiesta sulle stragi e il terrorismo chiude i lavori, dopo 13 anni, con l'approvazione di un ordine del giorno che autorizza la pubblicazione immediata ed integrale di tutti gli elaborati prodotti dai gruppi o dai singoli commissari (18). Quindi nessuna votazione, nessuna trasmissione di documenti al Parlamento, ma solo la presa d'atto, la "fotografia" della situazione di stallo che si e' venuta a creare e che non ha permesso di arrivare ad un voto. Un verdetto di 'no contest' che chiude un confronto politico-storico aspro che non si e' concretizzato in un giudizio condiviso sui principali temi dei rapporti fra eversione e politica nella storia della Repubblica italiana. La scelta di pubblicare i 18 contributi presentati dai vari gruppi e' stata fatta "ritenendo indubbia l'utilita' e il senso complessivo della esperienza della commissione" dato che il materiale raccolto dalla Commissione "e' di notevole importanza per una valutazione complessiva della storia piu' recente del nostro Paese" Tutti i gruppi hanno condiviso, alla fine, l'ordine del giorno che prende atto della situazione politica che si e' venuta a determinare con l'impossibilita' pratica di esprimere un giudizio. "La mia sconfitta - ha detto al termine Giovanni Pellegrino - presidente della commissione - e il mio rammarico e di non aver potuto concludere con un risultato e giudizio condiviso ma questa commissione non e' niente altro che lo specchio del Paese. Un Paese ancora incapace di guardare al suo passato e di esprimere un giudizio maturo. Mi sarebbe piaciuto che la destra facesse la storia dei rapporti dell'Msi con An e Avanguardia nazionale e che la sinistra narrasse per intero la vicenda del Pci e i contributi dall'Est. Avremmo avuto una storia politica complessiva permeata di pietas. Ma cio' non e' stato possibile". Pellegrino si e' riservato di spiegare come si e' giunti a questo risultato di 'no contest' nella prossima e ultima relazione semestrale che inviera' ai presidenti delle Camere per illustrare il lavoro fatto. La commissione ha anche deliberato i criteri di pubblicazione degli atti. Saranno pubblicati, oltre ai 18 documenti finali, i resoconti stenografici delle sedute e le relazioni semestrali. La commissione ha deliberato la pubblicazione integrale, ma su cd-rom, di tutti i documenti che ha prodotto o che sono stati inviati a San Macuto o comunque che sono stati acquisiti nel periodo tra la X e la XIII legislatura. I documenti coperti da una qualche forma di segreto saranno pubblicati dopo aver verificato la presenza o meno di questa condizione. Sara' pubblicata anche la raccolta della rassegna stampa e gli elaborati prodotti dai collaboratori della commissione. Sono stati esclusi dalla pubblicazione gli scritti anonimi o quelli che sono stati inviati a titolo personale da soggetti privati o pubblici. Gli atti e i documenti originali, compresi quelli per i quali non e' consentita la pubblicazione, verranno versati all'archivio storico del Senato.
Nella X Legislatura la Commissione ha approvato quattro relazioni: Ustica, Caso Moro, Terrorismo in Alto Adige, Gladio; nella XI Legislatura la Commissione ha approvato tre relazioni (sull'attivita' svolta nel periodo giugno '93 - febbraio '94, relazione sulle stragi meno recenti, relazioni sugli ultimi sviluppi del caso Moro); nella XIII Legislatura la Commissione ha approvato una relazione sull'omicidio del professor Massimo D'Antona.
Queste sono le relazioni presentate e non messe ai voti nell' ultima legislatura:
   Sen. Follieri (Ppi) - "Gli eventi eversivi e terroristici degli anni tra il 1969 e il 1975";
   On. Fragala' (An) - "Il Piano solo e la teoria del golpe negli anni '60";
   Gruppo Ds - "Stragi e terrorismo in Italia dal dopoguerra al 1974";
   Sen. Mantica (An) - "Il parziale ritrovamento dei reperti di Robbiano di Mediglia e la 'Controinchiesta Br su Piazza Fontana";
   Sen. Mantica (An) - "Aspetti mai chiariti nella dinamica della strage di Piazza della Loggia - Brescia 28 maggio 1974";
   Sen. Mantica (An) - "Il contesto delle stragi. Una cronologia 1968-1975";
   Sen. Manca (Fi) - "Relazione sulla sciagura aerea del 27 giugno 1980' (Ustica)";
   Sen Manca (Fi) - "Il terrorismo e le stragi in Italia";
   Sen. De Luca (Verdi) - "Contributo sul periodo 1969-1974";
   Sen Mantica (An) - "Il problema di definire una memoria storica condivisa della lunga marcia verso la democrazia nell'Italia post-bellica";
   Sen. Mantica (An) - "Per una rilettura degli anni '60";
   On. Taradash (Fi) - "L'ombra del Kgb sulla politica italiana";
   Sen. Mantica (An) - "La dimensione sovra-nazionale del fenomeno eversivo in Italia";
   Sen. Bielli (Ds) - "Nuovi elementi concernenti il brigatista rosso Mario Moretti e la sua latitanza";
   Sen. Mantica (An) - "La strage di Piazza Fontana, storia dei depistaggi: cosi' si e' nascosta la verita' ";
   De Luca (Verdi) - "Il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro";
   On. Bielli (Ds) - "La controversa figura di Giorgio Conforto";
   Sen. Manca (Fi) - "Il terrorismo e le stragi impunite in Italia".

22 marzo – Per Enzo Fragala' (An) e il suo collega di gruppo Nino Lo Presti la Commissione stragi non ha piu' senso. Fragala’ annuncia l’ intenzione di battersi, nella prossima legislatura, qualora dovesse governare la Cdl, affinche' venga istituita un'unica 'Commissione Mitrokhin' che dovra' occuparsi di tutte le vicende riguardanti la guerra fredda. Per Fragala’ i lavori della Commissione sono stati "inconcludenti" per volonta' della sinistra e le conclusioni sono state "a coda di topo". Per quanto riguarda Pellegrino "riconosciamo il suo spessore umano e politico ma critichiamo il ruolo di 'arbitro parziale' recitato per salvaguardare la sinistra da quelle verita' storiche e giudiziarie pericolose per i post comunisti al governo".

25 marzo - "La Repubblica" pubblica un articolo dal titolo "La guerra segreta di Albertini contro il "partito degli affari" Così a Milano il Polo si spacca su De Carolis . Il sindaco: "Me ne torno alla mia fabbrichetta se candidano anche quella persona"
        PIERO COLAPRICO
MILANO - Non è che Massimo De Carolis venga considerato un nemico, ma "quella persona", come la chiama senza nominarla mai il sindaco di Milano Gabriele Albertini, "non può stare sotto le stesse bandiere dove sono anch'io, a far campagna elettorale. Se gli danno un posto da ministro, o sottosegretario, non avrei nulla da obiettare, non avrei titolo. Ma in lista no e gliel'ho detto da tempo anche a Berlusconi". Non ci sono colpi di testa, ma una precisa, lunga e meditata strategia per difendere lo stile dell'amministrazione. E non solo apparire, ma essere contro "quella "strana cosa" che io chiamo il partito degli affari. Mi sono accorto della sua esistenza, l'ho percepito e non lo voglio". Queste sono le segrete confidenze che in questi giorni il primo cittadino va facendo ai suoi più stretti amici e collaboratori, seduto sulla sedia ergonomica al primo piano del Comune. "So - dice - che avrebbero potuto essere costretti a scegliere, per tante ragioni, anche legittime, tra uomini del partito degli affari e me. Lo capirei... Ho promesso a Berlusconi, senza che nessuno me l'avesse chiesto, che me ne sarei andato via senza polemiche. E senza fare liste civiche. Se non ci sono le condizioni per andare avanti, io torno alla mia fabbrichetta. Questa è la mia scelta definitiva, il leader di Forza Italia la conosce". Sembrano parole di pace, ma sono parole di una guerra già vinta. Nessuno infatti, ai vertici di Palazzo Marino, crede veramente, seriamente, alla "resurrezione" politica di "quella persona". Insomma, Cesare Previti avrà il suo collegio a Roma. Marcello Dell'Utri, per essere sicuro dell'elezione, sarà inserito nella quota proporzionale. Ma di traverso alle speranze del milanese De Carolis - 61 anni, ex democristiano, ex leader della "Maggioranza silenziosa", vecchia conoscenza di Silvio Berlusconi e, come lui, un tempo in buoni rapporti con Licio Gelli, capo della loggia massonica P2 - s'è piazzato, inamovibile come uno di quei panettoni di cemento antitraffico, il sindaco uscente. Il quale minaccia di non essere più rientrante. "Sia chiaro: se il 9 aprile c'è quel candidato in lista, io non mi ripresento come sindaco. Ma non credo sia possibile. Berlusconi mi ha dato una risposta precisa, escludendo chance per quella persona. Dunque, problemi zero", confida il sindaco ai suoi amici. Secondo lui, la questioneDe Carolis è morta e sepolta. Nonostante abbia avuto, qualche giorno fa, quello che Albertini definisce, in privato, "un colpo di coda". Intervenendo in una tv locale, "Telelombardia", è stato proprio l'ex dc con carriera politica di alti e bassi, già bruciata una prima volta negli anni Ottanta, a riattizzare la polemica. Ha alzato il dito, sostenendo, con ampia certezza, la sua candidatura "al Senato, nel mio vecchio collegio, Milano-Pavia". L'ha affermato, stando agli amici di De Carolis, grazie alle "riassicurazioni" ricevute a sua volta da Berlusconi. E, a dar retta a un politico molto vicino sia a Berlusconi che Albertini, è così: "So - confida - che il collegio a De Carolis era stato promesso davvero. Ma forse alla fine andrà a Roma, come sottosegretario". Può essere che tra i due "nemici", Berlusconi non abbia scelto, dando un colpo al cerchio e uno alla botte? "Nei prossimi giorni - spiega a Repubblica lo stesso De Carolis - mi occuperò meglio e personalmente di questa vicenda, che non è solo mia, ma è politica. Non lancio ultimatum al partito, ma nemmeno faccio passi indietro. Ero certo di un collegio senatoriale, starò comunque alle decisioni di Forza Italia, e cioè alle decisioni di Berlusconi". Argomenti forti, che non paiono far vacillare il credo albertiniano: "Siamo al colpo di coda di chi si sente escluso. Dopo aver ottenuto le firme di Silvio Berlusconi e di Umberto Bossi in calce al mio patto di maggioranza, forse - spiega ai più vicini - si poteva pensare che mi avessero tacitato. E hanno riprovato ad andare alla carica". Ora il sindaco "impolitico", uomo di Federmeccanica e protetto da Cesare Romiti, non tollera la possibilità di essere scalfito, se pur solo nell'immagine, da un politico "vecchia maniera" come De Carolis. Sono uomini di due mondi diversi, lontani e incomunicabili, anche perché esiste un retroscena ben preciso, che Albertini non ce la fa proprio a dimenticare. Era il 14 marzo di due anni fa: De Carolis parlava a telefono con il figlio Adrio. Gli diceva che Berlusconi lo stimava, gli diceva: "Tu sei la persona più in gamba che c'è sulla piazza". Mentre "il sindaco è un pezzo di m. schifoso". Quando Gabriele Albertini ha letto sull' "Espresso" la lunga citazione, se l'è legata al dito. E, da quel momento, ha deciso di non fare prigionieri, e di non stare più - queste le sue parole esatte - "sotto le stesse bandiere" con De Carolis.

25 marzo - "La Repubblica pubblica un servizio di Giovanni Maria Bellu intitolato "Saragat mandò a dire agli Usa "Userei l'esercito contro il Pci""
Una nota top secret dell'ambasciata americana emerge dagli atti della commissione stragi. E un altro documento conferma il tentato golpe del '64
       GIOVANNI MARIA BELLU
ROMA - E' il 29 giugno del 1965. L'ambasciatore americano a Roma invia al Dipartimento di Stato una nota classificata "secret" dove riassume un suo colloquio con Francesco Malfatti, consigliere diplomatico di Giuseppe Saragat, il presidente della Repubblica italiana. Un colloquio che a Washington subito considerano molto importante: oltre che "secret" è anche "limit distribution". E fin dalle prime righe si capisce perché. Malfatti ha portato un messaggio riservatissimo di Saragat agli Stati Uniti. Una dichiarazione di fedeltà atlantica al limite del golpismo: Saragat, infatti, "ha raggiunto la conclusione che il maggior problema nella scena italiana è costituito dal Partito comunista" e che, "se in extremis fosse necessario, è determinato a usare le Forze Armate per impedire ai comunisti di andare al potere in Italia". Saragat era stato eletto presidente della Repubblica meno di un anno prima, nel dicembre del 1964, anche coi voti dei comunisti. Una circostanza che potrebbe far apparire sorprendente il contenuto della "nota segreta" di recente declassificata da Washington e portata in Italia da Gianni Cipriani, consulente della commissione stragi. La storia politica di Saragat - e cioè l'essere stato l'autore della scissione socialista del 1947, l'aver tenuto sempre una linea coerentemente anticomunista - da sola non basta a spiegare la sua disponibilità a usare addirittura "le Forze Armate" contro il Pci. Proprio come poco prima, nel giugno del 1964, aveva pensato di fare il comandante dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo, a quanto pare col placet del predecessore di Saragat, Antonio Segni. Ma a leggere con attenzione i nuovi documenti, il contenuto del messaggio diventa più complesso: va ad aggiungersi all'ambiguo e tragico arsenale del versante italiano della guerra fredda. Il clima dell'epoca è ben noto. Il nuovo materiale americano ne precisa la percezione, ne rivela le sfumature. Dà anche una definitiva conferma del fatto che il progetto di De Lorenzo, il cosiddetto "piano Solo", era effettivamente un golpe. E che la memoria di quel tentativo fallito nel 1964 restò, velata d'una certa nostalgia, negli anni successivi. Un altro documento declassificato è il resoconto di un colloquio, avvenuto il 15 novembre del 1967, tra un diplomatico statunitense a Roma e Randolfo Pacciardi, leader dell'Unione democratica per la nuova Repubblica. Pacciardi dice al suo interlocutore che il modo migliore per tener alla larga i comunisti è che si crei "un momento d'emergenza come lo scoppio di una guerra o un grave incidente internazionale". In una situazione del genere, spiega, il capo dello Stato avrebbe la possibilità di nominare un nuovo premier. Poi aggiunge: "Il presidente Segni aveva pensato di fare così nell'estate del 1964". Ma, "sfortunatamente", la situazione politica era ancora "da chiarire" e, inoltre, "troppe cose sono state rese note circa quella discussione". In effetti, qualche mese prima di quel colloquio all'ambasciata (il 10 maggio del 1967) L' "Espresso", aveva detto "troppe cose", svelando il piano di De Lorenzo e Segni. E oggi quel postumo "unfortunately" di Pacciardi appare anche un postumo riconoscimento dello scoop di Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi. Nelle nuove note americane c'è un altro significativo "sfortunatamente". Viene pronunciato dal generale De Lorenzo in persona il 19 maggio del 1964 (siamo nel pieno della programmazione del "piano Solo") durante un pranzo con l'addetto militare statunitense. De Lorenzo contro il Pci ha una ricetta che sembra una rielaborazione sadomasochista di quella di Pacciardi. Secondo lui basterebbe che lo stesso Pci facesse "il passo fatale organizzando una rivolta" in modo da giustificare una reazione tanto spietata "da eliminare il Partito comunista per sempre". Ma "unfortunately" - si duole il generale - "Togliatti e i suoi associati contano di assumere il potere attraverso le procedure parlamentari". E' un passo per certi versi tenero: De Lorenzo sogna una "strategia della tensione" autoprodotta dalle vittime designate. In attesa dell'evento, rassicura gli Usa che lui sta facendo del suo meglio per propiziarlo: "Ha rivelato - scrive l'amico americano - che il suo comando ha dichiarato quasi 150 vittime tra i carabinieri durante la sommossa dei lavoratori nell'ottobre scorso a piazza Santi Apostoli a Roma, mentre in realtà soltanto quattro o cinque carabinieri sono stati feriti". In questo clima si può comprendere perché il presidente Saragat si dichiarava disposto a mandare i carri armati contro i comunisti. E il fatto che anche i loro voti l'avessero fatto salire al Quirinale era un motivo in più, non un motivo in meno, per farlo sapere a Washington.

28 marzo - No ad ogni ipotesi di smantellamento del Welfare, si' ad un sistema di riforme che aumenti la coesione sociale e la solidarieta' pubblica, che poi e' la "strada giusta per creare nuova ricchezza; si', infine, ad un' Authority che controlli gli esiti dei processi di privatizzazione". Sono i punti fermi illustrati oggi a Rutelli dal presidente degli industriali romani Giancarlo Elia Valori. No allo smantellamento del Welfare, ha spiegato Valori al candidato premier invitato a confrontarsi con la platea degli imprenditori romani (fra qualche giorno tocchera' a Berlusconi), perche' "non sono gli ammortizzatori sociali ad indurre gli sprechi. Piuttosto un'inefficace gestione degli istituti finalizzati a garantire la sicurezza sociale". Si' invece, secondo il presidente degli industriali romani, "ad un concreto avvio della riforma pensionistica con il decollo della previdenza integrativa". Anche le relazioni fra lavoratori ed imprenditori, ha aggiunto, "debbono essere riqualificate, eliminando rigidita' che frenano lo sviluppo dell'occupazione". Il Paese, ha sostenuto Valori, "ha bisogno di una nuova e convinta riconoscibilita', che deve valorizzare i territori, ripartire dai territori". Il vero rischio che il Paese corre "e di fronte al quale chiediamo interventi precisi da parte del nuovo Governo, e' quello di essere percepiti". Una delle condizioni imprescindibili, ha sostenuto, deve essere "la priorita' urbana". A Roma, ha ricordato, "con la Giunta Rutelli abbiamo ideato e realizzato il distretto dell'audiovisivo e dell'Ict, proprio con il fine concreto di inserire la capitale nei circuiti piu' dinamici dell'economia e della comunicazione". L'economia globale, "dove noi competiamo per le risorse, sta diventando un'economia dove il criterio chiave e' che locale e' globale", ha sottolineato poi Valori. Quindi si' al federalismo, che deve pero' "rinvigorire non solo il nucleo centrale del nuovo sistema ma anche le unita' periferiche". Infine le infrastrutture: l'ampliamento dell'offerta di reti infrastrutturali, ha ripetuto il presidente degli industriali di Roma, "e' oggi uno dei punti su cui costruire programmi di integrazione economica e sociale del Paese". E in questo campo, ha concluso, "bisogna, agire. In fretta e concretamente".

29 marzo – Il settimanale "Diario" pubblica un numero speciale monografico su Silvio Berlusconi. L’ inchiesta viene presentata cosi’:
Diario Berlusconeide è in edicola. Si tratta dell'Inchiesta vecchio stile più lunga e articolata che abbiate mai letto. 160 pagine a colori in cui c'è tutto quello che bisogna sapere di Silvio Berlusconi prima di affidargli le chiavi di casa. Non si tratta di una lettura facile: aggirarsi tra nomi che ritornano e scompaiono, finanziarie che nascono e muoiono, casalinghe e prestanome, blaser blu e calciatori del Milan, antenne, televisioni e quartieri, incontrando vicende oscure come le stragi di Falcone e Borsellino o uomini della P2, è un po' come ripercorrere la storia italiana degli ultimi trent'anni per cercare di farne venire fuori un quadro coerente. Secondo noi si tratta di una fatica da fare perché gli interrogativi intorno a Silvio Berlusconi e ai suoi, sono ancora più numerosi di quanto già non si pensi. C'è la storia di Mangano e quella dell'ipotesi B, ci sono i rapporti di Berlusconi con la politica (perfino con il vecchio Pci) in un arco di trent'anni, ci sono le leggende metropolitane che sono nate intorno alla sua vita e l'analisi del complicatissimo sistema di holding che costituisce l'architettura dell'Impero. C'è poi, l'uomo nudo e crudo: perché piace, come si veste, come spiegare a uno straniero l'infatuazione italiana di questi anni. Andrea Camilleri ragiona e discute con Enrico Deaglio in trenta densissime pagine, arrivando a definire il Cavaliere, il "Male assoluto... se fossi credente". Indro Montanelli ricostruisce con Pietro Cheli il suo rapporto con l'editore. C'è un gioco da fare con un paio di forbici. E un cruciverbone firmato da Stefano Bartezzaghi. Buon divertimento.
IL SOMMARIO
Il più bello del reame
L'invasione dei mutanti di Francesco Piccolo
L'Estetica trash-endente di Antonio Mancinelli
A qualcuno piace Silvio di Gabriele Romagnoli
Vallo a spiegare a uno straniero! di Massimo Cirri
Quel che penso di lui
Se vince lui. Ma forse no conversazione con Andrea Camilleri
Il Conquistatore
Il padrone dell'etere di Maria Novella Oppo
Il primo fallimento di Anna Maria Merlo Poli
Guai ai vinti. Abbasso de Coubertin di Massimo Fini
La lobby del Biscione di Mario Portanova
Tragicomico '94 di Andrea Colombo
Crimini e misfatti
L'onore di Mangano, detto "lo stalliere" di Enrico Deaglio
Tanto denaro dal nulla di Luca Andrei
La remissione del debito di Bancomat
La Fininvest ombra di Domenico Marcello
L'ipotesi B di Gianni Barbacetto
Avviso ai naviganti
Io ne ho conosciuti due Indro Montanelli a colloquio con Pietro Cheli
Attenti al caudillo di Paolo Sylos Labini
Cruciverba
Silvio a quadretti di Stefano Bartezzaghi
Le schede
Chi ha scritto
Vita, opere e miracoli di Silvio, il Venditore
I fioretti di San Silvio
Lo strano caso di Tele Cinco
Scenario: tempesta italiana sull'euro
Chi si ricorda di Gianfranco Mascia?
Lord Justice non ci casca
Nessuno mi può giudicare
L'appello/"Salviamo lo Stato di Diritto"
E' tutto scritto

1 aprile - "Sono amareggiato: una polemica vecchia che ogni tanto viene rispolverata". Lo ha dichiarato il questore di Arezzo, Antonino Puglisi, commentando l'iniziativa del sindacato di polizia Consap, che ha nuovamente sollevato il caso dei costi per la vigilanza a Licio Gelli, l' ex venerabile della P2 che sta scontando agli arresti domiciliari a Villa Wanda, la sua residenza aretina, la condanna ad 8 anni di reclusione per il crac del Banco Ambrosiano. Nell'ottobre scorso il Consap aveva anche presentato un esposto alla Corte dei conti di Firenze per chiedere l'accertamento "di un eventuale danno all'erario, dal momento che i costi di questa vigilanza si aggirano sul miliardo di lire", ha spiegato Sergio Bognanno, segretario provinciale di questo sindacato. "Certo i costi ci sono - ha replicato il questore - ma riguardano un servizio che rientra nelle nostre competenze e sono assolutamente trasparenti. Escludo categoricamente che si tratti di una somma del genere: e' una polemica senza senso perche' anche quando rimpatriamo o trasferiamo immigrati clandestini nei centri temporanei di accoglienza del sud o del nord Italia abbiamo dei costi". Il questore di Arezzo sottolinea inoltre che "la vigilanza a Gelli viene svolta dagli uomini del reparto mobile di Firenze che hanno questo preciso compito. Nessuna risorsa di personale viene sottratta dunque alla questura aretina". Per Bognanno invece, che il 31 marzo alla festa della polizia ha distribuito volantini sulla questione, quello della sorveglianza a Villa Wanda e' un servizio "palesemente inutile perche' i 10 agenti del reparto mobile che ogni giorno si alternano in turni di due persone, potrebbero essere impiegati anche nei servizi di controllo del territorio. Per quanto mi risulta - ha detto - sono stati aggregati alla questura di Arezzo per questo motivo e non per la sola vigilanza a Gelli. Inoltre ho contattato gli uffici della Corte dei conti e mi e' stato confermato l' avvio di un accertamento sui costi del servizio, cosi' come avevamo sollecitato".

3 aprile – In un’ intervista a “Famiglia Cristiana” il leader della Lega Nord Umberto Bossi, alla domanda se avesse cambiato parere rispetto a quando chiamava Berlusconi “il mafioso di Arcore” dice:“Mah, forse l' abbiamo creduto per qualche mese, poi abbiamo capito che quella roba li' era una roba un po' strana, perche' non c' erano prove”. “Anche perche' - aggiunge Bossi - la sinistra sa darsi da fare. Attraverso alcuni dei nostri, agirono, intervenivano pubblici ministeri famosissimi. Noi prendemmo atto. Finche' il dubbio mi venne. Vedevamo una marea di processi lanciati anche contro di noi, e contemporaneamente una marea di processi a Berlusconi. Anche se i processi erano differenti – prosegue Bossi - i nostri erano di tipo ideologico. Inizialmente sembravano accuse credibili, poi dopo un po' abbiamo capito la solfa”. Bossi, inoltre, nega ogni possibile preoccupazione per il fatto che Berlusconi ammise la sua iscrizione alla P2. “Mi preoccuperebbe se avesse progetti massonici, invece Berlusconi non mostra assolutamente sintomi di quella cosa li'. Puo' darsi che sia vero quello che dice lui, che si sia trovato coinvolto. Dalle sue idee, da come appoggia la famiglia e i suoi ideali, a mio parere non e' un massone”.

4 aprile - La pubblicazione del nome dell'ex ambasciatore italiano a Mosca Enrico Aillaud, contenuto nel dossier Mitrokhin, e' costata al direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, una condanna per omesso controllo a un milione di multa e al pagamento di 20 milioni per danni. Secondo il difensore dell'ambasciatore Aillaud, l'avv.Giorgio Angelozzi Gariboldi, il Tribunale di Milano ha condannato De Bortoli perche' “i lettori dovevano essere con ogni cautela avvisati che non si trattava di verita' giudiziale accertata riguardo le persone elencate nel rapporto Mitrokhin”. I nomi inseriti nel rapporto erano quelli di giornalisti, imprenditori, politici e diplomatici. L'avv.Caterina Malavenda, difensore di De Bortoli, aveva chiesto l' assoluzione perche' De Bortoli e la giornalista Maria Antonietta Calabro', che aveva redatto l'articolo (e che e' stata assolta), avevano esercitato il diritto di cronaca in quanto le schede del dossier erano state consegnate ai giornalisti dal presidente della Commissione Stragi, la quale riteneva necessaria la loro pubblicazione. Per la difesa dell' ambasciatore, invece, non era autorizzata la pubblicazione del nome di Aillaud “senza alcuna avvertenza ai lettori che i fatti pubblicati su Mitrokhin” erano “sottoposti in quel momento ad accertamento giudiziale”. “Il giudice - ha precisato l' avv. Malavenda in una dichiarazione - non ha ritenuto in dibattimento rilevante l'audizione dell' ambasciatore. Pertanto ha ritenuto che il giornalista non doveva riverificare le notizie contenute nelle schede, dando atto della verita' del fatto storico e quindi della conformita' delle schede alla realta’”. “Le ragioni della condanna - ha aggiunto il legale – non sono determinabili e lo saranno solo dopo la lettura delle motivazioni della sentenza. Vorrei solo sottolineare – ha concluso - che il Corriere ha presentato le schede del dossier esattamente per quello che erano, cioe' schede redatte dal servizio segreto russo”.

20 aprile - Una segnalazione di un progetto di attentato a Silvio Berlusconi, secondo indiscrezioni, sarebbe giunta all' ambasciata italiana di La Paz lo scorso mese di marzo, e l' informazione sarebbe giunta da Elio Ciolini, in passato gia' condannato per calunnia. L' informativa, secondo quanto si e' appreso, sarebbe stata trasmessa ai servizi di sicurezza italiani, e quindi al Viminale. A prescindere dalla "fonte", sarebbero stati compiuti tutti gli accertamenti del caso sulla segnalazione stessa. L'informativa scritta di Ciolini riguardante un possibile attentato a Berlusconi evocava anche la possibilita' di attentati in cinque citta' italiane. L' Ansa scrive:""In un primo momento - ha detto ancora la fonte - Ciolini si presento' nel consolato italiano di Lima dove pero', non fidandosi del personale incontrato, rilascio' solo una indicazione generica su possibili attentati". "Dopo alcuni giorni - ha proseguito - si reco' all' ambasciata italiana nella capitale boliviana, chiedendo dell'esperto antidroga che pero' in quel momento si trovava a Roma. Tornato in un secondo tempo nella rappresentanza diplomatica accetto' di rilasciare una dichiarazione scritta di una pagina in cui appunto segnalava possibili attentati a Berlusconi e in cinque citta' italiane". Ciolini, che ha assicurato in quella occasione di essere senza soldi e di aver perso i documenti, ha ottenuto il foglio di rientro in Italia dalla autorita' diplomatiche italiane in Bolivia. Elio Ciolini, la persona che avrebbe segnalato il progetto dell' attentato a Berlusconi, e' stato spesso al centro di oscure storie di rivelazioni piu' o meno attendibili, anzi in maggior parte false. La sua tecnica consiste nel mescolare informazioni vere e false. Il piu' clamoroso "depistaggio" e' stato quello delle indagini sulla strage alla Stazione di Bologna. Nel 1982, quando era detenuto per truffa nel carcere svizzero di Champ Dollon, Ciolini riferi' al giudice bolognese Aldo Gentile che la strage era stata commissionata dalla fantomatica Loggia massonica "Montecarlo", emanazione della P2, ai "neri" di Stefano Delle Chiaie. La strage, secondo Ciolini, sarebbe stata eseguita dal tedesco Fiebelkorn e dal francese Danet e sarebbe servita a coprire una colossale operazione finanziaria Eni-Petromin. Ciolini disse che la "Montecarlo" era inserita nella "Trilateral", che descrisse come una organizzazione terroristica. In seguito cerco' di ritrattare tutto, indicando i giudici destinatari della sua testimonianza "come consapevoli strumenti" dell' inquinamento delle indagini. Poco tempo dopo avere fatto le sue rivelazioni, usci' dal carcere di Champ Dollon. Per questo depistaggio Ciolini e' stato processato e condannato a nove anni di carcere (quattro condonati) per calunnia. Nel 1991 fu di nuovo arrestato a Firenze. In una intervista rilasciata durante la latitanza ad un quotidiano romano aveva parlato di una sua appartenenza ad un "servizio per la lotta al comunismo che fa capo alla Nato". In un interrogatorio disse di avere fatto parte negli anni '70 di una struttura segreta che aveva tra gli altri compiti quello di 'esfiltrare' i dissidenti dai paesi dell' Est. Altre rivelazioni furono attribuite a Ciolini, e poi smentite, sulla scomparsa in Libano dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo. Nel 1992 Ciolini torna alla carica lanciando un allarme per un presunto "golpe" o piano di destabilizzazione che fu raccolto dal Viminale e tradotto in una circolare ai prefetti che suscito' molte polemiche. In seguito le rivelazioni di Ciolini su una riunione in Jugoslavia, in cui la mafia avrebbe messo a punto la strategia per la stagione delle stragi, fini' nell' inchiesta 'Sistemi criminali' sull' ipotesi di un piano eversivo finalizzato alla divisione dello Stato condotto dai vertici di Cosa Nostra con la complicita' di un Sistema Criminale, composto dalla massoneria deviata, da elementi dell' eversione nera e da spezzoni deviati di servizi segreti. Il procedimento che vedeva indagati, tra gli altri, l' ex capo della P2 Licio Gelli, l' estremista nero Stefano Delle Chiaie, il capo di Cosa nostra Toto' Riina, il commercialista mafioso e massone Giuseppe Mandalari, fini' archiviato nel marzo 2000 dalla procura di Palermo.

24 aprile - "Il Corriere della sera" scrive:
Il figlio di Gelli ha un seggio all' Onu Rappresenta un' organizzazione "umanitaria": per sede una casella postale a Ginevra
Malagutti Vittorio, Canal Luigino
Ha sempre difeso il padre e la P2. Il legame con il francese Bandier e il sostegno alla lotta contro Castro * Il figlio di Gelli ha un seggio all' Onu * Rappresenta un' organizzazione "umanitaria": per sede una casella postale a Ginevra
DAL NOSTRO IN VIATO FERNEY-VOLTAIRE (ALTA SAVOIA) -
Con il cielo plumbeo e la neve che cade a tratti, la villa di sua eccellenza Henry Bandier sembra ancora più triste e vuota. Porte chiuse, finestre sprangate, la piscina a secco. Inutile suonare il campanello: il padrone di casa è morto un paio di mesi fa, a 86 anni d' età. Bandier, un francese dalla vita avventurosa e dalle molteplici identità (spia e collaborazionista ai tempi di Vichy, secondo alcuni, filantropo e benefattore, secondo altri) non lascia un grande patrimonio. Gli eredi, però, veri o presunti, a quanto pare sono molti. E in prima fila si è subito accomodato Raffaello Gelli. Il primogenito del fondatore della loggia P2, egli stesso più volte oggetto di inchieste giudiziarie e di recente rinviato a giudizio per aver favorito la latitanza del padre nel 1998, era amico di lunga data e stretto collaboratore di Bandier. Il quale ha sempre ricambiato affetto e devozione. D' altronde, come ricordano alcuni suoi amici e conoscenti, non era proprio Bandier a definirsi un ammiratore di Licio Gelli? E allora c' è poco da sorprendersi se adesso sarà il cinquantenne Raffaello a continuare l' intensa opera del defunto amico di famiglia. Gelli junior potrà contare su un osservatorio privilegiato: nientemeno che un seggio all' Onu, o meglio, al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (Ecosoc), con sede a Ginevra. Il figlio del venerabile Gran maestro della P2, insieme alla moglie Marta, figura tra i partecipanti accreditati all' ultima sessione di lavori della Commissione per i diritti umani dell' Onu, che si concluderà a Ginevra alla fine di questa settimana. Gelli junior è sbarcato all' Onu grazie a Bandier. O meglio, grazie a uno dei tanti enti internazionali a scopi umanitari di cui l' intraprendente Bandier figurava di volta in volta come presidente, fondatore, presidente onorario. Tanto da suscitare la curiosità di un quotidiano locale dell' Alta savoia, "la Tribune Mont-Blanc". Una vera galassia, quella di Bandier, dove spuntano come funghi sedicenti ambasciatori, senatori e onorevoli, con tanto di fantomatici accrediti diplomatici. Qualche esempio? Eccone uno. L' Agenzia delle città unite per la cooperazione nord-sud risulta sconosciuta nel mondo della cooperazione internazionale, ha per indirizzo una semplice casella postale a Ginevra e il suo sito Internet è disattivato da una decina di giorni. In compenso sin dal 1995 questo ente fondato da Bandier ha ottenuto lo status di membro consultivo dell' Ecosoc presso le Nazioni Unite e come tale può nominare propri rappresentanti all' Onu. Tra questi, una trentina in tutto, compaiono Raffaello Gelli e signora. Il figlio del venerabile, un metro e novanta di altezza, eleganza ostentata e una gran passione per le auto di lusso, si è sempre descritto come un globe trotter degli affari, perennemente in viaggio tra l' Italia, la Svizzera e Montecarlo. Giusto 20 anni fa, nel marzo del 1981, con il ritrovamento delle liste a Castiglion Fibocchi, esplodeva lo scandalo P2 e da allora Raffaello non ha mai smesso di difendere le posizioni del padre. Nel frattempo ha fatto molti affari in proprio. Tre anni fa, però, ha lasciato all' improvviso la sua residenza di Montecarlo, ma, a quanto pare, ha anche aumentato il suo impegno diretto nelle organizzazioni fondate da Bandier. Tanto da conquistare un seggio all' Onu. L' Agenzia delle città unite per la cooperazione nord-sud, secondo quanto recita un documento ufficiale, avrebbe lo scopo di "sensibilizzare l' opinione pubblica mondiale all' idea della necessità di una nuova strategia di sviluppo per instaurare un equilibrio economico e sociale tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo". Una missione impegnativa. Forse per questo l' ente di Gelli junior ha unito le forze con un gruppetto di enti sotto la comune etichetta di Generation universelle. E così spuntano la Prima ambasciata dei bambini nel mondo, l' Associazione internazionale degli educatori alla pace mondiale, la Commissione internazionale dell' educazione a distanza, l' Accademia ecologica internazionale. Tutte ovviamente attivissime, secondo quanto recitano i loro siti Internet, nel promuovere la pace e la fratellanza universale. E tutte ben liete di propagandare il loro status di Organizzazioni non governative (Ong) associate all' Onu. A ben guardare, questo intrico di enti rimanda sempre agli stessi nomi. Oltre a Bandier, c' è lo spagnolo Alfonso Roldan More oppure l' imprenditore maltese, che si definisce storico e filosofo, Charles Mercieca. Ma non sempre il loro dichiarato impegno per la pace viene coronato dal successo. Prendiamo il caso dell' Asopazco, una sigla che sta per Associazione per la pace tra i continenti. L' anno scorso questo ente che ruota nell' orbita del "gruppo Bandier" si è visto sospendere per tre anni lo status di membro consultivo delle Nazioni Unite. A maggioranza dei propri membri, l' Ecosoc ha preso questo provvedimento su richiesta del governo cubano. Asopazco infatti avrebbe appoggiato l' attività dell' opposizione anticastrista. Da qui le proteste del governo dell' Avana, che hanno infine provocato l' espulsione dell' ente. Vittorio Malagutti (ha collaborato Luigino Canal)
* LA LOGGIA P2 Il 17 marzo del 1981 ve ngono sequestrati negli uffici della "Giole" di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi (Arezzo) gli elenchi della loggia massonica segreta P2 (Propaganda 2). Tra i 962 nomi, ci sono anche 179 alti ufficiali, 59 parlamentari e tre ministri. Il 22 maggio viene emanato il primo ordine di cattura a carico di Gelli. Il 24 luglio la P2 viene sciolta ufficialmente
* LA COMMISSIONE Il 9 dicembre viene istituita una commissione parlamentare d' inchiesta, presieduta da Tina Anselmi. La relazione di maggioranza c onclude per l' autenticità delle liste e sottolinea gli intrecci tra la loggia, settori dell' eversione e servizi segreti deviati
* L' ARRESTO Il 13 settembre del 1982, dopo 18 mesi di latitanza nei Paesi dell' America del Sud, Gelli viene arrestato, per la prima volta, in una banca di Ginevra. Condannato a un anno e 4 mesi per corruzione, evade nel 1983 da Champ Dollon. Si costituisce nel settembre del 1987 e viene estradato in Italia due anni dopo, ottenendo la libertà provvisoria
* LA CORTE D' ASSISE Il 16 aprile ' 94, la Corte d' Assise afferma che "la loggia P2 non fu una struttura che cospirò contro lo Stato". Gelli, assolto dall' accusa di "cospirazione politica mediante associazione", viene condannato a 17 anni per millantato credito, calunnia e procacciamento di documenti riservati
L' AMBROSIANO Il 22 aprile del 1998 la Cassazione conferma la condanna a 12 anni per concorso in bancarotta fraudolenta per il crack del Banco Ambrosiano. Il 4 maggio Gelli fugge per evitare il carcere. Arrestato il 10 settembre a Cannes, viene estradato in Italia il 16 ottobre. Ottiene gli arresti domiciliari per motivi di salute.

30 aprile - Il regista Giuseppe Ferrara sta preparando il film sulle vicende del Banco Ambrosiano di Milano che portarono alla morte di Roberto Calvi, interpretato da Omero Antonutti. Il film sara' girato a Roma, Milano, New York, Londra ed il primo ciak e' previsto per la fine di giugno e sara' prodotto dalla Metropolis Film di Enzo Gallo. Gli attori finora scelti sono, oltre ad Antonutti (che ha gia' interpretato Michele Sindona nel film di Michele Placido "Un eroe borghese"), Pamela Villoresi nel ruolo della moglie di Calvi e Giancarlo Giannini che interpretera' un gangster. Il titolo provvisorio del film e' "Il banchiere di Dio".

4 maggio - Nella pagina dei commenti, il quotidiano francese 'Le Monde' torna oggi sul caso di Adriano Sofri e sottolinea come la vicenda sia stata ignorata nella campagna elettorale per le politiche. "Il Vaticano ci ha messo piu' di tre secoli e mezzo per rendere giustizia a Galileo - esordisce l'articolo, intitolato "l'incredibile caso Sofri" - e ancora di piu' per riabilitare Jean Hus. Bisogna sperare che lo stato italiano sara' piu' veloce per quanto riguarda Adriano Sofri e non aspetti la morte in carcere dell'ex dirigente dell'organizzazione di estrema sinistra Lotta Continua, condannato a 22 anni di carcere sulla sola testimonianza, dubbiosa e piena di contraddizioni, di un pentito". Notando con sorpresa che "la sorte di Adriano Sofri non e' stata praticamente evocata nella campagna elettorale", 'Le Monde' afferma che "il silenzio della destra si spiega facilmente: essa vede in Sofri il colpevole ideale, quello che consente di affermare che tutte le disgrazie dell'Italia, durante gli anni 1970, sono imputabili all'estrema sinistra e a questi 'cattivi maestri'". Questa visione "sta bene ovviamente a Silvio Berlusconi e soprattutto ad alcuni dei suoi alleati della Casa delle liberta’". "Piu' imbarazzata - continua 'Le Monde' - e' la discrezione della sinistra" e "probabilmente in qualche ex militante comunista c'e' una sorta di rivincita postuma su un' organizzazione scomparsa che li aveva agitati sulla loro sinistra, e su un uomo che aveva incarnato con brio questa contestazione".

5 maggio - Il capogruppo dei Ds al Senato Gavino Angius replica: “Non tollereremo che un ex piduista vada a palazzo Chigi” alle affermazioni fatte da Silvio Berlusconi a Gallipoli su Massimo D'Alema.

6 maggio -"Il Messaggero"
Un maestro elementare romano, ex dell'Autonomia, ascoltato sui rapporti con un latitante condannato per un assalto alle Poste
Terrorismo, la pista delle rapine
In carcere Ricaldone ammette: "Incontrai Bortone, ma non sapevo che fosse lui"
di ROSANNA SANTORO
ROMA - E' un maestro elementare romano l'uomo che i carabinieri del Ros hanno descritto come uno dei possibili anelli di congiunzione tra le vecchie Br e Iniziativa comunista. Si chiama Roberto Zarra. Ha 40 anni, alle spalle un passato in Autonomia, una condanna per armi e vecchi rapporti con gli autori di una rapina alle poste, nel '97, le cui modalità fanno pensare all' autofinanziamento di movimenti eversivi. Ieri Zarra è stato interrogato per 3 ore dal pm Franco Ionta. Indagato a piede libero per associazione sovversiva, è entrato nell'inchiesta della procura di Roma per i suoi contatti con Luca Ricaldone, l'esponente di Iniziativa comunista che il 19 maggio 2000 avrebbe incontrato a Milano Nicola Bortone, latitante delle vecchie Br-Pcc in Francia. E mentre Ionta interrogava Zarra a palazzo di giustizia, a Regina Coeli il pm Pietro Saviotti e il gip Otello Lupacchini mettevano sotto torchio per 5 ore Ricaldone. L'operaio milanese ha fatto un'ammissione giudicata molto importante dai pm. "E' vero - ha detto Ricaldone - nel maggio 2000 ho visto un uomo nella metropolitana di Milano e gli ho dato dei volantini. Non sapevo fosse Nicola Bortone. Si era presentato con un altro nome. Quale? Non ricordo. L'ho incontrato in tutto 4 o 5 volte. Mi aveva detto di dargli del materiale Giuseppe Maj". Ed è proprio questo il passaggio significativo dell'interrogatorio. Maj, leader dei Carc e fratello di Luigi, vecchio br latitante in Francia, è infatti irreperibile dall'aprile '99, un mese prima dell'omicidio D'Antona. Poi a Ricaldone è stato chiesto dell'attentato che, secondo l'accusa, il gruppo stava preparando a Milano. L'uomo non ha risposto. Neanche quando gli sono state lette le intercettazioni dei colloqui su quel progetto. Il suo avvocato, Luigi Saraceni, ha cercato di insistere. Ma Ricaldone è stato tassativo: "Su questo non rispondo". Ha invece ammesso di conoscere il maestro romano: "Con Zarra ci siamo visti. La mia compagna è amica della sua". L'altro arrestato milanese, Franco Gennaro, in mattinata aveva detto: "Non siamo terroristi. Non stavamo preparando un attentato". A Zarra sono stati invece contestati i suoi vecchi rapporti con gli autori di una rapina alle poste di via Radicofani, a Roma il 15 gennaio '97. Sono Mario Galesi, latitante dal febbraio '98, e Jerome Cruciani. Sei giorni dopo l'omicidio D'Antona, il 26 maggio '99, nella cella di Rebibbia di Cruciani erano stati sequestrati documenti delle Br-Pcc e carte legate "al Patto per l'occupazione, alla dinamica dei salari reali, ai patti territoriali ed ai contratti d'area". Tutti argomenti contenuti nella rivendicazione dell'assassinio del consulente dell'allora ministro del Lavoro Antonio Bassolino. Zarra, difeso dagli avvocati Mario Angelelli e Fabio Baglioni, ha detto: "Ho smesso di fare politica da 10 anni. Non vedo Galesi e Cruciani da allora. Ho saputo dai giornali che erano stati arrestati per la rapina del '97. Ricaldone l'ho incontrato due volte, il 25 giugno 2000 e a fine 2000. Abbiamo amici comuni. Iniziativa comunista? L'ho scoperta quando mi hanno perquisito, giovedì scorso". Zarra fu arrestato con Galesi e Cruciani nel 1986. Nella sua casa, scrive il gip, trovarono "due pistole con matricole abrase, munizionamento, materiale per la fabbricazione di un rudimentale ordigno esplosivo, documenti riconducibili all'area extraparlamentare di sinistra". E "piantine topografiche con evidenziati particolari percorsi e possibili obiettivi". Ieri Zarra ha commentato: "Una vecchia storia di quando ero ragazzo, per la quale ho preso un anno di carcere".

6 maggio - Emiliano Vesce, candidato della lista Bonino a Padova, lancia un appello per il padre Emilio Vesce, storico esponente radicale in coma irreversibile dallo scorso 8 novembre a seguito di un infarto: Emiliano Vesce chiede alle forze politiche che si impegnino a risolvere a livello legislativo la questione dell'eutanasia e del nutrimento ad esclusivo fine terapeutico. “Nel caso di mio padre - ha spiegato Emiliano Vesce - non si tratterebbe di praticare l'eutanasia, dato che e' in stato di coma vegetativo irreversibile, ma di attuare il nutrimento solo come terapia, e non come accanimento terapuetico, quale a noi ora sembra. Il problema e' che su questo punto c'e' un vuoto legislativo, che impedisce di risolvere vari casi, a partire da quello di Eliana Englaro, il cui padre chiede da nove anni di interrompere il nutrimento. Se noi, come familiari, potessimo decidere, chiederemmo la stessa cosa, ma oggi chi cerca di assicurare una morte dignitosa al congiunto rischia l' incriminazione”. “Non voglio farne un caso pietoso - ha aggiunto Emiliano Vesce, riferendosi a suo padre - voglio solo denunciare una situazione incivile, crudele e sempre piu' diffusa, dove un essere umano non puo' vivere ne' morire mentre ai suoi cari e' negata non solo la speranza ma perfino il lutto”. Emilio Vesce, 61 anni, di origine avellinese, consigliere regionale, e' stato deputato radicale, protagonista di tante battaglie a fianco di Pannella e fu anche arrestato nell'inchiesta “7 Aprile” su Autonomia Operaia, ma poi fu assolto da ogni accusa.

7 maggio – L’ Ansa scrive:
““Non mi pentiro' mai”: dopo 14 anni di carcere duro, Jean-Marc Fouillan, ex capo di Action Directe, il gruppo terroristico piu' duro dell'extrasinistra negli anni di piombo francesi, ce l'ha soltanto con i giudici che l'hanno condannato e con il carcere. Pubblica un libro carico di rancore, dal titolo “Odio i mattini”. Condannato all'ergastolo con 18 anni di carcere di sicurezza per gli omicidi del generale Audran, nel 1985, e del presidente della Renault, Georges Besse, nel 1987, Fouillan e altri tre militanti di AD sono stati sottoposti ad una carcerazione durissima. I loro ricorrenti scioperi della fame per protesta hanno raccolto sporadici appoggi, ma adesso - in piena denuncia delle condizioni carcerarie in Francia - i sostenitori di questi ex terroristi aumentano. Il trattamento severissimo non ha affatto piegato Rouillan, il quale si dedica - con questo libro per le edizioni Denoel che uscira' domani in libreria - ad una crociata contro il carcere e le motivazioni che spingono la societa' a tenere in cella un detenuto. “Scrivo per non crepare - esordisce - per paura della morte lenta e della cancrena dell'amnesia che marcisce tutta una generazione”. Rouillan e i suoi tre complici, tutti per lungo tempo in isolamento, sono fra i 40 e i 50 anni. Uno di loro, Georges Cipriani, ha dato segni di follia, mentre lo stato di salute di una delle due donne del gruppo, Nathalie Menigon, e' ormai pessimo, dopo due ictus. “Signor Procuratore - scrive Rouillan spavaldo - lei mi ha strappato alla vita, all'amore, alle cose piu' semplici. Non mi ricordo nemmeno piu' l'infinita dolcezza delle cosce di una donna. D'altra parte le devo confessare che saprei ancora smontare e rimontare una colt 45 con gli occhi bendati, e con la medesima destrezza di cui lei ha bisogno per sbrigare la pratica di un povero disgraziato”. Rouillan spiega, con le sue parole crude e disperate, che il carcere cosi' com'e' serve soltanto come strumento di vendetta e crudelta', non per redimere ne' per correggere: “potrei ancora far scivolare le pallottole nei caricatori con la disinvoltura che e' la sua quando volta le pagine. Una pallottola, una pagina, una pallottola, una pagina...”.    L'inferno carcerario, il deserto dell'isolamento nella prigione di Lannemezan (poco lontano da Lourdes, nei Pirenei), Rouillan racconta tutto nelle quasi 200 pagine di racconto: “dietro la porta blu - scrive - c'e' il regno dei mostri, delle facce spaccate, di chi si abbarbica ancora a illusorie dignita', a miti della malavita”. Una pena lunga una vita, senza speranza, dalla quale l'ex terrorista di Action Directe, scheggia impazzita del comunismo militante, trova ancora la forza per alzare la testa e irridere al suo giustiziere: “Signor procuratore, se aveste voluto darci tutto il tempo per capire, non avreste dovuto affogarci negli anfratti piu' immondi. Mi scusi, ma il suo ragionamento e' idiota. Avreste dovuto spedirci sulle spiagge dove si abbronzano senza preoccupazione i padroni, imporci una vita di lussi, condannarci a gestire un portafoglio di azioni e obbligazioni, a portare la cravatta e un profumo Chanel alle nostre donne”.

7 maggio - "La Nazione"
FIRENZE - Il nome è Raffaello, il cognome Gelli, la parentela, quella di primogenito di Licio Gelli l'aretino di Villa Wanda, il fondatore della P2, la loggia massonica "deviata", dei grandi misteri d'Italia. Raffaello Gelli, nato a Pistoia nel '47, diploma di ragioniere ad Arezzo, sposato con la signora Marta, padre di quattro figlie, e da dieci anni anche nonno e per tre volte, dopo essersi occupato di banche, imprese edili e affari di famiglia, è finito da poco nell'olimpo delle Nazioni Unite, fra Ginevra, Vienna e New York. Come fosse un "ambasciatore". Noi lo sentiamo per telefono. Signor Gelli, allora, come dice qualcuno, lei è proprio diventato un ambasciatore all'Onu? "Io sono solo una persona che ha accesso all'Onu. Che può partecipare alle riunioni di tutte le commissioni economiche, umanitarie, dei diritti dell'uomo, a Ginevra, Vienna, New York. Insomma, ho un mio posto. E ho un documento dell'Onu, un tesserino". Come nasce questa sua avventura? "Nasce perchè 5 anni fa ho incontrato Henry Bandier, ora morto, noto avvocato internazionale, francesce, gaullista, che non era amico di mio padre, ma forse un suo simpatizzante". E allora? "Allora ci siamo scambiati i convenevoli e abbiamo fraternizzato. Ho cominciato a seguire questa organizzazione, e cioè l'"Agenzia delle città unite per la cooperazione Nord-Sud" fondata da Bandier. Nel '95 lui era riuscito ad ottenere uno statuto consultivo, depositato e approvato presso le Nazioni Unite". Cosa vuol dire? "Vuol dire che è una "Ong", una organizzazione non governativa, il cui scopo è sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale per mettere in atto una nuova strategia di sviluppo. In questo momento seguiamo problemi sull'ecologia e per le acque potabili. In Kenia, a Malindi, c'è un progetto per l'acqua potabile". Scusi, ma i soldi da dove vengono? "Noi diamo assistenza e beneficienza. Questa seconda la trasmettiamo solo se abbiamo sponsor". E lei? "Io sono il presidente dell'"Uta", la United towns agency, come l'abbiamo chiamata". E lei ci guadagna? "Un giorno, penso di sì. Ma per adesso no. Sto solo sovvenzionando". Un'altra associazione di Bandier è stata espulsa dall'Onu perchè accusata di aver aiutato l'opposizione castrista. E' vero? "Sì, ma io ho chiarito con Cuba, dove sono stato invitato a settembre. Nel contempo ho sospeso le altre 9 associazioni di Bandier". E la storia della casella postale che sarebbe l'unico recapito della sua associazione che qualcuno definisce "fantasma"? "Esiste per comodità, perchè i pacchi più grandi non possono entrare negli uffici dell'Onu. Ma dalla settimana prossima apriremo una sede a Ginevra, con tanto di segretaria e uffici". Dove? "L'indirizzo ancora non glielo posso dire". Quanti associati ha l'"Uta"? "Sugli elenchi di Bandier ci sono circa 2000 nomi fra avvocati, medici, ex ambasciatori, imprenditori. Un po' in tutto il mondo". Insomma signor Raffaello, lei si è scoperta una vocazione da volontariato. E' davvero così buono? "Cattivo, penso di non essere mai stato. Certo non sono nanche un angelo. Credo che un giorno questo mio impegno possa darmi ampia soddisfazione". Signor Raffaello, come sta suo padre? "Porta i suoi anni, 82, molto bene. Ma si rammarica perchè ne vorrebbe avere 20 in meno per riprincipiare".
di Ennio Macconi

9 maggio - A 19 anni dalla dichiarazione di insolvenza del Banco Ambrosiano la vicenda torna in un'aula giudiziaria. E' stata fissata al 12 giugno, davanti al giudice civile Bianca La Monica, la causa avviata da una sessantina di piccoli azionisti dell'istituto di credito di Roberto Calvi, contro Lanfranco Gerini, liquidatore del banco, la Banca d'Italia e Licio Gelli. Attraverso l'avvocato Gianfranco Lenzini, i promotori della causa chiedono il risarcimento del danno come stabilito gia' in sede legale quando venne loro riconosciuta una provvisionale di 2 miliardi, con cifra complessiva da decidere presso il separato giudizio civile. La Banca d' Italia viene chiamata come organo di vigilanza, mentre Gelli, che aveva offerto un risarcimento di 300 milioni, ritenuto incongruo, finora non ha versato nulla ai piccoli azionisti. Nell'atto di citazione, l'avvocato Lenzini chiede in particolare che Gelli venga condannato a restituire "le ingenti somme ricevute con il consenso della liquidazione senzaopposizione della Banca d' Italia e al risarcimento dei danni morali e patrimoniali oltre ad interessi e rivalutazione monetaria". Lo stesso legale ha poi lanciato una sorta di appello al figlio di Licio Gelli, Raffaello, dopo avere appreso che lo stesso ha ottenuto un seggio all' Onu in rappresentanza di una organizzazione umanitaria."Non sarebbe il caso - ha esclamato il legale - che Raffaello Gelli spendesse una parola presso il genitore affinche' intervenga per una transazione con i miei clienti, che finora non hanno ricevuto una lira?". Al riguardo l'avvocato Lenzini ha ricordato l'accordo di Lugano del 15 aprile 1996 che aveva consentito la restituzione all'ex 'maestro venerabile' della P2 di 60 miliardi di lire, della villa Villefranche sur Mar, in Costa Azzurra e dei 165 chilogrammi d'oro in lingotti. Oltre all'atto di citazione a una utrita documentazione, il legale dei piccoli azionisti ha depositato anche una memoria dello studio legale Gentiloni-Silveri, mandata alla corte di Cassazione e nella quale si ricostruisce nei particolari l'accordo di Lugano. Nel tentativo di recuperare qualcosa, i piccoli azionisti avevano anche chiesto il pignoramento di beni a suo tempo riconducibili a Bettino Craxi.

10 maggio - Giancarlo Elia Valori, presidente del gruppo Autostrade e dell'Unione Industriali di Roma, e' stato nominato "ambasciatore di buona volonta’" dell'Unesco. La nomina e' stata fatta dal direttore generale dell'Unesco, Koichiro Matsuura, nella sede dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura, a Parigi. Valori, 61 anni, ha ottenuto il prestigioso riconoscimento - come ha ricordato Matsuura - per "il suo impegno a favore dell'azione dell'Unesco per la promozione del patrimonio immateriale". Strumento fondamentale dell'impegno di Valori, il 'Fondo Emilia Valori', da lui creato in memoria della madre, e dedicato in particolare "alla salvaguardia delle tradizioni". "Oggi l'Unesco - ha detto Valori nel suo intervento, alla presenza fra gli altri dell'ambasciatore d'Italia a Parigi, Federico di Roberto e dell'ambasciatore d'Italia all'Unesco, Gabriele Sardo - mi da' un segnale concreto che la mia opera e' riuscita a centrare gli obiettivi che si era prefissa; oggi mi viene finalmente assicurato che la mia dedizione ed il mio impegno non sono stati vani, ma fanno parte del continuo divenire della storia umana". E' intenzione di Valori mettersi al lavoro subito e concretamente con la fondazione intitolata alla madre, che gode di un patrimonio di donazioni private di circa 400.000 dollari. Obiettivo, la salvaguardia e la valorizzazione di patrimoni della tradizione e della cultura italiana. Si partira' con due grandi progetti, il primo nel Monferrato-Langhe, il secondo sulla costiera Amalfitana: "non punteremo sul patrimonio che gia' gode di uno sviluppo turistico, punteremo con spirito manageriale sulla conoscenza e la diffusione delle vecchie tradizioni". Si trattera', dunque, non di salvaguardare siti o monumenti storici, ma di "valorizzare il territorio", gli "antichi mestieri", le abitudini che rischiano di cadere in disuso. Il Fondo 'Emilia Valori' per la salvaguardia della tradizione sara' amministrato congiuntamente dal presidente Giancarlo Elia Valori e dal direttore generale dell'Unesco, Koichiro Matsuura.

11 maggio - Il settimanale "Diario" pubblica un' inchiesta di Gianni Barbacetto
Il club P2, vent'anni dopo
Che cos'era il gruppo di Gelli? Che cosa fanno oggi i suoi membri? Ecco le "pagine gialle" della loggia Propaganda 2, mentre il suo affiliato più noto punta alla presidenza del Consiglio
di Gianni Barbacetto
Vent'anni fa, nel maggio 1981, furono resi pubblici gli elenchi sequestrati a Licio Gelli con i nomi degli affiliati alla loggia massonica Propaganda 2. Che cos'era quell'organizzazione segreta? Che peso ha avuto nella storia d'Italia? Che cosa fanno oggi gli iscritti alla loggia? Ecco qualche risposta, mentre il più noto di loro aspira alla presidenza del Consiglio.
Milano La notizia la dà il telegiornale della notte: la presidenza del Consiglio dei ministri ha deciso di rendere pubblici gli elenchi della loggia massonica P2, l'associazione segreta che il Maestro venerabile Licio Gelli chiama "l'Istituzione". È il 20 maggio 1981, vent'anni fa. L'Italia è scossa: di quella loggia misteriosa si parla ormai da molto tempo, ma ora i suoi componenti prendono un nome e un volto. E gli italiani scoprono che esiste un potere sotterraneo, un governo parallelo, uno Stato nello Stato. Negli elenchi della loggia sono iscritti i nomi di quattro ministri o ex ministri, 44 parlamentari, tutti i vertici dei servizi segreti, il comandante della Guardia di finanza, alti ufficiali dei Carabinieri, militari, prefetti, funzionari, magistrati, banchieri, imprenditori, direttori di giornali, giornalisti...
Una settimana dopo, il governo presieduto da Arnaldo Forlani dà le dimissioni. Nasce il primo governo laico della storia d'Italia, guidato da Giovanni Spadolini. È varata una commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia di Gelli, sotto la presidenza di Tina Anselmi. È approvata una legge dello Stato che vieta le associazioni segrete e scioglie la P2. I capi dei servizi di sicurezza sono tutti licenziati. Qualche piduista ha la carriera bloccata, qualcuno subisce procedimenti disciplinari, una ventina di affiliati finisce sotto processo. I magistrati aprono indagini sulla loggia, con l'ipotesi che abbia realizzato una cospirazione politica contro le istituzioni della Repubblica. Ma oggi, vent'anni dopo, che cosa è restato di quel terremoto? Dove sono, che cosa fanno i membri del club P2? Il più noto di essi, che vent'anni fa era soltanto un giovane, brillante palazzinaro, ora spera di diventare nientemeno che presidente del Consiglio. Ecco dunque la storia dimenticata dell'"Istituzione" che ha segnato alcuni decenni della storia italiana.
DA SINDONA ALLA P2. Nella seconda metà degli anni Settanta qualche articolo di giornale aveva accennato all'esistenza di una loggia massonica potentissima e misteriosissima. Ombre, sospetti, dicerie? Nel 1980 il consigliere istruttore di Milano Antonio Amati deve aprire due inchieste giudiziarie: una sull'assassinio dell'avvocato milanese commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona, Giorgio Ambrosoli, ucciso a Milano l'11 luglio 1979; l'altra sullo strano rapimento di Sindona, scomparso da New York il 2 agosto 1979 e poi ricomparso il 16 ottobre. Nessuno allora avrebbe pensato che quelle inchieste avrebbero portato alla P2. Amati assegna i due fascicoli, insieme, a due giovani magistrati. Il primo, più esperto, si chiama Giuliano Turone, baffi curati e dita sottili, irrequieto e rigorosissimo. Dopo il liceo Manzoni di Milano, dopo un anno negli Stati Uniti, dopo la laurea in legge, era stato tentato dalla carriera diplomatica. Ma aveva scelto la magistratura: perché il diplomatico deve limitarsi a eseguire la politica estera del suo governo, mentre il magistrato decide e giudica, con il solo aiuto della legge e della sua coscienza. Affascinato dalla geometria dell'indagine, aveva voluto diventare giudice istruttore, figura mista (oggi cancellata dal nuovo codice) di giudice e investigatore. Poco più che trentenne, era entrato di persona nel covo-prigione di uno dei primi sequestrati italiani, l'imprenditore Luigi Rossi di Montelera; e nel 1974 aveva fatto arrestare il responsabile, un ometto siciliano che abitava in via Ripamonti 84, a Milano, e che sulla carta d'identità aveva scritto Luciano Leggio, anche se era già noto come boss di Cosa nostra con il nome di Luciano Liggio. Gherardo Colombo, il secondo magistrato, era invece un giovanotto che arrivava a palazzo di giustizia con i jeans e la camicia senza cravatta, e sopra gli occhiali aveva una gran corona di capelli refrattari al pettine. Era cresciuto in una grande casa sui colli della Brianza, padre medico e un po' poeta, nonno e bisnonno avvocati. Amava i giochi di logica e il bridge. Parlava con aria apparentemente svagata, accompagnando le parole con brevi gesti secchi della mano, che poi spesso lasciava così, sospesa a mezz'aria. Per nove mesi, Turone e Colombo lavorano sodo. Macinano insieme decine e decine di interrogatori, perquisizioni, indagini bancarie. Sono letteralmente risucchiati da un'inchiesta che è un giallo appassionante, pieno di misteri e di colpi di scena. "Era un tessuto dai cento fili intrecciati", secondo Turone, "così abbiamo cominciato col tirare i fili che sporgevano dalla trama". Il sequestro di Sindona: strano, con quella improbabile rivendicazione del "Gruppo proletario di eversione per una giustizia migliore". Strani anche gli affidavit (dichiarazioni giurate) che una decina di persone invia negli Stati Uniti, ai magistrati americani, per testimoniare che il povero Sindona, che ha fatto bancarotta e ha lasciato sul lastrico centinaia di clienti, è perseguitato dai magistrati italiani soltanto per la sua fede anticomunista. Uno degli affidavit è firmato da un certo Licio Gelli. Dice: "Nella mia qualità di uomo d'affari sono conosciuto come anticomunista e sono al corrente degli attacchi dei comunisti contro Michele Sindona. È un bersaglio per loro e viene costantemente attaccato dalla stampa comunista. L'odio dei comunisti per Michele Sindona trova la sua origine nel fatto che egli è anticomunista e perché ha sempre appoggiato la libera impresa in un'Italia democratica". La prosa non è un granché, ma l'ossessione anticomunista è ben presente (e allora, almeno, i comunisti c'erano davvero...).
LICIO GELLI, FASCISTA E MASSONE. Chi è questo Gelli? - si chiedono Turone e Colombo. Quasi sconosciuto, allora, dal grande pubblico, era il Maestro Venerabile della loggia massonica Propaganda 2, che riuniva la crema del potere italiano. C'era la fila, per ottenere udienza da Gelli nella sua suite all'hotel Excelsior, in via Veneto, a Roma. La loggia era segreta, per non mettere in imbarazzo i suoi potenti iscritti, dispensati anche dalle ritualità massoniche. Bastava la sostanza. Gelli era arrivato al vertice della P2 dopo una onorata carriera come fascista, simpatizzante della Repubblica di Salò, doppiogiochista con la Resistenza, collaboratore dei servizi segreti inglesi e americani, infine agente segreto della Repubblica italiana. Volonteroso funzionario del Doppio Stato: soldato, come tanti altri fascisti e nazisti, arruolato nell'esercito invisibile che gli Alleati avevano approntato, dopo la vittoria contro Hitler e Missolini, per combattere la "guerra non ortodossa" contro il comunismo. Entrato nella massoneria, aveva contribuito a selezionare, dentro l'esercito, gli ufficiali anticomunisti disposti ad avventure golpiste. Nel colpo di Stato (tentato) del 1970 aveva avuto un ruolo di tutto rispetto: suo era l'incarico di entrare al Quirinale e trarre in arresto il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, quello che mandava telegrammi a raffica che finivano sempre con un bel "viva la Resistenza, viva l'Italia". Poi il golpe non ci fu, sospeso forse dagli americani, ma la "guerra non ortodossa" continuò, con una serie di stragi che insanguinarono l'Italia. Fino al 1974, anno di svolta. Allora la strategia della guerra segreta contro il comunismo cambiò: basta con la contrapposizione diretta, con i progetti apertamente golpisti, sostituiti da una più flessibile occupazione, attraverso uomini fidati, di tutti gli ambiti della società, di tutti i centri di potere. La massoneria (o almeno una parte di essa) fornisce le strutture e le coperture necessarie a organizzare questo club del Doppio Stato, questo circolo dell'oltranzismo atlantico. Nasce la P2 di Licio Gelli. In cui poi, all'italiana, entrano anche (e per alcuni soprattutto) le protezioni, le carriere, gli affari e gli affarucci. Ma tutto ciò, tra il 1980 e il 1981, Turone e Colombo ancora non lo sapevano, non lo immaginavano neanche. I due andavano avanti per la loro strada, a districare i misteri del caso Sindona.
LA PERQUISIZIONE FATALE. Scoprono che Sindona non è stato rapito, ma ha organizzato una messa in scena per sparire dagli Stati Uniti e arrivare in Italia, in Sicilia. Scoprono che è lui a trattare il salvataggio delle sue banche con Giulio Andreotti, a minacciare il presidente della Mediobanca Enrico Cuccia (che si oppone al piano di risanamento), è lui a far uccidere Giorgio Ambrosoli, nella notte dell'11 luglio 1979, con tre colpi di 357 magnum sparati al petto da un sicario che viene dagli Stati Uniti. A ospitare Sindona a Palermo, in quell'estate di scirocco e di sangue, è un medico italoamericano: Joseph Miceli Crimi, massone, esperto di riti esoterici e di chirurgie plastiche. È lui che spara alla gamba del banchiere, con sapienza clinica, per cercare di rendere credibile il rapimento. I due giudici istruttori gli sequestrano alcune carte e, tra queste, uno stupido biglietto ferroviario Palermo-Arezzo, usato da Miceli Crimi nell'estate del 1979. Domanda: perché un viaggio dalla Sicilia ad Arezzo? Risposta: "Per andare dal dentista presso cui ero in cura". Fantasiosa, ma i due milanesi non abboccano. Miceli Crimi, messo alle strette, ammette: ma sì, sono andato da un certo Licio Gelli, per discutere con lui la situazione di Sindona. Questo Gelli comincia proprio a incuriosire i due giudici istruttori. I personaggi che si muovono attorno a Sindona e si danno da fare per salvarlo, scoprono Turone e Colombo, finiscono tutti per arrivare a Gelli: Rodolfo Guzzi, l'avvocato del bancarottiere; Pier Sandro Magnoni, suo genero; Philip Guarino e Paul Rao, due massoni che incontrano il Venerabile poche ore dopo essere stati ricevuti da Giulio Andreotti. Ecco perché, nel marzo 1981, i giudici milanesi ordinano una perquisizione di tutti gli indirizzi del Venerabile. "Cautela assoluta", ricorda Colombo, "avevamo intuito che per ottenere risultati dovevamo procedere con la massima segretezza". La sera di lunedì 16 marzo 1981 una sessantina di agenti della Guardia di finanza si muove da Milano verso i quattro indirizzi di Gelli annotati su una agenda di Sindona sequestrata al banchiere dalla polizia di New York: villa Wanda di Arezzo, l'abitazione privata; la suite all'Excelsior dove riceveva autorità, politici, postulanti; un'azienda di Frosinone; e gli uffici di una fabbrica d'abbigliamento, la Giole di Castiglion Fibocchi. L'incarico delle perquisizioni è affidato a un uomo di cui Turone e Colombo conoscono la lealtà istituzionale, il colonnello della Guardia di finanza Vincenzo Bianchi. Ha l'ordine di agire senza informare nessuno e senza avere alcun contatto con le autorità locali, i carabinieri, la polizia, la magistratura del posto, neppure i comandi della Guardia di finanza. I suoi finanzieri, arrivati in Toscana, non passano la notte nella caserma di Arezzo, ma si disperdono in diverse località lì attorno. Per tutti, l'appuntamento è all'alba del 17 marzo. Scatta la perquisizione. Nessun risultato a Roma. Niente a villa Wanda. L'azienda di Frosinone è un vecchio indirizzo. Alla Giole, invece, c'è una montagna di carte. Gelli non si trova, è a Montevideo. Ma la sua segretaria, Carla, protegge con vigore i documenti stipati nella scrivania, nei cassetti, nella cassaforte, in una valigia...
Nella cassaforte ci sono gli elenchi della loggia segreta. "Sequestrate tutto", ordinano, per telefono, i giudici istruttori. La perquisizione è ancora in corso quando a Bianchi arriva via radio una chiamata del generale Orazio Giannini, comandante della Guardia di finanza: c'è anche il suo nome, in quegli elenchi, come quello del suo predecessore, il generale Raffaele Giudice, come quello del capo di stato maggiore della Finanza, il generale Donato Lo Prete. E il comandante delle Fiamme gialle di Arezzo, e una folla di generali, colonnelli, maggiori...
VERSO IL PORTO DELLE NEBBIE. Tutte le carte sono portate a Milano. Turone e Colombo le catalogano, personalmente, pagina per pagina. Ne fanno due copie. L'originale entra nel fascicolo dell'inchiesta; la prima copia è affidata ai finanzieri, con l'incarico di conservarla in un luogo sconosciuto agli stessi giudici; la seconda è nascosta, sotto una falsa intestazione ("Formazioni comuniste combattenti") tra i fascicoli di un collega di cui i due si fidano, il giudice Pietro Forno. Non si sa mai. Fuori dal palazzo di giustizia di Milano, intanto, nessuno sa delle carte sequestrate a Gelli. Eppure qualcuno sta lavorando febbrilmente per parare il colpo. La notizia comincia a trapelare.La dà, per primo, il telegiornale Rai la sera del 20 marzo. Ma non è chiaro quali documenti siano stati trovati dai giudici.Il giorno dopo, sabato 21 marzo, il Giornale (allora diretto da Indro Montanelli) scrive: "Nell'ambito delle indagini per l'affare Sindona, stasera si è appresa una doppia operazione compiuta dalla magistratura di Milano e da quella di Roma, nella villa aretina di Licio Gelli, Venerabile Maestro della loggia massonica P2. Per conto dei giudici milanesi l'intervento sarebbe stato operato dalla Guardia di finanza, mentre Roma avrebbe partecipato agli accertamenti attraverso il sostituto procuratore della Repubblica Sica". Strana notizia: il ritrovamento non è avvenuto a villa Wanda ma alla Giole di Castiglion Fibocchi; e soprattutto Domenico Sica, detto "Rubamazzo", per ora non c'entra nulla. Ma basteranno poche settimane e Roma arriverà ad avverare la profezia del Giornale e a strappare l'indagine ai magistrati milanesi. Turone e Colombo, consci del peso istituzionale della loro scoperta, decidono che è loro dovere informare il capo dello Stato: ma il presidente Sandro Pertini è all'estero, così ripiegano sul capo del governo, Arnaldo Forlani. Si recano a Roma il 25 marzo, l'appuntamento è fissato alle ore 16 a Palazzo Madama. Aspettano per due ore.Poi la segreteria di Forlani comunica che c'è stato un equivoco, che il presidente li aspetta a Palazzo Chigi. I due giudici si spostano lì.Ad accoglierli è il capo di gabinetto di Forlani."Ci siamo guardati negli occhi in silenzio", ricorda Colombo, "il funzionario davanti a noi era il prefetto Mario Semprini, tessera P2 1637". Forlani è cortese, chiede se le carte trovate possono essere non autentiche. I due giudici gli mostrano una firma autografa del ministro della Giustizia Adolfo Sarti sulla domanda d'iscrizione alla loggia.Chiedono: "Signor presidente, avrà certamente un documento controfirmato dal suo ministro Guardasigilli...". Forlani ne prende uno, confronta i due fogli, si convince. "Datemi tempo di riflettere", conclude Forlani. "Di solito offro agli ospiti di riguardo un aereo dei servizi per tornare a casa. Mi pare che questa volta non sia il caso". Forlani tira in lungo.Non vuole prendersi la responsabilità di rendere pubblici gli elenchi. Cerca di scaricarla sui giudici milanesi. Sui giornali del 20 maggio i titoli confermano quella sensazione: "Forlani: spetta ai giudici togliere il segreto sulla P2". Turone, Colombo e il capo dell'ufficio Amati inviano immediatamente una lettera al presidente del Consiglio, in cui sostengono che sono coperti dal segreto istruttorio i verbali delle deposizioni dei testimoni che stanno sfilando davanti a loro, ma non "il restante materiale trasmesso". Forlani capisce che non può più aspettare.Le liste di Gelli sono rese pubbliche. Oltre agli elenchi degli affiliati e alla documentazione sulla loggia, tra le carte sequestrate vi sono 33 buste sigillate con intestazioni diverse: "Accordo Eni-Petromin", "Calvi Roberto vertenza con Banca d'Italia", "Documentazione per la definizione del gruppo Rizzoli", "On. Claudio Martelli"...
C'erano già, in quelle carte, i segreti di Tangentopoli, del Conto Protezione e di tanto altro ancora. Ma i tempi non erano maturi. Da Roma si muovono il giudice istruttore Domenico Sica (detto "Rubamazzo") e il procuratore della Repubblica Achille Gallucci. Sollevano il conflitto di competenza e la Cassazione, il 2 settembre 1981, strappa l'inchiesta a Milano per affidarla a Roma. Non sviluppata, l'indagine si spegne. "Mi è arrivata sulla scrivania già morta", dice Elisabetta Cesqui, il pubblico ministero che eredita l'indagine. L'accusa di cospirazione politica contro le istituzioni della Repubblica mediante associazione cade: tutti i rinviati a giudizio (pochi: qualche capo dei 17 gruppi in cui la P2 era divisa, più Gelli e i responsabili dei servizi segreti) sono prosciolti, e comunque il processo arriva in Cassazione quando ormai è troppo tardi e per tutti scatta la prescrizione. Più utile il lavoro della Commissione parlamentare presieduta da Tina Anselmi, che dichiara le liste della P2, con 972 nomi, "autentiche" e "attendibili", ma incomplete. E con anni di lavoro produce un materiale immenso e prezioso, la documentazione di come funzionava una potentissima macchina di eversione e di potere. Ma nel 1981 le speranze - o le paure - erano altre: una parte del Paese sperava che lo scandalo P2 avviasse il rinnovamento della vita politica e istituzionale; un'altra temeva che il proprio potere si incrinasse per sempre. Sbagliavano gli uni e gli altri.
TESSERA NUMERO 1816. Oggi il più noto degli iscritti alla P2 è Silvio Berlusconi, tessera numero 1816. Per la P2 Berlusconi ha subito la sua prima condanna, ormai definitiva: per falsa testimonianza. Nel 1990, a Venezia, viene infatti giudicato colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla loggia. L'anno prima, però, c'era stata una provvidenziale amnistia.  Quando parla della P2, Berlusconi se la cava, di solito, con qualche battuta. Eppure l'iscrizione alla loggia è stata determinante per i suoi primi affari immobiliari. Per esempio per ottenere credito dalla Banca nazionale del lavoro (controllata dalla P2, con ben otto alti dirigenti affiliati) e dal Monte dei Paschi di Siena (era piduista il direttore generale Giovanni Cresti). Conclude la Commissione Anselmi: gli imprenditori Silvio Berlusconi e Giovanni Fabbri (il re della carta) "trovarono appoggi e finanziamenti al di là di ogni merito creditizio". Ma poi, fatte le case, bisogna venderle. E non fu facile, per Berlusconi. Lo soccorse, agli inizi della sua carriera di immobiliarista, un "fratello" della loggia segreta, il napoletano Ferruccio De Lorenzo, già sottosegretario liberale in un governo Andreotti e futuro ministro della Sanità e imputato di Mani pulite: De Lorenzo acquistò, come presidente dell'Enpam (l'Ente nazionale previdenza e assistenza dei medici italiani) prima due hotel a Segrate, poi decine di appartamenti di Milano 2. L'Enpam decise poi di affidare a Berlusconi anche la gestione del teatro Manzoni di Milano, controllato dall'ente. Quando Gelli parla di Berlusconi, è lapidario: "Ha preso il nostro Piano di rinascita e lo ha copiato quasi tutto", dichiara all'Indipendente nel febbraio 1996. Il Piano di rinascita democratica era il programma politico della P2. Fu sequestrato il 4 luglio 1981 all'aeroporto di Fiumicino, nel doppiofondo di una valigia di Maria Grazia Gelli, figlia del Venerabile. Riletto oggi, risulta profetico. Prevede, infatti, di "usare gli strumenti finanziari per l'immediata nascita di due movimenti l'uno sulla sinistra e l'altro sulla destra". Tali movimenti "dovrebbero essere fondati da altrettanti club promotori". Nell'attesa, il Piano suggerisce che con circa 10 miliardi è possibile "inserirsi nell'attuale sistema di tesseramento della Dc per acquistare il partito". Con "un costo aggiuntivo dai 5 ai 10 miliardi" si potrebbe poi "provocare la scissione e la nascita di una libera confederazione sindacale". Per quanto riguarda la stampa, "occorrerà redigere un elenco di almeno due o tre elementi per ciascun quotidiano e periodico in modo tale che nessuno sappia dell'altro"; "ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di simpatizzare per gli esponenti politici come sopra". Poi bisognerà: "acquisire alcuni settimanali di battaglia", "coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso un'agenzia centralizzata", "coordinare molte tv via cavo con l'agenzia per la stampa locale", "dissolvere la Rai in nome della libertà d'antenna"; "punto chiave è l'immediata costituzione della tv via cavo da impiantare a catena in modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del Paese". Tecnologia a parte: preveggente, no? La giustizia va ricondotta "alla sua tradizionale funzione di equilibrio della società e non già di eversione". Per questo, è necessaria la separazione delle carriere del pubblico ministero e dei giudici, "l'istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti", la "riforma del Consiglio superiore della magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento". Molto è già stato realizzato. Per il resto si vedrà. Che fine hanno fatto gli altri "fratelli" di loggia? Alcuni hanno fatto proprio una brutta fine. Sindona, dopo essere stato condannato per l'omicidio di Giorgio Ambrosoli, è morto in carcere, per una tazzina di caffè al veleno. Il suo successore nella finanza d'avventura, Roberto Calvi, tessera numero 1624, ha gettato la più grande banca italiana, il Banco Ambrosiano, nelle braccia della P2 che gli ha sottratto un fiume di miliardi e l'ha fatto finire in bancarotta; alla fine, il 18 giugno 1982, è stato trovato penzolante sutto il ponte dei Frati neri, a Londra. Mino Pecorelli, tessera 1750, giornalista in contatto con i servizi segreti, direttore di Op e piduista anomalo che voleva giocare in proprio, è stato crivellato di colpi nella sua automobile, il 20 marzo 1979.
LA LOGGIA MULTINAZIONALE. Gelli è agli arresti domiciliari a villa Wanda, condannato per il crac del Banco Ambrosiano. Molti degli affiliati, il nocciolo duro del club dell'oltranzismo atlantico, sono stati coinvolti in vicende di eversione, stragi, tentati colpi di Stato, depistaggi. Così Vito Miceli, Gian Adelio Maletti, Antonio Labruna, Giuseppe Santovito, Giovanni Fanelli, Antonio Viezzer, Umberto Federico D'Amato, Giovanbattista Palumbo, Pietro Musumeci, Elio Cioppa, Manlio Del Gaudio, Giovanni Allavena, Giovanni Alliata di Montereale, Giulio Caradonna, Edgardo Sogno... Ci vorrebbe almeno un libro per ciascuno, per raccontare la multiforme attività di questi fedeli servitori del Doppio Stato. Organizzazione multinazionale, la P2 aveva affiliati che operavano in Sudamerica: Uruguay, Brasile e soprattutto Argentina. In Argentina, dove Gelli aveva rapporti molto stretti con i servizi segreti, aveva arruolato nella loggia l'ammiraglio Emilio Massera, capo di Stato maggiore della Marina, José Lopez Rega, ministro del Benessere sociale di Juan Domingo Peron, Alberto Vignes, ministro degli Esteri, l'ammiraglio Carlos Alberto Corti e altri militari. Pochi del club P2 sono stati messi davvero fuori gioco dallo scandalo che seguì la pubblicazione degli elenchi. I magistrati (unica categoria che reagì con decisione) furono giudicati e sanzionati dal Consiglio superiore della magistratura. Ma ciò non toglie che uno dei magistrati iscritti alla P2, Giuseppe Renato Croce, tessera numero 2071, oggi giudice per le indagini preliminari a Roma, con arzigogoli procedurali stia dando ragione a Marcello Dell'Utri in una delle tante contese giudiziarie che il braccio destro di Berlusconi ha aperte. Molti dei piduisti sono stati messi da parte dagli anni e dall'età. Ma chi resiste all'azione del ciclo biologico non se la cava poi tanto male. Tra i giornalisti (di allora), Gustavo Selva è parlamentare di An; Maurizio Costanzo è direttore di Canale 5 e uomo politicamente trasversale, anche se sempre dalla parte di Berlusconi nei momenti cruciali; Massimo Donelli è direttore della nuova tv del Sole 24 ore. Roberto Gervaso continua a scrivere un fiume di articoli e di libri e nessuno si ricorda più di una simpatica lettera che inviò, tanto tempo fa, a Gelli: "Caro Licio, ho chiesto a Di Bella (direttore del Corriere della sera quando era nelle mani della P2, ndr) di farmi collaborare. È bene che tutti capiscano che bisogna premiare gli amici. Oggi Di Bella parlerà della mia collaborazione con Tassan Din (direttore generale del Corriere, piduista come l'editore del Corriere, Angelo Rizzoli, ndr). Vedi di fare, se puoi, una telefonata a Tassan Din, affinché non mi metta i bastoni tra le ruote". Più defilato Paolo Mosca, ex direttore della Domenica del Corriere. Gino Nebiolo, all'epoca direttore del Tg1, è stato mandato da Letizia Moratti a dirigere la sede Rai di Montevideo (una capitale della P2) e oggi scrive sul Foglio di Giuliano Ferrara. Franco Colombo, ex corrispondente della Rai a Parigi e aspirante piduista, oggi ha cambiato mestiere: è vicepresidente della società del Traforo del Monte Bianco e si sta dando molto da fare per gli appalti che devono riaprire il tunnel. Alberto Sensini (aspirante piduista, come Colombo) scrive di politica sui giornali. Tra i politici, Pietro Longo, segretario del Partito socialdemocratico, divenne il simbolo negativo del piduista con cappuccio. Ma a tanti altri è andata meglio. Publio Fiori (tessera 1878), ex deputato democristiano, è trasmigrato in An e nel 1994 è diventato ministro di Berlusconi. Una poltrona di ministro è già capitata, durante il governo Berlusconi, anche ad Antonio Martino (anch'egli a Gelli aveva solo presentato la domanda d'iscrizione). Invece Duilio Poggiolini (tessera 2247), ex ministro democristiano della Sanità, ha avuto la carriera stroncata non dalla P2, ma dai lingotti d'oro di Tangentopoli trovati nel pouf del salotto. Massimo De Carolis (tessera P2 1815, solo un numero in meno di quella di Berlusconi), negli anni Settanta era democristiano e leader della "Maggioranza silenziosa", oggi è tornato alla politica sotto le bandiere di Forza Italia e grazie al rapporto diretto con Berlusconi ha ottenuto la presidenza del Consiglio comunale di Milano e la promessa di una candidatura in Parlamento. Le ha dovuto abbandonare entrambe, dietro la ferma insistenza del sindaco Gabriele Albertini, dopo essere stato coinvolto in alcuni scandali. È accusato, tra l'altro, di aver chiesto 200 milioni per rivelare notizie riservate a una azienda partecipante a una gara per un appalto a Milano. Ma il fatto curioso è che, insieme a De Carolis, nel processo in corso a Milano sia coinvolta un'altra vecchia conoscenza della P2: Luigi Franconi (tessera P2 numero 1778). I rapporti solidi resistono nel tempo.
POLITICA & AFFARI. Un banchiere iscritto alla P2, certo meno noto di Sindona e Calvi, era Antonio D'Alì, proprietario della Banca Sicula e datore di lavoro di boss di mafia come i Messina Denaro. Oggi ha passato la mano al figlio, Antonio D'Alì jr, eletto senatore a Trapani nelle liste di Forza Italia. Angelo Rizzoli, che si fece sfilare di mano il Corriere dalla compagnia della P2, oggi fa il produttore cinematografico. Roberto Memmo (tessera 1651), finanziere che tanto si diede da fare per salvare Sindona, oggi è buon amico di Marcello Dell'Utri, di Cesare Previti e del giudice Renato Squillante, che incontrava insieme, e dirige la Fondazione Memmo per l'arte e la cultura, con sede a Roma nel Palazzo Ruspoli. Rolando Picchioni (tessera 2095), torinese, ex deputato dc, coinvolto (ma assolto) nello scandalo petroli, oggi è in area Udeur ed è segretario generale del Salone del libro di Torino. Giancarlo Elia Valori, unico caso di piduista espulso dalla loggia perché faceva troppa concorrenza al Venerabile Maestro, oggi è presidente dell'Associazione industriali di Roma, infaticabile scrittore di libri e instancabile tessitore di rapporti e di alleanze. Vittorio Emanuele di Savoia (tessera 1621) è un curioso caso di uomo off-shore: non può rientrare in Italia, ma in Italia fa business, seppure attraverso società estere. Ora vorrebbe poter rientrare definitivamente, anche se nei fatti non ne è mai stato fuori, a giudicare dai suoi affari e traffici (d'armi): nei decenni scorsi è stato, anche grazie alla sua integrazione nel club P2, mediatore d'affari all'estero per conto di aziende italiane (Agusta) e addirittura di Stato (Italimpianti, Condotte...), quello stesso Stato sul cui territorio non poteva mettere piede. Di Berlusconi ha detto (era il 1994): "È un buon manager, può rimettere ordine nell'economia italiana". Come? Per esempio "cancellando quel disastro" che è "lo Statuto dei lavoratori, con il divieto di licenziamento". Apprezzamenti naturali, tra compagni di loggia. Ma con un finale obbligato per il principe: "Io? Non faccio politica". Vittorio Emanuele non vota, ma c'è da scommetterci che tifa per Berlusconi, che potrà farlo
 finalmente rientrare in Italia, questa volta anche fisicamente.  Vent'anni dopo, in Italia è tempo di revisioni. Anche sulla P2. È stato un legittimo club di amiconi, magari con qualcuno che ne approfittava un po' per fare affari. Gelli? Un abile traffichino che millantava poteri che in realtà non aveva. Ma era proprio questo, la P2? Vista con distacco, appare invece il luogo più attivo per l'elaborazione di strategie di potere del grande partito atlantico in Italia, almeno tra il 1974 e il 1981. Centro d'incontro tra politica, affari, ambienti militari. Nella loggia segreta è confluito il partito del golpe, reduce della stagione delle stragi 1969-74, ma con una nuova strategia, più flessibile, più attenta alla politica. E ai soldi, che possono comprarla: come suggerisce, appunto, il Piano di rinascita. E oggi? La fase, naturalmente, è nuova. La società è cambiata. Anche gli uomini alla ribalta sono, in buona parte, diversi. Ma nella storia italiana non si butta via niente, c'è una continuità di fondo con il peggio delle nostre vicende, fatte di un anticomunismo eversivo, bancarotte e spoliazioni di denaro pubblico, politica corrotta, stragi, morti ammazzati, rapporti inconfessabili con le organizzazioni criminali. Il passato, il tremendo passato italiano, deve sempre restare non del tutto chiarito, perché i dossier, gli uomini, i segreti, i ricatti che da quel passato provengono possano essere riciclati nel futuro. Da questo punto di vista, la parabola di Silvio Berlusconi, uomo "nuovissimo" che viene dal passato vecchissimo di Gelli e affiliati, è la parabola dell'Italia.

12 maggio - "La Repubblica"
Il figlio di Calvi: "La chiave del giallo nello scandalo Ior"
"C'è relazione tra l'agguato al pontefice e l'omicidio di  mio padre"
L'INTERVISTA
ANNA MARIA TURI
Il 18 giugno 1982 sotto il ponte di Black Friars, nel cuore di Londra, viene trovato morto, impiccato, il presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi. Il processo per il crac dell'istituto di credito era cominciato un anno prima. La
magistratura britannica archiviò la pratica come un caso di suicidio. Solo di recente nuove perizie hanno accertato che Calvi venne assassinato.
ROMA - L'anniversario dell'attentato a Giovanni Paolo II segna un mistero lungo vent'anni. Dal 13 maggio 1981, tre inchieste della magistratura, e nessuna risposta all'interrogativo sui mandanti di un crimine senza precedenti nella storia moderna. Ma ecco giungere dalla Turchia le dichiarazioni di Oral Celik, boss mafioso che dava ordini ad Agca nella sua lunga marcia verso piazza San Pietro: né l'Est né l'Ovest - dice il "lupo grigio" - hanno complottato ai danni di Wojtyla, perché i mandanti vanno ricercati in certi ambienti vaticani, sostenuti da ambienti dei Servizi segreti italiani. E' bene ricordare che all'epoca il Vaticano doveva risolvere il problema del colossale "buco" nelle sue finanze, creatosi per l'aggrovigliata storia dei suoi rapporti con il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. E' perciò a Carlo Calvi, figlio del banchiere assassinato a Londra il 18 giugno 1982, che chiediamo di parlarci dei retroscena a sua conoscenza riguardanti quei crimini e di quanto, eventualmente, è rimasto finora sepolto nel patrimonio dei ricordi di famiglia. Dottor Calvi, torniamo alla fine degli anni Settanta e agli inizi degli anni Ottanta, fitti di delitti e di misteri, i cui nodi sono ancora da sciogliere. Per la parte che ne ebbe suo padre, lei cosa ne sa? "L'omicidio di mio padre, come l'attentato al Papa dell'anno prima, servirono a scongiurare la rivelazione dei rapporti tra politica, economia e crimine. Quando più violenta si fece la pressione esercitata su mio padre affinché mantenesse il segreto sull'uso che si faceva dell'Ambrosiano, e quindi dello Ior, per finanziare attività politiche e progetti occulti, lui pensò di difendersi informandone il nuovo Papa. E lo fece all' insaputa di tutti, anche di Marcinkus. Giovanni Paolo II, una volta eletto, fu per qualche tempo all'oscuro delle attività coperte dei due Istituti, mentre papa Montini ne era stato sempre perfettamente al corrente. Così papa Wojtyla venne informato da mio padre del complesso meccanismo di triangolazione chiamato "conto deposito", che consentiva al Banco Ambrosiano di Nassau di finanziare lo IOR tramite la panamense United Trading Company con conto presso la Banca del Gottardo di Lugano". A questo punto iniziò una guerra a Calvi e al Papa? "Esattamente. Io allora vivevo a Washington e mi sono rimasti particolarmente impressi gli incontri con mio padre che a volte, per raggiungermi, rimandava impegni importantissimi. Lo scopo era di trasmettermi il senso del pericolo incombente sulla nostra famiglia. A me, a dir la verità, quei presagi allora sembravano esagerati. Ma poco prima dell'attentato al Papa, mio padre volle che ci ritrovassimo tutti insieme in Svizzera: e fu allora che lui, fortemente preoccupato per la nostra incolumità, fece pressioni affinché anche mia madre e mia sorella lasciassero l'Italia". A lei raccomandava di guardarsi da qualcuno in particolare? "Da Umberto Ortolani, per esempio, cui attribuiva un potere sinistro, e dal suo giro. Dopo il 13 maggio, mio padre cominciò le pratiche per trasferire mia madre e mia sorella in Canada". Lei dunque sostiene che i mandanti dell'attentato al Papa e quelli che, un anno dopo, uccisero suo padre furono gli stessi? "Esattamente. Concordo, in questo, con le dichiarazioni di Oral Celik. Molti si sentivano assediati da un Papa che ormai "sapeva"". Ma suo padre, all'indomani del 13 maggio, accennò ai nomi dei presunti mandanti? "Mio padre era un uomo riservato. D'altro canto, si guardava bene dal renderci depositari di verità particolarmente scottanti. Comunque, sì, li collocava all'interno del Vaticano, lacerato dalle lotte di potere, dove i rapporti, esasperati, assumevano forme di vera e propria violenza". Prima che si accasciasse sotto i colpi di Ali Agca, quali pensieri avevano angustiato il Santo Padre al quale, come lei ci dice, Roberto Calvi parlava da solo e in confidenza? "Lo angustiavano appunto le divisioni, le lotte, e le posizioni ideologiche e di potere da cui traevano origine". E il debito? "Il Papa non era afflitto tanto dal debito in sé". Suo padre le disse chiaramente: "Hanno colpito il Papa gli stessi che stanno facendo la guerra a me?" "Sì, inquadrò gli eventi nello stesso contesto in cui avvenivano gli episodi di aggiotaggio miranti a colpire lui personalmente. Stesso contesto, stessa regia". A soli sei giorni dall'attentato, un rapporto dei servizi segreti italiani menzionava fatti e circostanze che misero gli inquirenti sulla pista dell'Est. "Ricordo che all'indomani di quel 13 maggio '81 Francesco Pazienza corse da me alle Bahamas e, invitandomi a cena la sera stessa del suo arrivo, non fece che parlarmi dell'attentato suggerendo, ambiguamente, quella che sarebbe diventata la pista bulgara". Parliamo degli esecutori materiali. I magistrati hanno scoperto tracce dei contatti tra Agca e la mafia siciliana. La polizia ha accertato che il turco, pochi mesi prima dell'attentato, soggiornò a Palermo dove giunse dalla Tunisia. Adesso Celik svela che nel capoluogo siciliano avvennero contatti determinanti per l'esecuzione dell'attentato. Questo le fa venire in mente qualcosa? "Mi fa venire in mente l'impiego del crimine organizzato, per esempio, nell'attentato a Roberto Rosone, direttore generale dell'Ambrosiano, da parte di Danilo Abbruciati, boss della banda della Magliana. La caratteristica della banda era di accomunare criminali e terroristi, come gli "espatriati" di estrema destra a Londra, legati al mondo degli antiquari". Il 20 maggio '81 suo padre è arrestato nella casa di Milano. Il 10 giugno inizia il processo per il crac dell'Ambrosiano. Allora lui comincia a rivelare parte dell'intreccio che lega i due Istituti. Questo ne prepara la fine? "Voglio che si sappia che la rogatoria che prese le mosse il 20 maggio fu una vera e propria pallottola assimilabile a quella dell'attentatore, in tutti i sensi. Certamente vi furono anche altre cause della tragedia di mio padre, il quale in quel periodo cercava interlocutori, per sé e per lo Ior, per salvare la sua Banca e l'Istituto vaticano, e per quest'ultima li cercava in quanti erano più vicini alle posizioni ideologiche del Papa. Fino a quel momento la Banca vaticana era stata una torre impenetrabile, ma il processo l'aveva resa penetrabile. Ora l'Opus Dei prometteva un suo intervento per ridurre la posizione debitoria dell'Istituto; in cambio, ovviamente, di un aumento del peso della sua influenza su di esso".

13 maggio - Si svolgono le elezioni politiche. La Casa delle Liberta' ottiene una sufficiente maggioranza sia al Senato che alla Camera e i parlamentari della Lega non sono determinanti. In Parlamento entrano o sono confermati anche sei persone il cui nome compariva nelle liste dei presunti iscritti alla P2 trovati a Castiglion Fibocchi nel 1981:
   Antonio Martino - Il suo nome e' compreso in un gruppo di 30 persone che risultano aver chiesto l' iscrizione alla P2, ma la posizione di quali era ancora sospesa. Martino ha sempre negato di aver chiesto l' iscrizione alla P2. Il 18 ottobre 1994 lo ha fatto in tv, alla trasmissione "Al voto, al voto", condotta da Lilli Gruber, suscitando la reazione dell' ex senatore del Pci Sergio Flamigni, che ha fatto parte della commissione parlamentare d' inchiesta sulla loggia P2, il quale, in una lettera alla Gruber, afferma che Martino presento' una domanda di iniziazione, da lui stesso firmata, in data 6 luglio 1980. La domanda - come risulta, secondo Flamigni, dagli atti della Commissione d'inchiesta sulla P2 - e' sottoscritta anche dal ''fratello'' presentatore Giuseppe Donato, collaboratore di Gelli e iscritto alla P2. A Martino e' inoltre intestata - continua Flamigni - una scheda della loggia P2 contenente i dati anagrafici, numero di  telefono, stato civile, orientamento politico, fede religiosa. Infine, Flamigni cita una lettera di Donato a Gelli del 20 novembre 1980 con la quale si comunica il nuovo indirizzo di Martino negli Stati Uniti e la testimonianza di Donato al giudice Gherardo Colombo, l'11 maggio 1981, in cui lo stesso Donato - scrive Flamigni - conferma di aver presentato Martino per l' affiliazione alla P2. Antonio Martino replica a sua volta: ''Diffido chiunque dall' associare a qualsiasi titolo il mio nome alla loggia P2 della quale non ho mai fatto parte''. ''Poiche' non consento a nessuno di ledere il mio onore e la mia reputazione, ne' di coinvolgere la mia immagine in meschine speculazioni preelettorali rendo noto che agiro' con la massima determinazione in sede penale e in quella civile contro chiunque dichiari, pubblichi o diffonda, con qualsiasi mezzo, contrariamente al vero, la notizia della mia presunta adesione alla loggia massonica P2''.
   Aventino Frau - Il nome di Aventino Frau, all' epoca deputato Dc, compare nelle liste dei presunti iscritti alla P2, fascicolo 533, numero di tessera 1705 e data di iniziazione dell' 1 gennaio 1977. Frau ammette di aver conosciuto Gelli, ma smentisce la sua iscrizione alla P2 "come a qualunque altra loggia massonica o organizzazione consimile". Il 20 novembre 1981 il collegio dei probiviri della Dc punisce Frau con una sospensione di 2 mesi. All' inizio del 1993, l' ordine regionale dei giornalisti della Lombardia decide la non punibilita' "per insufficienza di prove" nei confronti di Frau, pubblicista, ma due anni piu' tardi l' Ordine nazionale annulla con rinvio il provvedimento per la inammissibilita' della formula dubitativa nei procedimenti disciplinari. Nel settembre 1985, l' Ordine regionale lombardo proscioglie Frau con formula piena ravvisando una assoluta mancanza di indizi.
   Fabrizio Cicchitto - Il nome di Fabrizio Cicchitto, all' epoca deputato e membro della direzione del Psi, compare nelle liste dei presunti iscritti alla P2, fascicolo 945, numero di tessera 2232 e data di iniziazione 12 dicembre 1980. Cicchitto e' uno dei pochi ad ammettere di aver sottoscritto una domanda di adesione anche se, afferma, non ha mai ritirato la tessera ne' pagato quote associative. La commissione centrale di controllo del Psi decise per Cicchitto l' inibizione da tutte le cariche elettive interne ed esterne al partito fino al 31 ottobre 1981.
   Gustavo Selva - Il nome di Gustavo Selva, all' epoca direttore del Gr2 Rai, compare nelle liste dei presunti iscritti alla P2, al fascicolo 623 con il numero di tessera 1814 e data di iniziazione 26 gennaio 1978. Selva smentisce recisamente, come aveva gia' fatto quando il suo nome era trapelato nei giorni precedenti da indiscrezioni di stampa e da' subito mandato al suo legale, avv. Giorgio Gregori, di querelare chiunque associ il suo nome alla P2. Il Consiglio di amministrazione Rai decide comunque la sospensione temporanea dei giornalisti dell' azienda il cui nome compare negli elenchi. Selva ricorre al pretore del lavoro chiedendo la reintegrazione, ma il pretore Gabriele Battimelli respinge il ricorso. La Rai lo nominera' poi presidente della Rai Corporation. Il consiglio regionale del Lazio dell' Ordine dei giornalisti dichiara che ''non e' emerso nei confronti di Gustavo Selva alcun addebito sotto il profilo deontologico''. Analoga posizione e' presa dal collegio dei probiviri della Dc, partito del quale Selva e' consigliere nazionale, che riconosce che "non sono emersi elementi di difformita'" con la dichiarazione liberatoria presentata da Selva. Anche una commissione dell' Iri decide che non e' configurabile alcun problema di partecipazione di Selva "ad attivita' di tale associazione e di influenza del vincolo associativo sull' esercizio delle sue funzioni". Il 13 luglio 1982, in un' audizione in commissione P2, Selva ammette di aver conosciuto Gelli nel 1977 ad un ricevimento all' ambasciata argentina e di averlo incontrato di nuovo, circa un anno dopo, ad una conferenza all' hotel Excelsior. Selva nega pero' di essersi mai iscritto e tantomeno di aver fatto versamenti a favore di Gelli. Inoltre fa presente di aver presentato denuncia contro ignoti per l' inserimento del suo nome nella lista trovata a Castiglion Fibocchi. Oltre alla denuncia contro ignoti, Selva, negli anni, ha presentato querele contro numerose persone e giornali, tra cui L'Espresso, La Repubblica, Eugenio Scalfari, Panorama, L'Unita', Vincenzo Vita, Sergio Flamigni, Dario Fo e Franca Rame, Umberto Bossi.
   Publio Fiori - Il nome di Publio Fiori, all' epoca deputato Dc, compare nelle liste dei presunti iscritti alla P2, fascicolo 646, numero di tessera 1878 e data di iniziazione 10 ottobre 1978. Fiori smentisce denunciando "il mostruoso tentativo di criminalizzazione collettiva che non ha precedenti nella storia della nostra Repubblica". L' on. Giuseppe Tatarella, del Msi (che diventera' poi suo compagno di partito in An) chiede la sua esclusione dalla commissione Sindona, di cui Fiori faceva parte. Dopo 50 giorni di assenza, Fiori ricompare ai lavori della commissione affermando di essere in possesso di una documentazione che comprova la falsita' della sua iscrizione alla P2. Il collegio dei probiviri della Dc riconosce che "non sono emersi elementi di difformita'" con la dichiarazione liberatoria presentata da Fiori. Nell' audizione in commissione P2, Fiori dice di aver incontrato Gelli tre volte tra il 1977 e il 1978. Il primo incontro sarebbe avvenuto su richiesta di Gelli poco dopo l' attentato subito da Fiori da parte delle Brigate rosse. Fiori racconta che Gelli gli avrebbe chiesto di aderire alla sua Loggia, ma che lui rifiuto' perche' non riteneva affatto superati i problemi di compatibilita' tra massoneria e mondo cattolico. Anche Fiori presenta denuncia contro ignoti per l' inserimento del suo nome nella lista trovata a Castiglion Fibocchi. Nell' ottobre 1983 il settimanale "L'Espresso" scrive di una presunta iniziazione di Fiori nella loggia massonica "Gustavo Modena" di Roma. Fiori reagisce denunciando alla Procura della Repubblica di Roma l' autore dell' articolo, il direttore responsabile e "tutti coloro che hanno costruito e divulgato tale notizia completamente destituita da ogni fondamento".
   Silvio Berlusconi - Il nome di Silvio Berlusconi compare nelle liste dei presunti iscritti alla P2, fascicolo 625, numero di tessera 1816 e data di iniziazione 26 gennaio 1978. In un' audizione in commissione P2, Berlusconi  ammette di essersi iscritto alla P2 all' inizio del 1978 su invito di Gelli, con il grado di apprendista, ma dichiara:"dopo l' iscrizione mi dimenticai addirittura della Massoneria". Nel novembre 1993, al processo P2 Berlusconi dice, fra l' altro, di essersi iscritto alla P2 pensando che si trattasse di una normale loggia e di non aver mai conosciuto o previsto la sua pericolosita'. Secondo quello che scrive "L'Espresso" qualche settimana dopo, Berlusconi dice di aver avuto i primi contatti con Gelli nel 1978 attraverso Roberto Gervaso il quale gliene parlo' ''in termini molto positivi. Gelli - aggiunge Berlusconi - era una persona su cui non c' erano mai stati avvisi negativi di nessun tipo, anzi sembrava apparire come circondato da una buona considerazione generale''. Berlusconi, inoltre, ha detto che, attraverso Gervaso, Gelli gli fece sapere che avrebbe ''tenuto molto a una sua adesione a questa associazione''. Berlusconi ha detto ai giudici che ci fu anche una altro motivo: ''Gervaso - ha affermato - mi andava dicendo che Gelli era molto introdotto presso le autorita' politiche argentine, e che in Argentina si doveva sviluppare una grande serie di lavori pubblici. 'Io allora ero presidente di un consorzio per l' edilizia industrializzata che raccoglieva tutte le principali aziende italiane del settore, non la mia azienda; era proprio una carica che avevo a titolo onorifico e, diciamo cosi', anche perche' ero giovane''. Secondo Berlusconi, il motivo principale per cui aderi' fu pero' proprio l' insistenza di Gervaso che ''aveva bisogno di scrivere sul Corriere della Sera'': ''Mi disse 'ma cosa ti costa, dammi questa possibilita', fammi fare bella figura', e io aderii''. Nel settembre 1988 invece, in un' udienza di una causa per diffamazione, in seguito ad una querela di Berlusconi nei confronti dei giornalisti Giovanni Ruggeri, Mario Guarino, Carlo Verdelli e Alberto Statera, Berlusconi dichiara:"Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo che e' di poco anteriore allo scandalo". Per questa dichiarazione Berlusconi viene denunciato per falsa testimonianza. Il processo per falsa testimonianza si conclude nell' ottobre 2000. Berlusconi viene dichiarato colpevole ma "il reato attribuito all' imputato va dichiarato estinto per intervenuta amnistia". Nel novembre 1993, alle domande di un giornalista, Berlusconi ripete:''L'iscrizione alla P2 e' nata da una telefonata del mio amico Roberto Gervaso che insistette tanto che alla fine cedetti stremato e mi iscrissi. In quel tempo il signor Gelli in Italia era una persona stimata''. ''Ho ricevuto una tessera - ha aggiunto Berlusconi - in cui ero definito muratore apprendista, l'ho mostrata ai miei collaboratori, tra cui c'era anche Moccagatta passato adesso al gruppo De Benedetti, e poi l'ho fatta rispedire al mittente dopo averne riso con gli altri. Per me muratore apprendista era troppo poco''. Ancora nel marzo 2000 Berlusconi dichiara che ''Essere piduista non e' un titolo di demerito''. ''La P2 fu piu' che altro uno scoop giornalistico. - ha detto rispondendo alle domande di Daniele Vimercati a Telelombardia - La magistratura per altro non ha accertato mai mie responsabilita' di alcun tipo''. ''Quando alla mia iscrizione alla P2- ha spiegato Berlusconi - io ricevetti quella tessera dove si diceva che ero 'apprendista muratore' ed io, che allora ero il piu' grande costruttore di case, non potei fare a meno di farmi una grande risata. Dopodiche' la tessera fu immediatamente rispedita al mittente''.

15 maggio - Il pm Gherardo Colombo chiede tre anni e sei mesi di reclusione per l'ex presidente del consiglio Comunale di Milano, Massimo De Carolis, accusato di corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio per la vicenda dell'appalto del depuratore Milano Sud. Ai giudici della quarta sezione penale del Tribunale di Milano, Colombo ha chiesto anche 2 anni e 7 mesi per Ezio Cartotto, ritenuto uno degli intermediari, e due anni e un mese per Alain Maetz, rappresentante di Otv, societa' collegata con la Compagnie general des Eaux, oltre che per il consulente Luigi Franconi e per Luigi Sirna, anche loro considerati intermediari nella vicenda. Sono stati  anche chiesti due anni di reclusione per Agostino Schiavio, rappresentante di Passavant Italia, per concorso in rivelazione del segreto d'ufficio, reato per il quale e' stata richiesta l'assoluzione ex articolo 530, comma due (la vecchia insufficienza di prove) per Nicola Colicchi, rappresentante dell'Aerimpianti. La vicenda, rievocata da Colombo in piu' di un'ora di requisitoria, risale al '98. De Carolis, che a differenza degli altri imputati ha chiesto il giudizio immediato, e' accusato di aver ricevuto da Maetz, tramite Franconi, 25 milioni (parte di una somma piu' consistente) per favorire Otv, "nonostante fosse presidente del Consiglio Comunale e come tale - ha detto il pm - pubblico ufficiale, e avesse l'obbligo di imparzialita"'. De Carolis ha sempre respinto l'accusa. Il pm ha invece sottolineato come sia dimostrato che Maetz "avesse intenzione di vincere la gara  anche con comportamenti illeciti", mentre De Carolis avrebbe dimostrato "con chiarezza assoluta la sua volonta' di favorire Maetz proprio in relazione alla gara". Il Comune di Milano, che si e' costituito parte civile, tramite l'avv. Antonello Mandarano, ha chiesto a De Carolis mezzo miliardo di danni, 200 milioni a Maetz, a Cartotto Franconi e Sirna 100 a testa e a Colicchi 50 milioni.

21 maggio - "Il Corriere della sera"
P2, lo scandalo che fece tremare l'Italia
Venti anni fa rese note le liste. La Commissione: la loggia di Gelli minacciò le istituzioni. I giudici: non era illegale
E' stata la più profonda crisi istituzionale nella storia della Repubblica. Giusto venti anni fa il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani rendeva note le liste della loggia massonica "Propaganda 2" guidata da Licio Gelli. Un elenco di 962 nomi che includeva anche tre ministri; i vertici dei servizi segreti; 208 ufficiali; 18 alti magistrati, 49 banchieri, 120 imprenditori, 44 parlamentari, 27 giornalisti. Fu uno shock che travolse l'immagine della massoneria e fornì una nuova chiave di lettura alle indagini su decine di misteri degli anni Settanta. Pochi giorni dopo Forlani si dimise. Il parlamento approvò una legge per lo scioglimento della P2. E Giovanni Spadolini, nominato capo del governo, si rivolse al Paese sottolineando l'"emergenza morale" per le "gravi alterazioni e distorsioni nei meccanismi istituzionali".
LA SCOPERTA - Gli elenchi erano stati sequestrati il 17 marzo '81 dalle Fiamme Gialle negli uffici della Giole di Castiglion Fibocchi, un'azienda di Gelli. La perquisizione venne ordinata dai magistrati milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone, che indagavano sul bancarottiere Michele Sindona. Di fronte all' importanza dei documenti, Colombo e Turone decidono di consegnarli al premier. Per quasi due mesi Forlani mantiene il silenzio: rende noti gli elenchi solo quando ritiene formalmente caduto il segreto, senza però salvare il suo governo.
LA NATURA DELLA LOGGIA - Tre giuristi designati da Palazzo Chigi il 13 giugno 1981 definiscono la P2 una società segreta. La Commissione parlamentare d'inchiesta presieduta da Tina Anselmi chiude i lavori nell'84 mettendo in evidenza "una massiccia infiltrazione nei centri decisionali di maggior rilievo" e i legami con gruppi eversivi: il fine ultimo della P2 è "colpire la sovranità dei cittadini". Opposte le conclusioni della magistratura. Il processo contro la P2 si apre solo nel '91: tre anni dopo la sentenza di primo grado nega che si trattasse di un associazione cospirativa, assolvendo tutti gli imputati. Il verdetto è diventato definitivo nel '96: in pratica, per i giudici la loggia è stata soltanto un comitato d'affari che non ha minacciato le istituzioni. Numerose altre inchieste hanno invece fatto emergere il ruolo di membri della P2 negli episodi più oscuri degli ultimi trent'anni: gli attentati della strategia della tensione, le bancarotte di Calvi e Sindona, il sequestro di Aldo Moro, il tentato golpe Borghese e l'alleanza con la mafia.
GLI ISCRITTI - Dopo la pubblicazione della lista, tutti smentiscono l'appartenenza alla P2. Solo Maurizio Costanzo e il deputato socialista Fabrizio Cicchitto ammettono di essere stati nella loggia. Il 28 maggio Enzo Biagi con un intervento sul Corriere invita le persone citate nell'elenco a farsi da parte: tra i primi a dimettersi c'è l'allora direttore del Corriere Franco Di Bella, poi quello del Gr1 Gustavo Selva. Molti negano ogni rapporto con la P2, come il segretario del Psdi Pietro Longo o il ministro socialista Enrico Manca; altri precisano di avere soltanto incontrato Gelli. Silvio Berlusconi, ad esempio, dichiara che non avere mai completato la sua domanda di iscrizione ma i giudici non gli credono: viene condannato per falsa testimonianza, reato poi amnistiato.
IL CASO CORRIERE - La situazione del Corriere della Sera appare particolarmente delicata. Negli elenchi ci sono anche l'editore Angelo Rizzoli e il direttore generale Bruno Tassan Din. Si scopre come dalla fine del '76 Gelli e il finanziere Umberto Ortolani abbiano sfruttato l'indebitamento della società per tentare di conquistare il controllo azionario della Rizzoli con capitali forniti da Roberto Calvi e dalla banca vaticana Ior. Il tutto nell'ambito di un progetto più esteso - il cosiddetto "Piano di rinascita democratica" - che prevede il dominio dei mass media. Il comitato di redazione e il consiglio di fabbrica sin dal '77 si oppongono alle trasformazioni societarie e chiedono trasparenza nella proprietà. "Gelli chiese a Di Bella di cacciarmi - scrisse Biagi nel maggio '81 -. Ma ho il dovere di dichiarare che mai un mio articolo ha subito tagli: Di Bella non ha respinto un testo, nè sono stato pregato di usare benevolezza o durezza nei confronti di qualcuno". Nel 1982 dopo il crollo dell'Ambrosiano, subentra l'amministrazione controllata che si concluderà in bonis e porterà alla nascita dell'attuale Rcs.
IL VENERABILE - Nel maggio '81 Gelli fugge in Sud America dove può contare su protezioni nelle dittature di Argentina e Uruguay. Nell'82 viene arrestato a Ginevra con un passaporto falso: dopo quasi un anno evade dal carcere di Champ Dollon e scompare fino all'87. Si costituisce poi in Svizzera: estradato in Italia, dopo 10 giorni di carcere torna in libertà per motivi di salute. Si stabilisce nella dimora aretina di villa Wanda dove - secondo la denuncia fatta nel '91 dal ministro Mancino - riprende a muoversi come un "banchiere parallelo". Nel '96 viene condannato dalla Cassazione per il depistaggio della strage di Bologna. Nel '98 diventa esecutiva la pena a 12 anni per la bancarotta del vecchio Ambrosiano: Gelli però scappa ancora. Viene arrestato in Francia e riportato in cella. Oggi, all'età di 82 anni, è agli arresti domiciliari nella sua villa.
Di Feo

Amcora il "Il Corriere della sera"
L'INTERVISTA
Nando e Rita Dalla Chiesa "Domandò la tessera poi nostro padre si pentì"
"Anche lui pensava che fosse fuori legge. Un'ingiustizia averlo coinvolto"
ROMA - "Anche mio padre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, pensava che la Loggia P2 fosse un'organizzazione illegale", dice vent'anni dopo il figlio Nando, senatore neo-eletto dell'Ulivo e autore di molti scritti sui poteri occulti. Eppure suo padre, il carabiniere che aveva combattuto la mafia e il terrorismo e che poi da prefetto di Palermo venne assassinato nel settembre 1982, alla Loggia di Gelli aveva presentato una domanda d'ammissione nel 1976. "Una richiesta che avanzò dopo aver ricevuto le pressioni del generale Picchiotti - ricorda Nando -,l'ex vice-comandante dell'Arma che andò a trovarlo senza motivi d'ufficio, in un momento di debolezza del quale si pentì, al punto di chiedere subito dopo di non dare corso a quell'iscrizione". Nonostante ciò, quando lo scandalo esplose nella primavera del 1981, il nome del generale fu uno di quelli tirato in ballo con maggiore insistenza. E' una storia nella storia, quella di Dalla Chiesa e la P2, che ancora oggi il figlio ripercorre con qualche difficoltà. Fu lui, tra i figli, a stare più vicino al padre: "Ricordo che anziché aspettare che venisse la sera a casa nostra, come solitamente avveniva, andavo a trovarlo in ufficio nel pomeriggio, dopo la lezione all'università, e mi dava l'impressione di un leone ferito che non si capacitava di essere finito nello scandalo senza entrarci veramente. Si sentiva vittima di un'ingiustizia, e non riusciva a spiegarsi come mai, con tanti nomi illustri che c'erano tra gli iscritti veri, tornava fuori sempre il suo che invece non compariva nell'elenco". Ma pur nello sconforto di quei giorni, racconta ancora il senatore Dalla Chiesa, "mio padre non mi disse mai frasi del tipo "i giornali stanno esagerando, è una tempesta in un bicchier d'acqua". No, precisava solo che lui non c'entrava, e questo mi fa dedurre che la ritenesse una struttura illegittima. Anche dal diario si coglie questo giudizio, pagine private e non destinate alla pubblicazione, perciò sincere". Nando ha pubblicato brani del diario nella biografia che ha dedicato a suo padre, In nome del popolo italiano , e alla data del 21 maggio 1981, giorno della pubblicazione delle liste, si legge: "Sono stato alfine soddisfatto di far sapere a tutti che io non c'ero... Speriamo che se un disegno esiste alle spalle del tutto, questo venga in superficie con tutti i suoi responsabili". La figlia Rita Dalla Chiesa sentiva spesso il generale al telefono, in quei giorni: "E' stato uno dei periodi più difficili della sua vita, perché quella vicenda si accompagnò alle manovre interne ai carabinieri per screditare un uomo che godeva di un grande prestigio nella base. Io me lo ricordo dispiaciuto, ma non demoralizzato, perché a demoralizzarlo non ci sarebbe riuscito nessuno, era sempre pronto a rimettersi a combattere". Nando rievoca la festa dell'Arma del 5 giugno dell'81, "che per mio padre non fu affatto una festa; non riusciva nemmeno a giocare con mio figlio come faceva sempre. Percepiva chiaramente il tentativo di farlo fuori anche strumentalizzando quella domanda che lui non sapeva si fossero tenuti, chissà, forse per poterla utilizzare ad arte quando fosse stato necessario". Dai giudici Colombo e Turone il generale fu interrogato come testimone, in un confronto a tratti molto teso, tanto che Dalla Chiesa chiese esplicitamente se doveva considerarsi un imputato, che in tal caso voleva un avvocato al suo fianco. I magistrati lo tranquillizzarono, e negli anni seguenti il figlio senatore è tornato a chiedere notizie a Colombo e Turone: "Volevo sapere se davvero mio padre non c'entrava con la Loggia, e loro mi hanno sempre risposto che non era emerso altro che quella domanda rimasta senza seguito. Probabilmente la presentò perché gli fecero balenare il rischio di rimanere tagliato fuori dall'élite militare in un momento difficile per la sua carriera. Fatto sta che poi non se ne fece niente, ma ancora oggi il suo nome viene speso strumentalmente in questa vicenda, per dimostrare che la P2 era piena di brave persone oppure per gettare un'ombra sulla sua vita e sul suo lavoro. E' un'altra ingiustizia".
Giovanni Bianconi

Ancora "Il Corriere della sera"
GLI ELENCHI Il 17 marzo del 1981 vengono sequestrati negli uffici della "Giole" di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi (Arezzo) gli elenchi con i nomi dei 962 appartenenti alla loggia massonica segreta P2 (Propaganda 2). Il 22 maggio arriva il primo ordine di cattura per Gelli. Il 24 luglio la P2 viene sciolta ufficialmente
LA COMMISSIONE
Il 9 dicembre viene istituita una commissione d'inchiesta presieduta da Tina Anselmi. Secondo la relazione di maggioranza, fine della P2 è "colpire la sovranità dei cittadini". La magistratura, invece, stabilisce che la loggia non aveva finalità cospirative
LE CONDANNE
Gelli viene arrestato il 13 settembre del 1982. Condannato per corruzione, fugge e si costituisce nel 1987. Nel '96 viene condannato per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna. Nel '98 la Cassazione lo condanna a 12 anni per la bancarotta dell'Ambrosiano

Ancora "Il Corriere della sera"
IL PM DEL CRAC AMBROSIANO
Dell'Osso: affari e intrighi politici, ma il vero scopo era fare soldi
MILANO - "I 20 anni dalla divulgazione delle liste P2? Confesso che un tale anniversario mi è del tutto sfuggito. E del resto, questi fatti sono stati metabilizzati così impropriamente da suscitare il rischio di un certo fastidio intellettuale, di una reazione meccanica del tipo: "Oh, di nuovo, ma ancora con questa storia di Gelli e della P2?"". Pierluigi Dell'Osso, da quasi 10 anni pm della Direzione nazionale antimafia, istruì il processo per il dissesto del Banco Ambrosiano di Calvi all'ombra della scalata degli uomini P2 al Corriere della Sera. Perché quel fastidio? "Forse per l'inadeguatezza di una lettura superficiale e artificiale, scaturita dai due tipi di lenti in questi anni più frequentamente adoperate per leggere quei fatti. Una lente deformata e deformante, venata all'epoca di un interesse immediato a massimizzare lo scandalo in termini politico-sociali oltre che finanziari, e oggi tinta di una sorta di "reducismo": Gelli come una sorta di Catilina ad un passo dal golpe, e la sua loggia strumento per realizzarlo. Ma, all'altro estremo, c'è stata la lente riduttiva, minimalista, utilizzata per sostenere, con qualche sprezzo del senso del ridicolo, che l'associazione fosse una sorta di bocciofila ideale e filantropica, insomma poco più che una allegra brigata di amici uniti da qualche interesse materiale". Ma la prima lente si è frantumata a Roma con tutti gli imputati assolti dall'accusa d' aver cospirato contro lo Stato. E l'altra si è rivelata miope quando la ricostruzione processuale del crac Ambrosiano ha retto sino in Cassazione con la condanna definitiva di tutti gli imputati (meno uno, per una questione procedurale). "Sì, sono esiti ormai noti". Eppure lo stesso rappresentante dell'accusa al processo romano alla P2, nel chiedere in appello la conferma delle assoluzioni dalla cospirazione politica, ebbe a dire: la storia d'Italia non pas sa dalla storia della P2. "Piuttosto che enunciare a priori cosa sia stata la P2, gioverebbe considerare come abbia operato: il rilevante ruolo della P2 nel dissesto di un primario istituto finanziario del Paese (l'Ambrosiano), i rapporti con lo Ior, la conquista del Corriere da parte degli uomini della loggia. Le mie conclusioni restano quelle delle requisitorie del 1988 e 1992: la P2 fu soprattutto una stanza di compensazione di megainteressi e grandi affari, un "luogo" in cui appetiti personali e strategie finanziarie altrettanto occulte trovavano il loro regolamento anche attraverso intrighi politici e sociali. Hanno fatto la storia d'Italia? Dirlo è affare di sociologi e non di operatori di giustizia. Di certo uomini della P2 hanno influito sulle vicende di Ambrosiano e Corriere, e così si sono intrecciate con la storia del Paese di cui quei gruppi erano espressioni importanti. Se ci si chiede se vi siano stati momenti che hanno visto il sistema economico, le relazioni italo-vaticane, gli assetti editoriali risentire dei contraccolpi di quelle vicende e persino tremarne, credo che la risposta possa essere sì". Ma anche questa non rischia di essere un'ottica riduttiva? "Credo di no. E credo che la chiave affaristica-finanziaria valga anche - seppur non solo - a dar contezza della ragione pe cui comparivano i nomi di parlamentari, capi dei servizi segreti, banchieri, editori, giornalisti. Non appare illogico che chi fra i propri obiettivi aveva colossali e occulti arricchimenti, si preoccupasse di assicuarsi coperture d'ogni genere e d'alto livello. Che poi potesse pensare di utilizzarle anche ad altri fini, è discorso che non resta certo escluso nè tantomeno ridotto". Cosa ricorda di quei giorni? "I profili di complessità che parevano non aver fine. Rammento ad esempio, ricorrenti voci di stampa di settori che speravano, aspettavano, quasi esigevano che un qualche provvedimento giudiziario raggiungesse i vertici della Banca d'Italia". Molti iscritti P2 o loro coprotagonisti sono tornati alla ribalta: dallo stesso Ior (nel cambio titoli della maxitangente Enimont) a Silvano Larini (conto Protezione del Psi), da Duilio Poggiolini (tangenti Sanità) a Florio Fiorini (crac Sasea). Senza gli stop alle inchieste, Tangentopoli avrebbe potuto essere svelata 10 anni prima? "La storia, come la a vita, non si fa con i se o con i ma. Ma ci si può porre qualche domanda. Se i dirigenti dello Ior fossero stati portati a giudizio e non ritenuti esenti dalla giurisdizione italiana (come nelle sentenze di Consulta e Cassazione, ndr ), ci si può ben chiedere se la banca vaticana si sarebbe poi comportata nella vicenda Enimont come in effetti poi fece. Se sul conto Protezione, di cui i benficiari negarono sempre e decisamente la paternità, la Svizzera non avesse avuto bisogno di oltre 10 anni per le rogatorie, ci si può fondatamente domandare se la vicenda politica del nostro Paese non avrebbe avuto qualche aspetto di differenza rispetto a quella che conosciamo". Farebbe pensare di no il fatto che i trascorsi piduistici di un gran numero di politici, imprenditori e giornalisti oggi in auge non sembrino aver influito sui loro attuali ruoli di prestigio. "Si potrebbe scherzare sul fatto che - come insegna Darwin - i sopravvissuti, in natura, siano i soggetti che nel tempo dimostrano la capacità di trasmettere il proprio patrimonio genetico più, e meglio, dei non sopravvissuti".
Luigi Ferrarella

21 maggio - Ecco una scheda su che fine ha fatto il principale procedimento giudiziario nei confonti della loggia P2:
17 mar 1983 - Il consigliere istruttore Ernesto Cudillo, dopo quasi due anni di indagini, deposita la sentenza-ordinanza riguardante alcuni episodi emersi durante la vicenda della loggia P2. Cudillo ha prosciolto in pratica tutti gli imputati o ha applicato l' amnistia e solo in alcuni casi ha stralciato fatti sui quali dovranno essere approfonditi gli accertamenti. Per quanto riguarda i circa 200 pubblici dipendenti che erano stati indiziati per aver partecipato ad una associazione segreta quale e' stata considerata la loggia di Gelli, il giudice ha deciso per l' archiviazione in quanto il fatto, all' epoca della loro adesione, non era previsto come reato. Piena assoluzione invece per l' ex vice presidente del consiglio superiore della magistratura Ugo Zilletti, per il procuratore della repubblica di Milano, Mario Gresti, per il sostituto Luca Mucci, per la storia della restituzione del passaporto a Roberto Calvi. Con la sentenza il giudice istruttore ha deciso di applicare l' amnistia a Licio Gelli, che era stato incriminato per truffa, per tentata violenza privata e per rivelazione di segreti di ufficio. Sono stati invece prosciolti per non aver commesso il fatto Achille Alfano, Angelo Atzori, Bruno Della Fazia, Francesco Ioli, Giovanni Motzo, Pasquale Porpora e Fabrizio Trecca Trifone, considerati capizona della loggia P2, incriminati per cospirazione politica mediante associazione e truffa ai danni degli iscritti alla loggia di Gelli, in quanto questi ultimi non avrebbero saputo di entrare a far parte di un' associazione segreta. Il magistrato ha dichiarato di non doversi promuovere l' azione penale per quanto riguarda l'on. Claudio Martelli, per una pretesa "tangente" versata su di un conto svizzero, il giornalista Luigi Bisignani che era stato interrogato circa un diario del ministro Stammati sul caso Eni-Petromin, il giornalista Franco Salomone, in relazione al sequestro di documenti in possesso della figlia di Gelli, Maria Grazia, l' on. Flaminio Piccoli per un preteso accordo finanziario con il gruppo Rizzoli riguardante il giornale "L' Adige". L' archiviazione riguarda anche la posizione dei pubblici ufficiali (circa 200) risultati iscritti alla loggia di Gelli; la denuncia per violazione del segreto istruttorio proposta da Franco Naccari contro i giudici istruttori presso il tribunale di Milano e dei componenti la commissione parlamentare per il caso Sindona in seguito alla divulgazione di alcuni documenti sequestrati nell' ufficio di Gelli a Castiglion Fibocchi; gli atti relativi su di un presunto interessamento dell' ex vice presidente del csm Zilletti riguardo un procedimento in istruzione presso il giudice di Roma contro appartenenti al consiglio di amministrazione dell' Italcasse. Per quanto riguarda l' episodio dell' on. Martelli, il giudice, pur decretando l' archiviazione della sua posizione, ha stabilito che l' inchiesta dovra' essere approfondita per far luce su altri risvolti che possono riguardare Leonardo Di Donna, Florio Fiorini e Roberto Calvi. Questo procedimento ha la sua origine a Milano e venne in seguito trasferito a Roma insieme a tutti gli altri fatti connessi alla vicenda della P2. Si tratta del presunto versamento della somma di tre milioni di dollari sul conto denominato "Protezione" aperto presso l' Unione banche svizzere di Lugano. I reati contestati a Licio Gelli, ed ora risultati estinti per amnistia, erano diversi. Il capo della P2 doveva rispondere di tentata violenza privata per aver minacciato l' on. Flaminio Piccoli di rivelare il contenuto di documenti riguardanti i presunti rapporti intercorsi tra il parlamentare e Michele Sindona e cio' al fine di costringerlo a tenere una determinata condotta politica, senza peraltro riuscire nell' intento. Lo stesso reato era stato contestato a Gelli per aver minacciato Leonardo Di Donna di rendere noti presunti illeciti penali attribuiti allo stesso Di Donna in concorso con il presidente della Banca nazionale dell' agricoltura descritti in una relazione di provenienza sconosciuta. Tale documento fu trovato negli uffici di Gelli e riguardava il contratto di forniture di petrolio stipulato tra l' Eni e la societa' Petromin. Sempre Gelli e' stato amnistiato per la truffa ai danni degli iscritti alla P2, reati per i quali, come si e' detto in precedenza, i capizona della loggia sono stati prosciolti con formula ampia. In sostanza si attribuisce esclusivamente al "venerabile maestro" il raggiro che sarebbe stato commesso ai danni di centinaia di persone alle quali sarebbe stato nascosto che la P2 era stata sospesa dal Grande Oriente d' Italia. Ai neo iscritti infatti venivano consegnate tessere con la firma autentica dei "grandi maestri" Battelli e Salvini, rilasciate in bianco in epoca antecedente alla sospensione della P2. Infine e' stata applicata l' amnistia a Gelli per quanto riguarda l' accusa di rivelazione di segreti d' ufficio in concorso con Calvi ed ignoti pubblici ufficiali per aver diffuso: 1) il contenuto del decreto emesso dal pubblico ministero di Milano il 21 marzo 1979 nel procedimento contro il presidente del Banco Ambrosiano; 2) il contenuto del rapporto ispettivo della Banca d' italia del 14 dicembre 1979; 3) le disposizioni impartite dal sostituto procuratore di Milano Mucci alla guardia di finanza per approfondire le indagini su fatti riguardanti calvi; 4) notizie varie e circostanziate sul contenuto di atti o di altre iniziative processuali. Il giudice istruttore ha dichiarato di non doversi procedere perche' il fatto non sussiste nei confronti del procuratore di milano Gresti, del sostituto Mucci, di Iridio Fanesi e di Ugo Zilletti in ordine ai delitti di interesse privato in atti d' ufficio e di rivelazione di segreti d' ufficio. ai primi tre venne attribuito il fatto di avere rivelato il contenuto del decreto emesso dal pubblico ministero di milano nel procedimento a carico di Roberto Calvi e di altri documenti che dovevano rimanere segreti. Zilletti invece era accusato , in concorso e su istigazione di Marco Ceruti di avere ricevuto somme di denaro per importi imprecisati ma ingenti al fine di compiere un atto contrario al suo dovere di vice presidente del csm e cioe' sollecitare la concessione del nulla osta all'espatrio di Roberto Calvi, che era imputato a Milano. Assoluzione perche' il fatto non sussiste e' stata decretata anche per Gresti e Mucci per i reati di falso che erano stati loro attribuiti. Cudillo ha infine dichiarato di non doversi procedere nei confronti di Roberto Calvi, Domenico Bernardini e William Rosati perche' i reati loro attribuiti devono ritenersi estinti per morte del reo. Con la sentenza depositata si e' chiusa solamente una parte della complessa inchiesta riguardante l' attivita' della loggia P2. Il consigliere istruttore Ernesto Cudillo si e' infatti pronunciato su alcuni episodi minori mentre prosegue le indagini su altri numerosi aspetti. In particolare, benche' sia stato amnistiato da alcune delle imputazioni, Licio Gelli e' ancora inquisito per il reato di cospirazione politica mediante associazione insieme con Umberto Ortolani, Franco Picchiotti, Giovanni Fanelli, Antonio Viezzer, Gian Adelio Maletti, Antonio Labruna, Francesco Cosentino, Ezio Giunchiglia, Vittorio Lipari e Salvatore Bellassai. La sentenza di Cudillo e' di circa 150 pagine, nelle quali si spiegano i motivi delle varie decisioni. Nella prima parte del documento si tratta l' aspetto generale della vicenda e si arriva ad alcune conclusioni per quanto riguarda le modalita' di iscrizione alla massoneria, l' appartenenza alla loggia, i trasferimenti da loggia a loggia, la posizione di "sonno". "E' da ritenere attendibile - e' scritto tra l' altro nel documento - che alcuni si siano iscritti nel convincimento che la P2 fosse una normale loggia massonica., altri abbiano aderito alla massoneria con appartenenza a loggia diversa dalla P2, altri, ancora si siano iscritti alla P2 in periodo precedente alla gestione di Gelli ed abbiano ignorato i successivi avvenimenti, altri, infine, non si siano mai iscritti alla loggia massonica P2 oppure a qualsiasi altra loggia". Il magistrato considera "pienamente attendibile la buona fede di coloro che ritenevano di iscriversi ad una ordinaria loggia massonica" allorche' aderirono alla P2 per una serie di circostanze che confermano questa ipotesi. "Non e' assolutamente possibile - si sostiene poi nel documento - coinvolgere tutti gli aderenti alla P2 in una associazione per delinquere poiche' coloro che si sono iscritti in buona fede non si sono ovviamente associati per commettere una serie indeterminata di delitti. Se alcuni di questi possono essere censurati da un punto di vista etico, tuttavia gli scopi che si prefiggevano sono irrilevanti per il giudice penale". Successivamente nella motivazione si sottolinea che "la posizione degli iscritti alla P2 che, su richiesta del Gelli, hanno assunto la qualifica di 'capigruppo', e' da considerare nel senso che il conferimento e l' espletamento di detto incarico non costituisce per se stesso elemento probatorio tale da far ritenere il 'capogruppo' una persona inserita nell' associazione per delinquere in modo preminente" . In pratica, secondo il convincimento del magistrato, che fa riferimento anche a quanto accertato dalla commissione amministrativa d' inchiesta a questo proposito, i compiti affidati a tali capigruppo si risolvevano "nell' operare una specie di censimento degli appartenenti al gruppo, raccogliere la richiesta di solidarieta' e sollecitare i pagamenti nei confronti dei morosi". Dopo la parte centrale dedicata alla ricostruzione e all' esame della vicenda relativa alla riconsegna a Roberto Calvi del passaporto e ai ruoli che vennero attribuiti al procuratore capo di Milano Mauro Gresti e all' ex vice presidente del consiglio superiore della magistratura Ugo Zilletti, il documento affronta un altro argomento: quello dell' applicabilita' nei confronti dei dipendenti pubblici iscritti alla loggia P2 delle norme del testo unico di pubblica sicurezza e di un' eventuale sanzione penale. A questo proposito si precisa che, ancor prima dell' entrata in vigore della legge del gennaio dello scorso anno che aveva disposto lo scioglimento della P2, le disposizioni sull' appartenenza di dipendenti pubblici ad associazioni segrete erano state dichiarate incompatibili con le norme costituzionali dai giudici della Consulta. Inoltre, sempre in periodo precedente a quella legge, "l' art.212 del testo unico postulava la condotta del pubblico dipendente come illecito disciplinare con esclusione dell' applicabilita' di una sanzione penale". Nella motivazione si sostiene percio' , in proposito, che "l' art.212 prevedeva nei confronti dei pubblici dipendenti la sanzione disciplinare della destituzione e, pertanto, il giudice non e' assolutamente legittimato ad integrare, con l' applicazione dell' art.17, la sola sanzione disciplinare voluta dal legislatore con altra di carattere penale in quanto contravvenzionale", e cio' perche' "la giurisdizione non puo' in nessun caso integrare la legge oppure peggio sostituirsi ad essa". Si ricorda ancora che opinione conforme in questo caso e'stata espressa anche dal consiglio di stato nel parere richiesto dalla presidenza del consiglio dei ministri. L' accertamento della responsabilita' dei dipendenti pubblici viene percio' delegato all' autorita' amministrativa competente per eventuali sanzioni disciplinari. Un' altra parte del documento riguarda la posizione dell' on. Claudio Martelli a proposito della vicenda relativa al conto denominato "Protezione" presso l' Unione di banche svizzere e alla presunta "tangente" relativa al contratto di finanziamento per 50 milioni di dollari tra la "Tradinvest bank di Nassau" e il banco Ambrosiano Andino. Nel documento si afferma che "sulla base delle risultanze istruttorie e' da ritenere accertato che presso l' Unione di banche svizzere non e' stato mai aperto nessun conto intestato all' on. Claudio Martelli e che, pertanto, la notizia di cui all' appunto in possesso del Gelli e' destituita di qualsiasi fondamento probatorio. D' altronde - aggiunge il magistrato - non risulta che il parlamentare abbia comunque partecipato - anche sotto forma di semplice interessamento - al contratto di finanziamento tra la Tradinvest bank e il Banco ambrosiano andino". Si ricorda infine che l' operazione di finanziamento e' stata economicamente vantaggiosa per l' Eni, come e' risultato da una perizia contabile. Una sola pagina della motivazione e' dedicata agli atti relativi "ad un accordo finanziario tra l' on. Flaminio Piccoli e il gruppo Rizzoli". La vicenda fa riferimento ad un documento trovato nel corso della perquisizione negli uffici della "Giole" a Castiglion Fibocchi ed in cui si parla di un accordo finanziario per la definizione dei rapporti tra la Democrazia cristiana ed il gruppo Rizzoli. "Tale fatto - si sostiene nella motivazione - non assume alcuna rilevanza ai fini penali e, pertanto, va emessa declaratoria di impromuovibilita' dell' azione penale.
25 marzo 1985 - La sezione istruttoria presso la corte d' appello di Roma proscioglie dall' accusa di cospirazione politica contro i poteri dello stato sette aderenti alla loggia considerati capi zona del gruppo massonico diretto da Licio Gelli, Fabrizio Trecca, Achille Alfano, Bruno Della Fazia, Giovanni Motzo, Angelo Atzori, Pasquale Porpora e Francesco Joli. Con il dispositivo della sentenza, che e' stata scritta dal consigliere Franco Plotino, si e' decisa la trasmissione degli atti alla procura della repubblica perche' stabilisca se debbano essere riaperte le indagini soprattutto contro il venerabile maestro e alcuni tra i suoi piu' stretti collaboratori. La sezione istruttoria ha ritenuto, infatti, che sono emersi "sufficienti indizi circa l' esistenza di un' associazione cospirativa che tendeva al compimento non del reato di attentato alla costituzione, ma alla commissione di una serie di reati diversi contro la personalita' dello stato". In particolare, il vertice della P2 con la sua attivita' avrebbe teso al procacciamento di notizie segrete o riservate e ad una turbativa degli organi costituzionali dello stato, come assemblee legislative o regionali. Nelle circa 300 pagine della motivazione della sentenza dei giudici della sezione istruttoria dellacorte d' appello si legge che "la loggia massonica P2 e' stata, nel suo vertice ma non nella sua generalita', un centro di potere che agiva occultamente in tutti i piu' importanti settori della vita nazionale. a partire dal 1975 - 76 la P2 assunse la caratteristica di un' associazione segreta vietata dall' art. 18 della costituzione". Nelle oltre 300 pagine, suddivise in 19 capitoli, sono illustrati tutti gli elementi raccolti durante le nuove indagini nonche' le ragioni che hanno indotto i magistrati a rinviare gli atti al procuratore della repubblica sollecitando, in pratica, nuove indagini. Tra l' altro, nel documento si sottolinea come Gelli ed i suoi fedelissimi abbiano cercato di procurarsi notizie segrete o riservate ("agendo di volta in volta in gruppi composti, non ristretti e diversi") attraverso contatti con esponenti dei servizi segreti. La sezione istruttoria precisa, pero', che soltanto alcuni, e non la generalita' degli aderenti alla loggia, hanno operato in questo settore. Tra l' altro i giudici sostengono che "non e' stata raccolta la prova che Gelli abbia fatto parte organicamente e stabilmente dei servizi segreti italiani o stranieri". C' e' invece la prova, secondo i giudici, "di una infiltrazione profonda nei servizi segreti da parte di esponenti della P2 al fine di controllarli e procurarsi quelle notizie che avrebbero potuto agevolare l' opera del gruppo massonico". In un' altra parte della motivazione, per la prima volta nell' ambito di inchieste che hanno coinvolto la loggia, sono indicate in maniera approfondita la natura, l' organizzazione, le caratteristiche e le finalita' del gruppo. Nei diciannove capitoli della sentenza di proscioglimento, i giudici hanno ricordato i diversi episodi sui quali hanno indagato la procura della repubblica ed il giudice istruttore prima e la procura generale e la sezione istruttoria poi, in seguito all' impugnazione del rappresentante della pubblica accusa. Tra l' altro, riferendosi ai sequestri a Castiglion Fibocchi, la sezione istruttoria giudica infondata l' ipotesi secondo la quale il venerabile maestro possa essere stato lui stesso a provocarli per poi poterli strumentalizzare. altri capitoli sono riservati alla vicenda "Eni- Petromin", alle ramificazioni della loggia, alla sua attivita' economico - finanziaria con particolare riferimento alla vicenda della "Rizzoli".
16 aprile 1994 - I giudici della Corte di Assise di Roma prosciolgono tutti gli aderenti alla loggia P2 che con Licio Gelli, secondo la pubblica accusa, avrebbero partecipato ad un piano delittuoso contro la personalita' dello Stato. Gelli non e' stato giudicato perche' la Svizzera non aveva concesso l' estradizione per questo reato. I giudici hanno condannato, per episodi marginali rispetto alle principali accuse, Licio Gelli a 17 anni di reclusione di cui cinque condonati e il gen. Gian Adelio Maletti, ex capo ufficio "D" del Sid a 14 anni, di cui cinque condonati. La sentenza e' stata emessa dopo quattro giorni di camera di consiglio. Il dispositivo e' stato letto dal presidente della seconda sezione Sergio Sorichilli. Gelli in particolare e' stato condannato in relazione a tre capi d' accusa riguardanti il millantato credito nei riguardi dei magistrati milanesi impegnati nell' inchiesta sul vecchio Banco Ambrosiano; la calunnia nei confronti degli stessi giudici; il procacciamento dei documenti contenenti notizie riservate trovati nell' abitazione dell' ex venerabile di Montevideo. Anche Maletti e' stato condannato per essersi procurato notizie riservate. Il rappresentante della pubblica accusa aveva chiesto la condanna di tutti i 13 imputati a pene varianti dai 2 anni e sei mesi ai 13 anni e sei mesi di reclusione. Il processo era iniziato nel novembre del 1992. Gli imputati assolti, o per i quali e' stata dichiarata la prescrizione del reato, sono Umberto Ortolani, Antonio Viezzer, Antonio Labruna, Franco Picchiotti, Raffaele Giudice, Pietro Musumeci, Giuseppe Battista, Luigi De Santis, Ezio Giunchiglia, Salvatore Bellassai, Demetrio Cogliandro, Manlio D'Aloia. Gelli e' stato condannato anche al risarcimento dei danni alle parti civili rappresentate da Giuliano Turone, Guido Viola, Gherardo Colombo. I dieci imputati di cospirazione politica mediante associazione che erano Bellassai (funzionario della regione Sicilia), Giunchiglia (capogruppo P2 per la Toscana), Picchiotti, De Santis, Giudice, Maletti, Musumeci (generali) Ortolani (finanziere) Labruna (capitano carabinieri) e Viezzer (colonnello), la corte ha disposto l' assoluzione, perche' il fatto non sussiste. I giudici hanno dichiarato il non doversi procedere nei confronti di Maletti e Demetrio Cogliandro (ufficiale Sismi) in relazione all' accusa di installazione di apparecchi per intercettazioni telefoniche. Inoltre Labruna e Viezzer sono stati assolti, per non aver commesso il fatto, dall' accusa di essersi procurati notizie destinate a rimanere segrete. Con la stessa motivazione sono stati assolti anche l' ex segretario di Gaetano Stammati, Giuseppe Battista (in relazione al procacciamento di notizie riguardanti la vicenda Eni-Petromin) e Raffaele Giudice (notizie riservate). Infine e' stato dichiarato prescritto il reato nei confronti di Gelli e del capitano della finanza Manlio D' Aloja riguardante la comunicazione di notizie sull' evoluzione delle indagini contro Calvi. Nella motivazione si legge: "In fatto ed in diritto si puo' affermare non essere emersa alcuna valida prova che Licio Gelli ed i suoi consociati si proponessero di commettere il reato di attentato contro la costituzione dello Stato". "E' vero che il piano di rinascita democratica prevedeva - si osserva nella motivazione - alcune modifiche, peraltro di portata molto limitata, della costituzione. Ma non vi e' prova che si intendesse pervenire alle modifiche stesse con un metodo diverso da quello previsto dall' articolo 138 della costituzione". Nell' escludere il proposito dei piduisti di attentare alla costituzione dello Stato, la corte, fa una serie di osservazioni sulle quali si poggia la convinzione dell' insussistenza del reato in questione. In proposito osserva la corte: "Vero e' anche che il memorandum ed il piano prevedono - peraltro in modo del tutto generico e velleitario - l' erogazione di ingentissime somme di danaro per la conquista di posizioni di potere all' interno di partiti politici e sindacati, ma non si rinviene alcun accenno all' uso della corruzione per poter indurre i componenti delle Assemblee legislative ad approvare modifiche della Carta costituzionale o di altre leggi costituzionali". Pur affrancando da questa accusa Gelli e chi con lui aveva collaborato all' attivita' della P2, la Corte riconosce che i piduisti hanno "perseguito la finalita' di commettere altri reati contro la personalita' dello Stato". I giudici della corte di assise, che hanno processato gli imputati secondo le norme del vecchio codice di procedura penale, hanno rievocato l' iter giudiziario della vicenda, cominciata all' inizio degli anni '80 ed assegnata ai giudici di Roma dopo un conflitto di competenza tra la capitale e Milano, lo svolgimento del processo e le motivazioni che sono alla base delle loro decisioni in un documenti di ben 1813 pagine suddivise in 170 capitoli. Quanto alla finalita' degli imputati di commettere reati contro la personalita' dello Stato, i giudici della seconda corte di assise hanno ritenuto la sussistenza delle imputazioni di "procacciamento di notizie segrete o riservate concernenti la sicurezza dello Stato e il concorso in rivelazione di segreti di stato, con riferimento ad infiltrazioni di Gelli nell' ambito di servizi segreti e il possesso di documenti segreti o riservati". Inoltre, i giudici identificano il reato di "attentato contro gli organi costituzionali dello Stato, sottospecie di turbativa dell' esercizio delle attribuzioni, prerogative e funzioni degli organi medesimi, con riferimento ai molteplici tentativi di controllare e condizionare l' attivita' di condizionare l' attivita' di organi di Governo e legislativi"."Sono anche emersi indizi sufficienti - osserva la corte - per ritenere che Gelli ed i suoi amici abbiano sistematicamente perseguito finalita' di interferire nell' attivita' della pubblica amministrazione mediante i reati di interesse privato in atti d' ufficio e abuso innominato d' ufficio. Pertanto appare sufficientemente provata l' imputazione di associazione per delinquere di carattere comune". La sentenza della corte di assise non ha chiuso l' iter giudiziario della vicenda. Il pm Elisabetta Cesqui ha infatti presentato appello contro le decisioni dei giudici. Il 27 marzo 1996, confermando la sentenza di primo grado, i giudici della seconda corte di assise di appello ribadiscono che la Loggia massonica P2 non fece una cospirazione politica contro i poteri dello Stato. In questo senso si era anche pronunciato l' 11 marzo scorso il procuratore generale Giorgio Santacroce, sostenendo, tra l' altro, che "la storia del nostro Paese non passa soltanto attraverso la P2, che comunque rappresenta una brutta pagina di storia e politica civile dell' Italia ". Per decidere, i giudici sono rimasti in camera di consiglio quasi quattro ore e alla fine non hanno spostato di una virgola quanto deciso due anni fa. Per episodi marginali rispetto alle accuse principali il venerabile Licio Gelli (che non e' stato giudicato per cospirazione in quanto la Svizzera ha negato per questo l' estradizione) ha avuto 17 anni di reclusione, cinque dei quali condonati. In particolare e' stata confermata la sua responsabilita' per i reati di millantato credito e di calunnia nei confronti di alcuni magistrati milanesi, il procacciamento di notizie riservate. Confermata anche la condanna a 14 anni (cinque dei quali condonati) per l' ex capo dell' ufficio "D" del SID Gianadelio Maletti per procacciamento di notizie riservate (ma Maletti vive in Sudafrica, paese del quale ha anche acquisito la cittadinanza, dall' inizio degli anni '80). Le altre persone coinvolte nel processo ed assolte ormai definitivamente, poiche' il procuratore generale Giorgio Santacroce si era pronunciato in tal senso sia a proposito della cospirazione politica, sia per altri aspetti della vicenda giudiziaria, sono il finanziere Umberto Ortolani, il generale Antonio Viezzer, il capitano Antonio Labruna, i generali franco Picchiotti, Raffaele Giudice e Pietro Musumeci, il segretario dell' ex ministro Stammati Giuseppe Battista ed ancora altri civili ed ufficiali accusati d' aver fatto parte della Loggia P2. Sono Ezio Giunchiglia, Salvatore Bellassai, Demetrio Cogliandro (il cui nome e comparso recentemente negli ultimi risvolti dell' inchiesta sul disastro di Ustica) e Mario D' Aloia. Nel dispositivo della sentenza pronunciata oggi, i giudici della corte d' assise di appello hanno anche specificato i risarcimenti danni e le spese di giudizio, che Licio Gelli, in particolare, deve ai magistrati milanesi Giuliano Turone, Guido Viola e Gherardo Colombo per aver millantato credito nei loro confronti e per averli calunniati. Il processo odierno conclude praticamente un' indagine avviata all' inizio degli anni 80 contemporaneamente a Roma e Milano sull'attivita' della loggia P2, facente capo a Licio Gelli che, secondo l' accusa, aveva organizzato un piano articolato per attentare alla costituzione dello Stato.
Il 20 novembre 1996, la prima sezione penale della Corte di Cassazione dichiara "inammissibile per mancanza di documentazione" il ricorso dell'avvocatura dello Stato contro la sentenza di assoluzione dal reato di cospirazione per appartenenti alla loggia P2, dichiara "estinti per prescrizione" i reati di calunnia e millantato credito per i quali Licio Gelli era stato condannato a 9 anni di reclusione ed ha respinto un secondo ricorso con il quale Gelli chiedeva la riapertura del processo sull' archivio uruguagliano ritenendo che non si potessero considerare riservate notizie gia' pubblicate dai giornali. La Suprema Corte ha quindi annullato senza rinvio, per i reati di calunnia e millantato credito, la sentenza della Corte di Assise di Appello di Roma, con la quale Gelli era stato condannato ad un totale di 17 anni di reclusione, (5 dei quali condonati) per quei reati e per il procacciamento di documenti contenenti notizie riservate. "Anche quest' ultima condanna - ha spiegato il legale di Gelli, Michele Gentiloni - che riguardava il possesso dell' archivio uruguaiano, e' stata dichiarata non procedibile per difetto di estradizione". La Cassazione ha inoltre respinto anche un ricorso di Gianadelio Maletti, condannato dalla corte di assise di appello a 14 anni e ha dichiarato inammissibile il ricorso di Mario D' Aloja, assolto per prescrizione, che chiedeva la formula piena e condannato Gelli al rimborso alle parti civili, rappresentate da Guido Viola e Gherardo Colombo, per le spese sostenute per il procedimento.

24 maggio - Lascia la "toga" Luciano Infelisi, sostituto procuratore generale presso la Corte d'appello di Roma. Il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha accolto le sue dimissioni dall'ordine giudiziario, che diverranno operative a partire dal 4 giugno. Romano, 61 anni, Infelisi e' in magistratura dal '65 e ha concluso la sua carriera tenendo la requisitoria di un grande processo, quello d'appello per l'omicidio di Marta Russo. Ma Infelisi e' un magistrato che e' stato sempre al centro di vicende giudiziarie di grande spessore occupandosi, tra l'altro di terrorismo, massoneria, abusivismo edilizio, crack finanziari. Ma il suo nome e' legato anche ad una delle pagine piu' nere della storia italiana degli ultimi cinquant'anni: Infelisi fu il primo ad arrivare in via Fani il 16 marzo 1978 quando le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e massacrarono la sua scorta. In veste di pubblico ministero Infelisi avvio' il procedimento sull' attivita' della loggia massonica P2 e, insieme con altri colleghi, quella per l' attentato a Giovanni Paolo II. Titolare del procedimento sull' organizzazione 'Prima Linea', il magistrato, negli anni Ottanta, indago' su casi clamorosi a sfondo finanziario. Tra questi le vicende legate ai finanziamenti al gruppo Sir da parte di istituti di credito, il crack del costruttore romano Mario Genghini, lo scandalo petroli e la compravendita della Sme. Il 2 luglio del 1981 Infelisi rimase illeso in un attentato avvenuto mentre usciva dalla sua abitazione. Dal 1992 e' stato sostituto procuratore generale di Roma.

28 maggio - Il sindaco di Brescia Paolo Corsini, durante le commemorazioni per la strage di piazza della Loggia, cita Pierpaolo Pasolini nel novembre 1974 scrisse:"Io so tutti questi nomi e so tutti i.fatti..io so ma non ho le prove". Corsini ricorda che a 27 anni di distanza dall'eccidio che a Brescia causo' 8 morti e oltre 100 feriti, come allora non si hanno le prove, mentre si e' capito il contesto dell'estremismo di destra in cui quella strage maturo'. In piazza della Loggia stamani sono intervenuti anche il segretario della Cisl bresciana, Angelo Zanelli, e l'avvocato Alfredo Bazoli, figlio di una delle vittime del 28 maggio '74. Da registrare anche una breve contestazione degli esponenti del centro sociale Magazzino 47 verso il questore di Brescia Paolo Scarpis, che si trovava sul palco, in relazione ad alcuni scontri con la Polizia avvenuti il 2 marzo scorso in citta'. Le commemorazioni sono proseguite con un dibattito all'auditorium di San Barnaba, dibattito al quale hanno partecipato gli storici Roberto Chiarini, Giuseppe De Lutiis e l'on. Tina Anselmi, ex ministro ed ex presidente della Commissione che indago' sulla Loggia P2. Tina Anselmi, ai cronisti che le domandavano che e' cambiato in Italia dai tempi in cui indagava sulla P2, ha risposto: "Sono passati tanti anni...guardo che cosa succede ora. Sono interessata a capire se quella e' una pagina chiusa o se e' ancora aperta". Il capogruppo dell'Ulivo in Regione, Mino Martinazzoli dice:"E" sperabile che il tempo della politica riesca a leggere quegli anni in modo diverso dalla storia, che lo fa secondo le convenienze del presente". Martinazzoli, a margine delle celebrazioni per il ventisettesimo anniversario della strage, ha detto che nella terza inchiesta bresciana "acquisiamo qualche chiarimento in ordine al contesto in cui la strage venne consumata". "Quella che e' problematica e' l'individuazione delle responsabilita' penali soggettive - ha osservato - e questo mi sembra un poco il limite di tutte le inchieste sulle stragi". "Purtroppo, secondo me, il tempo della giustizia e' ormai scaduto - ha concluso - quello che e' importante e' che il ricordo permanga, perche' altrimenti queste persone sarebbero morte inutilmente". Invece il procuratore della Repubblica di Brescia, Giancarlo Tarquini, dice che la terza inchiesta sulla strage di Piazza della Loggia e' arrivata a un "momento decisionale importante". Senza entrare nei dettagli, il magistrato ha detto che "entro questa stagione" vi potrebbero essere "importanti sviluppi". Poi ha spiegato che il 21 maggio scorso in Cassazione si sarebbe dovuto discutere il ricorso di Maurizio Tramonte, noto come 'Fonte Tritone' e indagato per la strage, contro l'ordinanza del Tribunale del riesame di Brescia che imponeva il suo arresto. L'udienza e' pero' stata rinviata al 2 luglio. L'inchiesta, nata nel '93, vede indagate una quindicina di persone tra ordinovisti veneti, neofascisti milanesi ma anche il generale dei carabinieri Francesco Delfino ed il segretario della Fiamma Tricolore, Pino Rauti. La decisione della Cassazione sarebbe ritenuta decisiva in Procura per le conclusioni delle indagini che rischiano un rallentamento a causa del rinvio dell'udienza del 21 maggio scorso per la concomitanza del processo per la strage di piazza Fontana. Se anche, infatti, la Cassazione dovesse accogliere il ricorso dei pm bresciani dovrebbe ritrasmettere gli atti al Tribunale del riesame per un nuovo pronunciamento; cosa che richiede tempo, considerata anche l'imminenza del periodo feriale. A quanto si e' appreso in ambienti giudiziari bresciani, nei mesi scorsi non sono mancate "nuove interessanti acquisizioni" sia testimoniali che documentali e i pm bresciani non escludono di potersi recare in Sudafrica per interrogare l'ex capo dell'Uffico D del Sid Gianadelio Maletti che, dopo la sua deposizione nel processo milanese non si presento' in Procura a Brescia, dove era citato come indagato in procedimento connesso. Agli atti esisterebbero dei documenti, a firma del generale Maletti, in cui Tramonte (che sostiene di aver lavorato anche per il Ministero dell'Interno) viene definito una "buona fonte". Nel frattempo e' proseguito dal gennaio scorso a Brescia l'interrogatorio con la formula dell'incidente probatorio di Carlo Digilio. L'ex armiere di Ordine Nuovo chiama in causa 9 persone per l'ideazione e l'esecuzione della strage: si tratta di esponenti del neofascimo veneto e milanese ma anche stranieri, tra cui Guerin Serac, francese, in quegli anni responsabile dell' Aginter Press, centro eversivo con sede a Lisbona camuffato da agenzia di stampa.

4 giugno - La Corte d'Appello, nel processo di secondo grado per la vicenda del "conto protezione", decide una parziale riapertura del dibattimento per ascoltare, come testimone, l'ex direttore finanziario dell'Eni, Florio Fiorini, mentre invece non sara' sentito Licio Gelli. Il processo vede imputati l'ex ministro Claudio Martelli e l'ex vicepresidente dell'Eni, Leonardo Di Donna, accusati di concorso in bancarotta per l'insolvenza del Banco Ambrosiano. Sul frontespizio del fascicolo c'e' anche il nome di Bettino Craxi, ma l'ex segretario del Psi e' morto da oltre un anno e dovrebbe uscire dalla causa anche se il suo difensore, l'avvocato Giannino Guiso, ha chiesto per lui il proscioglimento nel merito. Sull'istanza difensiva per il momento la corte non si e' espressa. L'avvocato Gianfranco Lenzini, patrono di parte civile insieme con il collega Federico Sinicato per un gruppo di piccoli azionisti dell'istituto di credito, ha sostenuto l'impossibilita' per Guiso di stare nella causa, non avendo potuto avere da Craxi la relativa procura per rappresentarlo. In primo grado Craxi era stato condannato a 5 anni di reclusione, Martelli a 4 anni interamente condonati. Mentre il segretario del Psi non aveva effettuato alcun risarcimento, Martelli aveva tacitato i piccoli azionisti che non si sono costituiti contro di lui. Gli stessi ex soci del Banco, attraverso il loro legale, avevano avviato procedure di pignoramento sulla pensione di Craxi e poi, dopo la morte dell'uomo politico, hanno rivolto le loro attenzioni agli eredi. In quest'ottica sono stati fatti pignorare 4 miliardi, a suo tempo sequestrati alla contessa Francesca Agusta e al suo convivente Maurizio Raggio. Quel denaro e' considerato "riferibile" al cosiddetto tesoro di Bettino Craxi.

7 giugno - "Il Messaggero"
Cossiga: due mosse sbagliate e una giusta
"Non vorrei che Silvio con la pioggia di commissioni voglia nascondere il conflitto d'interessi"
di ALBERTO GENTILI
ROMA - "Non è un buon segno che il mio amico Silvio Berlusconi proponga commissioni d'inchiesta a spiovere". Francesco Cossiga è sorpreso dal proposito del presidente del Consiglio in pectore, di dare vita a tre commissioni d'inchiesta. E al Cavaliere risponde con due "no". E un "sì". No alle inchieste su Tangentopoli e sul dossier Mitrokhin. Sì all'indagine parlamentare su Telekom Serbia. L'ex capo dello Stato avverte Berlusconi di un "rischio": "Qualcuno potrebbe credere che voglia affogare, o quantomeno oscurare, il problema del conflitto d'interessi sollevando supposti conflitti d'interessi di altri. E in particolare di coloro che gli chiedono di risolverlo. Non so a chi Berlusconi pensi, ma io non sono tra questi. Perché nessuno può sospettare che sia stato una spia, o un agente d'influenza del Kgb. E non ho mai avuto nulla a che fare con Mitrokhin e tantomeno con l'affaire Telekom Serbia". Dunque darà battaglia sul conflitto d'interessi? "Nella mia concezione della democrazia, uno dei problemi più importanti da risolvere è il rapporto tra processo democratico e potere del denaro. In questo caso: formazione dell'opinione pubblica e possesso di televisioni. Quindi, della soluzione del conflitto d'interessi, farò il problema primario della mia azione politica da gatto mammone con la coda spelacchiata".
Perché è contrario alla commissione su Tangentopoli?
"Durante la mia lunga esperienza politica è cresciuta la mia sfiducia verso le commissioni d'inchiesta, per tre ragioni. La prima: presto o tardi queste commissioni rischiano di diventare luogo di mercanteggiamenti politici, volti alla tutela degli interessi delle parti e non certo alla ricerca della verità. La seconda: non è mai stato disciplinato il rapporto tra le commissioni d'inchiesta e le competenze dell'attività giudiziaria".
La terza ragione?
"Spesso le commissioni sono giunte a conclusioni paradossali. Le faccio un esempio: la commissione sulla P2 ha indicato in questa loggia la fonte di ogni possibile male, dal diluvio universale a seguire. Poi, però, la magistratura ha sentenziato che la loggia P2 non è stata un'associazione sovversiva e non ha rappresentato alcuna minaccia per lo Stato. Bella figura per il Parlamento".
Sembra condividere le perplessità del Csm e di vari procuratori.
"Non riesco a comprendere quale possa essere l'oggetto di questa commissione. Per l'amico Berlusconi, che crede a un complotto giudiziario, la commissione dovrebbe "fare le pulci" all'attività dei magistrati, che talvolta hanno effettivamente dato prova di giacobinismo. Ma questo, sinceramente, mi sembra una cosa delicata. Tanto più che è discutibile la legittimità costituzionale di una commissione che preveda la valutazione, anche solo in sede politica, dell'attività dei giudici. Però...".
Però?
"Diverso sarebbe se si facesse una commissione d'inchiesta sul finanziamento occulto e palese ai partiti dal 1946 al 1994, anno che per Berlusconi, Di Pietro e Occhetto sembra datare la nuova era della Repubblica. E questo per sapere da chi, lecitamente o illecitamente, dall'Italia o da Stati e servizi esteri, è stata finanziata l'attività della Dc, del Pci e di tutti gli altri. Temo invece, che parte di Forza Italia e parte della sinistra, ritrovandosi nell'idea che il sole è sorto nel '94 con il crollo della Dc e del Psi, raggiungessero un accordo per rifare il processo agli uomini della Dc e del Psi. Ma mi sembrerebbe un po' strano che l'onorevole Berlusconi aprisse la porta a un processo morale e politico a uomini come Craxi e Forlani...".
E della commissione sul dossier Mitrokhin cosa pensa?
"Mi meraviglia molto che l'onorevole Berlusconi abbia fatto questa proposta. Il valore della commissione ha come presupposto la validità del dossier. E, qualora il mio amico non l'abbia compreso, questa validità è stata già affossata dal suo uomo di fiducia in materia di intelligence e di sicurezza: Franco Frattini. All'unanimità, la commissione sui Servizi presieduta da Frattini ha considerato prive di valore le rivelazioni di Mitrokhin. Al contrario di quanto è avvenuto nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Germania".
Manca all'appello Telekom Serbia.
"Qui c'è materia per un'inchiesta parlamentare. Bisognerebbe vedere come sono stati sprecati i denari accumulati dai Monopoli di Stato. E occorrerebbe scoprire se, per caso, per poter acquisire una quota della Telekom Serbia, la nostra Telecom non abbia dovuto pagare direttamente o indirettamente delle tangenti al partito del nazi-comunista Milosevic, contro cui è stata scatenata una guerra finanziando un potenziale nemico. Ancora più grave sarebbe, poi, se parte della "stecca" fosse rientrata in Italia. E certo bisognerebbe accertare quali siano le responsabilità del governo dell'epoca. Ma in base alla mia esperienza, la commissioni d'inchiesta hanno avuto sempre due tavoli".
Due tavoli?
"Sì, uno scoperto su cui ci si è scontrati e ci si è rivolti pubbliche accuse. E un tavolo coperto, dove sono state fatte transazioni più o meno nobili. A volte fino al limite del ricatto".

10 giugno - "Il Corriere della sera"
Palermo, il dossier '92-'93 sulle alleanze perseguite dalla mafia svela l'intreccio tra clan, massoni e neofascisti: "Un patto eversivo dietro le stragi"
"Ecco i piani politici di Cosa nostra"
Creati movimenti separatisti nel Sud "Rapporti con la Lega"
ROMA - Accadeva tutto dieci anni fa, alla vigilia delle stragi mafiose che sconvolsero l'Italia, ma la storia viene scritta soltanto oggi. Una storia che, in estrema sintesi, si può riassumere così: tra il 1991 e il 1992 la Cosa Nostra di Totò Riina decise di entrare sulla scena politica con nuovi referenti, spazzando via quelli utilizzati fino ad allora e alleandosi con altri "poteri criminali" e settori deviati della massoneria. Il collante dell'alleanza fu un progetto separatista che doveva cavalcare il vento leghista che spirava dal Nord, ma alla fine del '93 quel progetto - andato avanti di pari passo con la "strategia della tensione" messa in atto attraverso gli omicidi e le bombe - si interruppe: la mafia cambiò cavallo e la "ristrutturazione" dei rapporti con la politica "venne perseguita dirottando tutte le risorse nel sostegno di una nuova formazione politica nazionale" apparsa sulla scena, Forza Italia. Questa ricostruzione non è un esercizio di fantasia letteraria, ma l'ultimo atto delle inchieste "politiche" della Procura di Palermo avviate durante la gestione di Gian Carlo Caselli: centocinquanta pagine con le quali il procuratore aggiunto Scarpinato e i sostituti Ingroia e Gozzo (con il "visto" del procuratore Grasso e dell'altro aggiunto Lo Forte) chiedono al gip di archiviare il procedimento sui cosiddetti "sistemi criminali", ricostruendo però una serie di episodi e legami "sufficientemente provati" che ripropongono le relazioni pericolose tra mafia, politica, eversione nera e massoneria. Un giudice dovrà ora stabilire se mandare tutto in archivio come chiedono i pm, rinviare a giudizio gli indagati (tra gli altri Riina, Gelli e Delle Chiaie) oppure ordinare nuove indagini. Da settimane quelle pagine che rileggono e riscrivono un pezzo della storia d'Italia più recente sono approdate anche alla Procura di Caltanissetta - che le allegherà all'inchiesta su Berlusconi e Dell'Utri, anch'essa conclusasi con una richiesta di archiviazione - e negli uffici romani della Direzione nazionale antimafia. Alla fine i pm di Palermo si sono convinti che manca la prova del legame tra la "strategia del terrore" di Cosa Nostra (cui verosimilmente hanno collaborato anche "entità esterne") e il programma politico sponsorizzato da massoneria ed estrema destra, al quale la mafia avrebbe comunque dato il suo appoggio. Sono però "sufficientemente provati" molti punti di contatto tra i due momenti, così come gli episodi che permettono di ricostruire l'evoluzione politica di Cosa Nostra passata - secondo i magistrati - dall'appoggio alla corrente andreottiana in Sicilia a quello a Forza Italia, dopo un intermezzo di interesse leghista (naturalmente di tendenza meridionalista).
IL PENTITO MESSINA - Il primo pentito a parlare di questo "progetto politico-eversivo" (nell'inchiesta ne sono stati interrogati più di sessanta) è Leonardo Messina. L' ex uomo d'onore di San Cataldo parla di diverse riunioni tra Riina, Provenzano e altri capi mafiosi che tra il '91 e il 92 discussero di "un progetto politico finalizzato alla creazione di uno Stato indipendente del Sud, all'interno di una separazione dell'Italia in tre Stati... In tal modo Cosa Nostra si sarebbe fatta Stato. Il progetto era stato concepito dalla massoneria". Messina riferisce anche di una "Lega Sud" che doveva essere la "risposta naturale" alla Lega Nord, il cui "vero artefice era Miglio (Gianfranco Miglio, eletto senatore con la Lega e poi passato al gruppo misto, ndr ), dietro il quale c'erano Gelli e Andreotti". Queste affermazioni, secondo la Procura di Palermo, hanno trovato molti riscontri, uno dei quali arrivato nel '99 da un'intervista nella quale lo stesso Miglio racconta che "con Andreotti ci trovammo a trattare di nascosto a Villa Madama...". A parte le dichiarazioni coincidenti di molti altri pentiti non solo di mafia, ma anche della 'ndrangheta e della Sacra corona unita, c'è la nascita delle Leghe meridionali fino alla creazione del movimento "Sicilia libera", emanazione diretta del cognato di Riina e pluriergastolano Leoluca Bagarella.
IL PROGETTO LEGHISTA - Dalle indagini svolte dalla Procura palermitana risulta "sufficientemente provato" che, mentre "all'interno di Cosa Nostra si ipotizzò l'inasprimento delle istanze separatiste storicamente latenti in Sicilia e lo sfruttamento del successo politico della Lega Nord, al fine di favorire la secessione della Sicilia e delle altri regioni meridionali d'Italia, per poter meglio gestire in sede politica gli interessi illeciti del sistema criminale", al Sud "cominciarono a formarsi nuovi soggetti politici di ispirazione separatista, prevalentemente ispirati da personaggi legati alla massoneria e alla criminalità organizzata". Questi movimenti, sempre secondo la Procura, "stabilirono rapporti con la Lega Nord" al cui interno, "soprattutto alle origini, vi erano influenti personaggi legati alla massoneria". Nel documento viene evidenziato il proliferare delle Leghe meridionali tra il '90 e il '92, sponsorizzate anche da Gelli e dall'ex esponente di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie; e si ricorda l'appoggio fornito da Umberto Bossi alle loro iniziative, anche con la diretta partecipazione ad alcune manifestazioni come a Perugia, nel dicembre '90, a favore della Lega Umbra, e a Catania, nel giugno '91, per la Lega Sud Sicilia.
IL MOVENTE POLITICO - Nel frattemp o l'esercito di Cosa Nostra aveva dichiarato guerra allo Stato, prima uccidendo Salvo Lima e poi facendo saltare in aria i giudici Falcone e Borsellino. A parte l'ovvia esigenza di togliere di mezzo i due principali avversari della mafia, l'inchiesta ha messo in luce altri possibili moventi, soprattutto dei delitti Lima e Falcone. Quest'ultimo, come Lima, sarebbe stato eliminato anche per sbarrare la strada ad Andreotti nella corsa al Quirinale, con un attentato che venne stranamente preannunciato alla vigilia della strage di Capaci. In piena bagarre per l'elezione del nuovo capo dello Stato, sull'agenzia di stampa "Repubblica" compare un articolo (che le indagini hanno attribuito a Vittorio Sbardella, defunto deputato andreottiano) nel quale si evoca "qualcosa di drammaticamente straordinario... un bel botto esterno a giustificazione di un voto di emergenza...". L'indomani Falcone salta in aria, e subito dopo al Quirinale sale Scalfaro. Secondo la Procura di Palermo, Cosa Nostra potrebbe aver deciso di punire Andreotti anche perché il senatore a vita fu tra i politici che prima "avevano promesso di appoggiare" il progetto leghista messo in piedi dalla mafia e dalla massoneria, "ma poi si erano tirati indietro".
LA SVOLTA - All'improvviso, nel 1993, si fermano sia le stragi sia l'appoggio alle Leghe meridionali, fino alla loro scomparsa. I pentiti raccontano (e per la Procura dicono la verità) che la mafia decide di appoggiare il neonato partito di Forza Italia. Alcuni personaggi di "Sicilia libera" fondano un club del movimento berlusconiano sull' isola mentre un altro elemento emerge "dalle annotazioni nelle agende e rubriche telefoniche sequestrate all'on. Dell' Utri, uno dei principali artefici del progetto politico di Forza Italia; un tessuto di relazioni che legava molti dei principali esponenti siciliani del nuovo movimento politico ai protagonisti della più recente stagione "meridionalista"". La ricostruzione storica dei pm dell'antimafia finisce qui. L'inchiesta va archiviata perché non è stato trovato il legame certo tra queste strategie che comunque - affermano i magistrati - si sono certamente sviluppate negli stessi periodi e a volte attraverso gli stessi personaggi. Ma le indagini non si fermano: due nuove inchieste - sui mandanti occulti del delitto Lima e sulla trattativa tra Riina e lo Stato dopo la strage di Capaci - sono state aperte per continuare a scavare in un passato ancora misterioso.
Giovanni Bianconi
IL VERBALE
Ciancimino: un regista dietro la morte di Lima e Falcone. So chi è ROMA - La chiave di volta, forse, è proprio l'omicidio di Salvo Lima, l'eurodeputato "fedelissimo" di Giulio Andreotti ammazzato lungo una strada di Mondello, a Palermo, il 12 marzo 1992. Un delitto interpretato - anche nei processi ad esecutori e mandanti - come un regolamento di conti all'interno di Cosa Nostra: la vendetta della mafia contro un suo "referente politico" che aveva tradito i patti. Ma per la Procura di Palermo, adesso, "v'è più di una risultanza che depone nel senso della sussistenza di un movente occulto dell'omicidio Lima, più prettamente politico, che trascende dagli interessi di Cosa Nostra e converge con essi". Per tentare di scoprirlo, è stata aperta una nuova inchiesta. Di quel delitto e della successiva strage di Capaci ha parlato ai magistrati - a modo suo - anche Vito Ciancimino, l'ex sindaco di Palermo condannato per associazione mafiosa. "Le mie conclusioni - spiega Ciancimino in un verbale del 5 agosto '97 - nascono da un ragionamento che ho fatto a posteriori sulla base di alcuni frammenti di "mormorii" che si ascoltavano nell'ambiente politico romano (...) da me percepiti in luoghi intorno a Montecitorio e nei pressi di piazza San Lorenzo in Lucina (ove si trova lo studio del sen. Andreotti, nonché il salone di barbiere dove uso recarmi e la caserma dei carabinieri ove in un certo periodo ero obbligato ad apporre la mia firma) dove mi accadeva di incontrare vari parlamentari di diversi partiti e correnti, da me non conosciuti...". Ciancimino si sofferma sul duello per l'elezione del presidente della Repubblica, nella primavera del '92, e dice: "Sono certo che vi era qualcuno particolarmente ostile alla candidatura di Andreotti: si tratta di colui il quale io penso potrebbe essere stato "un architetto" del disegno politico che, tramite l'omicidio Lima e soprattutto le modalità eclatanti dell'uccisione di Falcone, aveva come obiettivo di "sconvolgere il Parlamento", così determinando le condizioni per fare eleggere un presidente della Repubblica, naturalmente diverso da Andreotti. Io ho in testa il nome del possibile "architetto", ma non ho le prove per poterlo affermare, e comunque non lo direi mai, anche perché se costui è stato capace di tanto, né io né i miei familiari potremmo mai essere al sicuro, dovunque". Il 3 aprile '98, in un nuovo verbale, Ciancimino conferma le sue convinzioni: "L'attentato in pregiudizio del dott. Giovanni Falcone è stato pilotato per impedire l'elezione dell'on. Andreotti a presidente della Repubblica... Falcone poteva essere agevolmente ucciso mentre si trovava a Roma, in quanto in questa città mi è capitato di incontrarlo senza scorta, (...) senza il "teatro" messo in scena a Capaci. Quella strage venne fatta per far "tremare l'Italia". In effetti, a seguito di quel fatto, l'Italia tremò, e non si fece quello che avrebbe voluto fare parte della Dc. I deputati di quel partito avevano deciso che, se fosse stata bloccata la candidatura di Forlani, sarebbe stata portata avanti quella di Andreotti. E' possibile quindi che qualche autorevole esponente politico nazionale abbia potuto architettare quell'uccisione spettacolare". Poi Ciancimino ritorna su Lima: "L'ho frequentato per quarant'anni, conosceva l'ambiente mafioso e avrebbe capito, grazie alle sue relazioni, se la sua vita fosse stata in pericolo. Evidentemente non s'è reso conto del pericolo esistente, tant'è vero che non ha adottato nessuna precauzione... Ne deriva che l'eliminazione di Lima deve essere ricondotta a un tentativo di colpire Andreotti. Il progetto, in concreto, non riuscì, ed ecco perché vi fu la necessità di eliminare il dott. Falcone, con quel modo appariscente".
Gio. Bia.

10 giugno - I boss di Cosa nostra fra il 1991 ed il 1993, con l'appoggio della massoneria deviata e dell' estrema destra, progettavano un golpe, volevano dividere il meridione dal resto d' Italia. Lo sostengono i magistrati della procura di Palermo nella richiesta di archiviazione presentata al gip per l'inchiesta "sistemi criminali". La notizia e' pubblicata dal "Corriere della Sera" e da "La Stampa". I pm sottolineano nel provvedimento che sono scaduti i termini delle indagini senza che fossero emerse "prove certe" nei confronti dei 14 indagati: Licio Gelli, Stefano Menicacci, Stefano Delle Chiaie, Rosario Cattafi, Filippo Battaglia, Toto' Riina, Giuseppe e Filippo Graviano, Nitto Santapaola, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Giovanni Di Stefano, Paolo Romeo e Giuseppe Mandalari. Secondo la tesi della Procura, Cosa nostra "voleva farsi Stato", e avrebbe tentato di abbracciare "un golpe separatista". I capimafia, Riina, Provenzano, Madonia e Santapaola avrebbero deciso nel 1991 una "strategia della tensione" (omicidio di Salvo Lima, stragi di Capaci e via D'Amelio, gli attentati a Roma, Firenze e Milano), che sarebbe poi stata affiancata da un piano, proposto da Licio Gelli, Stefano Delle Chiaie e Stefano Menicacci, che prevedeva "un nuovo progetto politico": la creazione di un movimento meridionalista e la nascita delle Leghe meridionali. Il progetto, pero', alla fine del 1993 si interruppe: secono i pm la mafia cambio' gli appoggi politici e "furono dirottate tutte le risorse - scrivono i magistrati - nel sostegno di una nuova formazione politica nazionale apparsa sulla scena". Il provvedimento, firmato dal procuratore aggiunto Roberto Scarpinato, dai sostituti Nico Gozzo e Antonio Ingroia e vistato dal procuratore Piero Grasso e dall'aggiunto Guido Lo Forte, e trasmesso alle procure di Caltanissetta e Firenze e alla Direzione nazionale antimafia, fa riferimento anche ad un mandante occulto, su cui sono state avviate indagini, per gli omicidi di Salvo Lima e del giudice Giovanni Falcone. La tesi e' sostenuta anche dalle dichiarazioni dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, agli arresti domiciliari a Roma, il quale afferma che: "e' possibile che un autorevole esponente politico - dice Ciancimino - abbia potuto architettare quell'uccisione spettacolare (strage di Capaci)", per bloccare l'elezione a Presidente della Repubblica di Giulio Andreotti. Il primo tentativo, secondo l'ex sindaco, di impedire questa nomina al Quirinale, era stato fatto con l'uccisione di Lima, che era l' ambasciatore in Sicilia del senatore a vita. Dall'inchiesta "sistemi criminali" e' stata stralciata una parte che riguarda la "trattativa" fra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni, in relazione al famoso "papello" l'elenco di richieste fatte da Riina. In questo contesto si inseriscono gli incontri fra gli ufficiali del Ros dei carabinieri Mario Mori e Beppe De Donno e l'ex sindaco Vito Ciancimino.

10 giugno - Silvio Berlusconi forma il suo secondo governo (dopo quello del 1994, fatto cadere dalla Lega Nord prima della fine dell' anno). Nel governo, oltre a Berlusconi, c' e' anche, come ministro della Difesa, Antonio Martino, del quale, nelle carte trovate a Castiglion Fibocchi, compare una domanda di iscrizione alla P2.

11 giugno - E' ricordato con una cerimonia in piazza a Sezze (Latina), a poche decine di metri dal luogo dove fu assassinato il 28 maggio 1976, l' omicidio di Luigi Di Rosa, studente militante della Fgci ucciso al termine di un comizio elettorale di Sandro Saccucci. In piazza c' erano circa 500 persone e sul palco, tra gli altri, l' ex ministro Giovanni Galloni, l' esponente dei Comunisti italiani Marco Rizzo e il presidente dei Ds Massimo D'Alema. In piazza era presente anche Giancarlo De Angelis, autore del libro "La memoria smarrita", che ripercorre la storia dell' omicidio Di Rosa e che ha suscitato notevoli polemiche in provincia di Latina. Per quell' omicidio fu condannato in primo e secondo grado l'ex paracadutista ed ex estremista di destra Sandro Saccucci, poi assolto in Cassazione. Il sottotitolo del testo e' "Saccucci, fascisti e servizi segreti nell' assassinio di Luigi Di Rosa". Il presidente dei Ds Massimo D'Alema dice: "Il terrorismo rosso trovo' nella sinistra un avversario, combattemmo nelle fabbriche, nelle scuole e nelle universita' e questo ci porto' a pagare un prezzo altissimo in termini di vite umane. Non e' un caso - ha aggiunto D'Alema - che quando le Brigate Rosse hanno rialzato la testa hanno inteso colpire un autorevole esponente del governo di centrosinistra. Dall' altra parte non fu cosi', l' eversione nera trovo' nella destra politica coperture. Non fu un caso che Saccucci divento' parlamentare e su quei banchi abbiamo trovato complici o contigui al terrorismo nero". Infine D'Alema si e' rivolto al vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini dicendo che "non ha mai affrontato fino in fondo una revisione critica su quegli anni e sulle responsabilita' dell' allora Msi rispetto all' eversione di destra. Se lo avesse fatto oggi - ha concluso il presidente dei Ds - An non avvertirebbe i fastidi dei quali abbiamo letto sulla pubblicazione di un libro relativo all' omicidio Di Rosa".

14 giugno – “Il Corriere della sera”
STRAGE DI BOLOGNA
Gelli, sì francese all'estradizione: rischia il carcere
ROMA - Licio Gelli ha perduto l'immunità della Francia e dovrà scontare la condanna definitiva a dieci anni di carcere per calunnia nell'inchiesta sui depistaggi per la strage alla stazione di Bologna. Il primo ministro Jospin e il ministro della Giustizia Lebranchu hanno firmato il decreto di estensione dell'estradizione e ieri la Procura generale della Corte d'appello di Milano ha notificato all'ex capo della P2 il provvedimento. Gelli è attualmente agli arresti domiciliari ad Arezzo: deve scontare la parte conclusiva della condanna a 12 anni di reclusione per il crac del vecchio Banco Ambrosiano. Il suo difensore, Michele Gentiloni, stava per presentare la domanda per l'affidamento ai servizi sociali ma la decisione di Parigi rischia di far slittare la liberazione dell'ex Venerabile Maestro. L'avvocato di Gelli spera però di bloccare l'efficacia dell'estradizione. "Rispettiamo integralmente la decisione del governo francese ma ricorreremo al Consiglio di Stato transalpino per la violazione della convenzione europea sull'estradizione", annuncia Gentiloni. Secondo il quale il provvedimento notificato all'ex capo della P2 è nullo "perché il mio cliente non è stato informato dell'avvio della procedura estradizionale".

9 luglio - Processo d'Appello a Milano per la vicenda del conto protezione: parlano i legali delle parti civili e cominciano le arringhe difensive. Per i piccoli azionisti del Banco Ambrosiano sono intervenuti gli avvocati Giuliani Balestrino, Federico Sinicato e Gianfranco Lenzini. In precedenza aveva parlato l'avvocato Mario Pisani, per conto della liquidazione dell'istituto di credito all'epoca presieduto da Roberto Calvi. Tutti hanno chiesto la condanna dei due imputati rimasti nel processo: l'ex ministro Claudio Martelli e l'ex vicepresidente dell'Eni Leonardo Di Donna, condannati in primo grado rispettivamente a 4 anni e 4 anni e 6 mesi per concorso in bancarotta. Il sostituto Pg Armando Perrone aveva chiesto la conferma della sentenza di primo grado. A conclusione del suo intervento, l'avvocato Lenzini ha consegnato alla Corte un documento di 22 pagine in cui sono contenute le sue argomentazioni, oltre ad una lettera scritta a suo tempo da Bettino Craxi alla Procura della Repubblica. Craxi figura formalmente tra gli imputati di questa causa, essendo stato condannato in primo grado a 5 anni di reclusione, ma e' morto oltre un anno fa e quasi certamente la Corte di limitera' a disporre il non doversi procedere per decesso dell'imputato. Nel documento Craxi ammetteva il ricevimento da parte del Psi «di un finanziamento politico motivato con ragioni esclusivamente di carattere politico generale». L'avvocato Lenzini ha ricordato di avere scritto a sua volta a Craxi una lettera per invitarlo a seguire l'esempio dell'onorevole Martelli che risarci' il danno senza che quel gesto fosse da considerare una confessione di responsabilita'. A quella lettera l'ex segretario del Psi - ha detto il legale - non diede alcuna risposta. Anche per questo, prima del decesso dell'uomo politico, l'avvocato Lenzini aveva avviato nei suoi confronti la procedura per pignorare, a favore dei suoi assisti, almeno una parte della pensione da parlamentare.

9 luglio - Processo a Marcello Dell'Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa: il pentito Tullio Cannella racconta che il boss Stefano Bontade avrebbe affidato, attraverso la loggia massonica Camea e l'appoggio della P2, decine di miliardi provenienti dal narcotraffico ad imprenditori del nord Italia. Il pentito ha detto di avere appreso la circostanza da Giacomo Vitale, cognato di Bontade, in un periodo di detenzione comune. A Cannella Vitale avrebbe offerto una 'parcella' da dieci miliardi per controllare il flusso del denaro investito al nord ed esaminare le carte contabili. Rispondendo alle domande del pm Cannella ha ribadito quanto da lui sostenuto in altre occasioni, e cioe' che i boss Brusca e Bagarella nel 1994 fornirono indicazioni per votare Forza Italia. «Chiesi a Bagarella - ha detto Cannella - se potevamo infilare in lista uno della nostra formazione Sicilia Libera. Lui rispose che avrebbe parlato con una persona che poteva avere influenza su Gianfranco Micciche' che insieme a La Porta si occupava di formare le liste di Forza Italia. Dopo sette giorni mi rispose che non c'era piu' il tempo, la persona con cui Bagarella doveva parlare era Vittorio Mangano. Secondo Bagarella tra Mangano e Dell'Utri c'era tutta una storia di rapporti». Il pentito ha anche rivelato di avere appreso nell'84 dal killer Pino Greco di un interessamento del gruppo Berlusconi all' Euromare village di Campofelice di Roccella intestato fittiziamente allo stesso Cannella, e ad altri terreni vicini per un uso turistico alberghiero. «Pino Greco mi disse che il gruppo Berlusconi – ha aggiunto Cannella - era stato agganciato tramite esponenti del partito socialista di Palermo in contatto con i milanesi e con Bettino Craxi, ma l'affare non ando' mai in porto». Cannella, infine, ha ricostruito la storia di Sicilia Libera, formazione politica creata dalla mafia prima della nascita di Forza Italia che a Palermo aveva una caratterizzazione di autonomia, a Catania, invece, di separatismo. «A questa formazione - ha concluso - la Lega nord quardava con grande interesse». Il gip di Palermo Alfredo Montalto revoca l' ordinanza di custodia cautelare emessa nel marzo del '99 nei confronti di Marcello Dell' Utri per calunnia e tentata estorsione. La procura aveva chiesto l' arresto del deputato con l'accusa di avere organizzato, con la complicita' di due collaboratori di giustizia, Giuseppe Chiofalo e Cosimo Cirfeta, un piano per screditare i pentiti che lo accusano nel processo in corso a Palermo per concorso in associazione mafiosa. Il Parlamento non concesse l' autorizzazione all' arresto. L' ordinanza riguardava inoltre l' accusa di tentata estorsione nei confronti dell' ex senatore di Trapani Vincenzo Garraffa. La competenza per questo fatto e' stata trasmessa a Milano e qui il gip, su richiesta dei difensori di Dell' Utri, ha ritenuto l' inefficacia dell' ordinanza custodiale. Il giudice di Palermo ha invece revocato il provvedimento, che riguardava adesso solo la calunnia, per mancanza di esigenze di custodia cautelare. Dopo l' esame di stamane in aula del pentito Tullio Cannella, il collegio difensivo del senatore Dell'Utri ha deciso di non fare alcun controesame. «A nostro avviso - ha detto l' avvocato Giuseppe Di Peri - le dichiarazioni di Cannella sono inconsistenti e non scalfiscono la posizione di Dell' Utri». Il legale di Vittorio Mangano, il fattore di Arcore chiamato in causa da Cannella come l'uomo che avrebbe avuto influenza sul coordinatore di Forza Italia Gianfranco Micciche', non ha voluto invece commentare le parole del pentito. «Non ho intenzione di fare alcun commento - ha detto l'avvocato Rosalba Di Gregorio - perche' ritengo che con la morte dell'imputato si sia esaurito il mio mandato difensivo».

9 luglio – A Torino , il regista Giuseppe Ferrara batte il primo ciak del film «Il banchiere di Dio», la storia di Roberto Calvi, trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra nel giugno 1982. Omero Antonutti interpreta il ruolo principale inizialmente destinato a Gianmaria Volonte'. Tra i 164 attori che compongono il cast ci sono anche Giancarlo Giannini (Flavio Carboni), Rutger Hauer (mons. Marcinkus), Pamela Villoresi (Clara Calvi) e Alessandro Gassman. A Torino, la prima scena girata e' nella ricostruita casa Calvi: Giulio Andreotti va a trovare Calvi per riferire di pressioni ricevute per convincere il banchiere a dimettersi dal banco Ambrosiano, che sotto la sua presidenza era diventata la piu' grossa banca privata italiana e che in seguito fu al centro di indagini e processi per operazioni finanziarie sospette. Con la vicenda di Calvi sono stati via via ipotizzati convolgimenti con la mafia, con la loggia massonica P2 di Licio Gelli, lo Ior vaticano, persino della banda della Magliana. Le riprese dopo Torino si sposteranno a Belgrado dove la produzione di Enzo Gallo ricostruira' il Blackfriars Bridge di Londra, il cui originale e' oggi in restauro. Poi Londra, New York, Nassau per seguire, negli stessi luoghi originali, l'intricata vicenda che porto' alla morte di Calvi. «Fare un film su Calvi e' da sempre un tabu' - spiega il produttore Enzo Gallo della Sistina cinematografica - perche' tocca uno dei tanti misteri irrisolti della cronaca e coinvolge molti grandi poteri italiani rimasti gli stessi di allora anche se meno sotto la luce dei riflettori. Dopo tanti anni, oggi finalmente riusciamo a fare il film pur tra tante difficolta', il Vaticano ad esempio continua ad essere off limits per noi». Realizzare «Il banchiere di Dio» e', secondo Gallo, «un atto di coraggio. Chiedere alle banche un prestito per questo film e' ancora oggi farsi guardare in cagnesco. Pero', c'e' anche, come Rai Cinema, chi ci crede: Giuliano Montaldo ha acquistato il diritto d'antenna del film». Dal fondo di garanzia arriveranno 4,8 miliardi a fronte di un costo previsto di almeno sette. Armenia Balducci ha scritto con Ferrara il film che sara' distribuito a fine febbraio dalla Columbia. Per Gallo, la popolarita' della vicenda Calvi, aiutera' il film a circolare anche all'estero.

10 luglio - Una decina di nominativi sono iscritti nel registro degli indagati della Procura di Roma nell' ambito dell'inchiesta sulla presunta rete di spionaggio italiana che, in base alle rivelazioni dell'ex archivista del KGB Vasili Mitrokhin, avrebbe fornito informazioni al servizio segreto sovietico. L'ipotesi di reato presa in esame nei loro confronti dal pubblico ministero Franco Ionta e' quella prevista dall'art. 257 del codice penale (spionaggio politico e militare). Nel registro degli indagati della Procura di Roma sarebbero stati iscritti i nomi di funzionari destinati ad incarichi istituzionali (tra gli altri dipendenti della pubblica amministrazione e diplomatici) sospettati di aver fornito, in varie epoche, informazioni o documenti coperti da classificazione. Massimo riserbo negli ambienti della Procura sui nominativi. «No comment» e' stata la risposta del pubblico ministero Franco Ionta alla richiesta di notizie riguardanti gli sviluppi per l'indagine giudiziaria. Le iscrizioni sono avvenute dopo la consegna alla Procura, da parte di Digos e carabinieri del Ros, di rapporti in cui si sottolinea l'attendibilita' del cosiddetto dossier. Sviluppando le informazioni ricevute su circa 260 nominativi, nel 1999, dal Servizio di sicurezza britannico, il primo ad acquisire il materiale dell'ex archivista del Kgb, gli investigatori hanno trovato una serie di elementi che, a loro dire, giustificano l'approfondimento degli accertamenti su una decina di nominativi. Il tutto e' documentato nei dossier inviati all'autorita' giudiziaria. Il reato preso in esame nei confronti degli indagati e' punito con una pena che puo' anche essere l' ergastolo. Molti degli episodi citati nelle carte dell'ex archivista sovietico sono, invece, coperti da prescrizione; altri, invece, si riferiscono a fatti e circostanze in base ai quali e' gia' possibile escludere alcune ipotesi di reato. L'inchiesta della Procura di Roma fu aperta nell'ottobre del 1999. Numerosi personaggi sono stati sentiti come testimoni dal pm Ionta: tra questi il responsabile del Sismi dal 1994 al 1996, generale Sergio Siracusa e l'ammiraglio Gianfranco Battelli. Il dossier fu inviato, in lingua inglese, al Sismi in vari fascicoli, a cominciare dal 1995 fino al marzo del '99. Nell' ambito dell'inchiesta gli inquirenti romani hanno anche chiesto di sentire, tramite rogatoria, Mitrokhin, il quale all' epoca dell'apertura dell'inchiesta, viveva in una localita' segreta della Gran Bretagna. Le autorita' d'Oltremanica non hanno, pero', mai risposto alla richiesta. In Parlamento ci sono quattro proposte di legge, tutte presentate dalla Casa delle liberta', che chiedono l'istituzione di una commissione di inchiesta che accerti rapidamente la veridicita' dei fatti descritti nel dossier Mitrokhin. L' «affaire Mitrokhin» scoppia nel settembre 1999 quando il «Times» pubblica anticipazioni del 'The Mitrokhin archive' di Christopher Andrew, professore di Cambridge, che ha avuto accesso alle carte di Vassili Nikitich Mitrokhin, oscuro archivista del Kgb, che dal '72 all'84 avrebbe copiato documenti riservati, consegnati poi ai servizi segreti britannici. Il 10 ottobre il dossier e' consegnato alla Commissione stragi che lo rende pubblico immediatamente dopo una giornata di polemiche. Il 2 dicembre 1999 il Senato approva l' istituzione di una commissione d' inchiesta: dieci senatori e dieci deputati nominati dai presidenti delle Camere, avrebbero avuto a disposizione sei mesi di tempo per consegnare i risultati dell' inchiesta. Un anno dopo e' approvata anche dalla Camera, ma con modifiche, e quindi torna al Senato, quando ormai la legislatura e' agli sgoccioli. La commissione alla fine non si fara'.   Ma da allora la Procura della Repubblica di Roma ha continuato ad inviare alla commissione di inchiesta sul terrorismo e sulle stragi tutti i nuovi elementi emersi sia su finanziamenti versati dal Kgb  a partiti politici, organi di stampa o singoli cittadini italiani, per influenzare la politica nazionale, sia sulla rete spionistica che operava nel nostro paese. L'annuncio che il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, era intenzionato a riproporre l'istituzione di quella commissione parlamentare d'inchiesta Mitrokhin arriva il 5 giugno. Gia' prima di quella data erano state presentate le prime due proposte di legge di iniziativa parlamentare: la prima presentata alla Camera il 31 maggio da Mario Tassone, del Ccd-Cdu, la seconda parallelamente presentata al Senato da Eufemi, Cutrufo, Ciccanti, Meleleo, Gaburro e Zanoletti, sempre del Ccd-Cdu. Poco piu' tardi si sono aggiunte le altre due; una presentata alla Camera il 26 giugno da Cicchitto (Forza Italia), l'ultima presentata in questi giorni da Vincenzo Fragala', di Alleanza nazionale, sempre alla Camera. In tutte e quattro le proposte si chiede l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sulle attivita' di spionaggio e sui finanziamenti provenienti dall'Est europeo nei confronti di politici italiani, alla luce dei fatti raccontati da Mitrokhin nel suo dossier, ma anche in seguito alle novita' provenienti dalla Procura di Roma sulla rete spionistica definita «Gladio Rossa» che disponeva di materiale bellico occultato e di sistemi di comunicazione. Per Valter Bielli (Ds) ‘’si potrebbe trasformare la commissione Stragi in una Commissione che approfondisce il fenomeno del nuovo terrorismo». «Premesso che aspetto di leggere i rapporti dei Ros e della Digos - ha dichiarato - le prime indiscrezioni parlano di un elenco di nomi e sigle, ben 261, che si ridurrebbero drasticamente, con una parte inseriti arbitrariamente, altri inesistenti e solo una decina risulterebbero gli indagati». Dunque secondo Bielli trarre conclusioni sulla base di questi elementi sarebbe «affrettato e poco serio» e minerebbe «la stessa credibilita' del dossier Mitrokhin nel suo complesso». «Si parla di reti spionistiche - dice ancora - si deve aver presente come nel periodo della guerra fredda in Italia abbiano agito molte spie di tutti i colori e appartenenti all'Est e all'Ovest. Strano sarebbe stato percio' il non aver trovato nulla». Per il sen. Paolo Guzzanti, di Forza Italia, invece «Il risultato dell' indagine della Procura di Roma non e' altro che un certificato ufficiale della validita' e dell' autenticita' del dossier Mitrokhin». «Un' indagine parlamentare - aggiunge Guzzanti - e' piu' che mai necessaria. Il fatto che la magistratura abbia deciso di indagare solo su dieci nomi, tra quelli del dossier, e' senz' altro positivo. Ma, cosi' facendo, si lascia scoperta tutta quella parte della documentazione che e' di fatto una parte importante della nostra storia e che non puo' essere trascurata solo perche' i reati, in essa descritti, sono caduti in prescrizione». Secondo Guzzanti, infatti, il Parlamento deve indagare «a 360 gradi non solo sul contenuto del dossier, ma anche su tutti quegli altri aspetti della storia nazionale che vi sono strettamente collegati. A cominciare dalla Gladio rossa» che il senatore definisce il «braccio armato di quei settori descritti nel dossier Mitrokhin». «E' innegabile - prosegue - che una parte della nostra storia sia stata eterodiretta da Mosca anche in tempi recenti e cioe' fino al periodo di Gorbaciov. Ed e' giusto capirne di piu'. Mentre sappiamo quasi tutto sul ruolo giocato dalla Cia in Italia, infatti, sappiamo molto poco su quello giocato dal Kgb. Ed e' un diritto sacrosanto colmare questa lacuna...». Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione stragi, dichiara di non avere mai dubitato della autenticita' del dossier Mitrokhin, ma ribadisce che prima andavano svolte le indagini e poi andava informata l'opinione pubblica del suo contenuto. «Non ho mai dubitato dell'autenticita' del dossier Mitrokhin - dichiara Pellegrino - e cioe' della fedelta' con cui l'amanuense ricopiava documenti e informative del servizio segreto sovietico. Naturalmente una annosa consuetudine con tale tipo di materiale archivistico avrebbe dovuto suggerirgli sin dall'inizio prudenza nel valutare l'attendibilita' dei contenuti delle informazioni, la cui origine, spesso, poteva essere costituita da persone assolutamente inconsapevoli dell'utilizzazione che sarebbe stata fatta di loro valutazioni e giudizi che venivano riferiti al Kgb». «Sarebbe stato dunque necessario - aggiunge ancora l'ex presidente della commissione stragi - prima di esporre all' opinione pubblica tutti i nomi, svolgere quelle indagini che solo ora Ros e Digos hanno concluso. E solo dopo, semmai, informare l'opinione pubblica del contenuto del dossier e delle indagini da esso generate». «In altri Paesi - conclude Pellegrino - ci si e' regolati cosi'. Solo in Italia la situazione politica costrinse gli uomini della commissione stragi a seguire una strada diversa con un mio insanabile e personale rincrescimento che resi immediatamente pubblico».

11 luglio - Sono in buona parte coperti da prescrizione i fatti presi in esame dalla magistratura romana nell'ambito dell'inchiesta sulla presunta rete di spie al soldo del Kgb denunciata dall'ex archivista sovietico Vasili Mitrokhin. Gli episodi sul quale si incentrera' nei prossimi giorni l' attivita' del Pm Franco Ionta risalgono agli anni '60-'70 e '80 e il reato di spionaggio ipotizzato nei confronti dei sindacati (secondo quanto si e' appreso oggi sarebbero 17-18) si prescrive in 20 anni. Indipendentemente da cio', gli inquirenti intendono comunque accertare se i sindacati avessero la possibilita' di accedere a documenti riservati e se, come e quando, ci sia stato un 'passaggio» di informazioni e di carte riservate al Kgb. Degli indagati, 2 o 3 sono nel frattempo deceduti, ma i loro nominativi sono ugualmente finiti nell'apposito albo della procura di Roma come atto dovuto. Nei confronti di quest'ultimi sara' emesso un provvedimento di archiviazione per intervenuta morte. Tra gli indagati ci sono anche 4-5 ex sovietici che hanno lavorato in Italia per conto del Kgb sotto copertura diplomatica. Nel corso dell'attivita' d'indagine svolta da carabinieri del ROS e DIGOS sui 260 nominativi indicati nel cosiddetto dossier Mitrokhin, sono state sentite molte delle persone chiamate in causa. Tutti, stando alle indiscrezioni, hanno escluso di aver girato informazioni riservate. Alcuni di loro, tuttavia, hanno ammesso di avere avuto rapporti di conoscenza con esponenti riconducibili al servizio segreto sovietico e di aver parlato con loro di questioni di carattere generale, quindi non riservate, riguardanti l'Italia. Intanto l'avv. Giorgio Angelozzi Gariboldi, legale di Enrico Aillaud, gia' ambasciatore italiano a Mosca il cui nome compare oggi in alcuni articoli di stampa con riferimento alla vicenda Mitrokhin, ha annunciato di aver presentato una serie di querele per diffamazione. Il penalista sottolinea inoltre che il 3 aprile scorso il tribunale di Milano ha condannato alcuni giornalisti al pagamento di 40 milioni di lire in favore dell' ambasciatore Aillaud per diffamazione dopo essere stato chiamato in causa sulla vicenda Mitrokhin. «Non sussiste alcun elemento utile per l'esercizio dell'azione penale nei confronti dell' ambasciatore Aillaud - ha detto Angelozzi Gariboldi - perche' assolutamente estraneo alle fantasiose affermazioni del dossier Mitrokhin».

12 luglio - L' inchiesta sulla loggia massonica napoletana "Uniti nella Liberta" si conclude con il rinvio a giudizio, per violazione della legge Anselmi, del commercialista Ubaldo Procaccini, di Salvatore Spinello e del figlio, Nicola Spinello, questi ultimi due noti esponenti della Massoneria sin dagli anni Settanta, disposto dal gip Francesco Todisco che ha accolto le richieste del pm Antonio D'Amato. La loggia "Uniti nella Liberta"', aderente al Grande Oriente Scozzese d'Italia, e' indicata dai magistrati come una organizzazione "coperta e deviata" che avrebbe tentato di condizionare gli ambienti politici e economici, e di riformare la Costituzione. Nel corso delle indagini furono disposte numerose intercettazioni telefoniche. In una conversazione si faceva riferimento a un progetto di attentato ai danni del leader della Lega Umberto Bossi. In un' altra intercettazione, durante una riunione con Angelo Siino - il cosidetto ministro dei Lavori pubblici della mafia - si parlo' di un piano per far trasferire dalla Sicilia il giudice Falcone, una circostanza quest'ultima confermata da Siino. Il processo comincera' il 3 dicembre prossimo davanti alla terza sezione del Tribunale di Napoli.

13 luglio - Quattro anni e sei mesi di reclusione per l' ex vice presidente dell' Eni, Leonardo Di Donna, tre anni e otto mesi per l' ex ministro Claudio Martelli. Questa la conclusione del processo di secondo grado per la vicenda del 'Conto protezione', ultimo stralcio dell' inchiesta sui risvolti penali dell'insolvenza del Banco Ambrosiano. Nella causa figurava anche Bettino Craxi, condannato dal tribunale a cinque anni di reclusione, per il quale la seconda Corte d'Appello ha dichiarato oggi non doversi procedere per decesso dell' imputato. Il difensore dell' ex Presidente del Consiglio, Giannino Guiso, aveva chiesto al collegio giudicante di entrare nel merito e di arrivare all' assoluzione dal reato di concorso in bancarotta, contestato anche agli altri due imputati. I giudici hanno sostanzialmente accolto le conclusioni del sostituto procuratore generale, Armando Perrone, e confermato la sentenza di primo grado con riduzione di quattro mesi per Martelli, la cui pena e' interamente coperta dal condono. Confermato anche quanto stabilito sul piano civilistico, con condanna degli imputati al pagamento delle maggiori spese di giudizio alle parti civili. Ribadite quindi le provvisionali fissate in primo grado per la liquidazione del Banco Ambrosiano e per i piccoli azionisti dell' istituto di credito all' epoca presieduto da Roberto Calvi.

18 luglio - L'ex presidente del Consiglio comunale di Milano, Massimo De Carolis, e' condannato dalla quarta sezione penale del tribunale di Milano a due anni e dieci mesi di reclusione per la vicenda dell' appalto del depuratore Milano Sud. De Carolis era accusato di corruzione e rivelazione del segreto d'ufficio. Come pena accessoria De Carolis - che non era presente al momento della sentenza - e' stato interdetto dai pubblici uffici per la stessa durata della condanna. I giudici della quarta sezione penale, presieduta da Edoardo Davossa, hanno anche condannato per corruzione Ezio Cartotto a due anni e sei mesi di reclusione, Luigi Franconi e Luigi Sirna a un anno e sei mesi: tutti e tre, per l'accusa, hanno rivestito il ruolo di intermediari nella vicenda dell' appalto del depuratore. Ad Alain Maetz, rappresentante di Otv, societa' collega con la Compagnie General des Eaux, e' stata inflitta, sempre per corruzione, la pena di un anno e otto mesi di carcere, mentre per Agostino Schiavio, rappresentante di Passavant Italia, otto mesi di reclusione per rivelazione del segreto d'ufficio. Nicola Colicchi, rappresentante di Aerimpianti, anche lui accusato di rivelazione del segreto d'ufficio, e' stato assolto per non aver commesso il fatto. De Carolis, Cartotto, Franconi, Sirna e Maetz sono stati condannati inoltre al risarcimento di un miliardo nei confronti del Comune di Milano che si era costituito parte civile. "La mia persuasione che deriva dalla lettura degli atti e dalla conoscenza della vicenda, e' che i fatti non ci siano", ha dichiarato, dopo la lettura della sentenza, il difensore di De Carolis, l'avvocato Ludovico Isolabella, che ha annunciato il ricorso in appello. "Credo che quello delle intercettazioni telefoniche ambientali - ha proseguito - sia uno strumento delicato che pero' ha indotto a individuare la non sussistenza del fatto". Tutto cio', ha precisato il legale riferendosi in parte alla situazione politica di Palazzo Marino negli anni scorsi, "aldila' di questo grande clima di suggestivita' che ha investito De Carolis: c'e' come un'ombra che, nel corso del tempo, si e' creata attorno a lui". De Carolis commenta:"La quarta sezione del Tribunale penale di Milano e' considerata da tutti un plotone d'esecuzione". De Carolis ha detto a Telelombardia di attribuire la condanna al "nome del pm che ha gestito quindici, venti processi contro Berlusconi e contro altre persone di Forza Italia". A proposito  della decisione della Corte di trasmettere gli atti alla Procura per valutare se procedere o meno per il reato di falsa testimonianza contro l'assessore all' Ambiente Domenico Zampaglione, De Carolis ha affermato : "E' un atto assurdo, per giustificare la sentenza di condanna nei miei confronti il tribunale e' stato costretto a dire dov' era al'anello mancante: Zampaglione, che non avrebbe detto la verita'; ma l'assessore ha detto il vero, non vedo come sia possibile addebitargli la falsa testimonianza".

19 luglio - "Il mio film sul caso Calvi fa ancora paura a qualcuno. Questo e' un paese, come disse Sciascia, senza verita'. Se cosi' non fosse non capisco perche' la Banca Nazionale del Lavoro sta bloccando i finanziamenti al film che ho appena iniziato a girare a Torino". L' accusa e' lanciata dal regista Giuseppe Ferrara a Torino. Con autentica rabbia, Ferrara, tra i piu' noti registi italiani di cinema di impegno civile, non ha nascosto il suo risentimento nei confronti della Sezione Credito Cinematografico della Bnl che a fronte del finanziamento di 4 miliardi e mezzo disposto dal Ministero per i Beni Culturali, "sta tergiversando - sostiene Ferrara -  con scuse capziose e obiezioni grottesche per non farmi arrivare i finanziamenti". "Stanno frapponendo ostacoli odiosi - ha aggiunto – forse qualcuno non vuole che io faccia questo film che ho intitolato 'I banchieri di Dio'. Ma io ho sempre creduto nel cinema della memoria, un film e' come un ponte con la realta', anche quella piu' difficile". Autore di opere come 'Il sasso in bocca', 'Cento giorni a Palermo', 'Il caso Moro', 'Giovanni Falcone', Ferrara ha ancora girato il coltello nella piaga: "mi hanno accusato di sciacallaggio quando ho fatto i film su Moro e Falcone, ma ancora ora non so perche'. In quei tempi uscivano fiumi di cassette e chili di libri su quei fatti, ma l' unico sciacallo ero io. Ma io non voglio dimenticare e vado avanti". A fianco di Ferarra, in un incontro con i giornalisti promosso dalla Film Commission che ha reso possibile girare il film a Torino, c' erano oggi anche i due interpreti principali Rutger Hauer (99 film tra cui 'Blade Runner' e 'La leggenda del santo bevitore' di Ermanno Olmi), nel ruolo di Marcinkus e Omero Antonutti ('Padre Padrone' e 'Un eroe borghese' su Michele Sindona).  Antonutti ha ricordato come nel ruolo di Calvi, inizialmente (il film e' in fucina da 13 anni, ma per ritardi di varia natura si e' arrivati solo oggi ad iniziare le riprese) doveva esserci Gian Maria Volonte'. "Volonte', per un me un vero maestro – ha detto l' attore - rinuncio', tra l' altro, alla parte in Padre Padrone. Questo film, per me molto importante, si fara' solo grazie alla rabbia di Ferarra e al coraggio del produttore, Enzo Gallo. E' giusto che i giovani conoscano questa pagina di storia. Calvi era un cinico, un impenetrabile uomo dagli occhi di ghiaccio, ma in famiglia era un agnello e aveva sempre bisogno del conforto dei suoi". "Questo film, ovviamente – ha detto Ferrara - non svelera' certo cosa e' accaduto a Calvi perche' la materia e' ancora assai torbida. Solo un credulone - ha pero' aggiunto - ormai puo' pensare che Calvi si sia suicidato d' altronde il giudice Mario Almerighi ha anche individuato un mandante, il boss mafioso Pippo' Calo' incolpando cosi' la mafia. Ma, anche in questo caso, chi ha dato l' ordine alla mafia di uccidere Calvi? La risposta e' ancora ben lontana". Il film viene girato a Torino perche' le regge sabaude ben riproducono le maestosita' del Vaticano all' interno del quale e' ambientata buona parte delle scene e che e' off limits. Poi la troupe si trasferira' a Belgrado per ricostruire, sul Danubio, il "Blackfriars" di Londra, il ponte sotto il quale il 17 giugno 1982 e' stato trovato morto Calvi e ora inagibile per lavori. Il film dovra' essere finito entro dicembre e dovrebbe uscire nella prossima primavera. La Bnl respinge "con fermezza" le dichiarazioni del regista Ferrara secondo cui la sezione credito cinematografico di Bnl non avrebbe concesso il finanziamento al film sulla morte di Calvi "lasciando emergere torbidi retroscena". Un comunicato stampa della Bnl precisa che "al film in questione, ritenuto di interesse culturale nazionale, e' stato assegnato un finanziamento a valere su fondi di Stato disciplinato da apposita normativa che ne subordina la concessione alla verifica di determinate condizioni, tra cui il rispetto del limite di 8 miliardi per la stessa impresa nello stesso esercizio finanziario. E che la sezione credito cinematografico di Bnl si sta adoperando, d'intesa con il Ministero competente, alla verifica del rispetto di quanto disposto dalla normativa, avendo gia' richiesto al produttore la documentazione prevista per la delibera del finanziamento". Il legale di Flavio Carboni (imputato nel processo per il presunto omicidio di Calvi), avv. Renato Borzone, contesta la precisione di alcune affermazioni di Ferrara. "Se Ferrara avesse fatto le ricerche in modo completo - afferma il legale di Carboni - saprebbe che la morte di Calvi e' ritenuta un suicidio fra l'altro da alcuni tra i piu' famosi medici legali italiani che supportano questa battaglia su cui si e' scatenata la censura dei media". E a proposito della citazione di Leonardo Sciascia ("questo e' un paese senza verita’"), l'avv. Borzone dice: "una delle grandi coscienze critiche del nostro paese, prese immediatamente posizione con lo spirito critico che lo rendeva cosi' diverso da tanti pseudo intellettuali, contro la tesi dell'omicidio e a favore di quella del suicidio".

25 luglio – Ansa:
Il presidente di "Blu" Giancarlo Elia Valori, l'amministratore Enrico Casini e l'amministratore delegato di "Autostrade" Vito Gamberale sono stati interrogati dal procuratore aggiunto di Roma Pasquale Lapadura e dai pm Salvatore Vitello e Rodolfo Sabelli nell'ambito dell'inchiesta sulla gara per l'affidamento delle licenze Umts per i telefonini di terza generazione. Stando a quanto e' trapelato i tre manager avrebbero respinto le contestazioni della procura e avrebbero spiegato la loro posizione rispetto alla vicenda. Valori, Gamberale e Casini sono indagati, insieme con un'altra decina di amministratori delle societa' che fanno parte del Consorzio, per turbativa d'asta. Gli inquirenti, che hanno aperto l'inchiesta lo scorso ottobre subito dopo l'asta, sospettano che l'assemblea dei soci di "Blu" abbia deliberato la partecipazione alla gara, con la consapevolezza di doversi poi ritirare, solo per non perdere la fidejussione di quattromila miliardi di lire presentata in precedenza. Una strategia che per la procura configura il reato previsto dall'articolo 353 del codice penale, cioe' la turbativa d'asta. Recentemente "Blu" ha ottenuto un importante riconoscimento dal Consiglio di Stato che, confermando la decisione del Tar del Lazio, ha ritenuto legittimo il comportamento del Consorzio sulla vicenda Umts, consentendo cosi' a "Blu" di non perdere la fidejussione di quattromila miliardi.

31 luglio - Il ministro per i rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi, conferma il si' di Palazzo Chigi all' abolizione della tredicesima disposizione transitoria della Costituzione. La posizione del governo e' stata illustrata in commissione Affari Costituzionali del Senato, dove e' cominciata la discussione sul disegno di legge del centrodestra per il rientro dei Savoia. "Anche ai sensi della convenzione europea per i diritti dell' uomo - ha detto il ministro - le condizioni di nascita non possono precludere ne' il rientro ne' l'esercizio dei fondamentali diritti democratici. Si tratta di una vicenda che dura ormai da troppo tempo e che richiede una tempestiva risposta da parte delle istituzioni e delle forze politiche". La discussione sul possibile rientro dei Savoia in Italia si trascina ormai da decenni, tra alti e bassi.
 LA XIII DISPOSIZIONE TRANSITORIA - Attualmente il rientro in Italia dei discendenti maschi della dinastia sabauda e' vietato da una disposizione transitoria della Costituzione che dispone: "I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici ne cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli".
 LE PROPOSTE - La prima proposta di legge per abrogare tutti e tre i commi della XIII disposizione transitoria fu presentata nel 1979 dall' allora Msi-Dn. Da allora le iniziative erano state molte, ma non erano mai arrivate al voto. Sorte solo in parte diversa ha avuto un ddl di riforma costituzionale approvato il 9 maggio 1997 dal governo Prodi. A dicembre del 1997 la Camera lo approva in prima lettura. La legge si blocca pero' al Senato.
 IL PARLAMENTO EUROPEO - Recentemente il Parlamento europeo ha approvato a Strasburgo un emendamento a una risoluzione sui diritti umani nel quale si pronuncia in favore del rientro in Italia degli eredi maschi dei Savoia. L' Europarlamento "raccomanda al nuovo parlamento italiano di onorare la promessa fatta dal precedente governo italiano di abrogare rapidamente l'articolo XIII transitorio della costituzione che esilia in perpetuo i discendenti maschi della casa reale di Savoia".
 IL CONSIGLIO DI STATO - A marzo, il Consiglio di Stato, riunito in adunanza generale, risponde alla richiesta di parere della presidenza del Consiglio escludendo la possibilita' di 'scorciatoie' e confermando che Vittorio Emanuele ed Emanuele Filiberto di Savoia potranno rientrare in Italia solo quando verra' approvata una legge costituzionale che modifichi o cancelli il veto della disposizione transitoria e finale della Costituzione. Palazzo Chigi aveva chiesto un parere sul fatto che quel veto potesse ritenersi superato, e quindi non piu' efficace, nell' attuale contesto politico ordinamentale.
 LE ULTIME POSIZIONI DEI SAVOIA - A maggio Vittorio Emanuele si e' congratulato con Berlusconi per il successo elettorale: "Le invio i miei auguri piu' sinceri di ogni successo, con la speranza di poterLa presto incontrare" e ancora "Sono convinto che gli italiani abbiano scelto Lei, come capo del nuovo Governo, diverso da quelli che l' hanno preceduta, perche' sono sicuri che sapra' risolvere i tanti problemi dell' Italia". A febbraio Vittorio Emanuele di Savoia ha scritto al presidente Carlo Azeglio Ciampi chiamandolo esplicitamente "presidente di tutti noi italiani", in una lettera di ringraziamento per il telegramma di condoglianze inviato dal presidente in occasione della morte della ex regina Maria Jose'. Pochi giorni prima pero', in un' intervista a un quotidiano, Vittorio Emanuele aveva respinto la richiesta di giurare fedelta' alla Costituzione italiana:"Perche' dovrei giurare? Non ho cariche pubbliche, non sono un pubblico ufficiale. Se tornero' in Italia tornero' come cittadino qualunque. Rispettero' le leggi italiane, ma nulla di piu'".
 CURIOSITA' - Un parente dei Savoia, l' ex re di Bulgaria Simeone II, non solo e' rientrato in patria ma ha anche fondato un partito che ha vinto le elezioni e l' ex re e' diventato primo ministro.
POLEMICHE - Almeno un paio di volte, Vittorio Emanuele di Savoia e' finito sotto i riflettori dell' informazione. Nell' estate 1978 fu coinvolto nella vicenda della morte di un giovane tedesco, Dirk Hamer, ucciso da un colpo di fucile all' isola di Cavallo, in Corsica. Vittorio Emanuele fu processato in Francia e assolto con sentenza definitiva. Nel 1981 poi il suo nome era presente nelle liste dei presunti iscritti alla P2, trovate negli uffici della Gio.Le. di Licio Gelli, a Castiglion Fibocchi.

1 agosto - "La Nazione"
Restituiti i lingotti d'oro alla compagna di Gelli
PRATO - Dissequestrati i lingotti d'oro appartenenti a Gabriela Vasile, la rumena di 53 anni residente in via Pistoiese, da alcuni anni assistente e compagna di Licio Gelli. I tribunali di Prato e di Roma hanno infatti accolto il ricorso della Vasile contro il sequestro dei dieci lingotti d'oro del valore di circa 154 milioni di lire che l'Istituto Italiano Cambi sequestrò dalla cassetta di sicurezza intestata alla stessa Vasile presso l'agenzia di via Valentini di CariPrato. Il sequestro avvenne su iniziativa della Procura della capitale il 22 aprile del '99 e rientrò nell'ambito delle ricerche del "tesoro" di Gelli, che avevano portato al ritrovamento a Villa Vanda di Arezzo di vari quantitativi d'oro. Dopo il sequestro dei lingotti, l'Istituto Italiano Cambi elevò a carico della Vasile una sanzione pecuniaria (pari a circa la metà del valore dei lingotti) contro la quale il legale di Gelli, l'avvocato Raffaello Giorgetti di Arezzo presentò ricorsi ai tribunali di Roma e di Prato (qui col domicilio presso l'avvocato Lorenzo Baldassini dello studio Guarducci). E ottenne ragione in entrambe le sedi. La sanzione dell'istituto Italiano Cambi infatti era stata elevata dopo l'entrata in vigore della legge del gennaio 2000 che liberalizza la detenzione di lingotti in oro, fino ad allora riservata a specifiche categorie professionali e non consentita ai privati. La detenzione dei lingotti da parte della Vasile era pertanto divenuta non più perseguibile per effetto della sopravvenuta normativa più favorevole. Da qui, il dissequestro.

13 agosto - Un gruppo di piccoli azionisti del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, rappresentati dall'avvocato Gianfranco Lenzini, ha iniziato una causa civile contro il liquidatore del Banco Ambrosiano, in seguito alla restituzione di un ingente patrimonio a Licio Gelli. La decisione e' stata presa dopo l' accordo attraverso il quale la liquidazione del Banco aveva deciso di restituire all' ex 'Maestro venerabile' della Loggia P2 la somma di 60 miliardi oltre a 165 chilogrammi in lingotti d'oro, che erano stati sequestrati in Svizzera durante le indagini sull'insolvenza della banca. "Abbiamo preso questa decisione - ha detto lo stesso avvocato Lenzini - nell'ambito di una vicenda dalla quale si puo' trarre un'amara considerazione: uno dei maggiori responsabili del crack del Banco Ambrosiano, riconosciuto con sentenza definitiva, non solo non ha pagato, ma e' stato addirittura premiato".

7 settembre - A Buenos Aires, l' ex ammiraglio argentino Eduardo Emilio Massera denuncia "una campagna di persecuzioni e vendette" attuata ai suoi danni da "integranti delle organizzazioni terroristiche che devastarono il paese negli anni '70 e furono sconfitte militarmente dalle forze armate della nazione". Davanti al giudice federale Claudio Bonadio che lo accusa di aver fatto sparire alcune persone, fra cui l'imprenditore italiano Vittorio Cerutti, 76 anni, e di averne rubato le proprieta', Massera si e' rifiutato di rispondere depositando pero' uno scritto di una cartella e mezza in cui analizza la situazione in cui si trova. Massera, ex piduista, e' stato membro della prima giunta di Jorge Videla, e a lui si fa risalire una complessa trama di potere e di affari che, lungi dal terminare con la dittatura, si e' rafforzata nel decennio del presidente Carlos Menem. E' agli arresti domiciliari per un'altra causa riguardante la sottrazione di neonati a madri torturate ed uccise nella Scuola di meccanica della marina (Esma). Oltre all'ex ammiraglio, Bonadio ha incluso nel suo ordine di arresto gli ex ufficiali Jorge 'El tigre' Acosta, Jorge Radice, Juan Carlos Rolon, Alejandro Spinelli, Jorge Perren, il notaio Arnaldo Dardano, e lo stalliere, Aldo Maver. Inoltre e' coinvolto anche una donna giudice, Emilia Marta Garcia. La vicenda per cui e' stato accusato Massera risale al 1977 quando, a Mendoza, 1.000 chilometri da Buenos Aires, un commando della marina sequestro' Cerutti e due suoi soci in un'impresa vitivinicola proprietaria di terre e fabbricati. I tre vennero uccisi pochi mesi dopo nella famigerata Esma, ma nel 1981 Massera attraverso una rete di prestanome, avvocati e contabili legati alla dittatura fece trasferire le terre usurpate a Cerutti e ai due suoi soci ad una societa' immobiliare, di proprieta' dei figli Eduardo Enrique e Carlos.

10 settembre - "La Repubblica" Affari e finanza
Oltre il giardino
Torna la P2, protagonista della Prima Repubblica
di ALBERTO STATERA
Chi si rivede, la P2. Dopo essere stata espulsa con fastidio anche a sinistra dalle polemiche politiche e dalle cronache giornalistiche degli ultimi anni come un oggetto antidiluviano inventato dai comunisti, dalle toghe rosse e da moralisti un po' minchioni, la loggia massonicoaffaristicospionisticoricattatoria di Ortolani e Gelli torna alla ribalta in modo del tutto imprevedibile. Alla costituzione del secondo governo Berlusconi neanche il più trinariciuto degli oppositori aveva osato ricordare, in perfetto stile bipartisan, che il presidente del Consiglio era stato membro di quella consorteria assai poco commendevole e che, avendo mentito in tribunale sull'argomento, era stato condannato per falsa testimonianza. Nè che nel nuovo esecutivo e nei suoi pressi circolano tanti appartenenti a quella paranza di truffatori e millantatori, con qualche avanzo di galera. Ci ha pensato Giuliano Ferrara, principe dei revisionisti, a ricordarci sul "Foglio", organo berlusconiano "tendenza Veronica", nel senso che è finanziato dalla consorte del presidente del Consiglio, che la P2 esisteva ed era una schifezza. Il povero Fabrizio Cicchitto, ex socialista tendenza Signorile e oggi vicepresidente dei deputati di Forza Italia, iscritto alla P2 perchè disse privatamente ricattato da Gelli su vicende familiari, credendosi spiritoso, ha scritto a Ferrara definendolo "Giulianoferraratogliatticraxiberlusconi". Piccato, il sovversivo del berlusconismo ha risposto "Fabriziocicchittosignorileortolanigelli", buttando lì anche un non elegantissimo riferimento alla carriera a "luci rosse" dell'avversario, visto ciò che di lui si raccontava ai tempi della P2. E adesso che ha sdoganato il filone ortolangelliano, considerato più che come puro intreccio criminale come un naturale effetto del consociativismo, chissà che cosa ci dobbiamo aspettare sui lati ancora oscuri di quelle vicende. Magari le cronache torneranno a occuparsi, per dire, del tesoretto in Svizzera di Enrico Manca gestito da Cesare Previti. E' spuntato all'ultima udienza del processo toghe sporche Sme, ma giornali e televisioni non ne hanno parlato. Manca, ex presidente della Rai assolto dall'accusa di essere appartenuto alla P2 con sentenza di Filippo Verde, uno dei giudici accusati di aver venduto le sentenze a Berlusconi e altri, ha dichiarato in udienza che Previti gli aveva costutuito negli anni Ottanta un tesoretto in Svizzera, che gli ha gestito fino al 1996: 400 milioni della mamma, 800 milioni di una casa. Ma guarda un po': l'uomo di stretta fiducia di Berlusconi, l'avvocato principe della Fininvest montante che costituisce e gestisce il tesoretto del presidente della Rai calante. Consociativismo aziendale, tuonerebbe il berlusconiano sovversivo Ferrara. O altro? Tanti anni dopo, con la riesumazione della P2 ad opera del vicepresidente dei deputati di Forza Italia e di Giuliano Ferrara, è tornato davvero Monty Python. L'Italia è tutto uno sketch.

20 settembre - Davanti alla prima sezione del tribunale penale di Milano, udienza di un processo per l' insolvenza del Banco Ambrosiano. Sul banco degli imputati Francesco Pazienza, accusato di concorso in bancarotta per due finanziamenti di alcuni miliardi che l'istituto di credito presieduto da Roberto Calvi concesse a Giuseppe Ciarrapico per l'acquisto della Fiuggi. Per gli stessi fatti erano gia' stati giudicati Maurizio Mazzotta e lo stesso Ciarrapico. Pazienza, la cui difesa e' stata affidata a un legale d'ufficio essendo il suo avvocato impossibilitato a intervenire, ha fatto una lunga dichiarazione spontanea nella quale ha ammesso di avere avuto un ruolo di mediazione nella vicenda, ma ha respinto ogni responsabilita' di fatti illeciti. "Sono 15 anni - ha detto tra l'altro - che subisco procedimenti a causa del signor Ciarrapico. Spero che stavolta non sventoli ancora il richiamo all'artico 210, un numero che forse gli avra' anche permesso di giocare al lotto". Dopo la dichiarazione dell'imputato, detenuto per la condanna riportata a Bologna, il processo e' stato aggiornato al 18 dicembre quando il pubblico ministero Eugenio Fusco chiedera' di ascoltare, se saranno presenti, Ciarrapico, Mazzotta, e il finanziare Orazio Bagnasco oltre a due investigatori della Guardia di Finanza. Pazienza non venne giudicato a suo tempo con i coimputati perche', dopo l'arresto avvenuto negli Stati Uniti, nella domanda di estradizione non era compreso questo reato.

24 settembre - Giovanni Brusca depone in videoconferenza nel processo contro Marcello Dell' Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa, che si svolge davanti ai giudici della seconda sezione del tribunale di Palermo. Il capomafia oggi pentito dice che "Di quanto accadeva nel '92 con le stragi di Capaci e via D' Amelio e nel '93 con gli attentati a Roma, Firenze e Milano, la sinistra era a conoscenza" ma precisa:"Non voglio dire che la sinistra e' mandante delle stragi. Voglio dire che in quel momento chi comandava sapeva quello che accadeva in Sicilia e nel Nord Italia". Per Brusca le autobombe sarebbero stato un monito rivolto successivamente anche a Berlusconi che avrebbe manifestato "stupore". Nel rispondere al pm Antonio Ingroia, Brusca ha affermato di avere cercato di contattare, insieme a Leoluca Bagarella, Silvio Berlusconi verso la fine del 1993. Ha aggiunto di averlo fatto tramite Vittorio Mangano ("era il factotum della famiglia Berlusconi e ha dovuto lasciare il posto di lavoro per motivi di opportunita', ma con lui era rimasto in buoni rapporti") al quale con Bagarella spiego' "che nonostante le prime bombe del '93 nessuno si era fatto sentire e ogni bomba era uno stimolo". "In quel momento - ha anche dichiarato il pentito - al governo c' era una parte della sinistra e Berlusconi doveva ancora scendere in campo. Assieme a Bagarella decidemmo di rivolgerci a Mangano affinche' parlasse con Berlusconi". Le richieste, sempre secondo Brusca, sarebbero proseguite anche dopo la vittoria elettorale del Polo e la nomina di Berlusconi a presidente del consiglio: "Volevamo fargli capire - ha proseguito il pentito - che, se non ci avesse aiutato, avremmo continuato con le bombe, mettendo cosi' in difficolta' il suo governo". L' ex boss ha sostenuto che il messaggio venne recapitato e che "dall' altra parte ci fu stupore". Secondo Brusca la "trattativa" sarebbe stata interrotta "perche' Vittorio Mangano venne arrestato e per la  caduta del governo Berlusconi". Giovanni Brusca ha dichiarato inoltre che Vittorio Mangano non avrebbe mai parlato di Marcello Dell'Utri. In aula Brusca stamane ha aggiunto di avere appreso "dei buoni rapporti che c' erano fra Silvio Berlusconi e Vittorio Mangano dopo aver letto tra la fine del '93 ed il '94 un articolo sul settimanale L' Espresso". "Chiamai allora Mangano - spiega il collaboratore di giustizia - il quale mi confermo' quasi tutto il contenuto dell' articolo, spiegandomi che era stato costretto a mollare, a licenziarsi per non creare problemi a Berlusconi e al suo staff. Mangano mi sottolineo' che era rimasto in buoni rapporti". "Con Bagarella - spiega Brusca - gli abbiamo chiesto di contattare Berlusconi e Mangano si mise a disposizione, era lui il nostro interlocutore con Berlusconi". Per gli avvocati Enzo ed Enrico Trantino, la deposizione di Brusca "costituisce la definitiva capitolazione del teorema accusatorio. "Nel corso della lunga militanza in Cosa nostra - dice Trantino - anche con ruolo di vertice Brusca non ha mai conosciuto ne' sentito parlare del senatore Marcello Dell' Utri. La categorica ed ennesima smentita della principale fonte d' accusa, Salvatore Cangemi e' la riprova di una inquietante trama costruita ai danni del nostro assistito da parte di alcuni collaboranti, come abbiamo sempre sostenuto'. I legali sollecitano la Procura a prendere iniziative 'nei confronti di chi ha calunniato il senatore Dell' Utri al solo scopo di ottenere riconoscimenti giudiziari e benefici economici". Per il pm del processo Antonio Ingroia invece "Non e' vero quanto sostiene la difesa e cioe' che l' impostazione accusatoria del processo si fondava sulle dichiarazioni di Giovanni Brusca e lo dimostra il fatto che il gup ha rinviato a giudizio Dell' Utri quando ancora le dichiarazioni del boss di San Giuseppe Jato dovevano essere fatte". "Le dichiarazioni di Brusca - spiega Ingroia - sono arrivate dopo che per Dell' Utri era gia' stato fissato il processo in tribunale. Gli elementi contro di lui sono ben altri. Non posso che essere sorpreso che da parte della difesa vi siano commenti nel senso di valorizzare l' attendibilita' di Giovanni Brusca, il quale in primo luogo ha confermato l' appartenza di Vittorio Mangano a Cosa nostra con ruolo di vertice nel periodo in cui manteneva rapporti con Dell' Utri". Ingroia sottolinea uno dei passaggi della deposizione del collaboratore di giustizia: "Ha dichiarato in aula di avere inviato nel '94 tramite Vittorio Mangano un messaggio a Silvio Berlusconi, ricevendo la risposta che era stato recapitato". Gli inquirenti, intanto, avrebbero indicato che l' imprenditore 'Roberto', di cui ha parlato oggi in aula Giovanni Brusca, sarebbe Natale Sartori, gia' condannato dal tribunale di Milano a 4 anni e 9 mesi di carcere per corruzione e favoreggiamento. L' uomo, che ha interessi economici in alcune imprese di pulizie a Milano, sarebbe stato per gli investigatori il tramite fra Vittorio Mangano e Marcello Dell' Utri.

27 settembre - "La Repubblica"
Una nuova sentenza inguaia Dell'Utri
La Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta: contatti con Riina
MARCO TRAVAGLIO FRANCESCO VIVIANO
PALERMO - Una nuova sentenza rischia di aggravare la posizione di Marcello Dell'Utri, imputato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. E crea nuovi imbarazzi a Silvio Berlusconi, sulle presunte liaisons dangereuses con esponenti mafiosi, all'indomani della deposizione di Giovanni Brusca. La sentenza - che i pm chiederanno di acquisire al processo - è quella della Corte d'assise d'appello di Caltanissetta sulla strage di Capaci. Che, alla voce "I moventi", contiene un capitolo dal titolo inquietante: "I contatti tra Salvatore Riina e gli On.li Dell'Utri e Berlusconi". Secondo i giudici e i giurati popolari, Cosa Nostra intrecciò con Berlusconi e Dell'Utri un "rapporto fruttuoso, quanto meno sotto il profilo economico". Per anni il gruppo Fininvest versò alla mafia "regalie" sotto forma di "consistenti somme di denaro". All'incasso provvedeva Vittorio Mangano, l'ex fattore della villa di Arcore, finchè dagli anni '90 Totò Riina decise di gestire il rapporto in prima persona: "nell'ottica di Cosa Nostra, questo rapporto era certamente da coltivare, e ciò spiega il diretto interessamento di Riina e l'estromissione di Mangano dal ruolo assegnatogli".
La Corte ricorda le parole dei pentiti Angelo Siino ("Provenzano stava adoperandosi per "agganciare Craxi tramite Berlusconi"") e Salvatore Cancemi ("Riina, prima di Capaci, si era incontrato con persone importanti: Dell'Utri e Berlusconi"). E concludono: "Il progetto politico di Cosa Nostra sul versante istituzionale mirava a realizzare nuovi equilibri e alleanze con nuovi referenti nella politica e nell'economia": cioè a "indurre alla trattativa lo Stato ovvero a consentire un ricambio politico che, attraverso nuovi rapporti, assicurasse come nel passato le complicità di cui Cosa Nostra aveva beneficiato". Riina diceva: "Fare la guerra per fare la pace".
Quelle che finora erano bollate come dicerie di pentiti e teoremi di pm vengono consacrate "in nome del Popolo Italiano" dalla sentenza depositata il 23 giugno da due giudici che passano per ultramoderati (il presidente Giancarlo Trizzino e il relatore Vincenzo Pedone): la stessa che ha condannato 37 boss (di cui 29 all'ergastolo) per l'assassinio di Falcone, della moglie e della scorta. Anche di questo si parlerà quando il Cavaliere sarà chiamato a testimoniare al processo Dell'Utri, come indagato di reato connesso. La Procura chiede di sentirlo a proposito delle 22 holding Fininvest (il dirigente di Bankitalia, autore della famosa consulenza, deporrà in ottobre), ma anche dei rapporti con Mangano, il finanziere Rapisarda e altri amici degli amici. E i legali di parte civile per la Provincia di Palermo vogliono sentire Cancemi proprio sulle sue accuse a Berlusconi e Dell'Utri per le stragi.
Ma la sentenza potrebbe pesare anche sull'imminente decisione del Gip di Caltanissetta sulla richiesta di archiviazione avanzata dall'ex procuratore Giovanni Tinebra per Berlusconi e Dell'Utri, indagati per strage. Prima d'essere promosso al Dap dal governo Berlusconi, Tinebra aveva smentito i suoi tre pm, che indagavano sulle stragi in base alle dichiarazioni di Brusca e Cancemi, bocciandole come "divergenti". La Corte invece le ritiene "convergenti" su molti punti. Ed elogia la collaborazione di Cancemi, "spontanea, lineare, importante e leale".
Dov'è la prova che il "gruppo economico riconducibile all'on. Silvio Berlusconi" pagava Cosa Nostra? "Le indicazioni di Cancemi, con riferimento alle dazioni di denaro - scrivono i giudici - hanno trovato puntuali conferme nelle dichiarazioni dei collaboranti Anzelmo, Ganci, Neri, Galliano e Ferrante", e nella "documentazione prodotta dall'accusa, tra cui le agende (sequestrate in un covo mafioso, ndr) con le diciture "Can 5 n.8", "Regalo 990 5000 nr.8". E Brusca ha riferito che l'on. Berlusconi "mandava qualche cosa giù come regalo, come contributo, come estorsione" al cugino Ignazio Pullarà.
Tutto ciò non basta a "individuare negli on. Dell'Utri e Berlusconi i mandanti occulti della strage", né a spiegare, con le loro "promesse di interventi futuri, l'accelerazione impressa da Riina alla strage di via d'Amelio". Ma bisognerà "indagare nelle opportune direzioni per individuare i convergenti interessi di chi era in rapporto di reciproco scambio coi vertici di Cosa nostra"; e per "meglio sviscerare i collegamenti e le reciproche influenze con gli eventi politicoistituzionali". I "non improbabili mandanti occulti" delle stragi del 1992'93, infatti, "costituiscono il principale enigma di questo processo".

5 ottobre - "L' Espresso"
FINMECCANICA / CORSA ALLA PRESIDENZA
Toc toc, c'è Scaroni alla porta
Pronto a succedere al suo amico Lina. Con l'aiuto di Bisignani
di Paola Pilati
Per Alberto Lina l'addio alla Finmeccanica sembra ormai imminente. Ma non sarà un addio indolore. Il presidente operativo della conglomerata pubblica della difesa e dell'impiantistica non gode di simpatie negli ambienti della Casa delle Libertà, dove si vedrebbe con favore un azzeramento completo del vertice, mandando a casa, oltre a Lina, anche l'amministratore delegato e direttore generale Giuseppe Bono. Lina ritiene che la partita non sia ancora persa e si batte per restare. Ma dal Polo gli hanno ricordato, senza tanti complimenti, che sotto la sua gestione la Finmeccanica è stata coinvolta in un misterioso caso di insider trading in terra americana, non ancora risolto. L'indagine della Sec, la commissione che vigila sulla correttezza delle operazioni in Borsa, riguarda la vendita della Elsag Bailey alla Abb, nell'ottobre del 1998, e getta tuttora delle ombre sul management Finmeccanica. Sulla poltrona di Lina ha messo gli occhi un manager di quelli sempre presenti nella rosa di qualche candidatura, e mai disponibile: Paolo Scaroni, attuale amministratore delegato della Pilkington, il gruppo britannico del vetro, nonché consigliere della British Aerospace e della Alsthom (concorrenti della Finmeccanica). Ultimamente Scaroni ha ritrovato interesse per gli ambienti italiani, tanto da diventare presidente degli Industriali di Venezia. E molti si sono chiesti come mai un manager di una società inglese, dopo tante belle opportunità, abbia finito per accettare un incarico in provincia. La risposta può essere proprio la voglia di ritorno a casa. E quale migliore occasione della Finmeccanica? Tra l'altro, sarebbe un vertice all'insegna della continuità, visto che Scaroni e Lina si conoscono dai tempi della Techint e hanno un ottimo rapporto. L'unica cosa che Lina non può vantare è un lobbista che lavora per lui: ce lo ha invece Scaroni. Chi? L'ex giornalista con tessera P2 Luigi Bisignani, due anni e otto mesi nel processo per le tangenti Enimont.

8 ottobre - «Terrorismo nero» e' il titolo della puntata di «Diario di un cronista», il programma di Sergio Zavoli, con la collaborazione di Nelly Pulice e Carlo Di Carlo, in onda alle 1,15 su Raiuno. Riproposti, con servizi di attualizzazione e approfondimento, alcuni dei piu' significativi documentari e interviste di Zavoli. Ospite il sociologo Sabino Acquaviva. Il 9 ottobre e’ previsto invece che il programma si occupi del 'Terrorismo rosso'. Mercoledi’ 17 ottobre per “Blu notte, misteri italiani” su Raitre e’ invece previsto «Il caso Sindona» che vuole ripercorrere fino al mistero della sua morte la vita del finanziere dallo sbarco alleato in Sicilia nel 1943, fino agli scandali finanziari degli anni Ottanta.

17 ottobre - "La Stampa"
"Sindona aveva organizzato un finto suicidio"
Nuova ipotesi per la morte del banchiere stasera a "Blu notte" su Raitre
Francesco La Licata Guido Ruotolo
ROMA La mattina del 20 marzo del 1986, poco dopo le otto, quinto reparto del carcere femminile di Voghera. Il detenuto Michele Sindona, dopo aver preso la colazione dai secondini - té, caffé e latte -, si apparta nel bagno della sua cella controllata a vista 24 ore su 24, per riapparire pochi minuti dopo. Un lamento, un gemito, una frase strozzata e lui che si accascia sul letto: "Mi hanno avvelenato". Michele Sindona morirà alle 14,10 del 22 marzo di quell'anno. Venticinque anni dopo quella morte violenta non è mai stato chiarito se il banchiere di Patti sia stato assassinato, e se lo è stato, chi e perché lo abbia avvelenato.
Venticinque anni dopo quella morte prende corpo un'altra ipotesi, ancora più inquietante: Michele Sindona aveva organizzato un finto suicidio per riuscire ad ottenere il trasferimento in un carcere americano, forte di una clausola dell'estradizione che lo prevedeva nel caso in cui le autorità italiane non fossero riuscite a garantirgli l'incolumità. Per lui l'America rappresentava l'ultima spiaggia, l'uscita dall'incubo dell'ergastolo per l'omicidio di quell'"eroe borghese", l'avvocato Giorgio Ambrosoli.
Un piano, dunque, studiato sin nei minimi dettagli per simulare il tentativo di uccidere un detenuto, ma anche un testimone eccellente dei più inconfessabili intrighi tra il mondo dell'Alta Finanza, la politica, la mafia e persino il Vaticano. Ma proprio per questo un piano pericoloso perché dalla sua condizione di detenuto Sindona non poteva controllare il "complice" o i "complici" che dall'esterno l'avrebbero dovuto assecondare. Fu il "complice" ad ucciderlo facendogli arrivare una dose letale di cianuro? Un fatto è certo: il veleno contenuto in una bustina di zucchero non provocò soltanto una intossicazione. Quella bustina, documenteranno le indagini, era l'unico varco possibile per aggirare i ferrei controlli che la direzione del carcere di Voghera esercitava sui pasti destinati al detenuto Sindona Michele.
E' questa l'ipotesi di fondo della prima puntata di "Blu Notte-Misteri Italiani", dieci storie che lo scrittore Carlo Lucarelli propone su Raitre in seconda serata, ogni mercoledì, a partire da stasera. Dieci storie incentrate sulle morti violente di personaggi più o meno potenti, vicende che fanno da filo conduttore per raccontare l'Italia dei Misteri dal Dopoguerra ai giorni nostri. Storie dimenticate, testimonianze di un mondo che sembrava consegnato alla memoria e che per molte di esse si prospetta un ritorno alla cronaca con la riapertura dei processi.
Michele Sindona, il banchiere siculoamericano, è una meteora che ha attraversato quasi quarant'anni di storia dell'Alta Finanza, italiana e americana. Il cassiere del Vaticano, della Cosa nostra americana e palermitana, l'uomo della P2 che finanziò il golpe dei Colonnelli in Grecia e il tentato golpe della Rosa dei Venti italiana, il fronte anticomunista di casa nostra e la Dc. L'uomo che secondo il Venerabile Licio Gelli, "aveva grandi capacità": "Sarebbe stato un magnifico ministro delle Finanze - disse una volta il capo della P2, intervistato dalla televisione - o Governatore di Bankitalia". Anche l'ex pluripresidente del Consiglio Giulio Andreotti entra nella galleria dei personaggi della vicenda Sindona. L'ombra del banchiere lo ha perseguitato fino ai giorni nostri. Lui, Sindona, vantava, in anni in cui sembrava onnipontente e addirittura poteva rivendicare di essere il salvatore della lira - "Mentre tutti portano i capitali all'estero, io li faccio venire in Italia" -, frequentazioni e consuetudini nei "palazzi" al di qua e al di là del Tevere. Ma da Palermo, dal pretorio del Tribunale che lo giudica (e poi lo assolverà) per i suoi rapporti con Cosa nostra, Andreotti, gelido, nega quella consuetudine: "A pensarci bene, mi sono visto di più con madre Teresa di Calcutta.....".
A un certo punto, il banchiere entra in conflitto con i suoi clienti, padrini, sostenitori, amici. E la guerra lo vede soccombere. Assiste allo sgretolamento del suo impero, che forse gestiva su delega. Falliscono le banche in Italia, in Svizzera, negli Stati Uniti. Inseguito da provvedimenti giudiziari per bancarotta fraudolenta, ridotto a simbolo dell'economia illegale dall'implacabile lavoro del commissario liquidatore Giorgio Ambrosoli, Sindona disperato tenta la carta del grande ricatto. Nello stesso tempo, però, lui stesso finisce per diventare obiettivo della sua controparte. Ad ogni gesto inconsulto si alza la propria soglia di rischio.
Si mette contro persino Mediobanca, a cui aveva chiesto una boa di salvataggio. E lui, come se fosse un semplice "picciotto" che aveva sgarrato, arriva a minacciare Enrico Cuccia, con telefonate anonime e porte di casa bruciacchiate, che è costretto a volare a New York, per un incontro ravvicinato con il Diavolo: "Mi fece capire - disse Cuccia nella sua testimonianza in aula, il 3 ottobre 1985 - che le sue minacce erano da prendere sul serio. Che lui avrebbe fatto scomparire l'avvocato Ambrosoli". Cuccia il silenzioso, che mai si è visto in pubblico prendere la parola, davanti alla Corte d'Assise di Milano che processa Sindona (e che condannerà all'ergastolo) per l'omicidio Ambrosoli, spiega il suo silenzio: "Non ho voluto parlare perché ho sempre pensato che in questa materia il silenzio è ancora la difesa migliore. Per questo non ho parlato delle minacce. Se avessi detto delle minacce al compianto Ambrosoli, sarei stato denunciato per calunnia...". Il 10 luglio del 1979, il killer italo-americano William Arico, si presenta sotto casa del liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona: "Il signor Ambrosoli?". "Sì". "Mi scusi signor Ambrosoli". Tre colpi esplosi da una 357 Magnum uccidono l'integerrimo accusatore del banchiere siculoamericano. La sua condanna a morte gli era stata preannunciata da un tale che si chiamava Giacomo Vitale, massone, cognato del boss di Cosa nostra Stefano Bontade: "Pronto....l'altro giorno ha fatto il furbo...ha registrato la telefonata....La volevo salvare... Lei è degno di morire ammazzato...lei è un cornuto... un bastardo....".
L'omicidio di Giorgio Ambrosoli ha solo il sapore della vendetta. Toccherà anche a lui, a Michele Sindona, pagare con la vita i suoi errori, e a nulla era valsa la sua fuga in Sicilia, dove mise in scena un falso rapimento con tanto di gambizzazione, naturalmente provocata sotto anestesia da mani esperte, quelle del medico (piduista) della polizia palermitana, Joseph Michele Crimi. Pensava che la sua vita fosse al riparo, protetta dai segreti di cui era a conoscenza, delle finanze di quei 530 clienti a cui lui garantiva di portare al sicuro i loro capitali. Un grammo di cianuro ha cancellato anche quella lista.

19 ottobre - Comunicato dell' Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna:
Nell'inserto del Corriere della Sera del 18.10.2001 si chiamano i terroristi italiani a spiegare il terrorismo internazionale. E' lo stragista Valerio Fioravanti a riproporre la pista araba e libica, già suggerita, a fini di intossicazione delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna del 2 Agosto 1980, con miserabili fandonie, dai nostri servizi segreti guidati da piduisti e dal Gran Maestro della loggia Massonica P2 Licio Gelli. Per questa strage e per questi depistaggi a carico di costoro è stata emessa una condanna definitiva. Non solo, ma si arriva a riproporre, pescandola nei bassifondi delle loro coscienze, la superiorità dell'occidente sul mondo islamico. E' vergognoso che un giornale nazionale come il Corriere della Sera dia spazio a farneticazioni tanto strumentali e volgari.
Il Presidente
Paolo Bolognesi

23 ottobre - "Alto Adige"
Tutti i sospetti di Carlo Palermo
TRENTO. Bin Laden, mafia e Loggia P2: un filo sottile lega questi tre elementi. E' quanto sostiene  in un'intervista pubblicata nell'ultimo numero del Venerdì di Repubblica l'ex giudice Carlo Palermo. Palermo, ora avvocato a Trento, ha fornito una lettura degli ultimi drammatici eventi internazionali, una lettura che mette in campo gli stretti (e spesso occulti) legami che l'Occidente ha sempre tessuto con l'estremismo islamico: "Comincia ad occuparmi del terrorismo islamico nella mia famosa inchiesta di Trento sul traffico d'armi, nei primi Ottanta. Quell'inchiesta si concluse con le accuse di finanziamento illecito all'allora presidente Bettino Craxi e al finanziere Ferdinando Mach di Palmstein". E proprio a Trento Palermo riuscì a mettere nel mirino l'organizzazione turca che commerciava con la mafia italiana l'eroina da smerciare in Occidente. "La relazione tra Occidente ed estremismo islamico - sostiene Carlo Palermo - si è consolidata su traffici di armi, di droga, di petrolio: per questo risulta difficile interromperla". "L'estremismo islamico tratta con noi - ha detto ancora l'ex giudice nell'intervista rilasciata al Venerdì - ma lo fa con una prospettiva di dominio sull'Occidente".

14 novembre - In un' intervista a "Radio Popolare", il giudice Armando Spataro, componente del Csm, dice che "Oggettivamente certi obiettivi della P2 vengono ora perseguiti per via politica". "Ovviamente mi guardo bene dal dire che c'e' una diretta connessione - ha affermato il magistrato - limitiamoci a registrare questo fatto che avviene, spero e immagino, per altri fini. Ognuno ne ricavi le conclusioni che crede". Per il consigliere del Csm, la volonta' del Governo di portare la magistratura sotto il controllo dell'esecutivo "e' nel progetto di separazione delle carriere enunciato dalla maggioranza in campagna elettorale. Le ragioni per preoccuparsi ci sono e sono molto gravi". "Oggi - ha aggiunto Spataro - la legislazione e' orientata da interessi privati; e' questo che sta alla base delle leggi sulle rogatorie, sul falso in bilancio, sul rientro dei capitali".

21 novembre – ANSA:
Licio Gelli, l'ex Gran Maestro della loggia massonica Propaganda 2, e' stato nominato Gran Maestro onorario della Serenissima Gran Loggia nazionale d'Italia di rito scozzese antico e accettato comunione di piazza del Gesu'. Lo ha reso noto la stessa Loggia che ieri ha eletto tutte le cariche. Giorgio Paterno' e' stato eletto Sovrano gran maestro mentre Francesco Zappa e' stato nominato vicario. Tre le donne che figurano con una carica all'interno della Loggia.

22 novembre – ANSA:
Nessuna riabilitazione per Licio Gelli e totale inconciliabilita' tra Grande Oriente d' Italia di Palazzo Giustiniani (Goi) e piduismo. Lo sottolinea Gustavo Raffi, Gran Maestro del Goi, commentando la nomina di Gelli a Gran Maestro onorario nella “autodefinitasi Gran Loggia Nazionale d' Italia di Rito scozzese presieduta da Giorgio Paterno’”. “Ancora una volta - secondo Raffi - la mancanza di una disciplina di legge che tuteli, oltre la liberta' di associazione, anche la denominazione corretta delle stesse, consente a chiunque di costituire e definire 'massoneria' gruppi cui non sono riconosciuti dalle Grandi Logge regolari del mondo i requisiti per qualificarsi tali”. E' bene che si sappia, prosegue il Gran Maestro, “che questa associazione che ieri ha teatralmente riesumato Gelli, solo dopo nostre reiterate diffide ha modificato la denominazione in precedenza spesa, che assommava quelle delle Obbedienze storiche presenti in Italia, vale a dire Goi e Piazza del Gesu', che nulla mai hanno avuto da spartire con la formazione del Paterno’”.

22 novembre - "La Repubblica, edizione di Bologna
Come fa Mannucci Benincasa a dire di essere stato convinto che Licio Gelli fosse un agente d'oltrecortina?" La domanda resta sospesa in un'aula quasi deserta. L'avvocato Pino Giampaolo, parte civile per il Comune di Bologna, veterano dei processi per strage (26 anni fa il primo, l'Italicus) sventola nuove carte. Documenti presentati ai giudici dell'appello per i depistaggi delle indagini sulla bomba alla stazione del 2 agosto 1980, cominciato ieri mattina. Imputati Massimo Carminati, uno dei leader della Banda della Magliana, condannato in primo grado a 9 anni di carcere; Ivano Bongiovanni, (4 e mezzo) un delinquente comune noto per le sue simpatie di estrema destra e considerato molto vicino agli ambienti della Banda della Magliana; e Federico Mannucci Benincasa (4 anni e mezzo) ex capocentro del Sismi di Firenze che in primo grado si è difeso sostenendo tra l'altro di non sapere esattamente chi fosse Licio Gelli, il Venerabile fondatore della Loggia P2. "Pensavo che fosse un agente dell'ex Urss", ha detto. Ma dalle carte raccolte da Giampaolo e dall'avvocato Andrea Speranzoni risulta che al Servizio segreto militare era noto persino che Gelli era legato al Cic, Counter Intelligence Corp, organismo militare statunitense "che certo non poteva essere confuso con analoghe strutture di oltrecortina". Dai documenti, dei quali è stata chiesta l'acquisizione , viene a galla che latitanti di primo piano, come Stefano Delle Chiaie, Augusto Cauchi e Carlo Cicuttini nel '76, nel primo postfranchismo, erano insieme in Spagna per compiere operazioni "sporche", foraggiati da Gelli.

23 novembre – “L’ Unita’”
23 novembre - "L' Unita'"
STANNO REALIZZANDO IL PIANO DELLA LOGGIA P2
LE CARTE DI GELLI PREVEDEVANO: GIUDICI SOTTO TUTELA, SCUOLE AI PRIVATI, SINDACATI ESCLUSI, CONTROLLI IN POCHE MANI DI AFFARI E INFORMAZIONE
ROMA: piano di Rinascita democratica. Si chiamava cosi' il progetto che il Venerabile Maestro della Loggia P2, Licio Gelli, varo' nel 1975. Un piano articolato, che prevedeva:l'acquisto per 10 miliardi della Democrazia Cristiana, la cancellazione del Pci e la creazione di due soli schieramenti politici, la scissione dei sindacati politici, l'abolizione del diritto di sciopero e mano libera alla polizia. In piu' il controllo dei quotidiani e settimanali e la cancellazione della Rai per favorire concentrazioni televisive private. Quelle carte, sequestrate nel 1981 alla figlia del Venerabile, sono di una attualita' inquientante, soprattutto per quanto riguarda magistrati e giustizia. Gelli parla di limitare l'autonomia del Csm, separare le carriere tra pm e giudici, subordinare il pubblico ministero all'Esecutivo. Punti chiavi della sua personalissima riforma, ben presenti nel programma della destra e nelle leggi che il governo ha approvato o si appresta ad approvare. Gelli parla di 'ricondurre la giustizia alla sua tradizionale funzione di elemento di equilibrio della societa' e non gia' di eversione', e sembra di sentire il Presidente del consiglio quando parla di ''guerra civile'' a proposito di 'Mani pulite'. E vi ridiamo a Licio quel che e' di Licio. Diamo atto - e non lasciamo solo alla massoneria di rito scozzese il piacere e l'onore della riabilitazione - all'ex Gran Maestro Venerabile della Loggia Propaganda 2 di essere stato ampiamente preveggente. E' proprio cosi': nel 1975 (ventisei anni fa, c'era ancora Enrico Berlinguer e il Pci veleggiava verso il 30 per cento dei voti, Fanfani si era appena ripreso dalla batosta del divorzio. Aldo Moro disegnava le sue ardite geometrie poliche, Craxi cercava la strada per il suo Psi, mentre Fabrizio Cicchitto era un giovane socialista di stretta fede lombardiana) riuni' i suoi consigliori e disegno' il suo Piano di Rinasciata Democratica. Una trentina di cartelle che rivoluzionavano l'architettura politica, sociale e istituzionale dell'Italia. Eccone una sintesi:
Politica: Gelli prevedeva due chieramenti contrapposti, ''uno social-laburista e uno conservatore, favorendo lo scongelamento dei voti del Msi''.In questo quadro era prevista la fine del Pci e 'l'acquisto' della Democrazia Cristiana per '10 miliardi' (valori dell'epoca, ndr).
Sindacati: 'Favorire la rottura dell'unita' sindacale''.
 Sciopero: 'limitarne il diritto alle casuali economiche'.
Istituzioni: 'Sistema uninominale per le elezioni politiche, differenziazione dei ruoli tra Camera e Senato, e cambio del Presidente del Consiglio solo attraverso la nomina del successore.
Polizia: 'le forze dell'ordine possono essere mobilitate per ripulire il Paese dai teppisti ordinari e pseudo politici.'
E poi la stampa e i settimanali da controllare attraverso operazioni editoriali e gruppi di giornalisti fidati, e la Rai, da cancellare in nome della liberta' di antenna.
Il Piano venne scoperto dalla Guardia di Finanza il 4 luglio del 1981 all'aeroporto di Fiumicino in un doppiofondo della valigia di Maria Grazia, figlia prediletta del Venerabile. Fu fatto ritrovare, perche' Gelli voleva che quelle sue idee venissero conosciute dall'opinione pubblica, e soprattutto dei vertici della politica. Leggendo quelle carte ''ci si accorge che una buona parte dello scenari in cui ci muoviamo oggi era stata gia' disegnata da un abile scenografo molti anni fa''. E' un passaggio di un lungo articolo scritto da Ugo Baduel su questo giornale. L'articolo era datato 16 ottobre 1988. Se Baduel fosse ancora con noi e potesse scrivere oggi di Gelli e Piano di Rinascita userebbe le stesse identiche parole. Perche' buona parte di quel progetto di riforma dell'Italia lo vediamo scorrere sotto i nostri occhi oggi, nell'era del governo Berlusconi, con una precisione che fa veramente rabbrividire. Prendiamo la giustizia. Hanno sommerso di critiche il giudice Armando Spataro, per aver detto ''oggettivamente certi obiettivi della P2 vengono ora perseguiti per via politica'', ma basta scorrere le parti del Piano di Gelli per capire.''Ordinamento giudiziario, le modifiche piu' urgenti investono: la responsabilita' civile (per colpa) del magistrato; l'unita' del publico Pubblico ministero; istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pubblica accusa e difesa, con l'abolizione delle carriere requirente e giudicante...''. Ma c'e' di piu', una frase che riletta oggi da' i brividi, Gelli parla di 'rapidi aggiustamenti legislativi che riconducono la giustizia alla sua tradizionale funzione di elemento di equilibrio della societa' e non gia' di eversione''. Che dire? Sembrano parole scritte oggi,ma da qualche pasdaran burlosconiano alla Previti o alla Taormina, in vena di regolare i conti con i magistrati scomodi.
Certo, il disegno che in quegli anni qualche mente raffinatissima scrisse per Licio Gelli, non e' stato ancora del tutto compiuto. Ma che stia procedento a passi da centrometrista, non ci sono dubbi. Di cosa parla la riforma del Csm approvata dal Consiglio dei ministri se non della riduzione del principio di autogoverno della magistratura? Nel futuro Consiglio perdono potere i pubblici ministeri e le correnti quelle che garantiscono il pluralismo e la liberta' di espressione e di associazione dei magistrati. La separazione delle carriere e' uno dei capisaldi della riforma del sistema giudiziario di Forza Italia, riforma - assicura Berlusconi - che attueremo 'entro i nostro terzo anno di governo'. Riforma che si tira appresso, cancellandola, l'obbligatorieta' dell'azione penale e, di conseguenza, l'indipendenza del pubblica ministero. Gelli e' contento. Gelli aveva scritto e previsto tutto. Aveva un solo problema: i tempi di attuazione di questa parte del suo programma. Si poteva spingere sull'acceleratore ad una sola condizione. ''Qualora le circostanze permettessero di contare sull'ascesa al Governo di un uomo politico (o di una equipe) gia' in sintonia con lo spirito del club (la P2,ndr) e con le sue idee, e' chiaro che i tempi riceverebbero una forte accelerazione anche per la possibilita' di attuare subito il programma'. Che mito, il Venerabile. Un mago. Aveva previsto finanche che nell'Anno del Signore 2001 andassero al governo uomini in sintonia con le idee del suo 'club'. Silvio Berlusconi, tessera del club numero 625, Fabrizio Cicchitto (l'ex lombardiano di cui sopra) tessera nunero 945. Lo stesso club. E la stessa angoscia che in quell'articolo dell'88 provava il collega Ugo Baduel. ''Per anni e anni il corpo istituzionale e politico di questo Paese e' stato sottilmente avvelenato con dosi di arsenico cosi' piccole da non provocare reazioni e da non poter essere rilevate. Ma il veleno c'e'. Il complotto era ben delineato e precisato. E dunque l'impressione e' che quella P2 e P3 abbia continuato a lavorare, che continui a operare: come l'eterno burattinaio. E alla luce del sole, sotto i nostri occhi forse un po' appannati''.
“L'Avanti della Domenica”, settimanale dello Sdi diretto da Alberto La Volpe, polemizza con “L'Unita’”: “Questa 'sparata' dell' 'Unita” crea un clima da caccia alle streghe che non ha nulla a che fare con un principio cosi' arduo, come l'accettazione dell' avversario. Un segnale inquietante, quello dell' 'Unita”, che certamente riuscira' sgradito al nuovo segretario Piero Fassino. E' facile prevedere che il giornale Ds difendera' la sua autonomia, ma Fassino sapra' difendere con altrettanta convinzione l'intelligenza politica sua e del suo nuovo gruppo dirigente?”.

25 novembre - "Il Corriere della sera"
Un passato di rivoluzioni sempre dettate da scandali, depistaggi e sospetti
Nel 1947 l' apparato d' intelligence nacque incorporando anche dirigenti mussoliniani. Nel 1964 il caso del generale De Lorenzo e del presunto golpe conosciuto come "Piano Solo"
Di Feo Gianluca
Un passato di rivoluzioni sempre dettate da scandali, depistaggi e sospetti I fascicoli illeciti del Sifar; il "piano golpista Solo"; i depistaggi delle stragi; la loggia P2; i fondi neri. In tutta la storia del dopoguerra le riforme dei nostri servi zi segreti sono sempre state segnate da uno scandalo, senza mai riuscire a spazzare via i sospetti. Ora invece per la prima volta gli apparati d' intelligence sembrano prossimi a una metamorfosi dettata da esigenze operative e non dall' urgenza di ri pristinare il controllo democratico. I primi servizi segreti della Repubblica italiana nascono tra il ' 47 e il ' 48 con un peccato originale: incorporano dirigenti delle strutture mussoliniane e persino agenti di Salò. Una macchia nera che condizion erà gran parte dell' attività, ma in quel momento pesa soprattutto la pressione americana per impedire la vittoria dei comunisti in Italia. Due sono le strutture previste: il Sifar, Servizio informazioni forze armate, ha caratteristiche militari, dip ende direttamente dal ministro e si occupa dell' attività internazionale. L' altro, l' Ufficio affari riservati del Viminale, controlla la situazione interna. Nel giro di pochi anni, però, cominciano a proliferare nuclei paralleli: la premessa per i primi scandali. Emerge una gigantesca schedatura di cittadini, politici, imprenditori compiuta dal Sifar: 157 mila fascicoli, 34 mila dei quali verranno poi definiti illegali e distrutti. Infine nell' estate 1964 il suo comandante, il generale Giovan ni De Lorenzo, avrebbe preparato un presunto progetto di putsch affidato solo ai carabinieri da cui il nome di "Piano Solo". Sull' onda di questi due casi, un anno dopo il Sifar venne trasformato in Sid, Servizio informazioni difesa. Ma non c' è diba ttito parlamentare, né una legge che introduca nuove regole: il personale resta lo stesso. Si esplicita solo che gli uomini del Sid "non possono compiere indagini che non riguardino difesa militare o sicurezza nazionale, né possono fornire notizie a enti diversi". L' Italia è alla vigilia di una stagione terribile. Piazza Fontana apre la strategia della tensione, nascono le Brigate Rosse. L' intelligence appare dapprima incapace a contrastare questi fenomeni, poi collusa con gli autori degli att entati di destra. I processi non hanno ancora chiarito se le protezioni ai bombaroli neofascisti siano state garantite all' interno di una direttiva della Nato, di un piano americano o per un disegno eversivo tutto italiano. Ma di sicuro i ver tici del Sid e quelli degli Affari riservati sono coinvolti nei depistaggi svelati dalla magistratura milanese. Nel ' 77 con il consenso di tutti i partiti si arriva alla rivoluzione. Nascono il Sismi, Servizio informazioni sicurezza militare, dipend ente dalla Difesa e il Sisde, Servizio informazioni sicurezza democratica, sotto gli Interni. Il presidente del Consiglio è l' unico responsabile, coadiuvato da due organismi nuovi: il Ciis, Comitato interministeriale informazioni e sicurezza, e il C esis, Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza. Viene creato il Comitato parlamentare di controllo e imposto al premier di riferire ogni sei mesi alle Camere. Il primo colpo a questa struttura arriva nell' 81, quando nelle liste d ella P2 compaiono molti dei dirigenti dei due servizi: non c' è però nessuna revisione delle norme. Lo stesso accade nel ' 90 durante il braccio di ferro con le Procure sulla vicenda della rete Stay Behind Gladio. Nel ' 93, dopo le stragi mafiose e l o scandalo dei fondi neri utilizzati dai vertici del Sisde, si torna a parlare di riforma. Ma solo l' offensiva del terrorismo islamico e la guerra afghana sembrano averla resa impellente. G. D. F. LA SCHEDA LE ORIGINI I primi servizi segreti della R epubblica nascono tra il ' 47 e il ' 48 e si strutturano nel Sifar, Servizio informazioni forze armate, e nell' Ufficio affari riservati del Viminale LA RIFORMA Nel 1977 nascono il Sismi, Servizio informazioni sicurezza militare, dipendente dalla Dif esa, e il Sisde, Servizio informazioni sicurezza democratica, sotto il ministero dell' Interno

28 novembre - 'Caso Calvi' e' il tema della puntata di "Blu Notte-Misteri Italiani" in onda alle 23.30 su Raitre condotta da Carlo Lucarelli.

3 dicembre – ANSA:
Si e' conclusa l'indagine della Procura di Roma relativa ai falsi dossier su Luciano Violante, Gianni De Gennaro e il sequestro Soffiantini, e l'omicidio di Ilaria Alpi in cui sono stati coinvolti il faccendiere Francesco Pazienza, alcuni poliziotti e persone legate a Licio Gelli. La chiusura dell'inchiesta prelude ad una richiesta di rinvio a giudizio. Un ruolo importante sarebbe stato ricoperto da Pazienza che oltre ad avere una funzione di raccordo tra le persone individuate dagli inquirenti, sarebbe anche stato la mente dell'organizzazione. Resta, invece, fitto il mistero sul mandante, sulla persona cioe' che avrebbe commissionato i documenti fasulli. I reati individuati dai romani Pm Maria Monteleone e Giovanni Salvi vanno dalla corruzione all'estorsione, dalla sottrazione di documenti alla tentata truffa, alla tentata violenza privata ai danni di Violante. In particolare, i poliziotti arrestati due anni fa - Massimiliano De Cristoforo e Roberto Fracassi - avrebbero sottratto piani di scorta di personalita', documenti contenenti misure di protezione, mappe di localita' protette, piani di servizi di sicurezza (tra cui quelli quelli per la visita in Italia di esponenti palestinesi), e tra l'altro il verbale di un pentito che riguardava Marcello Dell'Utri. Molti documenti vennero ritrovati dagli inquirenti nell'abitazione di De Cristoforo. Le carte sottratte servivano per confezionare falsi dossier su vicende di rilievo e su importanti personalita' come Violante e De Gennaro. L'inchiesta della procura di Roma fu aperta nel 1998 in seguito alle perquisizioni e alle intercettazioni fatte al sedicente ex ufficiale del Sios della Marina, Angelo Demarcus in relazione alle indagini sul falso dossier contro Stefania Ariosto. A questo filone si aggiunse anche la denuncia presentata nel 1997 da una funzionaria della Questura di Roma, secondo cui Giulio Rocconi e Massimo Centanni (legati a Gelli e Pazienza e arrestati nel giugno '99 con i due poliziotti) avevano tentato di corromperla.

5 dicembre – Pierluigi Mantini, della Margherita, dichiara:"Il governo abbandoni il disegno della P2 di assoggettare le procure all'esecutivo" o l'opposizione sara' "durissima". "Le dichiarazioni in Senato del ministro Castelli e le polemiche che ne sono seguite destano - afferma Mantini – profonda preoccupazione. Il governo Berlusconi abbandoni il disegno, che fu gia' della P2 di Gelli, di rendere le procure dipendenti dall'esecutivo.“

14 dicembre – ANSA:
"Mi auguro che non venga calendarizzata altrimenti sarebbe un'altra dichiarazione di guerra. Comunque ci opporremo con ogni nostro sforzo alle iniziative della P2...". Francesco Bonito, deputato dei Ds, commenta cosi' l'assegnazione di oggi alla commissione Giustizia della Camera della proposta di legge che prevede l'istituzione di una commissione d'inchiesta per indagare sulla magistratura 'politicizzata'. Un testo presentato dai deputati di Forza Italia Fabrizio Cicchitto e Michele Saponara. "Anzi - aggiunge Bonito - sono certissimo che il senso di responsabilita' del presidente Gaetano Pecorella e di tutti i capigruppo impedira' alla commissione Giustizia di assumere una decisione che reputeremo gravissima". "La commissione Giustizia infatti - conclude Bonito – ha tante altre cose ben piu' importanti da fare che discutere di questo provvedimento...".

19 dicembre - Maurizio Costanzo festeggia il ventennale del suo programma, in uno speciale in onda in prima serata. «Ho fatto sempre un programma libero, da tutti i punti di vista: non sono convinto che tutti i programmi Rai siano ugualmente liberi», ha detto Costanzo, che non pensa di «arrivare a 33 anni di show, come Johnny Carson in America», ma dopo vent'anni si diverte ancora e non ha nessuna intenzione di smettere: «Il divertimento - ha spiegato, incontrando la stampa dopo la registrazione della puntata - nasce dalla curiosita'. E poi malgrado la guerra abbiamo gli stessi ascolti dello scorso anno e un pubblico in maggioranza giovane. Quando verranno meno la voglia e l'affetto del pubblico, smettero’». Costanzo rivendica l'idea del «fritto misto», della convivenza dei temi diversi in ogni puntata: «Lasciamo tutta la politica a Vespa? L'abbiamo fatta in passato: ricordo che Bertinotti ha annunciato qui che ritirava la fiducia al governo Prodi, D'Alema che lasciava la casa... Un po' la facciamo ancora, ma a segmenti. In questo momento mi interessano di piu' le cose che interessano alla gente». Proprio con Vespa e' scoppiata una piccola polemica: «Quando Berlusconi decise di scendere in campo - ha detto Costanzo, rispondendo a Vespa - mi sembro' una follia. Sette anni dopo, mi trovo bene ad averlo come Presidente del Consiglio, anche se personalmente avrei preferito che continuasse a fare l'editore. Sei tu - ha aggiunto, rivolto a Vespa - che forse ti trovi meglio ora che' e' Presidente del Consiglio». E Vespa: «La mia trasmissione e' stata sempre bipartisan. Sono altri i programmi Rai condannati dalla commissione di garanzia. Negli ultimi cinque anni ho sempre dato parola piena all'opposizione e continuero' a farlo». Costanzo ha citato anche l'intervista al giudice Di Maggio, l'attentato subito nel '93 con Maria De Filippi («sono i rischi del mestiere», ha commentato, chiedendole ufficialmente scusa) e la campagna contro le mine antiuomo.

27 dicembre - "La Nazione"
Natale di paura per Licio
AREZZO - Natale di paura per Licio Gelli, costretto al ricovero nell'astanteria del pronto soccorso per uno spasmo cerebrale. L'ex capo della Loggia P2, da tempo sofferente di cuore, era stato colto da un lieve malore nella tarda mattinata del giorno di Natale, che avrebbe dovuto trascorrere accanto ai figli e ai familiari. Alle 14 Gelli si è presentato al pronto soccorso da dove è stato dimesso soltanto alle 19, dopo accuratissimi controlli clinici, compresa una Tac.

28 dicembre - "L' Espresso"
Erano oltre 500, mercoledi' 12 dicembre, per sentir parlare di ferrovie e grandi opere pubbliche. Il tutto tra i cristalli e le mille luminarie dell' Hotel Excelsior di via veneto, tornato ai fasti in cui Licio Gelli ne era l' ospite piu' illustre e riverito. L' invito era di quelli ai quali non si puo' dire di no, perche' arrivavav direttamente dal senatore di Forza Italia Marcello Dell' Utri che anche  a Roma, dopo l' esperienza meneghina, ha voluto fondare l' associazione culturale "Il Circolo". A rendere omaggio a Dell' Utri sono accorsi il gran capo di Autostrade Vito Gamberale, l' ex numero uno degli Aeroporti di Roma Umberto Galia, l' amministratore delegato delle Fs Giancarlo Cimoli. Tra pellicce, canape' e gessatoni blu, si aggirava anche un terzetto dal sorriso smagliante: il senatore di An Gustavo Selva, l' onorevole Publio Fiori, e il lobbista Gigi Bisignani, condannato a due anni e otto mesi per la maxitangente Enimont. Tutti e tre con in comune un' iscrizione nel passato alla Loggia P2. Presenti anche stelle vecchie e nuove della Rai, come la presentatrice Maria Giovanna Elmi e Anna La Rosa.
 


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