N. 1/94 RG. Notizie di reato P. M D.D.A.

N 4/95 R.G. Trib. Corte Assise e N. 5/95 R.G.; N.1/96 R.G.; N. 2/96 R.G. riuniti.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte di Assise di Perugia composto dai Signori:

Dott.GIANCARLO ORZELLA Presidente

Dott.NICOLA ROTUNNO Giudice

Sig. GILBERTO GATTICCHI Giudice Pop.

D.ssa ANNA RITA CATALDO " "

Sig. ALBERTO ALUNNI " "

Dott. MARCELLO FICOLA " "

Sig.ra IVANA BEI " "

Sig. STEFANO AVELLINI " "

 

ha pronunciato e pubblicato in data 24.9.1999 la seguente

S E N T E N Z A

Nei confronti di:

1) CALO’ Giuseppe, nato a Palermo il 30.9.1951, ivi residente P.zza Giuseppe Verdi, 6; attualmente detenuto p.a.c. presso Casa Reclusione di Spoleto.

DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Rosa CONTI del Foro di Perugia e Avv. Corrado OLIVIERO del Foro di Roma sostituito in udienza dall’Avv. Walter BISCOTTI del Foro di Perugia;

2) ANDREOTTI Giulio, nato a Roma il 14.1.1919 elettt.te domiciliato c/o lo studio del difensore Avv. Franco Coppi in Roma Via Arno, 21

(già presente all’ud. del 11.4.1996)

DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Franco COPPI del Foro di Roma sostituito in udienza dall’Avv. Giovanni BELLINI del Foro di Perugia e Avv. Odoardo ASCARI del Foro di Modena sostituito in udienza daal’Avv.Stelio ZAGANELLI del Foro di Perugia.

3) VITALONE Claudio, nato a Reggio Calabria il 7.7.1936 elett.te domiciliato c/o lo studio del difensore Avv. Carlo Taormina in Roma Via Federico Cesi, 21

DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Carlo TAORMINA del Foro di Roma sostituito in udienza dall’Avv. Maurilio PRIORESCHI del Foro di Roma e Avv. Alberto BIFFANI del Foro di Roma sostituito dall’Avv. Arturo BONSIGNORE del Foro di Perugia.

4) CARMINATI Massimo, nato a Milano il 31.5.1958, elett.te domiciliato a Formello (Roma) Via Maiano, 48 (dom.eletto alla scarcerazione)

(già presente all’ud. del 9.9.96).

DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Giosuè Bruno NASO e Avv. Giuseppe VALENTINO entrambi del Foro di Roma.

5) BADALAMENTI Gaetano, nato a Cinisi (PA) il 14.9.1923 in atto detenuto presso il Penitenziario di Fairton (U.S.A.), elett.te dom.to in Italia a Cinisi (PA) Corso Umberto n. 183 presso la moglie VITALE Teresa.

( dichiarato contumace all’ud. del 6.6.96)

DIFENSORE DI FIDUCIA: Avv. Paolo GULLO del Foro di Palermo, sostituito in udienza dall’Avv. Silvia EGIDI del Foro di Perugia.

6) LA BARBERA Michelangelo, nato a Palermo il 10.9.1943 ivi residente Via Castellana, 346 attualmente detenuto p.a.c. presso Casa C.le di Palermo

-detenuto p.a.c. rinunciante a comparire –

(già presente all’ud. del 1.7.96)

DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Angelo BARONE del Foro di Palermo e Avv. Daniela Paccoi del Foro di Perugia.

PARTI CIVILI: Avv. Claudio FERRAZZA del Foro di Roma difensore e Procuratore Speciale di PECORELLI Rosina;

Avv. Alfredo GALASSO del Foro di Roma sostituito in udienza dall’Avv. Francesco CRISI del Foro di Perugia; difensore e Procuratore Speciale di PECORELLI Andrea

RUSSO Liliana ved. PECORELLI rappresentata e difesa dall’Avv. Raffaele CAMPIONI del Foro di Roma.

PECORELLI Stefano rappresentato e difeso dall’Avv. Francesco CRISI del Foro di Perugia.

I M P U T A T I

Per il reato di cui agli artt. 110, 112 n.1, 575, 577 n. 3 c.p. per avere, agendo in concorso con BADALAMENTI Gaetano, CALO’ Giuseppe, ANDREOTTI Giulio, VITALONE Claudio, LA BARBERA Michelangelo e con ignoti, i primi quattro quali mandanti, il LA BARBERA e il CARMINATI quali esecutori materiali, nonché con SALVO Antonino, SALVO Ignazio, BONTATE Stefano, INZERILLO Salvatore, ABBRUCIATI Danilo, GIUSEPPUCCI Franco (questi ultimi sei tutti deceduti), cagionato con premeditazione la Morte di PECORELLI Carmine mediante quattro colpi di pistola.

In Roma 20.3.1979.

CON L’INTERVENTO DEI PUBBLICI MINISTERI: Dr. Fausto CARDELLA e Dr. Alessandro CANNEVALE

LE PARTI COSI’ CONCLUDONO:

IL P.M: chiede affermarsi la responsabilità di tutti gli imputati in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti e la condanna alla pena dell’ergastolo, pene accessorie come per legge.

I DIFENSORI DELLE PARTI CIVILI: l’Avv. Galasso per Pecorelli Andrea chiede che gli imputati siano condannati con concessione di una provvisionale che si ritiene equo quantificare in L. 500.000.000, con condanna alla refusione delle spese di giudizio.

L’Avv. Ferraza per Pecorelli Rosina chiede la condanna di tutti gli imputat ial risarcimento in solido di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti dal Sig. Andrea Pecorelli, si chiede altresì che gli imputati siano condannati al risarcimento di una provvisionale in favore della Sig.ra Pecorelli Rosina da quantificare in L. 500.000.000 con refusione delle spese di giudizio.

L’Avv. Crisi per Stefano Pecorelli chiede la condanna di tutti gli imputati al risarcimento in solido di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali e alla concessione di una provvisionale in favore di Stefano Pecorelli da quantificare in L. 500.000.000 e alla refusione delle spese di giudizio.

L’Avv. Campioni per la parte civile Russo Liliana: chiede la condanna degli imputati in solido al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti dalla Sig:ra Russo e alla concessione di una provvisionale da quantificare in L. 500.000.000 e alla refusione delle spese di giudizio.

I DIFENSORI DEGLI IMPUTATI: L’Avv. Oliviero e l’Avv. Conti per Calo’ chiedono l’assoluzione per non aver commesso il fatto. L’Avv. Barone per La Barbera chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto.

L’Avv. Coppi per Andreotti chiede l’assoluzione con formula piena.

Gli Avvti Bellini, Zaganelli e Ascari per Andreotti chiedono assoluzione per non aver commesso il fatto.

L’Avv. Biffani per Vitalone chiede l’assoluzione con la formula più ampia.

L’Avv. Egidi per Badalamenti chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto.

L’Avv. Paccoi per La Barbera chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto.

L’Avv. Naso per Carminati chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto.

 

CAPITOLO 01)

VOLGIMENTO DEL PROCESSO

Si è celebrato, oggi, nella contumacia di BADALAMENTI GAETANO, il processo a carico dello stesso, nonché di ANDREOTTI GIULIO, VITALONE CLAUDIO, CALO’ GUSEPPE, LA BARBERA GAETANO e CARMINATI MASSIMO tutti chiamati a rispondere in concorso tra loro e con altri nelle more deceduti, del reato loro ascritto in rubrica.

Il processo, iniziato nell’aprile 1996, ha visto, a quella, udienza la costituzione di parte civile della sorella, della moglie e dei figli di Pecorelli Carmine; esso, poi, è stato immediatamente sospeso e rinviato a giugno dello stesso anno per la dichiarazione di astensione del presidente e del giudice aggregato e per la loro sostituzione per cui il collegio si è formato nella attuale composizione.

Il PM esponeva i fatti e chiedeva la ammissione delle prove consistenti nella produzione di una imponente documentazione, nella richiesta di escussione testimoniale di numerosissime persone informate sui fatti e nell’esame degli imputati.

Nessuna prova diretta era fatta dai difensori delle parti civili.

Richiesta di ammissione di documenti e di prove per testi era fatta dai difensori degli imputati ad eccezione di Badalamenti Gaetano.

La Corte ammetteva le prove richieste e provvedeva alla escussione dei testimoni ad eccezione di quelli per i quali vi era stata rinunzia della parte richiedente, accettata espressamente dalle altre parti e ritenute dalla Corte non necessarie per la comprensione dei fatti.

Nel corso del dibattimento erano anche acquisiti documenti e ammessi testimoni de relato o il cui nome era emerso dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento.

La Corte esercitava anche il suo potere ex art. 507 cpp disponendo alcune perizie e l’audizione di alcun testimoni.

All’esito del dibattimento il PM, le parti civili e i difensori degli imputati concludevano come in atti.

 

 

 

CAPITOLO 02)

PREMESSA

La molteplicità degli eventi che sono stati sottoposti all’esame della corte e che dalla stessa sono stati esaminati per la ricostruzione della vicenda, i problemi della valutazione della prova connessi alla mutevole posizione assunta nel corso del dibattimento da alcune persone che hanno reso deposizione rende necessario individuare la sequenza dei temi che devono essere trattati al fine di dare organicità alla esposizione della vicenda per una sua migliore comprensione secondo la decisione di questa corte di assise.

La sentenza, per le argomentazioni difensive svolte da talune delle difese, contiene preliminarmente alcune considerazioni di carattere generale e la indicazione dei criteri normativi di interpretazione del materiale probatorio.

A tali punti di carattere generale seguirà la ricostruzione del fatto, la descrizione, secondo il giudizio della corte, della personalità di Carmine Pecorelli, i suoi interessi al momento della morte, i possibili moventi e la loro riferibilità, la possibilità per Carmine Pecorelli di conoscere ulteriori notizie in ordine alle vicende individuate come possibili moventi, gli eventi rilevanti per l’omicidio, la individuazione e descrizione delle organizzazioni criminali, la partecipazione a tale organizzazione delle persone che hanno reso dichiarazioni su quel punto, la loro credibilità e attendibilità, la possibilità che fosse richiesta l’uccisione di Carmine Pecorelli, la matrice del delitto.

 

CAPITOLO 03)

CONSIDERAZIONI GENERALI

Una prima considerazione, in relazione ad affermazioni che più volte sono riecheggiate nell’aula e segnatamente nella discussione ad opera di talune parti sia private che pubbliche è relativa all’oggetto della decisione di questa corte di assise. La corte di assise di Perugia ha il dovere, unico ed esclusivo, di dare una risposta al quesito giuridico che le è stato posto e cioè se gli attuali imputati nel loro complesso o partitamente sono responsabili della uccisione di Carmine Pecorelli. Tale risposta deve, necessariamente, prescindere dalle qualità personali, dall’inserimento o meno di taluni imputati in posizione di vertice in organizzazioni criminali di particolare pericolosità o dalla attività politica di taluni degli imputati; tali caratteristiche potranno e saranno prese in considerazione solo quando esse hanno attinenza, e nei limiti in cui l’avranno, con i temi probatori che saranno affrontati dalla corte per essere stati portati al suo esame.

E’, quindi, errato, a giudizio della corte, fare riferimento a un processo politico e vedere nell’esercizio dell’azione penale lo strumento per una persecuzione politica nei confronti di tali imputati; il riferimento non può essere che a Giulio Andreotti e Claudio Vitalone che nella loro vita hanno ricoperto cariche pubbliche ai massimi livelli (il primo da oltre cinquanta anni svolge attività politica e ha ricoperto quasi ininterrottamente cariche pubbliche ai massimi vertici amministrativi e politici come presidente del consiglio dei ministri o ministro ed il secondo ha ricoperto prima la carica di sottosegretario e poi di ministro della Repubblica Italiana).

Parimenti errato è la considerazione che la decisione (evidentemente temuta sfavorevole) sarà frutto dell’inserimento degli imputati in organizzazioni criminali come "Cosa Nostra" o c.d. "Banda della Magliana" o organizzazioni eversive della estrema destra.

Conseguenza diretta della prima affermazione è stato l’insistente richiamo alla corte di assise al rispetto delle regole giuridiche nella formazione della propria decisione, per evitare che la sentenza sia uno strumento improprio utilizzato per raggiungere fini non compatibili con l’esercizio della giurisdizione ma propri della lotta politica tesa ad eliminare scomodi avversari politici come gli attuali imputati.

Sul punto ritiene la corte che, in uno stato di diritto quale è quello italiano, dove il principio della separazione dei poteri e della autonomia della magistratura sono valori costituzionali, ipotizzare una simile evenienza è agghiacciante e fuori dalla realtà presupponendo, sulla base di un convincimento aprioristicamente formatosi per il solo fatto che nei confronti di taluni imputati è stata iniziata l’azione penale, una perversa mala fede nei confronti non solo dei giudici togati ma anche dei semplici cittadini che hanno avuto la ventura di essere sorteggiati come giudici popolari per questo processo. Né vale sostenere che la critica non è diretta al collegio giudicante perché la diversa angolazione della critica non sposta il problema stante la natura pubblica della accusa e gli obblighi su di essa gravanti.

L’osservazione sopra fatta in ordine al richiamo al rispetto delle regole che sovrintendono alla decisione che sarebbero violate per fini politici in una con quella della personalizzazione del confronto con i singoli magistrati che hanno impersonato l’ufficio dell’accusa, malgrado il ripetuto richiamo del presidente della corte a rivolgersi impersonalmente all’ufficio della pubblica accusa, conduce ad una terza affermazione di talune delle difese: la esistenza di un complotto nei confronti di alcuni imputati; è ben vero che il termine complotto è stato mitigato nella discussione ed è stato sostituito con quello di "eccesso di zelo ambientale", ma la sostanza non cambia, come non cambia la sostanza delle cose il fatto che Giulio Andreotti nel suo esame non ha mai parlato di complotto ai suoi danni, ma quando si chiede (retoricamente a giudizio della Corte) chi ci sia dietro a coloro che lo accusano inevitabilmente l’affermazione della esistenza di un complotto torna implicitamente e prepotentemente alla ribalta.

Sul punto la Corte ritiene che una tale affermazione sia infondata.

Invero ad escludere una simile ipotesi è sufficienti considerare:

  1. le dichiarazioni relative a fatti importanti per questo processo sono state rese da numerose persone, appartenenti a ceti sociali tra loro diversissimi, che non si conoscevano e non avevano tra loro rapporti; persone che non avevano motivo di rancore o odio nei confronti degli imputati a punto tale da volere la loro condanna all’ergastolo per un reato così grave come l’omicidio premeditato ovvero specifiche ragioni per mentire anche in considerazione che alcune di esse erano e sono ancora amici degli imputati; persone che hanno raccontato cose da loro vissute o apprese in tempi non sospetti per cui è da escludere un complotto ordito da tali persone. Esso poi avrebbe avuto necessità di una pluralità di persone, tutte d’accordo nel tramare contro gli imputati, per impedire che la trama fosse scoperta.
  2. L’ipotesi francamente non è credibile atteso, anche, che per una tale evenienza sarebbe stato necessario che l’opera di cospirazione delle persone informate sui fatti avesse come avallanti una pluralità di organi investigativi (nell’ambito di ciascuno di essi tutte le persone che si sono occupate a vario titolo dell’inchiesta nella fase delle indagini preliminare) e una pluralità di pubblici ministeri che facendo parte di più procure si sono occupate dell’inchiesta o di filoni di essa (in specie la procura di Roma naturale giudice competente dell’inchiesta dopo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, quella di Perugia dopo il coinvolgimento nell’inchiesta di Claudio Vitalone sostituto procuratore della repubblica presso il tribunale di Roma al momento dell’omicidio di Carmine Pecorelli e la procura della repubblica presso il tribunale di Palermo competente per il reato di concorso in associazione mafiosa a carico di Giulio Andreotti del cui processo molti atti sono confluiti in questo pendente avanti alla Corte di Assise di Perugia. Né può pensarsi che il complotto sia organizzato e gestito dalle persone che hanno avuto la conduzione delle indagini perché, anche in questo caso, sarebbe stato necessario il consenso e la connivenza delle persone informate sui fatti che a vario titolo hanno reso deposizioni in questo processo.

  3. Se effettivamente fosse esistito un complotto in danno di taluni degli imputati esso sarebbe stato ordito sicuramente meglio e non si sarebbero verificate quelle vistose smagliature che sono proprio il segno della mancanza di un previo accordo; non appare credibile che un "cospiratore", appena attento alle dinamiche del processo, organizzerebbe un complotto architettando una serie di circostanze che hanno prestato il fianco a tutte una serie di critiche, censure, e contraddizioni come quelle che fanno dire a Fabiola Moretti di avere visto Massimo Carminati ferito all'occhio o meglio che Danilo Abbruciati ha visto Massimo Carminati ferito all'occhio, ovvero che fa dire a Vittorio Carnovale che Danilo Abbruciati ed Enrico De Pedis erano sul luogo dell'omicidio (la credibilità di Vittorio Carnovale nella ipotesi del complotto è fattore essenziale perché è il primo che introduce Vitalone Claudio nel processo affidandogli un ruolo di mandante intermedio per cui l’organizzatore del complotto, se voleva che esso andasse a buon fine, doveva indottrinarlo ben bene facendogli dire circostanze che dovevano reggere ad una successiva e rigorosa verifica di riscontro e non cadere miseramente al primo controllo) o ancora che non si accerti della esistenza e della agibilità del ristorante La lampara, ove sarebbero avvenuti gli incontri tra Enrico De Pedis e Claudio Vitalone, prima di fare dichiarare tali circostanze a Fabiola Moretti.
  4. La indicazione nel verbale di assunzione di Antonio Mancini del 27.1.1994 e in quello di Fabiola Moretti del 5.5.1994 ore 22.00 della lettura delle dichiarazioni rese da Vittorio Carnovale (relativamente al verbale sottoscritto da Antonio Mancini)e di Antonio Mancini (relativamente al verbale sottoscritto da Fabiola Moretti).

Se effettivamente vi fosse stato un complotto a cui avrebbero partecipato, necessariamente, i coimputati in procedimento collegato probatoriamente che sono la fonte primaria delle accuse, non vi sarebbe stata migliore occasione che leggere e fare conoscere a Antonio Mancini le dichiarazioni di Vittorio Carnovale e a Fabiola Moretti quelle rese da Antonio Mancini senza darne atto a verbale creando così le premesse di una solida prova basata sul riscontro incrociato delle dichiarazioni e sulla loro autonomia.

La critica all’operato del PM non è condivisa da questa Corte neppure sotto il profilo (concetto espresso dalla difesa di Claudio Vitalone) "dell’eccesso di zelo ambientale" e della mancanza di indagini in altre direzioni.

E’ ben vero che l’indagine ha avuto ad oggetto principalmente la persona di Claudio Vitalone e che tale indagine è stata particolarmente penetrante, ma ciò, a parere della corte, è una conseguenza della centralità del suo ruolo nella vicenda. Ruolo di mandante intermedio e di cerniera tra i due gruppi criminali che, secondo l’impianto accusatorio, avrebbero organizzato ed eseguito il delitto. Di qui la necessità di ogni possibile verifica, a fronte dei dinieghi da parte di Claudio Vitalone di un suo pur minimo coinvolgimento, di fatti che confermassero aliunde le circostanze accusatorie (in tal senso devono essere intese le indagini relative alla contemporanea presenza a Lipari della barca di Ignazio Salvo e di Claudio Vitalone nel 1992 stante l’affermazione di questo ultimo di non avere mai conosciuto i cugini Salvo ovvero le indagini svolte sulla morte di Nada Grohovac atteso che la conferma della esistenza di un qualche rapporto –indipendentemente dalle cause della sua morte- tra la Grohovac e Wilfredo Vitalone sarebbe stata un forte riscontro esterno alle dichiarazioni di Fabiola Moretti sulla esistenza di rapporti tra Enrico De Pedis e Claudio Vitalone come affermato nei suoi interrogatori, e, quindi, un notevole apporto probatorio alle indagini).

E’ altresì vero che l’indagine presenta delle carenze ma esse sono ampiamente spiegabili con la complessità dell’indagine e con il notevole lasso di tempo che è passato dal giorno del tragico evento, che a distanza di venti anni è ancora avvolto da una fitta nebbia di mistero, e le pressioni esercitate per arrivare alla soluzione del caso mai sono state fatte per fare dichiarare cose diverse da quelle che realmente la persona sapeva (significativo al riguardo è il frammento di intercettazione in casa di Fabiola Moretti la quale mentre si sta allontanando per recarsi in una località protetta si rivolge ad Alfredo Fiorelli, capo della DIA di Roma, per dirgli di essersi ricordata che in quel periodo Danilo Abbruciati era in prigione e riceve, come risposta, che la circostanza deve riferirla al giudice al quale deve dire solo le cose che sa e che ricorda).

Deve, peraltro, darsi atto che l’indagine portata avanti con determinazione dalla procura della repubblica di Perugia, malgrado le lacune riscontrate, in relazione al vuoto istruttorio in cui si è dibattuta per anni l’inchiesta condotta dal PM di Roma prima della riapertura delle indagini (significative sono le circostanze che mai prima dell’attuale indagine è stato sentito Umberto Limongelli collaboratore, oltre che cugino, della vittima, il quale aveva da riferire di un pacco consegnato lo stesso giorno alla tipografia Abete che stampava OP e mai più reperito con i mancati accertamenti su un fatto che poteva avere una certa rilevanza per la soluzione del caso; o, ancora, il ritardo con cui è stata sentita la sorella di Carmine Pecorelli, Rosina, e la mancata audizione di Donato Lo Prete che pure risultava invitato alla cena presso il ristorante La Famiglia Piemontese a cui aveva preso parte lo stesso Carmine Pecorelli), è il tentativo più serio per arrivare alla scoperta degli autori del delitto che, per le ragioni che saranno dette in seguito, non sono stati individuati, da questa corte, negli attuali imputati.

 

 

CAPITOLO 04)

CRITERI DI VALUTAZIONE DELLA PROVA.

La corte sul punto ritiene di dovere affrontare solo alcuni punti trattandosi per il resto di normali criteri di valutazione del materiale probatorio e precisamente:

  1. I criteri di valutazione delle dichiarazioni rese da persone indagate o imputate in procedimenti connessi o probatoriamente collegati (indipendentemente dalla circostanza che essi sono o meno sottoposti a regime di protezione).
  2. Sul tale argomento, va osservato quanto segue.

    La questione, travagliata sotto il vigore dell'abrogato codice (segno che il problema è sempre esistito) è stata risolta dal legislatore che all'art. 192 comma 3 e 4 cpp, recependo peraltro le indicazioni emerse dalla precedente interpretazione giurisprudenziale, ha stabilito che le dichiarazioni rese da coimputato in procedimento connesso o probatoriamente collegato sono valutate unitariamente agli altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità.

    Dalla lettera della norma e dalla sua collocazione in un comma diverso da quello in cui si dà valenza agli indizi si evince che la chiamata in correità o in reità è una vera e propria fonte di prova nei cui confronti però il legislatore mostra diffidenza tanto da circondarla, quanto al suo valore probatorio, di particolari cautele chiedendo che essa sia confermata, quanto alla sua attendibilità, da altri elementi di prova; l’assunto è oramai pacificamente accettato in dottrina e in giurisprudenza per cui non occorre soffermarsi oltre.

    Elementi di prova che devono, peraltro, essere desunti ab extrinseco e non dalla stessa dichiarazione accusatoria, devono essere specifici, concreti e autonomamente certi e non presentare carattere di ambiguità risolvibile utilizzando come unico sostegno interpretativo il contenuto della chiamata di reità da riscontrare e possono essere i più vari, non avendo il legislatore tipizzato la loro natura.

    Peraltro tali elementi di prova, in caso di chiamate plurime devono riguardare ciascun reato e ciascun imputato, non devono raggiungere il valore di prova autonoma altrimenti sarebbe questa ultima, da sola, sufficiente per affermare o escludere la responsabilità.

    Quanto alla natura di tali elementi di prova essi possono essere oggettivi e sufficienti a dare riscontro alla chiamata di correità ovvero soggettivi provenienti, cioè, da dichiarazioni di altri coimputati o imputati in procedimento connesso o collegato.

    Va poi precisato che il riscontro obbiettivo esterno alla chiamata di correità o di reità deve essere certo e non possibile o concettuale anche se esso può vertere su un elemento non strettamente correlato alla imputazione ma necessario, insieme ad altri elementi, per una valutazione globale ed unitaria della prova.

    Va altresì precisato, quanto alla chiamata di correità o di reità plurima o successiva che esse devono essere estrinsecamente autonome e non frutto di collusione o di condizionamento per assurgere sotto il profilo logico giuridico, a dato di riscontro e di verifica della prima; in caso contrario vanno considerate come una unica chiamata di correità o di reità e come tale bisognevole a sua volta di riscontri esterni alle chiamate stesse.

    Va ancora detto che nelle versioni date da diversi coimputati in procedimento connesso o probatoriamente collegato possono verificarsi discrepanze; tali discrepanze assumono rilievo sulla loro attendibilità quando vertono su circostanze rilevanti, se non proprio fondamentali, per il processo mentre se vertono su particolari di scarso rilievo lungi dall’incidere sulla loro attendibilità, sono il segno e il sintomo di una autonomia di conoscenza della stessa circostanza e ciò può influire sulla reciproca valenza probatoria delle singole dichiarazioni.

    Quello che si è fino ad ora detto attiene al valore probatorio della chiamata in correità o in reità; ciò non significa che preliminare al riscontro oggettivo delle affermazioni del chiamante in correità o in reità debba accertarsi - alla pari dell'accertamento della attendibilità di qualsiasi persona esaminata nel processo - la sua attendibilità intrinseca.

    Attendibilità che va tenuta ben distinta dai motivi che hanno portato il coimputato o l'imputato in procedimento connesso o collegato probatoriamente a rendere dichiarazioni accusatorie.

    Tali motivi attengono alla sfera interiore del chiamante e possono variare da un calcolo utilitaristico (come la percezione di contributi a carico dello stato o la esclusione di condizioni carcerarie particolarmente dure), al vero pentimento e al desiderio di uscire dal mondo della delinquenza. Essi sono indifferenti per il diritto perché il legislatore nel disciplinare il mezzo di prova ha richiesto solamente che il chiamante sia attendibile e che le sue dichiarazioni siano riscontrate e devono presentare caratteristiche di convergenza in ordine al fatto materiale della narrazione, di indipendenza nel senso sopra enunciato, e di specificità nel senso che la cosiddetta convergenza del molteplice deve essere sufficientemente individualizzante ossia devono confluire su fatti che riguardano direttamente l’incolpato e l’imputazione a lui attribuita.

    Cioè posto, e in aderenza ai criteri elaborati dalla suprema corte che ha avuto modo di interessarsi ripetutamente del problema, l'attendibilità, la credibilità di tali soggetti va valutata in modo rigoroso per cui le loro dichiarazioni devono, per essere meritevole di considerazione, apparire - a causa della loro genuinità, specificità, coerenza, univocità, costanza, spontaneità e disinteresse - serie e precise.

    In particolare l’attendibilità del dichiarante va posta in discussione ogni qual volta le sue affermazioni possono essere ispirate da desiderio di vendetta, di copertura di complici od amici, da compiacimento verso gli organi di polizia o dell’accusa

    Va ancora precisato, sul punto, che per la credibilità generale o intrinseca del chiamante in correità o in reità non viene scalfita da piccole incoerenze o contrasti con altri elementi probatori acquisiti al processo purché le dichiarazioni coinvolgenti la responsabilità dei chiamati in correità o in reità trovi il supporto dei riscontri oggettivi.

    Quanto sopra detto esclude che la corte aderisca alla tesi, prospettata dalla corte di assise di Catania del 12 maggio 1995 e fatta propria dal difensore di Gaetano Badalamenti e Michelangelo La Barbera che non esiste il disinteresse dei collaboratori di giustizia perché essi hanno sempre un interesse, legislativamente previsto, ad accusare in correità o in reità dipendendo dal loro obbligo di dire tutto quello che sanno il godimento di benefici sia processuali che extra processuali.

    Ritiene infatti la Corte che il disinteresse richiesto per la credibilità del chiamante in correità o in reità non va identificato con la mancata fruizione di agevolazioni o benefici, che essendo legislativamente previsti sono comuni a tutti i chiamanti in reità di talché se il primo si identificasse con l’assenza dei secondi, si verrebbero di fatto ad escludere dalle fonti di prova le deposizioni dei chiamanti in reità o in correità; il fatto, al contrario, che il legislatore ha previsto e disciplinato autonomamente questa fonte di prova è il segno che il disinteresse richiesto per affermare la credibilità del dichiarante deve consistere in qualcosa di diverso e riguardare espressamente i fatti che il chiamante in reità o correità va a raccontare. In sostanza, il disinteresse richiesto, a parere della corte, va identificato nella assenza di intenti calunniatori o nella mancanza di un vantaggio personale, in relazione ai fatti narrati, che da tale dichiarazione può derivare al chiamante in reità o in correità. Ritenere il contrario, significa svuotare di ogni significato e sostanza la legge che prevede espressamente per coloro che collaborano con la giustizia la corresponsione di benefici di natura patrimoniale e il godimento di benefici di natura processuale.

    Le considerazioni sopra fatte rendono sterile, a giudizio della corte, la disputa sul fenomeno del c.d. pentitismo perché esso è estraneo al processo; fino a quando il legislatore non interviene sulle modalità di gestione dei collaboratori di giustizia, fino a quanto il legislatore non modifica i criteri di valutazione della prova fornita dai chiamanti in reità o in correità, la corte, proprio in ossequio al tanto invocato principio del rispetto delle norme, deve tenere conto, nella valutazione complessiva della prova, anche delle dichiarazioni dei chiamanti in correità o in reità applicando ad esse quei criteri interpretativi di cui sopra si è detto.

    Una ultima annotazione di carattere generale, perché comune a tutti i coimputati in procedimento connesso o probatoriamente collegato e anche a molti testimoni che hanno avuto esperienze carcerarie e cioè che non può assumere alcun rilievo, ai fini della valutazione delle dichiarazioni accusatorie la personalità negativa dei dichiaranti essendo questa un connotazione comune a tutti coloro che sono imputati nello stesso reato o in reati connessi o a quelli collegati in quanto il legislatore, nel dettare le norme per la valutazione della loro attendibilità, ha introdotto dei criteri limitativi della valenza probatoria. Ciò per contrastare la tesi difensiva secondo cui la provenienza dei chiamanti in reità dal mondo della malavita organizzata escluda, per questo solo fatto, la loro credibilità a fronte delle dichiarazioni degli imputati specchiati e stimati cittadini.

  3. Connesso al problema della attendibilità degli imputati in procedimento connesso o collegato probatoriamente è quello relativo all’influenza che su tale giudizio deriva dal giudizio espresso da altre autorità giudiziarie sulla attendibilità dello stesso imputato.
  4. Sul punto la corte Ritiene che il giudizio di attendibilità o di inattendibilità dell’imputato in procedimento connesso o collegato già espresso da altro organo giudicante non sia vincolante e che il nuovo organo giudicante possa e debba fare un nuovo giudizio di attendibilità anche alla luce di nuovi (eventuali) fatti che possono mutare tale giudizio. In aderenza a tale principio questa corte non è tenuta ad aderire pedissequamente a tali giudizi (trattandosi proprio di giudizi), ma ciò non esclude che gli elementi di fatto posti a base del giudizio di attendibilità espresso da altri organi giudicanti possano e debbano essere tenuti presenti nel formulare il proprio giudizio sulla attendibilità (o inattendibilità) del chiamante in reità o in correità per giungere, indifferentemente, ad un giudizio analogo o diverso.

  5. Il regime probatorio delle dichiarazioni di persone che nel corso del dibattimento hanno modificato la loro posizione da persona indagata in procedimento connesso o collegato in quella di testimone.
  6. Si è infatti rilevato che Fabiola Moretti e Tommaso Buscetta, escussi nel corso delle indagini preliminari ai sensi dell’art. 210 cpp stante il collegamento probatorio tra il reato di partecipazione a Cosa Nostra o alla associazione criminale operante in Roma all’epoca dell’omicidio di Carmine Pecorelli, detta d’ora in avanti per comodità banda della Magliana, loro ascritto e quello per cui è processo hanno perso tale qualifica essendo venuta meno, per definizione della loro posizione, la qualifica di imputato in procedimento collegato probatoriamente. Partecipazione che deve ritenersi cessata, salvo prova contraria, al momento in cui essi si sono dissociati dal sodalizio criminale collaborando con gli organi inquirenti. In tal caso ritiene il collegio che la loro deposizione deve essere valutata come testimonianza, anche se sottoposta a particolare vaglio stante le modalità dell’originaria assunzione che svincolava la persona che rendeva dichiarazioni da conseguenze giuridiche in caso di mendacio o reticenza, dovendosi applicare il principio "tempus regit actum" e cioè dovendosi applicare la disciplina che regola la posizione processuale del soggetto da esaminare al momento della sua assunzione.

    Ciò, vale in particolare per Fabiola Moretti che nel corso del suo esame ha posto in essere una "sceneggiata" per giustificare la sua volontà di non riferire alla Corte quello che effettivamente sapeva e sottrarsi quindi al legittimo contraddittorio delle parti. "Sceneggiata" che ha comportato, come meglio sarà detto in seguito, la trasmissione degli atti al PM per il reato di reticenza ai sensi dell’art. 372 cp.

    Porta a questa conclusione una corretta interpretazione dell’art. 197 cpp. Invero (sul punto la corte richiama le numerose ordinanze emesse nel corso del dibattimento in cui ha chiarito il diverso regime che governa l’assunzione della prova nel caso che la persona sia stata qualificata imputata o indagata di procedimento connesso o di procedimento probatoriamente collegato e le conferma integralmente), l’incompatibilità alla testimonianza di cui al citato art. 197 cpp postula prima di tutto che sia stata assunta effettivamente la qualità di indagato, e non anche che vi sia la mera possibilità che ciò avvenga, e che tale qualifica sia ancora attuale al momento della assunzione della deposizione.

    Si tratta dunque di stabilire in via generale se l’incompatibilità permanga anche dopo l’eventuale provvedimento di archiviazione o di conclusione in via definitiva del processo.

    Esaminando la questione nei suoi vari aspetti, va osservato come la norma de qua tanto alla lettera a), concernente la connessione, quanto alla lettera b), concernente il collegamento, faccia riferimento alla qualità di imputato, cioè a quella particolare condizione che si acquisisce per effetto dell’attribuzione della formale imputazione in uno degli atti tipici indicati dall’art. 60 cpp.

    Muovendo da tale osservazione e dall’ulteriore considerazione del carattere di norma eccezionale, attribuibile all’art. 197 cpp, la Suprema Corte in una prima pronuncia aveva ritenuto che l’incompatibilità non possa essere estesa oltre i limiti risultanti dalla norma e che in particolare non possa applicarsi a chi rivesta la mera qualità di indagato, tanto meno dopo un provvedimento di archiviazione (Cass. I, 28-9-1992, Perruzza).

    In realtà, al di là del carattere eccezionale dell’art. 197 cpp, militava in tale direzione una valutazione complessiva del sistema.

    Infatti la qualità di indagato si acquista per effetto della mera iscrizione da parte del P.M. nel registro di cui all’art. 335 cpp.

    Ma tale iscrizione, contrariamente all’assunzione della qualità di imputato, potrebbe restare sconosciuta a tutti, compreso il diretto interessato, ed anzi, a rigore, dovrebbe rimanerlo, salvo il caso del compimento di determinati atti di indagine.

    A seguito della riforma introdotta ex lege 332/95 è oggi possibile acquisire notizia di iscrizioni ostensibili, ma la circostanza non muta il quadro complessivo, connotato da tendenziale segretezza, tale da rendere molto spesso non concretamente invocabile la causa di incompatibilità.

    Si comprende dunque che il legislatore avesse fatto riferimento alla qualità di imputato senza estensioni.

    Ma nella stessa direzione milita non meno incisivamente l’ulteriore rilievo che l’iscrizione potrebbe dipendere da scelte arbitrarie dell’A.G. competente, in ipotesi non sorrette neppure da minimi indizi: si pensi ad es. al caso di morte dovuta ad intervento chirurgico, a seguito della quale vengano indiscriminatamente iscritti nel registro degli indagati tutti coloro che abbiano partecipato all’operazione nelle varie vesti.

    Anche nell’ipotesi di rapida archiviazione a favore della gran parte degli iscritti, dovrebbe a rigore permanere una causa di incompatibilità alla testimonianza, all’evidenza ingiustificata ed anzi dannosa.

    Sta di fatto che la Corte Costituzionale con sentenza n. 108/92, pronunciandosi in un caso in cui veniva dedotta la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 197 lett. a) cpp, ha ritenuto che l’incompatibilità si estenda anche ai meri indagati, stante il disposto dell’art. 61 cpp, ed ha inoltre affermato che la causa di incompatibilità permane, in caso di reati connessi, anche dopo il provvedimento di archiviazione, ciò desumendosi dal fatto che l’art. 197 lett. a) cpp espressamente prevede quella permanenza anche nella fase successiva alla perdita della qualità di imputato, escludendola nel solo caso di proscioglimento pronunciato con sentenza irrevocabile.

    La Suprema Corte si è successivamente conformata a tale orientamento (Cass. VI, 11-4-1994, Curatola) che ha espressamente ravvisato l’incompatibilità nei confronti dell’indagato per reato connesso anche nell’ipotesi di intervenuta archiviazione.

    Ma nessuna pronuncia ha mai esaminato il caso dell’incompatibilità di cui all’art. 197 lett. b) cpp, ipotesi non considerata neppure dalla Corte Costituzionale, occupatasi della sola lett. a).

    E’ bene chiarire che, date le premesse giuridiche della citata sentenza n. 108/92, non sembra possibile escludere l’incompatibilità, anche con riguardo alla lettera b), nell’ipotesi di mera sottoposizione ad indagini, ciò in virtù dell’art. 61 cpp, cui è stata riconosciuta valenza di carattere generale anche ai fini de quibus.

    Restano tuttavia le perplessità di fondo su un’indiscriminata estensione dell’incompatibilità, perplessità che potrebbero tradursi in un vizio di illegittimità costituzionale per irragionevolezza della disciplina, a fronte dell’indubbia incidenza che l’incompatibilità può avere sulla ricerca della prova e della verità, nell’ipotesi in cui essa fosse ingiustificatamente estesa oltre i limiti suoi propri e sulla base di scelte demandate al solo P.M.

    In altre parole non sembra che possa essere eluso il problema di attribuire all’incompatibilità di cui all’art. 197 cpp un significato restrittivo, per lo meno quando esso sia consentito dal sistema e dal tenore letterale delle norme.

    Ed allora deve osservarsi che, con riferimento all’ipotesi del collegamento probatorio, l’art. 197 lett. b) cpp non riproduce esattamente il disposto della lett. a), in quanto fa riferimento solo all’imputato, omettendo di considerare altresì l’ipotesi del proscioglimento o della condanna definitivi.

    Ciò significa che la norma non offre quell’appiglio, invocato anche dalla Corte Costituzionale, per giungere ad affermare che non è necessaria l’attualità della qualità di imputato (o di indagato).

    Al contrario, la circostanza che una siffatta clausola non sia stata riprodotta induce ad ritenere che il legislatore, almeno in questo caso, abbia inteso escludere l’incompatibilità, ogni qual volta la qualità di imputato sia stata perduta, il che avviene nelle ipotesi di cui all’art. 60 cpv cpp (sentenza definitiva di proscioglimento o di condanna, sentenza non impugnabile di non luogo a procedere, decreto penale di condanna esecutivo).

    Si è però da taluno sostenuto che la mancata riproduzione nella lett. b) di quanto disposto nella lett. a) sia dovuto a mera imprecisione della norma. Ciò deve in realtà escludersi.

    A tal fine deve considerarsi che in caso di incompatibilità il dichiarante potrebbe essere escusso solo con le forme di cui all’art. 210 cpp. Ebbene, l’art. 210 cpp, nel primo comma, prescindendo ora dalle interpolazioni introdotte dalla sentenza n. 361/98 della Corte Costituzionale, fa riferimento all’ipotesi di persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 cpp, "nei confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente": non v’è dubbio che la formulazione sia coerente con l’art. 197 lett. a) cpp, che prende in considerazione anche il caso di persone ormai giudicate, nei confronti delle quali dunque "si è proceduto".

    Per contro l’art. 210 cpp all’ultimo comma estende la medesima disciplina "sic et simpliciter" alle persone imputate di reato collegato: l’assenza di ulteriori specificazioni è parimenti conforme al disposto dell’art. 197 lett. b), giacché, escludendosi qualsiasi riferimento a coloro nei confronti dei quali si è già proceduto, si finisce per sottolineare che deve trattarsi di persone che "in atto" rivestano la qualità di imputati (o di indagati).

    Ed allora la conclusione da trarre è che nel caso di cui alla lett. b) dell’art. 197 l’incompatibilità non sussiste, allorché la qualità di imputato o di indagato sia venuta meno.

    Avalla tale conclusione il fatto che mai un procedimento nei loro confronti potrebbe riaprirsi, stante l’intervenuta definitività della condanna. Né rileva, come contrariamente asserito da talune difese, che è sempre possibile, in caso di definitività della sentenza, un processo per revisione atteso che la ratio della norma è quello di tutelare il dichiarante da dichiarazioni pregiudizievoli per se stesso per cui un eventuale processo per revisione può essere solo più favorevole al richiedente e mai ad esso pregiudizievole).

    Quanto detto esclude che si possa accedere alla tesi, pur prospettata dalla difesa di Claudio Vitalone della non utilizzabilità delle dichiarazioni rese da Fabiola Moretti sia come teste che come imputata di procedimento collegato probatoriamente (ma identiche considerazioni possono farsi anche per il teste Buscetta).

  7. Utilizzabilità delle deposizioni degli imputati in procedimento connesso o collegato probatoriamente che si sono avvalsi della facoltà di non rispondere i quali, richiamati ai sensi dell'art. 6 L. 97/267, si sono avvalsi nuovamente della facoltà di non rispondere. Le loro dichiarazioni sono state di conseguenza acquisite legittimamente al dibattimento perché di esse è stata data lettura ai sensi dell’art. 513 cpp. Il riferimento è agli imputati in procedimento connesso Carlo Adriano Testi, Donato Lo Prete e Walter Bonino.
  8. Al riguardo si osserva che nel corso del dibattimento è intervenuta, ai sensi della L.97/267, la modifica dell’art. 513 cpp relativo alle letture delle dichiarazioni rese da imputato in procedimento connesso o collegato probatoriamente; norma a sua volta dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale che ne ha, con sentenza interpretativa, modificato il senso ed il contenuto (di ciò peraltro non è il caso di occuparsi essendo irrilevante per il caso di specie non avendo la corte costituzionale dichiarato la illegittimità dell’art. 6 della citata L 97/267 quando la fattispecie ivi disciplinata si fosse già completata con il richiamo del imputato in procedimento connesso o collegato probatoriamente.

    Orbene, nel caso di specie, la disciplina transitoria, in questo processo era già stata completata per cui nella valutazione della prova va applicata la disciplina indicata nello stesso articolo 6 L. 97/267 che stabilisce che le dichiarazioni rese in precedenza possono essere valutate come prova dei fatti in essi affermati, solo se la loro attendibilità sia confermata da altri elementi di prova, non desunti da dichiarazioni rese al PM o alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nella udienza preliminare di cui sia stata data lettura ai sensi dell’art. 513 cpp nel testo vigente prima della entrata in vigore della L. 97/267.

    La disciplina applicabile al caso concreto, quindi, esclude che tali dichiarazioni possano essere utilizzate se confermate solo da dichiarazioni rese da altri imputati in processo connesso o collegato che si siano avvalsi della facoltà di non rispondere e le loro dichiarazioni siano state acquisite al fascicolo del dibattimento. Così inteso il senso e la ratio della norma essa appare più favorevole agli imputati nel caso in cui le stesse persone, richiamate in ossequio alla disciplina dettata dalla Corte Costituzionale con il suo intervento interpretativo, perché in questo ultimo caso se la persona richiamata si avvale nuovamente della facoltà di non rispondere le sue dichiarazioni contestate possono essere confermate da dichiarazioni di altre persone che a loro volta richiamate si sono avvalse della facoltà di non rispondere senza la limitazione stabilita all’art. 6 L. 97/267.

  9. Il criterio di valutazione delle notizie circolanti nell’ambito della stessa organizzazione criminale.
  10. Al riguardo si osserva (cass. Sez. 1 n. 11969 del94/10/11, Capriati) che il divieto di testimonianza, con la sua conseguente inutilizzabilità delle voci correnti tra il pubblico, indicata nell’art. 194 cpp comma terzo non è applicabile alle notizie circoscritte ad una cerchia ben determinata ed individuabile di persone come gli appartenenti ad una associazione a delinquere; ciò vale in particolare per gli appartenenti alla banda della Magliana i quali, come si evince dalla sentenza emessa dalla Corte di assise di Roma nei confronti dei suoi membri (sentenza che sulla esistenza della associazione a delinquere è oramai definitiva vertendo il rinvio operato dalla Corte di Cassazione solo sulla qualifica del sodalizio criminoso come associazione di stampo mafioso e non sulla esistenza della associazione a delinquere).

  11. Utilizzabilità degli atti per la decisione.
  12. Sul punto si osserva che con la entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, nel nostro ordinamento è stato introdotto una nuova sanzione che può colpire l’atto giudiziario: la sua inutilizzabilità. Ciò significa che l'atto non affetto da nullità o da annullabilità, non affetto da alcuna irregolarità è pur tuttavia entrato non legittimamente a fare parte del fascicolo del dibattimento.

    Si tratta di sanzione meno grave della nullità perché non ha alcun effetto sulla validità dell’atto compiuto e non ha conseguenze sul regolare svolgimento del dibattimento influendo essa solo sulla decisione in quanto degli atti inutilizzabili non può tenersi alcun conto ai fini della decisione. Recita in tal senso l’art. 526 cpp che impone al giudice di deliberare solo sulla base di prove legittimamente acquisite al dibattimento ai sensi dell’art 191 cpp. anche se la violazione della norma nella acquisizione della prova non sia sanzionata in alcun modo.

    D’altro canto tale sanzione può avere effetti rilevantissimi nel processo perché la inutilizzabilità della prova (che può essere parziale o totale) può essere rilevata in ogni stato e grado del giudizio anche di ufficio (art. 191 comma 2 cpp). Consegue da ciò che una valutazione della prova assunta nel corso del dibattimento ai fini della dichiarazione di inutilizzabilità, totale o parziale, può essere fatta dalla corte in camera di consiglio e fondare la sua decisione non su tutte le prove assunte, ma solo su quelle ritenute legittimamente acquisite indipendentemente dalla dichiarazione di utilizzabilità fatta al termine del dibattimento.

    In tal senso ritiene la corte che non può tenersi conto, perché viziate da inutilizzabilità, del contenuto delle testimonianze di alcuni ufficiali o agenti di polizia giudiziaria che hanno riferito del contenuto di circostanze apprese da persone che in quel momento rivestivano la qualità di imputato ovvero del contenuto dei colloqui investigativi stante il divieto legislativo in tal senso o ancora delle informative contenute negli atti pervenuti da organi dei servizi segreti che non hanno avuto una specifica conferma salvo il loro valore come prova della loro materiale esistenza o ancora dei rapporti giudiziari e delle testimoniante rese in istruttoria (secondo la disciplina del vecchio codice di procedura penale) che non possono transitare in questo dibattimento se non nelle forme previste dal nuovo codice di procedura penale. Di altri atti sarà poi fatta specifica menzione di inutilizzabilità nel corso della esposizione.

  13. Il valore probatorio delle intercettazioni telefoniche e ambientali.

Nel corso delle indagini preliminari sono state disposte numerose intercettazioni telefoniche ed ambientali a carico di una pluralità di soggetti.

Orbene, se non vi sono dubbi che tali intercettazioni costituiscono mezzo per la ricerca della prova, è altrettanto indubbio che il contenuto delle intercettazioni, trascritto nelle forme di legge, costituisce materiale probatorio che, mettendo in relazione in modo immediato e diretto la persona che parla con le affermazioni da lei fatte, può essere messo a fondamento della decisione del giudice in uno con gli altri elementi probatori raccolti nel corso del giudizio.

Il contenuto delle conversazioni intercettate costituisce, quindi, a giudizio della Corte di Assise, prova autonoma dei fatti ivi registrati.

Tali elementi, poi, trattandosi nel caso di specie, anche di conversazioni intercettate a persone imputate di reato connesso assumono anche il connotato di riscontro esterno alle dichiarazioni rese alla autorità giudiziaria.

Perché ciò accada è necessario, però, che:

È necessario che venga data una interpretazione del linguaggio usato nelle conversazioni intercettate non potendosi basare esclusivamente sul tenore letterario delle frasi registrate e prescindere dal contesto dell’intero discorso. Proprio in aderenza a questo principio ritiene la corte che alle conversazioni intercettate sia applicabile il criterio della scindibilità della valutazione della prova, applicato massimamente per la prova testimoniale, per cui può ritenersi provata solo una delle circostanze emergenti dalla conversazione intercettata e nel contempo disattenderne altre.

Questi sono i criteri che la corte seguirà nell’esame del caso sottoposto al suo vaglio.

 

CAPITOLO 05)

LA DINAMICA DELL’OMICIDIO

La sera del 20.3.1979 nella sua auto, parcheggiata in via Orazio alcuni colpi di pistola tolgono la vita al giornalista Carmine Pecorelli.

Gli elementi probatori acquisiti al dibattimento per la ricostruzione dell’evento sono:

Lungo via Orazio, sulla destra per chi la percorre secondo il suo senso unico di marcia, all'altezza del civico 10/F, in corrispondenza di un fabbricato completamente occupato dall'Ufficio del registro - le cui stanze a piano terra sono protette da una inferriata - era stata rinvenuta l'auto tg. ROMA R 08195, posta trasversalmente alla sede stradale e sul marciapiede, che con la parte posteriore toccava la saracinesca di protezione del civico 10/F, e che presentava tracce di urto contro detta saracinesca.

Sul marciapiede, prima della fiancata sinistra dell'auto erano stati trovati quattro bossoli di pistola cal 7,65; di essi due erano di marca G.L.F. E due GEVELOT.

L'auto, di colore verde, si presentava con i fari anteriori e posteriori accesi e con la luce direzionale intermittente di destra in funzione. Le sue ruote anteriori poggianti sulla strada accanto al marciapiede, erano rivolte verso la destra. I due sportelli anteriori erano aperti ed i vetri alzati. Il cristallo dello sportello anteriore sinistro si presentava squamato e con una rottura a forma irregolare con margini frastagliati nella porzione mediana e con andamento trasversale rispetto allo sportello.

La rottura presentava, nei limiti più estremi, una lunghezza di cm 52 e una altezza di cm 15 e sul bordo superiore un contorno a semicerchio del diametro di cm 1 contornato da una raggiera fitta con le venature del cristallo protese verso l'alto.

Sul marciapiede antistante lo sportello dell'auto erano sparsi frammenti di vetro appartenenti al cristallo frantumato.

Nella parte posteriore, in corrispondenza del fanale posteriore sinistro, e sul paraurti sinistro vi era una lieve ammaccatura prodotta dall'urto della vettura contro la saracinesca.

All'interno dell'auto giaceva il corpo di Carmine Pecorelli che poggiava con il torace sul sedile anteriore destro e con le gambe stese e unite tra il sedile ed il pianale sinistro.

Il corpo era disteso nella quasi totalità e leggermente obliquo rispetto all'asse trasversale della autovettura mentre i piedi erano bloccati contro la parete anteriore sinistra del vano guida alla quale rivolgevano la pianta.

Il corpo poggiava con la fronte sulla cornice interna e sulla guarnizione in gomma del sotto porta dello sportello anteriore destro in parte sporco di sangue.

L'arto superiore destro era piegato sotto il torace mentre il sinistro era addotto al corpo e leggermente piegato.

Sotto il torace, sul sedile anteriore destro, vi erano alcuni quotidiani "Paese Sera" in parte sporchi di sangue.

Sul marciapiede, appena sotto l'autovettura, in corrispondenza della testa del cadavere, vi era la dentiera accanto alla quale vi erano piccole macchie di sangue e frammenti di denti.

Il cadavere aveva ancora occhiali da vista.

- una soluzione di continuo nella parte posteriore della giacca a cm 10 dal margine inferiore, immediatamente a destra della cucitura mediana del diametro di circa mm 5;

- altra soluzione di continuo immediatamente alla sinistra della cucitura mediana del diametro di circa mm 8 e a quota dal margine inferiore di cm 34;

- altra soluzione di continuo in corrispondenza della cucitura laterale sinistra a quota cm 41 dal margine inferiore;

- nella parte posteriore dei calzoni a cm 3 circa a destra della cucitura mediana posteriore una soluzione di continuo del diametro di circa mm 6;

- In corrispondenza dell'emilabro superiore sinistro veniva notata una soluzione di continuo di forma allungata con asse maggiore di cm 1,5 e l'altro di cm 0,8 contornato da orletto ecmotico escoriato con margine regolare prodotto da colpo da arma da fuoco in entrata.

Infine un quarto foro di entrata di colpo sparato da arma da fuoco veniva repertato nella regione toracica laterale sinistra.

L'esame radiologico aveva posto in evidenza:

- presenza nel cavo orale di corpo estraneo radiopaco riferibile a proiettile di arma da fuoco;

- fratture della terza, quarta e quinta costola di sinistra.

- intaccatura del margine superiore della scapola di sinistra.

- presenza nell'addome di un corpo estraneo radiopaco riferibile a proiettile di arma da fuoco a livello della apofisi spinosa della quinta vertebra lombare in posizione lievemente spostata verso sinistra.

L'esame esterno del cadavere aveva posto in evidenza, per quello che qui interessa:

- in corrispondenza dell'emilabro superiore sinistro, a cm 1 dal margine superiore dello stesso e a cm 1,5 dalla commissura labiale una soluzione di continuo di forma ellittica con asse maggiore di mm 15, quasi parallelo all'asse longitudinale del corpo, e asse minore di mm 8 circondato da un orletto ecchimotico; in corrispondenza della soluzione si diparte un tramite che si approfonda in cavità….

- nella regione zigomatica sinistra piccole soluzioni di continuo nelle quali sono infissi piccoli cristalli a consistenza vetrosa e trasparente.

- analoghe soluzioni di continuo con presenza dei piccoli cristalli vi sono nella regione mentoniera sinistra.

- frattura delle ossa proprie del naso con lesione lacero contusa a carico del terzo superiore del naso prevalentemente a sinistra.

- nella faccia posteriore dell'emitorace sinistro, a cm 9 dalla plica ascellare, a cm 17,5 dalla spina vertebrale e a cm 130 dal piano calcaneare sinistro, soluzione di continuo di forma lievemente ovale con asse maggiore di mm 9 contornato da orletto ecchimotico-escoriato a cui faceva seguito un tramite che si approfondiva in cavità.

- sempre nella stessa zona altra soluzione di continuità con analoga struttura, sita a cm 10 inferiormente all'angolo scapolare, a cm 11 dalla apofisi spinosa della 12ø vertebra dorsale e a cm 121 dal piano calcaneare.

- in regione sacrale destra, immediatamente a destra della linea mediana, a cm 95 dal piano calcaneare altra soluzione di continuo con le stesse caratteristiche prima descritte.

L'esame autoptico aveva posto in evidenza per quello che qui interessa:

- sul margine infero-laterale sinistro della lingua, immediatamente a lato della punta, una soluzione di continuo cui fa seguito un tramite al cui fondo viene repertato un proiettile da arma da fuoco a cm 159 dal piano calcaneare.

- frattura della 3ø, 4ø e 5ø costola sinistra sulla emiclaveare, intaccatura del margine superiore della scapola di sinistra;

- emotorace sinistro con soluzione del pericardio.

- due soluzioni di continuità… nella parete anteriore del cuore che rappresentano una il foro di entrata e uno il foro di uscita di un proiettile di arma da fuoco con andamento dal basso verso l'alto, da sinistra a destra e lievemente postero-anteriore.

- polmone sinistro collassato con due soluzioni di continuo in contiguità tra loro di cui quella inferiore è verosimilmente riferibile al foro di entrata e quella superiore al foro di uscita di un proiettile da arma da fuoco; polmone destro espanso per enfisema vicariante.

- nello spessore delle parti molli dell'emitorace di sinistra , parte alta, vengono repertati due proiettili da arma da fuoco; uno a livello del piano di proiezione anteriore del margine superiore della scapola di sinistra a cm 143 dal piano calcaneare e l'altro a livello della 5ø costola di sinistra, sulla parasternale sinistra a cm 137 dal piano calcaneare.

- a sinistra della apofisi spinosa della 5ø vertebra lombare viene repertato un proiettile da arma da fuoco.

Sulla base dei dati su indicati i periti ritenevano che la causa della morte di Pecorelli, avvenuta intorno alle ore 20 del 19/3/1979, era da attribuire alla lacerazione di organi interni - cuore e polmoni - con conseguente emorragia interna e anemia generalizzata prodotte da proiettili di arma da fuoco che avevano attinto Pecorelli in varie parti del corpo e che erano stati repertati al fondo del loro tragitto all'esito dell'esame necroscopico.

Gli elementi utili per la individuazione del mezzo che aveva causato la morte del Pecorelli era costituita da:

- quattro bossoli con capsula percossa, ritrovati sul luogo dell'omicidio.

- 4 proiettili estratti dal corpo di Pecorelli durante la perizia necroscopica.

L'esame dei bossoli aveva evidenziato:

- i bossoli repertati sul luogo dell'omicidio erano risultati essere due recanti sul fondo il marchio "+GEVELOT+ 7,65" provenienti da cartucce calibro 7,65 Browning/.32 Auto fabbricate dalla ditta francese Gevelot S.A., 50 Rue Ampere e due recanti il marchio "G.F.L. 7,65 mm" provenienti da cartucce calibro 7,65 Browning/.32 Auto fabbricate dalla ditta Giulio Fiocchi di Lecco Italia.

- i quattro proiettili potevano essere esplosi da una pistola semiautomatica o automatica avente cameratura specifica per il calibro 7,65 Browning/32 Auto.

- i bossoli marca "GEVELOT" avevano caratteristiche anche metallurgiche di identità perfetta.

- i due bossoli marca Fiocchi sono simili a quelli Gevelot ma si differenziano per la struttura micrometallografica, ma sono identici tra di loro presentando un piccolo difetto di impronta di punzonatura delle lettere G e L.

Essi non erano molto comuni.

- i bossoli marca "G.F.L. erano parte di un lotto fabbricato dopo il 1976 e facevano parte di lotti di fabbricazione per l'interno.

- tutti i bossoli erano stati espulsi dalla stessa pistola per le caratteristiche comuni riscontrate su di essi.

L'esame dei proiettili aveva evidenziato:

- il proiettile estratto dalla lingua di Pecorelli era della marca "G.F.L." e la sua comparazione con materiale di sicura origine indicava per la sua struttura merceologica e quantitativa che era stato esploso da una cartuccia calibro 7,65 Browning/.32 Auto. Si presentava deformato con inglobati dei microcristalli di consistenza vetrosa con indice di rifrazione identico a quello dei cristalli di auto Citroen.

La deformazione era attribuibile all'impatto primario contro il cristallo della portiera anteriore sinistra dell'auto di Pecorelli.

- Anche il proiettile estratto dal torace ( quello più in basso ) era un proiettile marca "G.F.L." ed aveva le stesse caratteristiche individuate per il primo proiettile.

- in sede sacrale ed in sede pettorale alta i due proiettili erano merceologicamente diversi e erano riconducibili a cartucce marca "GEVELOT" di fabbricazione recente. Anche tali proiettili avevano inglobati microcristalli del vetro Citroen.

- tutti i proiettili, per le caratteristiche riscontrate, erano stati sparati dalla stessa arma munita di silenziatore posto oltre il vivo di volata.

- l'arma che aveva esploso i colpi era una pistola automatica o semiautomatica corta calibro 7,65 e non anche una pistola che per tolleranza di cameratura può sparare proiettili dello stesso calibro; conclusione a cui si perveniva dall'esame delle caratteristiche riscontrate sia sui bossoli che sui proiettili a meno che non fosse provato che la canna era stata sostituita.

- sulla base dell'esame di tutti i modelli di pistola aventi caratteristiche riscontrate sui bossoli e sui proiettili il modello della pistola che aveva esploso i colpi erano solo sette e precisamente : l'astra 300, frommer mod 37, M.A.B. modelle "D", Llama mod X o Franchi Llama 7.65/.32, H&K mod. 4, Mauser mod 1914 e mod HSc, Savage mod 1907,1915,1917, Erma mod KGP 68.

- L'uso di un silenziatore, la morfologia della superficie della testa dell'espulsore, la cameratura perfetta e ben rettificata, la percussione sferica, l'andamento delle fresature di rettifica, la formazione della rigatura di tipo moderno a forgiamento riducevano il tipo di arma impiegato per gli spari ai seguenti modelli: MAB mod "D", Astra 300 e Erma KGP 68. Modelli che permettevano la filettatura della canna - se usata quella originale - per l’applicazione del silenziatore.

- i primi due colpi sparati erano quelli con proiettili marca "G.F.L." ed avevano attinto Carmine Pecorelli al labbro e alla schiena mentre i successivi due proiettili marca "GEVELOT" avevano attinto Carmine Pecorelli alla schiena e alla regione sacrolombare. Tutti avevano impattato il vetro della Citroen.

- l'individuazione del modello di arma usato non escludeva che fosse stata usata altra arma assemblata con canna non di fabbrica.

- i colpi erano stati sparati da una distanza ravvicinata e comunque non superiore a m 1/1,5 dal vetro della Citroen ( altrimenti un colpo non avrebbe potuto attingere Pecorelli nella schiena quando era oramai riverso sul sedile anteriore destro ).

L’esame dei periti che avevano eseguito la perizia balistica/necroscopica aggiungevano altri particolari e cioè che:

Sulla base di tali elementi rileva la Corte che non è possibile allo stato, né ulteriori indagini potrebbero supplire alla carenza probatoria, stabilire esattamente la dinamica dei fatti perché la posizione del corpo, come constatata al momento dell’arrivo dei tecnici per la rilevazione dei dati obbiettivi, non era sicuramente quella risultante al momento dell’evento per essere stati spostati da Franca Mangiavacca i bossoli dei proiettili, per essere stato spostato il corpo della vittima, per essere state aperte le portiere e il cassetto del vano porta oggetti.

E’ tuttavia possibile affermare con certezza, e queste sono le considerazioni più importanti, che la sera del 20.3.1979 aveva sparato una sola pistola calibro 7,65 munita di silenziatore che era stata caricata con proiettili misti marca Gevelot e marca Fiocchi.

La sequenza degli spari, tutti effettuati attraverso il cristallo della portiera anteriore sinistra, come rettamente posto in luce dai periti Ugolini e Calabresi per la presenza di microcristalli di vetro sui proiettili estratti dal corpo di Pecorelli, indicava che il corpo è stato attinto per primo al volto con un proiettili Fiocchi, successivamente al torace da un altro proiettile Fiocchi e da un proiettile Gevelot e alla schiena dal secondo proiettile Gevelot.

Il tramite dei fori indica anche che mentre il primo proiettile è stato esploso quando Pecorelli era in posizione eretta, gli altri sono stati esplosi quando Pecorelli era quanto meno girato verso il lato destro se non addirittura piegato. Ciò non contrasta con quanto riferito dai testi Franca Mangiavacca, Paolo Patrizi e Ciro Formuso perché, come hanno posto in evidenza i periti, la morte non è stata istantanea e Carmine Pecorelli può essersi rialzato dopo essere stato colpito.

La circostanza che i colpi sono stati sparati da una sola pistola dà anche conferma alla affermazione di Mangiavacca di avere visto una sola persona vicina alla vettura quando era transitata la prima volta all’incrocio di via Orazio.

La impossibilità di ricostruire esattamente la dinamica dell’omicidio non esclude che venga sgombrato il campo da alcune considerazioni che hanno fatto aleggiare ipotesi misteriose sul processo. Il riferimento è alla presenza di una auto alfa Romeo nei pressi della redazione di OP, ai movimenti di Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi dal momento della scoperta del cadavere all’arrivo dei carabinieri, alla presenza dello stesso Ciro Formuso sul luogo del delitto, alle modalità di ingresso nella sede di OP, alla presenza di persone misteriose nella stessa sede diverse dagli ufficiali di polizia giudiziaria e dai pubblici ministeri, alle modalità di apertura della cassaforte esistente nella sede di OP, ad un ruolo di Claudio Vitalone la sera del delitto.

Ritiene la corte che si tratta di mere ipotesi che non hanno trovato conferma sul piano processuale o che sono state smentite dalle risultanze emerse a dibattimento.

Un elemento comune per le varie ipotesi prospettate è dato dal lasso di tempo trascorso dal fatto che sicuramente ha sbiadito i ricordi e dal clamore che l’omicidio ha creato (se ne è parlato spesso sulla stampa e sui mass media in generale) per cui può esserci stata una sovrapposizione o una trasposizione di ricordi che può avere generato errori nei ricordi.

Ciò detto, si osserva.

Sul punto le fonti di prova, complessivamente valutate, permettono di affermare, anche se sulla base di ricordi a volte confusi, che la sera del 20.3.1979 a casa di Maria Di Bernardo (meglio nota come Maria Palma dal nome del marito) vi era stata una cena a cui avevano partecipato Domenico Sica, Walter Bonino, Claudio Vitalone, Antonio Varisco, Giovanni De Matteo con le rispettive consorti.

La circostanza è ricordata da Walter Bonino, da Maria Di Bernardo, da Giovanni De Matteo, da Domenico Sica e da Pia Lastaria e indirettamente è confermata, anche se relativamente al solo Antonio Varisco, da Cristina Nosella che in quel periodo aveva una relazione sentimentale con questo ultimo.

E’ stato sostenuto che l’occasione in cui si sarebbe verificata la cena con la presenza contemporanea di Sica, De Matteo e Claudio Vitalone a casa di Maria Di Bernardo non è quella della uccisione di Pecorelli, ma quella del 23.1.1979 in cui dai predetti tre PM era stato effettuato di un sopralluogo a Ornano, dove si sospettava che vi fosse un covo di terroristi. La circostanza del sopralluogo è vera, ma non si identifica con la cena tenutasi a casa di Maria Di Bernardo la sera dell’omicidio di Pecorelli. Depongono in tal senso la testimonianza di Sica, il quale ricorda esattamente che in una sola occasione in cui era ospite di Di Bernardo ha interrotto la cena ed è pacifico che Sica è intervenuto sul luogo del delitto a seguito della chiamata effettuata dall’allora tenente Alfieri che si era recato a casa di Maria Di Bernardo a prelevarlo, e di Pia Lastaria la quale, anche se a contestazione, ha confermato quanto dichiarato nelle indagini preliminari e cioè che a Ornano erano andati suo marito, Sica e Claudio Vitalone e che suo marito era ritornato a casa di Maria Di Bernardo dopo il sopralluogo mentre nel caso dell’uccisione di Pecorelli suo marito era stato dissuaso dall’andare sul luogo dell’omicidio dai sostituti Sica e Vitalone. In tal senso si spiega anche l’affermazione di Sica di avere avuto delega orale a trattare il caso, delega regolarizzata successivamente alla formazione del fascicolo di ufficio.

Né la partecipazione a tale cena di De Matteo e della moglie, basata quanto al primo sulla mancata annotazione dell’evento sulla sua agenda e quanto alla seconda sulla mancanza di ricordi perché è lo stesso De Matteo che ammette che non tutto ciò che gli accadeva era segnato sull’agenda mentre la seconda ha, a contestazione, confermato quanto dichiarato nelle indagini preliminari e cioè di essere stata presente a quella cena.

Ma la presenza di Claudio Vitalone a casa di Maria Di Bernardo la sera dell’omicidio Pecorelli non significa nulla atteso che non vi è prova di una qualsiasi attività da parte di quest’ultimo quella sera.

Né incide sulla valutazione del dato processuale il fatto, asserito da Maria Di Bernardo che quella sera era pervenuta una telefonata per Claudio Vitalone con cui si annunziava la morte di Pecorelli. Invero dalla deposizione del tenente Alfieri si ha la prova che egli aveva parlato con Sica, da lui cercato su espressa indicazione del suo comandante Cornacchia, prima nella sua abitazione e poi a casa di Maria Di Bernardo.

Circostanza questa confermata dalla deposizione di Walter Bonino da cui si evince che la telefonata che comunicava la morte di Carmine Pecorelli era arrivata a Sica mentre stavano per andare a tavola e fu da questi detta perché doveva andare via con Varisco. E’ ben vero che potrebbero essere giunte a casa Di Bernardo due telefonate, ma di ciò non vi è prova alcuna (la stessa Di Bernardo parla di una sola telefonata) e l’affermazione di Maria Di Bernardo di una telefona da lei presa dal centralinista e diretta a Vitalone, il quale subito dopo le avrebbe detto che Pecorelli era un poco di buono, può essere anche frutto di una sovrapposizione di ricordi (non va dimenticato che le cene di Claudio Vitalone a casa di maria Di Bernardo non erano un evento raro) risultando sulla base di una altra informazione data da Walter Bonino e cioè che subito dopo che era stata comunicata la morte di Pecorelli, Maria Di Bernardo si era appartata in una stanza e al ritorno aveva detto che Carmine Pecorelli non era uno stinco di santo, ma non sa dire da chi avesse appreso la notizia.

Questa ultima affermazione se da un lato conferma indirettamente quanto detto da Maria Di Bernardo, e cioè di avere appreso da Claudio Vitalone le qualità morali di Carmine Pecorelli non conferma anche l’arrivo di una seconda telefonata annunziante la morte di Pecorelli.

Conseguentemente l’affermazione di una repentina uscita di Vitalone insieme a Sica e Varisco, non ricordata da nessuno dei presenti se non dalla sola Di Bernardo (Bonino ricorda in effetti, pur non avendo motivo di dubitare di quanto affermato da Di Bernardo, che ad andare via erano stati i soli Varisco e Sica e non anche Vitalone), non può ricollegarsi che alla stessa occasione, diversa da quella della sera dell’omicidio Pecorelli, in cui effettivamente era stato richiesto l’intervento di Vitalone il quale aveva dovuto abbandonare la cena.

 

 

CAPITOLO 06)

CARMINE PECORELLI E LA SUA ATTIVITA’

La morte violenta di una persona, a meno che l’uccisione non sia frutto di un raptus improvviso o di una malattia mentale, trova la sua ragione d’essere in motivazioni profonde che sono inscindibilmente legati alla persona dell’ucciso. Necessariamente quindi per individuare i suoi assassini deve analizzarsi la personalità di Carmine Pecorelli nella molteplicità dei suoi rapporti interpersonali, siano essi di natura privata o collegati alla sua attività nelle varie forme in cui essa si è manifestata.

Solo comprendendo la sua personalità è possibile trovare la causa della sua uccisione.

E’ necessario, quindi, analizzare, anche se brevemente, la personalità e la attività di Carmine Pecorelli per capire la causa della sua morte.

Le fonti di prova sul punto permettono di affermare che Carmine Pecorelli ha partecipato con fervore alla vita sociale e politica del paese. Egli, infatti, alla giovane età di sedici anni si è arruolato volontario per combattere la seconda guerra mondiale a fianco degli alleati e contro i tedeschi, successivamente, benché svolgesse la professione forense come avvocato civilista, con specializzazione in diritto fallimentare, ha sentito il bisogno di un maggiore impegno nella vita politica e, lasciata la professione forense, si è dedicato alla attività giornalistica fondando, con un intermezzo durante il quale egli è stato portavoce del ministro Sullo, l’agenzia di stampa OP che nel marzo 1978 si è trasformata in rivista settimanale. Della sua partecipazione alla vita sociale e politica ne è esempio il giudizio che di lui ha dato nel corso del processo l’avvocato Sebastiani che, nel riferire delle minacce subite da Pecorelli (sul punto si tornerà tra breve), espressamente dichiara: "era un uomo, per me era un coraggioso votato a tutto, tant’è che nei processi per diffamazione a mezzo stampa nessun giornalista ha affrontato il dibattimento perché nessuno poteva dimostrare che era un ricattatore"

Il giudizio espresso da Sebastiani porta all’esame della attività di Carmine Pecorelli.

Al riguardo si osserva che Pecorelli era un vero giornalista.

Infatti compito principale del giornalista è quello di cercare, conoscere e pubblicare notizie di interesse pubblico.

Orbene non vi è dubbio che Pecorelli aveva rapporti con gli ambienti più disparati come quello dei servizi segreti, quello della politica, della magistratura, delle forze armate, dei carabinieri e della polizia.

Sul punto è sufficiente indicare, a modo di esempio, i generali Miceli, Falde e Maletti del servizio segreto (SID), i politici Evangelisti, Bisaglia, Piccoli, Colombo, Danesi, Carenini, De Cataldo, il comandante dei carabinieri generale Mino, Federico Umberto D’Amato "dell’ufficio D affari riservati del ministero degli interni", i magistrati D’Anna, Alibrandi, Infelisi (vedi su questo ultimo nome Nosella e Patrizi -malgrado la smentita dell’interessato-), Testi, gli industriali e/o affaristi Walter Bonino e Flavio Carboni, e inoltre Tommaso Addario dell’Italcasse, Ezio Radaelli impresario degli spettacoli, l’avv. Gregori, gli alti ufficiali dei carabinieri Antonio Varisco e Carlo Alberto Dalla Chiesa (sul punto si ritornerà).

Rapporti personali che gli permettevano non solo di conoscere notizie riservate che si rivelavano importanti e vere, ma anche di entrare in possesso, ed in esclusiva, di documenti scottanti e importanti inerenti vicende di grande interesse pubblico. Basta controllare, al riguardo, gli articoli di OP sul contenuto del dossier Mi.fo.biali, quelli sull’Italcasse, sui fratelli Caltagirone e su Nino Rovelli della Sir estratti dalla relazione della Banca d’Italia sulla ispezione a detto istituto bancario, la pubblicazione delle lettere, con autentica in copia conforme, spedite dall’onorevole Aldo Moro durante il suo sequestro nonché di altri documenti con apposta la sigla "Riservato" o "segreto".

Del valore giornalistico di Pecorelli e dell’importanza della sua pubblicazione, anche se in ambito ristretto degli addetti ai lavori, è ancora il giornalista Cantore che ne dà testimonianza allorché afferma che OP era una fonte importante per tutti i giovani che iniziavano la carriera di cronista e di giornalista perché da quello che pubblicava si capiva che era un giornale ben informato, un giornale che aveva le notizie per cui era letto appena arrivava in edicola.

Notizie che potevano derivare solo dalle fonti importanti di cui si è detto sopra perché la rivista si basava essenzialmente sulle notizie fornite da Carmine Pecorelli come è stato pacificamente ammesso dai suoi collaboratori che hanno cercato, invano, di mantenere in vita il giornale essendo venuto meno il flusso di notizie portato da Carmine Pecorelli.

Nessuna di tali importanti notizie è stata, poi, tenuta occulta.

Del resto è lo stesso Pecorelli che rivendica la sua autonomia e professionalità allorché nel n. di OP 78/18 espressamente recita: "Qualcuno ha detto che siamo l'agenzia del SID. Qualcun altro, l'agenzia di Miceli. Ognuno a tirare acqua al suo mulino, in un gran groviglio di inganni e cortine fumogene, pur di nascondere, pur di inquinare. ………..La verità è che OP ha una sua propria autonoma, rete di informatori. E che è bene introdotta in certi ambienti. E che mette in circolo tutte le notizie, nessuna esclusa, che riesce a raggiungere. Lasciando alla intelligenza e alla libertà dei suoi lettori analisi e giudizi. Il nostro archivio, il nostro pubblico, fa fede di questo. Questo nostro costume è talmente originale, talmente straordinario per il giornalismo italiano, da risultare sconvolgente e pericoloso per tutti gli attuali uomini del sistema (e delle veline). Tutti possono ricordare che abbiamo riportato, per rimanere al SID, note contro Henke, note contro Miceli, contro Maletti, contro La Bruna,, contro altri.

Anzi, se richiesto, Carmine Pecorelli ha permesso a suoi colleghi di attingere alle sue fonti dimostrando così che per Lui era importante che la notizia pubblicata per primo da OP avesse la massima diffusione.

La voglia di pubblicare "la notizia veramente importante per Carmine Pecorelli" era talmente forte che per la sua pubblicazione non ha avuto riguardo neppure nei confronti dei suoi amici.

Né sul valore giornalistico di Pecorelli può influire il suo stile.

E’ ben vero che il modo di presentare le notizie poteva apparire ambiguo e diretto a determinate persone, ma ciò, in assenza di una specifica prova contraria non dequalifica il giornalista avendo ciascuno la propria forma espositiva che può o meno incontrare l’approvazione dei lettori o dei colleghi.

Lo stile degli articoli da solo non può essere, poi, indice di forme velate di ricatto, come peraltro è stato espressamente detto da taluni dei difensori per la vicenda dei "c.d. Assegni del presidente", di cui si dirà in seguito, intendendo in tal modo affermare che le modalità di presentazione da parte di Carmine Pecorelli delle notizie con cui egli attaccava personaggi pubblici erano tali da indurre le persone menzionate negli articoli a corrispondere denaro.

La riprova di quanto detto si ha nella situazione patrimoniale e finanziaria di Carmine Pecorelli al momento della sua morte.

Questi infatti, era titolare di conti correnti sui quali vi erano modeste somme di denaro e, come emerge dalla deposizione di Franca Mangiavacca, era proprietario della abitazione in via della Camilluccia acquistata in cooperativa e della villa Zincone (acquistata con il frutto del lavoro di entrambi perché legati sentimentalmente).

Parimenti la situazione finanziaria della rivista non era delle più floride tanto che vi erano debiti nei confronti della tipografia che stampava il giornale, erano stati contratti debiti con sottoscrizione di cambiali con i buoni uffici di Egidio Carenini, si cercava di reperire pubblicità, necessaria per la sopravvivenza di tutti i giornali, per fronteggiare con essa le spese di gestione.

La situazione sopra delineata è incompatibile, a giudizio della corte, con la figura del ricattatore attribuita a Carmine Pecorelli perché la forza del ricattatore è quella di minacciare la pubblicazione di una notizia scabrosa e non quella di pubblicarla ovvero di fare conoscere solo ai diretti interessati e non al pubblico, vendendola, la notizia scabrosa.

Peraltro è indubbio che le notizie a mani di Carmine Pecorelli, fondate su documenti, avevano un immenso valore ( basti pensare all’interesse degli alti gradi della Guardia di Finanza, per quanto riguarda il dossier Mifobiali, che sono stati travolti dallo scandalo esploso anche a seguito della pubblicazione del dossier da parte di Carmine Pecorelli ovvero all’interesse dei dirigenti dell’Italcasse e delle Casse di Risparmio, per quanto riguarda la relazione della Banca d’Italia, per conoscere in anteprima detta relazione); nulla di tutto questo è avvenuto perché Carmine Pecorelli non ha esitato a pubblicare i documenti a sue mani e non vi è la minima traccia che i diretti interessati siano stati avvicinati prima della pubblicazione per tentare un accomodamento.

Peraltro è lo stesso Giulio Andreotti che afferma, contrariamente a quanto aveva sentito nel corso del dibattimento, non solo di non avere mai avuto notizie di Pecorelli come ricattatore, ma di non avere neppure avuto sentore di una tale attività e la circostanza è confermata da Gaetano Caltagirone che, sebbene attaccato ripetutamente da Carmine Pecorelli, gli ha dato somme di denaro escludendo però di essere stato da lui ricattato. Sul punto eloquente è la testimonianza di Paolo Patrizi il quale indica Carmine Pecorelli come persona morta senza ricchezza e che non gli risultava che prendesse denaro per pubblicare o non pubblicare una notizia; mancata pubblicazione che gli avrebbe fruttato ricchezza. Pecorelli secondo Paolo Patrizi faceva il giornalista per passione ed era più un poliziotto che un giornalista o meglio era un poliziotto giornalista: molto curioso e anche aggressivo nell'estorcere le informazioni ma non nell'estorcere denaro

Quanto appena detto non significa che Pecorelli fosse esente da critiche perché per la sopravvivenza del giornale, a cui egli teneva moltissimo, in mancanza di fondi personali, era necessario, all’evidenza, ricorrere a finanziatori abituali, i quali provvedevano a versare il denaro o a sottoscrivere abbonamenti, ovvero mettere a disposizione le pagine del giornale per battaglie che non erano di Carmine Pecorelli; la riprova di quanto detto si ha nella affermazione di Franca Mangiavacca la quale ha dichiarato che non tutte le entrate della rivista erano contabilizzate perché a volte Carmine Pecorelli le dava del denaro in contante che non era iscritto nei libri della società editrice del giornale.

La Corte, su questo ultimo punto, fa riferimento alla ospitalità data su OP a Michele Sindona per un attacco violento alla Banca d’Italia che si opponeva al salvataggio delle sue banche e che ricalca analoga operazione fatta dallo stesso Michele Sindona nei confronti di Roberto Calvi che rifiutava il suo aiuto ed era stato attaccato pesantemente dall’agenzia diretta dal giornalista Cavallo.

Pubblicazione dell’attacco di Michele Sindona alla Banca d’Italia che non può trovare spiegazione con una posizione filo sindoniana di Carmine Pecorelli che, a detta dei suoi collaboratori, era un oppositore dello stesso Michele Sindona.

E’ stato anche detto che Pecorelli era "la longa manus" dei servizi segreti, ma ciò è stato smentito sia dal Sismi sia dallo stesso Carmine Pecorelli che fin dal 1974 ha risposto a chi lo accusava di essere al servizio del SID o di una delle sue fazioni.

In conclusione, sul punto, ritiene la corte che Carmine Pecorelli, con i pregi e difetti insiti nella natura umana, sia stato un giornalista appassionato del suo lavoro, sicuramente schierato sul fronte politico ed in posizione antagonista alla sinistra, ma non per questo indulgente verso la parte politica a lui vicina, preparato, indipendente, profondo conoscitore della situazione politica italiana di cui faceva una analisi lucida (emblematico è l’analisi da lui fatta delle conseguenze politiche del caso Moro come deducibile da tutti gli articoli pubblicati sul punto da OP).

Ma per comprendere, ai fini che qui interessano, la causale dell’omicidio occorre completare il quadro della personalità di Carmine Pecorelli aggiungendo che anche la sua vita sentimentale è stata complessa in quanto alla relazione con la moglie, da cui ha avuto un figlio, si è aggiunta la relazione con la sig.ra Amato da cui ha avuto un altro figlio e, cessata tale relazione, ne ha iniziata una altra con Franca Mangiavacca che era cognata di Amato e nel contempo sua stretta collaboratrice nella redazione del giornale.

CAPITOLO 07)

IL MOVENTE

A). CONSIDERAZIONI GENERALI

Come si è detto la uccisone di una persona può trovare giustificazione o nella vita privata dell’ucciso o nella sua attività professionale.

Le risultanze probatorie non hanno portato ad alcun risultato concreto per potere affermare che la morte di Pecorelli sia stata causata da fatti inerenti alla sua vita privata.

Invero i rapporti con la moglie, come si può dedurre anche dalle annotazioni sulle agende di Pecorelli erano limitati alla corresponsione di una somma mensile; la relazione con la signora Amato, madre del suo secondo figlio, era cessata oramai da lungo tempo mentre quella con Franca Mangiavacca si stava normalizzando perché a questa ultima, proprio la sera dell’omicidio, era stata notificata la sentenza di divorzio e si era in attesa di quella di Carmine Pecorelli per cui, sotto questo profilo, non vi erano motivi di astio o rancore da giustificare un omicidio. Peraltro, sul punto è stato acquisito un atto del servizio segreto contenente una scheda di Carmine Pecorelli in cui si fa cenno a probabili moventi personali, ma di essa non può tenersi alcun conto non essendo stato individuato l’autore di quella scheda; né alcun rilievo può darsi, non conoscendosene la relazione, tra l’appunto "ti metto le budella in mano", rinvenuto tra le carte sequestrate nella sede di OP e la vita privata di Pecorelli.

Del resto che la ragione dell’omicidio fosse da cercare nell’attività giornalistica di Carmine Pecorelli emerge dalle iniziative poste in essere immediatamente dopo la sua morte per sviare il corso delle indagini, dalle minacce e dai timori manifestati da Carmine Pecorelli nei giorni antecedenti l’uccisione.

Per le prime si fa riferimento alla rivendicazione di un gruppo di sedicenti anarchici che nella notte tra il venti ed il ventuno marzo 1979 avevano rivendicato l’omicidio, la lettera anonima fatta pervenire al procuratore capo della Repubblica di Roma che indicavano Licio Gelli come mandante dell’omicidio e all’episodio del ritrovamento, nella notte tra il 14 ed il 15 aprile 1979, di un borsello, abbandonato su un taxi, contenente schede fotocopiate, tra queste anche una relativa a Carmine Pecorelli, che avrebbero indirizzato le indagini verso le Brigate Rosse, che in quel periodo erano ancora attive in Roma, come autori dell’omicidio (su di esso si tornerà in seguito allorché si tratterà la figura di Chichiarelli).

Per le seconde si fa riferimento alle minacce telefoniche ricevute da Carmine Pecorelli e al timore da lui espresso di essere ucciso perché era in possesso o stava per entrare in possesso di una notizia che se l’avesse pubblicata o se non l’avesse pubblicata avrebbe causato la sua morte.

E’ infatti provato che Pecorelli nel periodo immediatamente precedente alla sua morte ha ricevuto minacce in relazione alla sua attività subendo anche il danneggiamento della sua auto.

La circostanza emerge a chiare lettere da numerose testimonianze le quali sono concordi nell’affermare che da circa un mese, prima della sua morte, Carmine Pecorelli si sentiva minacciato in relazione agli articoli che stava scrivendo; articoli che attaccavano uomini politici italiani ed in particolare Giulio Andreotti, stando alle dichiarazioni dell’avv. Sebastaiani, o che riguardavano la guardia di Finanza, stando alle dichiarazioni di Arturo Arcaini il quale ha ricordato che nell’incontro avuto pochi giorni prima dell’omicidio, Carmine Pecorelli era agitato quando gli raccontava delle minacce e manifestava timore di essere ucciso (altro significato non può avere la frase profetica detta da Pecorelli e riferita da Arcaini "qui possono entrare e ammazzare qua"). Quelle minacce, poi, vanno necessariamente messe in riferimento alla attività giornalistica come del resto esplicitamente detto da redattore di OP Augusto Marcelli il quale riferisce di un Carmine Pecorelli che nella riunione della redazione del 12.3.1979 aveva detto, in risposta ad una affermazione di uno dei presenti che aveva manifestato timori per un articolo pubblicato nel numero precedente, di avere ricevuto minacce, a cui peraltro era ormai abituato, e che tali minacce si erano fatte più frequenti negli ultimi tempi.

Quanto alla seconda circostanza, cioè che Carmine Pecorelli fosse in possesso di una notizia pericolosa in ogni caso per la sua vita, emerge dalla testimonianza della sorella Rosina Pecorelli la quale fa riferimento alle confidenze ricevute dall’avvocato De Cataldo il qiuale le aveva riferito di apprensioni riferitegli da suo fratello Carmine poco prima di morire.

Questa ultima circostanza è confermata anche da Liliana Chiocchetti e da Umberto Limongelli. La prima sa che Carmine Pecorelli più volte a suo marito (Avv. Gregori) aveva manifestato timori per la sua vita in relazione alle informazioni che aveva ma che riteneva inutile ogni protezione perché la scorta avrebbe corso inutili rischi; il secondo, nel commentare l’ultimo colloquio avuto con suo cugino Carmine Pecorelli il giorno della sua uccisione, riferisce di un pacco (esplosivo, scoppiettante), che al tatto appariva contenere fogli di giornale, che doveva portare immediatamente in tipografia per l’inserimento nel numero in stampa di OP, e ricorda che in quella occasione Carmine Pecorelli aveva manifestato timori per la sua vita.

Gli elementi sopra evidenziati a giudizio della corte, permettono di affermare che il movente dell’omicidio di Carmine Pecorelli è da mettere in relazione alla sua attività giornalistica.

Tanto accertato, la domanda che la corte si è posta è: perché si uccide un giornalista? Le risposte a tale domanda, escluso per quello che si è detto sopra, il movente privato sono:

Si è già detto che la Corte ha escluso, per gli elementi posti in evidenza, che Carmine Pecorelli fosse un ricattatore per cui l’analisi va circoscritta alle prime due ipotesi.

Consegue, necessariamente, che la ricerca degli assassini deve iniziare dall’esame delle pubblicazioni di OP per verificare quali siano gli argomenti trattati e di lì circoscrivere il campo per la ricerca dei potenziali assassini.

Ora, se non vi è dubbio che gli scritti di Carmine Pecorelli hanno avuto come bersaglio numerosi uomini pubblici, nei cui confronti aveva fatto una aspra, dura e a volte partigiana critica politica, è altrettanto indubbio che Carmine Pecorelli si è interessato, denunziandoli alla attenzione pubblica, della gestione della cosa pubblica là dove questa non era espressione del bene pubblico, ma esercizio di un personale potere che nulla aveva a vedere con l’interesse pubblico o quanto meno univa al pubblico interesse quello della gestione del potere personale con prevalenza, se non proprio predominio, di questo ultimo sul primo.

Ritiene peraltro la corte che l’attenzione va rivolta non a tutte le vicende trattate da Carmine Pecorelli ma solo a quelle che avevano al momento dell’omicidio il requisito dell’attualità o perché esse erano oggettivamente attuali o, se di vecchia data, potevano essere rinverdite con l’aggiornamento di nuovi particolari o davano un diverso angolo di interpretazione del fatto o ancora potevano dare, in relazione ad altri fatti una diversa interpretazione degli stessi fatti.

Solo l’attualità della notizia, come sopra intesa, è tale da giustificare, per il pericolo che essa rappresenta per la persona interessata dalla notizia, motivo valido per la soppressione di una altra persona. Parimenti la notizia per essere pericolosa oltre ad avere il requisito della attualità e della rilevanza, deve potere giungere nella disponibilità del giornalista per essere pubblicata.

Con tali premesse occorre fissare l’attenzione su alcune vicende che sono state già oggetto di indagine e di giudizio da parte della magistratura ma che in questa sede devono essere considerate non al fine di riscriverne la storia, il cui esito giudiziario non può in alcun modo essere qui mutato e la cui valutazione politica è compito dei politologi e degli storici, ma per verificare se il ruolo svolto in quelle vicende da Carmine Pecorelli, le notizie già pubblicate e ancora più quelle che avrebbe potuto pubblicare, possano essere state ritenute di tale gravità da spingere qualcuno all’omicidio.

Le valutazioni dell’omicida, poi, vanno inquadrate nel momento storico in cui il fatto è avvenuto e alla luce delle notizie che sugli argomenti trattati da Carmine Pecorelli in quel momento erano di dominio pubblico e non anche alla luce delle successive emergenze non potendosi in nessun modo sapere se le circostanze emerse successivamente sono le stesse di cui Carmine Pecorelli aveva o poteva avere il possesso ovvero se esse sono state definitivamente nascoste con la sua morte.

A tal fine, a giudizio della corte, l’attenzione va posta sui seguenti argomenti:

  1. La vicenda del processo per il c.d. Golpe Borghese, per i suoi riflessi sui servizi segreti che era un argomento di particolare interesse per Carmine Pecorelli anche in relazione alla sua amicizia con il generale Vito Miceli imputato in quel processo.
  2. La vicenda Italcasse a cui sono collegate quelle degli istituti di credito pubblici (Imi, Icipu, Isveimer, Ceis), quella dei fratelli Caltagirone, quella del gruppo delle società facenti capo all’ing. Nino Rovelli (Sir e società collegate) e in generale quella dei grandi debitori (Flaminia Nuova etc, etc) e quella del finanziamento ai partiti ( fondi neri e fondi bianchi). Vicende che possono compendiarsi con la dizione "ingerenza dei partiti politici nella gestione del credito da parte delle banche pubbliche e suoi riflessi nel finanziamento agli stessi partiti".
  3. La vicenda del fallimento delle banche di Sindona Michele.
  4. La vicenda connessa al dossier Mi.fo.biali relativo ad un traffico di petrolio, alla nascita del Nuovo Partito Popolare e ai suoi riflessi sulla corruzione della Guardia di Finanza.
  5. La vicenda relativa al caso Moro.

Per questo ultimo argomento va precisato, prima di esaminarlo in concreto, che a Roma, la mattina del 16/3/1979, in Via Fani appartenenti al gruppo terroristico Brigate Rosse tendevano un agguato al presidente del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana Aldo Moro che si stava recando in Parlamento per la discussione della fiducia al nuovo governo presieduto da Giulio Andreotti. Nell’agguato gli uomini della sua scorta furono uccisi mentre lo statista fu sequestrato.

Il suo cadavere, dopo una prigionia di gg 55, fu fatto ritrovare nel portabagagli di una Renault 4 rossa la mattina del 9/5/1978.

Il sequestro fu immediatamente causa di vivacissime polemiche per l’efferatezza del delitto e per modalità con cui era stato realizzato, per la inefficienza dimostrata dallo stato nella lotta al terrorismo, per il contrasto sulla linea da seguire nella gestione del caso fronteggiandosi coloro che volevano trattare con la Brigate Rosse per la liberazione del sequestrato e coloro che tale trattativa ufficialmente contrastavano anteponendo l’interesse superiore dello stato. Di particolare interesse fu in quel periodo la pubblicazione degli scritti che i sequestratori facevano pervenire all’esterno dalla prigione dell’on. Aldo Moro. Si discuteva soprattutto, fino al momento della scoperta di una base delle Brigate Rosse in Via Montenevoso a Milano, del contenuto del "c.d. interrogatorio" di Aldo Moro durante la prigionia, e, dopo il rinvenimento, se il materiale documentale riconducibile all’on. Moro fosse completo. Polemica non sopita neppure dopo il rinvenimento nell’anno 1990, sempre nel covo di via Montenevoso di Milano, di un secondo scritto di Moro più ampio rispetto a quello rinvenuto nel 1978.

Tutti tali argomenti oggetto di polemica e di critica vanno sinteticamente indicati come "Il Caso Moro".

Essi devono qui essere esaminati, come già peraltro accennato, non per sottoporre a revisione critica le conclusioni giudiziarie nel frattempo intervenute o per sottoporre ad analogo giudizio le valutazioni politiche che avevano indotto i governanti dell’epoca e i partiti politici a determinate scelte, ma per accertare se di esse, ed eventualmente in che misura, si è occupato Carmine Pecorelli.

Il caso Moro, per quello che si è detto, assume, così, una duplice valenza potendo esso stesso costituire, di per sé, valido movente ovvero contenere notizie relative ad altri argomenti individuati come possibili moventi dell’omicidio di Pecorelli.

In altre parole le notizie relative al caso Moro potevano riguardare il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro ed essere di tale importanza da essere autonomamente movente valido per l’uccisione di Carmine Pecorelli (si pensi, per esempio, alla notizia relativa al luogo di detenzione dello statista non comunicata alle autorità inquirenti ovvero ad un qualsiasi ruolo di personalità politiche nella organizzazione del sequestro e nella uccisione di Aldo Moro, o ancora a semplici legami tra personalità politiche e mondo della eversione della sinistra) ovvero essere contenute in uno scritto di Moro e riguardare vicende che per altro verso e per altra via avevano interesse pubblico (si pensi ad esempio a scritti di Moro contenenti rivelazioni su personalità che avrebbero attribuito ad esse un ruolo negativo in vicende di interesse pubblico tali da influire sul loro futuro).

Sotto tale aspetto il caso Moro è contemporaneamente Contenente e Contenuto del movente e sotto questo ultimo aspetto si riverbera sugli altri possibili moventi, unificandoli, della uccisione di Carmine Pecorelli.

Prima di affrontare gli argomenti sopra indicati, occorre sgombrare il campo da alcune ipotesi proposte nel corso della istruttoria, prima, e delle arringhe difensive, poi, con le quali sono stati prospettati altri argomenti di interesse di Pecorelli che avrebbero potuto costituire un valido movente per la sua uccisione e precisamente il dossier sulla pornografia, che costituiva l’inserto originario del numero di OP 79/05, e il commercio dei quadri di De Chirico.

Ritiene la Corte che tali argomenti non possono costituire un valido motivo per l’omicidio perché:

Anche in questo caso le notizie che erano a mani di Pecorelli circa un coinvolgimento di Franco Evangelisti dietro la falsificazione dei quadri del pittore De Chirico erano a conoscenza di molti.

Sulla base di tali elementi ritiene la corte che debba escludersi che la pubblicazione di un asserito ed eventuale interessamento di Franco Evangelisti Franco per il commercio di falsi quadri del pittore De Chirico possa essere valido movente perché oramai era una notizia che il gallerista Russo aveva detto ad una pluralità di persone ed essa aveva perso la sua potenziale pericolosità.

Sgombrato il campo da tali osservazioni, ritiene la corte che tutti gli argomenti individuati come possibili moventi e sopra indicati, per i motivi che appresso saranno detti, portano oggettivamente alla sfera di interessi di Giulio Andreotti e parzialmente anche a quella di Claudio Vitalone e Giuseppe Calò che sono indicati come i mandanti, Giulio Andreotti primario, Claudio Vitalone e Giuseppe Calò intermedi, dell’omicidio di Carmine Pecorelli.

Né deve meravigliare che per l’omicidio siano indicati, secondo lo schema accusatorio, più mandanti e organizzatori perché quando la vittima è persona che riveste un qualche ruolo di rilievo, specie se di interesse pubblico, tale deve considerarsi l’attività giornalistica, vi è convergenza di una pluralità di interessi, che non necessariamente coincidono ma che tra loro concorrono all stesso fine: la soppressione della vittima per eliminare il pericolo.

Occorre pertanto analizzare singolarmente gli argomenti individuati come possibili moventi per verificare se in tutti o in alcuni di essi le persone imputate hanno avuto un qualche ruolo e se tale ruolo può essere molla sufficiente per commettere un omicidio.

Sotto l’aspetto della irrilevanza del movente va inquadrato anche quella che è stata comunemente chiamata una pista alternativa e derivante dalle notizie fornite da tale Bronzino, collaboratore di giustizia appartenente alla mafia perché egli si limita a sostituire alcuni imputati con altri ma non modifica il quadro dei possibili moventi perché lo riconduce sempre alla pubblicazione di articoli su argomenti che davano fastidio ad alcuni degli attuali imputati e precisamente a Giulio Andreotti.

 

 

 

B). IL C.D.GOLPE BORGHESE

La vicenda giudiziaria del c.d. Golpe Borghese, che ha interessato Carmine Pecorelli, è nata su impulso di Giulio Andreotti, ministro della difesa all’epoca, il quale avuta notizia dal generale Gianadelio Maletti del servizio segreto (Sid) di una attività golpista di Valerio Borghese e del coinvolgimento in esso del generale Vito Miceli, suo predecessore, aveva trasmesso il rapporto fornito dal Sid alla autorità giudiziaria.

Dell’indagine era stato incaricato il sostituto procuratore della repubblica di Roma Claudio Vitalone.

Carmine Pecorelli era in possesso di documenti segreti -anche a riconferma della qualità delle fonti informative di OP- da cui emergeva che era a conoscenza dell'entrata nel ministero dell'interno di golpisti che si erano impadroniti di alcuni mitra, e aveva preso netta posizione in favore del generale Vito Miceli sostenendo che dal rapporto originale e completo erano stati eliminati i nomi di politici e di alti funzionari che avevano aderito al golpe e precisava ancora che l'originario dossier era stato regolarmente inviato dal generale Vito Miceli alla magistratura ma da questa era stato restituito preferendo lavorare su ipotesi minori.

Ciò è tanto vero che Pecorelli dopo l’assoluzione del generale Vito Miceli per il golpe Borghese, aveva riproposto la serie di interventi che a partire dal 1974 aveva svolto sulla pagine di OP a favore del generale Vito Miceli e aveva ripubblicato nel n. 1 del 1979 di OP il dossier "Il malloppone", cioè il dossier completo inviato dal Sid alla magistratura e non quelli ridotti sui quali la magistratura aveva condotto la sua indagine. Nei suoi articoli Carmine Pecorelli aveva sempre sostenuto che il coinvolgimento del generale Vito Miceli nel c.d. Golpe Borghese era stato frutto di un piano di Giulio Andreotti per continuare ad esercitare il potere e che per attuare tale piano aveva scientemente omesso di mandare alla autorità giudiziaria tutte le informative del generale Vito Miceli sul golpe (tra i documenti pubblicati vi sono due lettere di Giulio Andreotti e nella seconda questi dava atto dell'omesso invio di altro materiale facente parte della originaria informativa) e si era servito di Claudio Vitalone per colpire Vito Miceli.

Carmine Pecorelli aveva affermato in particolare che l'inchiesta sul golpe Borghese era in realtà un golpe bianco di un gruppo di politici che strumentalizzando una parte della magistratura politicizzata voleva continuare a mantenere il potere e indicava nello stretto rapporto tra Giulio Andreotti e Claudio Vitalone lo strumento attraverso il quale cui primo otteneva il suo scopo e aveva inquadrato tutta la vicenda del coinvolgimento di Vito Miceli nel golpe Borghese nella più ampia vicenda Giannettini/SID/Miceli/Maletti relativo al ruolo ricoperto dal primo nella c.d. strage di Piazza Fontana attribuendo a Giulio Andreotti e non a Rumor la decisione di opporre il segreto di stato sull’appartenenza di Guido Giannettini al Sid; egli, poi, aveva richiamato l’attenzione su uno strano furto subito da Aldo Moro nel 1975 relativo a documenti che si dicevano inerenti al c.d. golpe Borghese; documenti che avrebbero dimostrato come il golpe borghese fosse stata una farsa montata da Giulio Andreotti.

Quanto detto a proposito del c.d. Golpe Borghese viene da Pecorelli messo in relazione alla organizzazione dei servizi segreti che in quel periodo il governo presieduto da Giulio Andreotti aveva approvato sino a mettere in luce come lo smantellamento dei vecchi servizi segreti (SID) era a tutto vantaggio dello stesso Giulio Andreotti, capo del governo e in secondo luogo di Francesco Cossiga, ministro dell’interno all’epoca, i quali avevano messo a capo dei servizi personaggi politici abituati al compromesso mentre i servizi segreti dovevano essere un fatto tecnico. In particolare faceva riferimento ad una vecchia storia del Sifar e al golpe di De Lorenzo che era scoppiato, secondo Carmine Pecorelli, perché Aldo Moro aveva allontanato nel 1966 Giulio Andreotti dal ministero della difesa per assegnargli quello dell'industria e riteneva che lo scandalo Sifar era stato il primo scandalo studiato a tavolino dall'alto sotto la regia degli Stati Uniti d’America, che puntavano sul partito socialista, e di Giulio Andreotti che voleva vendicarsi di De Lorenzo (capo del Sifar) che si era rivelato uomo di Moro.

Carmine Pecorelli tornava una l'ultima volta sul ruolo dei servizi segreti e commentando la condanna al processo per la strage di Piazza Fontana di Gianadelio Maletti e Antonio La Bruna per falsa testimonianza non comprendeva l’assoluzione di Viezzer al contrario di Antonio La Bruna e Gianadelio Maletti e il motivo per cui i due condannati avrebbero dovuto coprire Giannettini che era una fonte importante nel processo per il golpe borghese (in relazione al caso Giannettini/SID/Maletti/ Miceli/ Andreotti).

Come si vede il "c.d. Golpe Borghese", oggettivamente, porta a Giulio Andreotti e a Claudio Vitalone.

Al primo perché è indicato come l’artefice delle disavventure del generale Vito Miceli avendo trasmesso alla magistratura il dossier sul c.d. Golpe Borghese e al secondo perché di quel processo ne era stato il PM.

Esso però anche soggettivamente porta ai due imputati perché Carmine Pecorelli attribuisce a Giulio Andreotti la responsabilità di avere usato il generale Vito Miceli come capro espiatorio per tutelare la propria posizione di ministro della difesa che aveva opposto il segreto di stato sulla appartenenza del giornalista Guido Giannettini, imputato a Catanzaro per la "c.d. strage di Piazza Fontana", al Sid e a Claudio Vitalone la responsabilità di avere condotto l’istruttoria del processo secondo le direttive di Andreotti di cui era la longa manus al palazzo di giustizia di Roma; una conduzione della istruttoria pilotata che aveva comportato l’assoluzione per alcuno dei golpisti e la condanna per altri.

Le note di Pecorelli sull’argomento sono numerosissime e caustiche e tali da suscitare il risentimento e la rabbia di chi è bersaglio di tali articoli; risentimento e rabbia che devono avere colpito maggiormente Claudio Vitalone accusato di non essere imparziale ma docile strumento nelle mani del suo mentore politico Giulio Andreotti.

Non va peraltro dimenticato che il "c.d. Golpe Borghese" ha interessato anche la mafia siciliana che era stata chiamata a partecipare ad esso e ad intervenire qualora fosse stato necessario ricorrere alla forza ma che di fatto aveva rifiutato l’offerta anche se alcuni membri della organizzazione criminale, a titolo personale, furono tra coloro che erano entrati nel ministero degli interni e avevano prelevato dei mitra. Si fa riferimento a quel Natale Rimi che, uomo d’onore della famiglia di Alcamo, era stato trasferito dal comune di Alcamo alla regione Lazio ed era particolarmente interessato alla sorte della vicenda giudiziaria che vedeva il padre Vincenzo ed il fratello Filippo coinvolti nell’omicidio di tale Lupo Leali e per il quale avevano subito una condanna, anche se non definitiva, alla pena dell’ergastolo (di ciò occorrerà parlare in seguito in relazione all’incontro raccontato da Tommaso Buscetta tra Giulio Andreotti e Gaetano Badalamenti e all’interessamento riferito da alcuni testi di Andreotti per le sorti del processo a carico di Rimi Vincenzo e Filippo).

Il caso del c.d. Golpe Borghese" era, benché all’epoca fosse finito il processo e Claudio Vitalone fosse stato trasferito alla procura generale presso la corte di appello di Roma, ancora attuale in relazione al contenuto del dossier Moro di cui all’epoca si conosceva solo l’edizione trovata nel covo delle brigate rosse scoperto a Milano nel settembre 1978 in via Montenevoso.

Infatti il dossier, definito per comodità memoriale Moro 1978, contiene analisi e conclusioni sul ruolo di Giulio Andreotti in relazione al c.d. Golpe De Lorenzo e al golpe Borghese, e in genere al rapporto tra Giulio Andreotti e i servizi segreti che ricalcano fedelmente le conclusioni espresse da Carmine Pecorelli nell’articolo pubblicato su OP del 28/3/1978, durante il sequestro dell’on. Aldo Moro, "Chi ha smantellato i servizi segreti" e "il memoriale questo è vero e questo è falso" pubblicato prima che gli organi istituzionali provvedessero a rendere pubblico il memoriale Moro 1978.

Segno questo che Carmine Pecorelli era in grado di arrivare a fonti diverse da quelle ufficiali per conoscere notizie sul sequestro di Aldo Moro senza che ciò significasse che fosse in possesso di copia del memoriale.

Quanto appena detto, e cioè che Pecorelli poteva attingere a notizie riservate sul contenuto degli scritti di Moro (su ciò si tornerà meglio in seguito) rende il c.d. Golpe Borghese, nella accezione che la corte ne ha dato, un valido movente per la uccisione del giornalista Carmine Pecorelli.

C). IL CASO ITALCASSE

In ordine alla vicenda Italcasse e alle vicende indicate sub B) si osserva che tali vicende all’apparenza appaiono slegate; esse, però, assumono un carattere unitario, e sono strettamente collegate tra di loro, allorché si esaminano sotto il comune denominatore della gestione del credito, settore importantissimo della vita economica del paese controllato strettamente dal sistema dei partiti.

Il fulcro centrale è senza alcun dubbio la gestione dell’Italcasse, istituto centrale delle casse di risparmio italiane, che in quel momento era al centro di inchieste amministrative e per il quale erano in corso inchieste della magistratura, che venivano comunemente definite "lo scandalo dei fondi neri" e "lo scandalo dei fondi bianchi", intendendo con il primo termine la vicenda connessa al finanziamento illecito dei partiti con operazioni "in nero" nella contabilità dell’istituto e con il secondo termine la vicenda connessa alla concessione, in violazione di norme e di regolamento, del credito a imprese collegate al mondo politico.

Al riguardo, per un giudizio sull’attività dell’Italcasse, basta leggere l’ordinanza del G.I. di Roma del 11/6/1981, relativa al caso Italcasse, da cui emerge che, accanto a quelle legittime, vi erano anche operazioni tendenti a favorire gruppi economici o persone che a quei gruppi appartenevano; operazioni consistenti:

Questo meccanismo consistente nella erogazione di credito per somme ingentissime senza preventivo accertamento tecnico istruttorio, senza garanzia alcuna e mascherandole per operazioni di breve termine, come previsto dallo statuto, anzi che di medio termine come esse erano in realtà, ruotava intorno alla figura del direttore generale e ai membri del consiglio di amministrazione che erano espressione di quei gruppi di potere che potevano determinare la nomina a cariche sociali.

Tra i grandi gruppi economici che avevano avuto accesso al credito presso la Italcasse vi era, per quello che interessa questo processo, il gruppo facenti capo ai fratelli Caltagirone, il gruppo facente capo alla Sir di Nino Rovelli, la Nuova Flaminia, facente capo a Lay Ravello, Balducci Domenico e Calò Giuseppe, di cui si parlerà in seguito esaminando la vicenda del tentativo di salvataggio del gruppo Caltagirone.

Quanto appena detto trova riscontro nei vari provvedimenti delle autorità giudiziarie che si sono occupate del caso Italcasse.

L’ordinanza richiamata in nota dà anche una ulteriore indicazione, anche questa condivisa dalla corte, e cioè che la presenza di gruppi di potere politico ed economico in stretta connessione tra loro (la cui prova è data dalla vicenda delle obbligazioni ENEL e dei fondi neri finalizzati alla distribuzione dei fondi illecitamente accantonati tra i gruppi politici al potere in persona dei segretari amministrativi di partito) era tale per cui gli imprenditori si rivolgevano ai gruppi politici a cui essi erano legati sapendo che necessariamente le persone alla guida delle aziende di credito -stante il legame inscindibili tra potere politico e potere economico derivante dal potere di nomina delle cariche sociali delle seconde in capo al primo- avrebbero concesso il credito.

Ciò si era verificato puntualmente per la Italcasse che era la "CASSA" di alcuni gruppi politici per cui era sufficiente rivolgersi a tale "CASSA" per essere sicuri del finanziamento senza necessità di previ accordi essendosi questi concretizzati a monte tra gruppi politici e quegli imprenditori ad essi facenti riferimento.

Sistema che si concretizzava nel fatto che i privati, se legati a determinati gruppi politici, potevano rivolgersi direttamente a pubblici ufficiali, a loro volta notoriamente legati ai gruppi politici da cui ricevevano l’investitura, sicuri dell’accoglimento delle loro richieste (sembra di assistere alla narrazione anticipata di quel fenomeno che negli anni successivi sarà giornalisticamente definito "corruzione ambientale" essendo quel genere di erogazione del credito una delle tante forme in cui si è manifestata la "fame di denaro" del sistema dei partiti italiani).

Del resto che la Italcasse fosse la "CASSA" dei partiti di governo e dei gruppi, con i loro sottogruppi, emerge dalla lettura delle carte processuali da cui si evince una costante e sistematica erogazione di denaro da parte della Italcasse a quei partiti e a quei gruppi ad essi collegati (vedi le contestate falsità in bilancio per le obbligazioni ENEL da cui si evince la corresponsione, tramite assegni circolari di £ 5.000.000 e £ 10.000.000 alla D.C., al P.S.I. al P.R.I. al P.S.U., la concessione di rilevantissimi crediti ai fratelli Caltagirone (i quali avevano beneficiato di credito, nell’anno 1975, per complessivi duecentonove miliardi senza garanzie e istruttoria e senza che essi ne avessero titolo perché operavano nel campo della edilizia, disciplinato dallo specifico settore del credito edilizio con le garanzie connesse a tale settore dell’attività economica), al gruppo S.I.R./RUMIANCA (che aveva beneficiato di credito per duecentosedici miliardi come anticipazione di contributi della regione Sardegna e della Cassa per il Mezzogiorno senza istruttoria della pratica né documentazione alcuna e facendo riferimento solo ai pareri di conformità del ministro per gli interventi straordinari nel mezzogiorno), al gruppo Nuova Flaminia.

Orbene se il collegamento tra caso Italcasse da un lato, gruppo Caltagirone e Nuova Flaminia dall’altro appare evidente in quanto il primo ha erogato direttamente il credito ai secondi, il collegamento tra Italcasse ed il gruppo Sir, composto da una molteplicità di società (costituite per parcellizzare la produzione e ottenere così una maggior messe di contributi statali per lo sviluppo del mezzogiorno) finalizzate alla diversificazione della produzione avente come materia prima il petrolio, deriva dai meccanismi utilizzati per attingere al finanziamento pubblico.

Invero la Sir e le sue collegate avevano sfruttato, per ottenere credito non altrimenti ottenibile stante la loro disastrosa situazione finanziaria, le leggi emanate per la industrializzazione del mezzogiorno che prevedevano la possibilità di accedere ai crediti agevolati e di ottenere contributi a fondo perso dalla Cassa per il mezzogiorno con la motivazione dell’adeguamento degli impianti alle nuove tecnologie, per il miglioramento del sistema di produzione a fini ecologici e per adeguare il costo degli impianti alla svalutazione che in quel periodo, è bene ricordarlo, era elevatissima.

Il meccanismo prevedeva la richiesta di finanziamenti a tasso agevolato ad un istituto di credito speciale che in genere era L’IMI ovvero l’ICIPU o il CEIS. Costoro, ricevuta la richiesta e la documentazione presentata dal richiedente, dovevano provvedere alla istruzione della pratica per l’erogazione del credito ed in attesa del completamento dell’iter burocratico potevano, ma non erano tenuti legislativamente, concedere un prefinanziamento a tasso ordinario.

La pratica così istruita, perveniva al ministero per gli interventi straordinari per il mezzogiorno il quale provvedeva ad una autonoma istruttoria, la sottoponeva, se ne ricorrevano le condizioni stabilite da una delibera del CIPE (comitato interministeriale per la programmazione economica) al vaglio dello stesso CIPE e all’esito dell’istruttoria, se questa era positiva, il ministro per gli interventi straordinari per il mezzogiorno emanava un parere di conformità che veniva inviato all’istituto di credito a cui era stata richiesta l’erogazione del credito e alla Cassa per il mezzogiorno per quanto di rispettiva competenza in relazione alla ammissione al credito agevolato e alla erogazione di contributi a fondo perduto.

Su tale meccanismo di attingimento al credito agevolato si innestava l’erogazione, anomala, del credito da parte dell’Italcasse la quale su presentazione del parere di conformità e con il rilascio da parte della società richiedente di una delega ad incassare i contributi a fondo perduto erogati dalla Cassa per il mezzogiorno, e sulla base di questa sola condizione, erogava un credito a titolo di prefinanziamento.

Se questo era il meccanismo, chiaro appare la connessione tra la vicenda Italcasse e quella del gruppo SIR facenti capo all’ing. Nino Rovelli.

Se questo era il quadro della vicenda Italcasse e dei grandi gruppi economici beneficiari dell’erogazione del credito, come peraltro emerge dalla lettura dell’ordinanza su richiamata e dalle sentenze che a tale ordinanza sono seguite, va detto che Carmine Pecorelli ha costantemente seguito le vicende dell’Italcasse e dei suoi principali debitori attingendo a notizie fornite da sue personali fonti e pubblicizzando al massimo il contenuto della relazione ispettiva della Banca d’Italia sulla Italcasse a lui consegnata da Franco Evangelisti nel modo che emerge dalla testimonianza di Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi.

Invero dal verbale di apertura del corpo di reato del 79/03/29 emerge che tra gli appunti sequestrati nella sede di OP ve ne sono molti che riguardano l'Italcasse in relazione ai finanziamenti a Lotta Continua, ai finanziamenti ai partiti e ai grossi gruppi industriali parlandosi di finanziamento di £ 200.000.000.000, alla successione di Giuseppe Arcaini alla direzione dell’Italcasse, ai rapporti tra Italcasse e Magistratura; dalle agende di Pecorelli emerge come lo stesso si stava interessando all'Italcasse, alla SIR perché si evince che lo stesso era in possesso di dossier e della relazione della Banca d'Italia che sottoponeva, insieme al bilancio dell’Italcasse a varie e competenti persone.

Tale interesse si è tramutato in una serie di articoli, pubblicati con cadenza quasi settimanale, in cui segnalava che:

Ma, a parere della Corte la vicenda dell’Italcasse presenta due altri aspetti rilevanti:

  1. tra i suoi clienti vi era anche la Nuova Flaminia che sulla base delle prove emerse in questo dibattimento, oltre ad essere una dei beneficiari dell’erogazione illegittima del credito da parte dell’Italcasse e ad essere interessata ad un tentativo di salvataggio del gruppo Caltagirone insieme a società facenti capo a Tobia Conte, era nelle mani di Giuseppe Calò; costui operava attraverso Domenico Balducci, suo prestanome, il quale a sua volta si serviva di prestanomi.
  2. Dell’Italcasse si è interessato Aldo Moro nei suoi "c.d. memoriali" ponendo l’attenzione su di essa per la sua funzione di "Canale avvilente (di finanziamento) che si ha il torto di ritenere meno importante o più inestricabile di altri.

Come si vede la vicenda Italcasse al momento della uccisione di Carmine Pecorelli era materia di interesse viva ed attuale.

In essa sono poi interessati sia Claudio Vitalone che Giulio Andreotti e gli elementi che indicano un ruolo di costoro nella vicenda Italcasse, complessivamente valutata, sono i seguenti:

  1. La vicenda degli assegni emessi dalla Sir nel 1976.
  2. Il tentativo di soluzione della posizione debitoria del gruppo Caltagirone che in quel momento era critica e si prospettava il fallimento delle loro società.
  3. La nomina di Giampaolo Finardi a successore di Giuseppe Arcaini nella carica di direttore generale dell’Italcasse.
  4. La cena al circolo privato La Famiglia Piemontese in cui si era parlato della copertina di OP relativa a tali assegni.

Sul primo punto l’interesse di Giulio Andreotti è diretto.

Invero le indagini espletate e le prove documentali e testimoniali assunte sul punto hanno permesso di accertare l’origine e i destinatari finali degli assegni emessi dalle società del gruppo Sir dell’ing. Rovelli. Per quello che qui interessa, è emerso:

  1. La SIR aveva emesso un prestito obbligazionario di cui una parte era stato sottoscritto da Nino Rovelli.
  2. Al momento del pagamento delle cedole, gli interessi erano stati richiesti in contanti e assegni circolari e le società SIR, OPT e Rumianca avevano pagato tali cedole mediante un ordine di pagamento portato da cinque assegni e da un ordine di pagamento in contanti per un totale di £ 1.400.000.000.
  3. Tale somma era stata convertita in assegni circolari da £ 10.000.000 e da £ 5.000.000 intestati a nomi di fantasia.
  4. Erano stati individuati i beneficiari finali e tra questi Ezio Radaelli, il quale a sua volta aveva riferito di avere avuto gli assegni dall'on. Giulio Andreotti, e alcuni politici.
  5. Alcuni di tali assegni erano stati negoziati dall’amministratore delegato della Sofint S.p.A. che benché formalmente di proprietà del finanziere Lay Ravello, di fatto era gestita da Domenico Balducci uomo di fiducia di Giuseppe Calò; assegni che, sulla base delle dichiarazioni dell’amministratore, Cassella Gennaro, erano stati materialmente versati da Domenico Balducci. Non di poco conto sono, poi, le circostanze che uno di tali assegni è stato rinvenuto nelle tasche di Giuseppe Di Cristina, risultato essere stato capo mandamento della famiglia mafiosa di Riesi ucciso nel corso della c.d. 2° guerra di mafia, e che successivamente la Sofint S.p.A. insieme a società facenti capo a Tobia Conte (dai non chiari trascorsi) interverrà nel tentativo di salvataggio del gruppo Caltagirone.
  6. Alcuni di tali assegni erano anche giunti nella disponibilità di Giuseppe Arcaini e, tramite questi, del figlio Arturo nonché di società facenti capo alla famiglia Arcaini come la Francis S.p.A.
  7. In quella occasione era stato accertato che alcuni assegni erano finiti nelle mani di politici in cambio di favori per avere agevolato l'autorizzazione ai finanziamenti agevolati, come si ricavava da una annotazione riservata rinvenuta negli archivi della polizia valutaria a firma d'Aloia (di tale annotazione viene data notizia ai vertici della Guardia di Finanza, ma non alla magistratura).
  8. Era stato accertato, anche, che la uscita era formalmente portata nella contabilità delle società ma che non era stato possibile ricostruire il pagamento dell'assegno per mancanza della documentazione elementare di supporto (in altre parole risultava la uscita ma non vi era indicato il percettore del pagamento o una qualsiasi indicazione che giustificasse il pagamento); non erano state fatte ulteriori indagini e il fascicolo, su richiesta del P.M. Savia, era stato archiviato.
  9. Giulio Andreotti aveva ammesso di avere ricevuto tali assegni che da lui erano stati dati senza apporre la firma di girata a Ezio Radaelli e anche ad alcuni politici del suo stesso partito come Franco Evangelisti e altri onde doveva ritenersi che la somma ricevuta fosse superiore a quella portata dagli assegni di cui Carmine Pecorelli aveva i numeri di matricola.
  10. Giulio Andreotti ha cercato in ogni modo di negare un suo coinvolgimento nella vicenda degli assegni SIR dovendolo poi ammettere solo di fronte alla evidenza della prova e ha cercato di non apparire come il reale beneficiario di tali assegni.

Sul punto esauriente appare il fatto che gli assegni siano stati personalmente da lui custoditi nel cassetto della sua scrivania da cui li prelevava per pagare Ezio Radaelli secondo le necessità, la loro cessione senza apporre la firma di girata, il tentativo riuscito fatto nel 1980 tramite Nino Rovelli, di non indicare come prenditore degli assegni l’on. Giulio Andreotti, di riferire alla autorità giudiziaria, come effettivamente aveva fatto poco dopo avanti al PM Savia che indagava sugli assegni, che gli assegni gli erano stati dati dall’ing. Wagner alto dirigente della SIR che non avrebbe potuto smentirlo perché deceduto e l’ulteriore tentativo, questa volta non riuscito, fatto con il suo segretario Carlo Zaccaria, dopo che la vicenda degli assegni della SIR era tornata di attualità ed egli era coinvolto a tutti gli effetti nelle indagini sull’omicidio Pecorelli.

Non convincente è, sul punto, la negazione di Giulio Andreotti di avere telefonato a Ezio Radaelli preannunziando l’arrivo di Nino Rovelli non comprendendosi perché Ezio Radaelli avrebbe dovuto incontrare l’ing. Nino Rovelli con il quale non aveva avuto alcun rapporto, da chi Radaelli avrebbe conosciuto il nome dell’ing. Wagner – persona realmente vissuta e che ha ricoperto un ruolo dirigenziale di rilievo nelle società dell’ing. Rovelli- se l’incontro con l’ing. Nino Rovelli non fosse realmente accaduto e perché questi avrebbe dovuto preoccuparsi che il nome di Giulio Andreotti non fosse portato a conoscenza della magistratura se il finanziamento non fosse stato più che legittimo.

Parimenti non credibile è la tesi difensiva di Giulio Andreotti secondo la quale l’invio del suo segretario Carlo Zaccaria non era teso a inquinare le prove ma solo ad evitare ulteriori fastidi giudiziari; se veramente fosse stata quella indicata da Giulio Andreotti la ragione dell’invio del suo segretario a casa di Ezio Radaelli non troverebbe spiegazione l’insistenza con cui Carlo Zaccaria ha voluto parlare con Ezio Radaelli che quel giorno era a letto malato mentre, al contrario, sarebbe stato sufficiente una semplice telefonata di Giulio Andreotti con il quale in passato i due avevano avuto rapporti, per illustrare la richiesta.

Il comportamento di Giulio Andreotti, a parere del collegio, trova la sua logica spiegazione non nel desiderio di evitare la pubblicità di un suo coinvolgimento nella vicenda, come da lui sostenuto, ma perché sapeva che instaurare un collegamento tra gli assegni ricevuti da Nino Rovelli e la morte di Carmine Pecorelli era per lui un rischio che non poteva correre perché a base della corresponsione degli assegni vi era un suo comportamento illecito. Illiceità non derivante, come ha sostenuto Andreotti nel suo esame, dal fatto che essi erano un finanziamento al partito, ma dal fatto che andavano messi in relazione al promemoria riservato consegnato dal capitano D’Aloia al suo comandante La Mare in cui si affermava che gli assegni erano il corrispettivo per favori ricevuti da politici per la concessione di crediti agevolati.

Il punto di partenza della conclusione della corte sul punto è la richiesta di un ulteriore finanziamento richiesto in data 30/4/75 dalle società del gruppo facenti capo alla SIR dell’ing. Nino Rovelli all’IMI.

Tale richiesta, alla pari delle precedenti, è stata immediatamente avallata in assenza di istruttoria tecnica e nella consapevolezza degli organi dell’istituto che le società del gruppo SIR erano oramai in stato di decozione. Il comportamento dell’organo deliberante dell’IMI, ma esso è conforme a quello degli altri istituti di credito speciali come ICIPU; ISVEIMER e CEIS, come si evince dalla sentenza del G.I. di Roma che ha istruito il relativo processo, era guidato dalla volontà degli organi amministrativi dell'IMI di esprimersi sempre in senso favorevole alla SIR per il pesante condizionamento, peraltro legittimo e doveroso entro i limiti della politica di sviluppo programmato dal governo, di quelle forze politiche che le persone componenti degli organi deliberativi appoggiavano e la cui azione avallavano sotto il manto e dall'alto della autorevolezza economica/scientifica. Condizionamento che comportava la certezza che l'autorità governativa avrebbe sicuramente ripianato le operazioni di mero rischio non andate a buon fine; certezza equiparata a una specie di fidejussione delle forze politiche di maggioranza che da trenta anni gestivano il potere. Di tale modo di concepire la gestione della cosa pubblica da parte di persone il cui scopo doveva essere quello di realizzare l’interesse pubblico, ed in particolare la disponibilità trovata dall’ing. Nino Rovelli in forza della distorta concezione delle funzioni pubbliche degli amministratori degli istituti di credito nell’ottenere finanziamenti, trova esplicita affermazione nel verbale del consiglio del Banco di Napoli il quale, preso atto della rischiosità dell'operazione, la approvavano e concedevano ugualmente il finanziamento sulla base della considerazione che la SIR godeva di appoggi politici e di amicizie che contavano da parte del suo presidente Nino Rovelli nonché nella dichiarazione di alcuni consiglieri dell'IMI nella seduta del 11.6.76, i quali, sperando in un consolidamento della maggioranza, non avevano lesinato denaro e avevano sollecitato un ulteriore massiccio finanziamento alla SIR.

Orbene gli appoggi politici di cui godeva l’ing. Nino Rovelli, a giudizio della corte, si identificano in Giulio Andreotti.

Infatti la richiesta di finanziamento per mille miliardi, era immediatamente inoltrata al ministero per gli interventi straordinari per il mezzogiorno per ottenere il previsto parere di conformità senza il quale non si poteva accedere ai finanziamenti agevolati e ai contributi a fondo perduto.

Qui giungeva in data 16/5/1975 e protocollata in data 21/5/1975 presso gli uffici tecnici del predetto ministero, di cui Giulio Andreotti era titolare in quel momento, per la istruzione tecnica; ma, prima ancora che tali uffici provvedessero all’esame della pratica, essa veniva immediatamente richiesta dalla segreteria particolare del ministro il quale nel giro di due o tre giorni rilasciava il richiesto parere che veniva immediatamente comunicato agli enti interessati.

Solo la solerte attenzione del funzionario preposto all’ufficio tecnico e la sua denunzia della illegittimità della procedura amministrativa seguita aveva evitato che il finanziamento alle società del gruppo SIR fosse erogato nella quantità iniziale facendo risparmiare alcune centinaia di miliardi alla collettività in quanto le richieste, sottoposte al regolare controllo amministrativo del CIPE erano state notevolmente ridotte.

Dei pareri di conformità rilasciati da Giulio Andreotti quello che qui interessa particolarmente è quello relativo alla società Siron S.p.A. che dalla documentazione acquisita e dagli accertamenti eseguiti su detta società in data 15/12/94 risulta essere sempre stata nella disponibilità dell’ing. Rovelli. La Siron spa, in forza di tale parere, aveva chiesto un prefinanziamento alla Italcasse offrendo a garanzia del rimborso la delega all’incasso sui futuri contributi a fondo perso o all’erogazione del credito agevolato.

L’Italcasse erogava nel gennaio un credito di £ 20.000.000.000 (come già detto illegittimo sotto il profilo amministrativo perché contrario al regolamento dell’istituto) alla Siron. Parte di tale credito pari a £ 4.000.000.000 veniva inserito nella contabilità della SIR e, con un giro vorticoso di operazioni, nella contabilità di altre società del gruppo SIR al fine di pagare gli interessi sulle obbligazioni da esse emesse e che forniranno la provvista degli assegni che arriveranno anche nelle mani di Giulio Andreotti e Giuseppe Arcaini.

Come si vede vi è una stretta correlazione tra parere di conformità rilasciato da Giulio Andreotti, concessione di un finanziamento da parte dell’Italcasse sulla base di tale parere di conformità che di esso ne era il presupposto necessario, e la percezione da parte di Giulio Andreotti di una somma di denaro che per il potere di acquisto della moneta all’epoca della elargizione era ingente. Correlazione così vicina nel tempo da non fare credere alla affermazione di Giulio Andreotti che gli assegni costituirono un finanziamento al partito in vista delle elezioni politiche del giugno 1976 essendo queste ultime troppo lontane nel tempo e peraltro improvvise trattandosi di elezioni anticipate; ma la causale del pagamento indicata da Giulio Andreotti contrasta con due altre circostanze e cioè con il fatto che assegni della stessa partita sono stati dati anche a Giuseppe Arcaini per la sua qualità di direttore generale dell’Italcasse che aveva perorato e portato alla attenzione degli organi deliberativi la pratica per la concessione del prestito alla Siron (non si comprende a che titolo se non come ricompensa dell’opera di persuasione fatta nell’ambito dell’organo deliberativo dell’Italcasse è stata fatta tale erogazione di denaro da parte di Nino Rovelli) e il fatto che tali assegni non sono stati versati nelle casse del partito ma sono rimasti nella disponibilità personale di Giulio Andreotti.

La difesa di Giulio Andreotti, e lo stesso Giulio Andreotti nel suo esame, ha cercato di sminuire l’interesse e la attualità della vicenda degli assegni da lui ricevuti dall’ing. Nino Rovelli sostenendo che la vicenda era una storia vecchia già pubblicata da Carmine Pecorelli nel notiziario di Op del 14/10/77 per cui non aveva il carattere della attualità.

Tale tesi non è condivisa. Risulta, al contrario, dagli atti che la vicenda rivestiva per Carmine Pecorelli un grande interesse e una grande attualità perché era stata da lui collegata all’intera vicenda Italcasse nelle varie sfaccettature che si sono individuate, come dimostrato dal rinvenimento tra i documenti sequestrati nella sede di OP di un appunto in cui si fa ad essi espresso riferimento quando si legge che la vicenda Italcasse non è ancora finita e che all’inizio del 1979 si saprà chi ha preso gli assegni, e aveva saputo alcuni mesi prima della sua uccisione, contrariamente a quello che aveva pubblicato nel 1976, che gli assegni ricevuti da Giulio Andreotti provenivano da Nino Rovelli; ciò si evince dalle agende di Carmine Pecorelli dalle quali emerge che egli era sulle tracce degli assegni e che aveva intenzione di scrivere un articolo su tale argomento che riprendendo l’originario pezzo giornalistico doveva riguardare però altri e diversi assegni.

Ma a fare ritenere che la vicenda degli assegni di provenienza SIR fosse attuale e di rilevante interesse è sufficiente fare riferimento a quello che è accaduto durante e dopo la cena al circolo La famiglia Piemontese di cui si dirà dopo e sotto tale profilo vi è un interesse di Claudio Vitalone alla vicenda degli assegni ricevuti da Giulio Andreotti.

In ordine alla vicenda dei finanziamenti al gruppo dei fratelli Caltagirone e al suo salvataggio finanziario attraverso la società Nuova Flaminia, che devono essere trattati unitariamente, vi è l’interesse è di Giulio Andreotti e Claudio Vitalone.

Va premesso, al riguardo, che è provata, ma la circostanza è pacifica perché ammessa dai due imputati, l’esistenza di rapporti intensi tra i fratelli Caltagirone, soprattutto Gaetano Caltagirone, Giulio Andreotti, Franco Evangelisti e Claudio Vitalone, così come vi erano rapporti tra Giulio Andreotti Franco Evangelisti e Claudio Vitalone.

In tal senso vi sono agli atti elementi per affermare che costoro sono stati ospiti nella villa di Gaetano Caltagirone, che Claudio Vitalone e Franco Evangelisti sono stati ospiti di Gaetano Caltagirone a Palermo, nella Pasqua del 1977, insieme ad altri magistrati e politici oltre che giornalisti, che Claudio Vitalone è stato ospite sulla barca di Maria Di Bernardo, suocera di Francesco Caltagirone, per trascorrervi delle vacanze in crociera, che i rapporti tra Claudio Vitalone, Giulio Andreotti e Franco Evangelisti, dovuti alla comunanza di interessi politici, erano di antica data e di notevole spessore (Giulio Andreotti ha usato la parola "amico" per definire i suoi rapporti con Claudio Vitalone, mentre Franco Evangelisti è stato a lungo uno dei più fedeli collaboratori di Giulio Andreotti tanto da fare dire al senatore Nicola Signorello che costui voleva essere l’unico intermediario tra Andreotti e gli appartenenti alla corrente di cui Andreotti era il capo indiscusso.

Tali amicizie erano consolidate nel tempo se è vero che alcuni testi fanno risalire l’amicizia tra Gaetano Caltagirone e Claudio Vitalone intorno all’anno 1975 (Claudio Vitalone al contrario ha affermato di avere conosciuto Gaetano Caltagirone alla fine dell’anno 1976 inizi dell’anno 1977 mentre tale data nella fase delle indagini preliminari era stata addirittura posticipata) e Giulio Andreotti ha dichiarato di avere conosciuto i fratelli Caltagirone fin da quando erano bambini avendo avuto frequentazione con il loro zio Girolamo Caltagirone Bellavista partecipante alla costituente definito insigne persona (anche se va però detto che lo stesso Girolamo Caltagirone Bellavista è indicato da Francesco Di Carlo, collaboratore di giustizia, come uomo d’onore) e di essere amico di Gaetano Caltagirone.

Ma, oltre a vincoli di amicizia, i fratelli Caltagirone, e in particolare Gaetano Caltagirone, facevano parte di quella schiera di imprenditori che per la comunanza di idee politiche erano molto vicini al partito in cui Giulio Andreotti era uno dei massimi leader; meglio ancora, essi erano molto vicini alla corrente di cui Giulio Andreotti era il capo indiscusso e Franco Evangelisti era, all’epoca, uno dei suoi più influenti esponenti; corrente a cui aderirà anche Claudio Vitalone nel momento in cui inizierà la sua improvvisa carriera politica (in precedenza per stessa ammissione di Claudio Vitalone, la sua fede politica era quella del partito di Giulio Andreotti anche se la sua attività politica era cessata nel momento in cui era entrato a fare parte della polizia di stato).

Va ancora detto che Gaetano Caltagirone, proprio per i rapporti amicali che aveva con Giulio Andreotti e con Franco Evangelisti era anche un finanziatore della corrente facente capo ad Andreotti.

In questo contesto di rapporti amicali, scoppia la vicenda relativa ai finanziamenti erogati dall’Italcasse alle società del gruppo facente capo ai tre fratelli costruttori e che per comodità sarà chiamata vicenda Italcasse/Caltagirone e cioè la vicenda relativa alla soluzione della esposizione debitoria di tali società del gruppo nei confronti dell’Italcasse.

Vicenda, questa, che aveva dato origine a procedimenti penali e civili dal momento che erano in corso delle indagini sull’Italcasse in relazione proprio ai finanziamenti illegittimi – non illegali- posti in essere dall’istituto di credito e vi erano rischi di fallimento per l’indebitamento delle società facenti capo ai tre fratelli.

In questa sede, come già detto, non interessa rivisitare l’intera vicenda sotto il profilo civile o penale, quello che qui interessa verificare è se in quel momento storico vi erano rischi per il gruppo facenti capo ai fratelli Caltagirone e se per la soluzione della vicenda vi è stato un interessamento di Vitalone, all’epoca magistrato in servizio presso la procura della repubblica di Roma, e di Andreotti per la soluzione della vicenda che vedeva implicati i loro amici i quali, poi, erano oggetto di una violenta campagna di stampa da pare di Carmine Pecorelli.

Orbene ritiene la corte che non sussistono dubbi che nel 1978/79 la situazione del gruppo dei fratelli Caltagirone fosse critica tanto che, anche se erroneamente, nell’anno 1980 fu dichiarato il fallimento delle società del gruppo e degli stessi Caltagirone così come è indubbio che l’indebitamento del gruppo nei confronti dell’Italcasse era ingente e non era possibile un rientro immediato dei debiti.

Tanto premesso, occorre ancora preliminarmente definire come si è articolato il piano di salvataggio del gruppo dei fratelli Caltagirone.

Esso sulla base delle dichiarazioni dei testi assunti sul punto e della documentazione acquisita può così ricostruirsi.

A fronte di un indebitamento di oltre £ 200.000.000.000 del gruppo Calatgirone era stato proposto dalla Flaminia Nuova di Lay Lavello, ma in realtà facente capo a Domenico Balducci e a Giuseppe Calò (vedi quanto detto sopra sul punto) e la Invim con alcune società di assicurazioni facenti capo al finanziere Tobia Conte un piano, trattato con Francesco e Gaetano Caltagirone, che prevedeva la sostituzione nella posizione debitoria dei fratelli Caltagirone con la cessione al gruppo subentrante delle società proprietarie degli immobili in costruzione.

Tale piano era stato sottoposto alla approvazione del consiglio di amministrazione dell’Italcasse pochissimi giorni dopo la sua presentazione e i fatti erano avvenuti tra dicembre 1977 e gennaio 1978.

Dopo tale approvazione vi erano stati contatti con la Banca d’Italia che non aveva approvato il piano perché la Banca d’Italia non aveva dato il necessario nulla osta ritenendo che le garanzie fornite dai successori nella posizione debitoria non offrissero idonee garanzie (in pratica la Banca d’Italia voleva che i fratelli Caltagirone, per la qualità delle società che ad essi subentravano – in quel periodo la Flaminia Nuova era sospesa dalle quotazioni borsistiche ed era indebitata anch’essa con l’Italcasse- mantenessero le fidejussioni per i debiti delle società non ritenendo sufficiente al riguardo la prospettiva di vendita degli immobili e pretendendo di conseguenza la revisione dei bilanci di dette società.

A tal fine, dopo la approvazione in consiglio di amministrazione dell’Italcasse, si erano tenute delle riunioni sia presso la presidenza del consiglio alla presenza del sottosegretario Franco Evangelisti sia presso il ministero del tesoro alla presenza del Ministro Stammati, del direttore generale dell’Italcasse Giampaolo Finardi, succeduto a Giuseppe Arcaini, e del direttore della vigilanza della Banca d’Italia Mario Sarcinelli. Successivamente vi era stata una nuova approvazione del piano da parte del consiglio di amministrazione dell’Italcasse ma esso, per la mancanza del nulla osta della Banca d’Italia, non era mai stato operativo.

Dopo la non approvazione di detto piano di salvataggio viene studiato altro piano che prevedeva l’intervento della società Immocri ma anche esso non aveva avuto esito positivo. Successivamente era stato dichiarato il fallimento delle società del gruppo dei fratelli Caltagirone.

Legale dei fratelli Caltagirone, per l’aspetto civilistico era, tra gli altri, Rodolfo Guzzi il quale, fino a quando non ha rinunziato al mandato nel gennaio 1979,a seguito di iniziative di denunzie penali fatte da Gaetano e Francesco Caltagirone su consiglio dell’avv. Wilfredo Vitalone, altro difensore dei fratelli Caltagirone per la parte penale, ha partecipato in prima persona alla strategia difensiva dei fratelli Caltagirone.

Orbene, è proprio costui che porta elementi importanti per potere affermare che Claudio Vitalone, benché sostituto procuratore della repubblica presso il tribunale di Roma, si è interessato della vicenda dei fratelli Caltagirone. Egli, infatti, ha partecipato a riunioni in qualità di consulente per la difesa dei fratelli Caltagirone in forza della grande amicizia che lo legava ai predetti. Riunioni che avvenivano nello studio di via Mazzini e a cui partecipavano i fratelli Claudio e Wilfredo Vitalone, l’avv. Pettinari, l’avv. Dipietropaolo dello stesso studio, l’avv. Gambino e occasionalmente i fratelli Caltagirone. Del resto che la frequentazione dello studio del Fratello Wilfredo (sul punto è l’avv. Pettinari nel suo esame che dà la prova che Wilfredo Vitalone ha sempre esercitato insieme a lui nello stesso studio) da parte di Claudio Vitalone non fosse casuale trova conferma nel fatto che è lo stesso Claudio Vitalone ad ammettere di avere conosciuto Gaetano Caltagirone nello studio del fratello perché Gaetano Caltagirone ne era cliente e nel fatto che l’ing. Francesco Maniglia, anche se in tempi che nulla hanno a vedere con questo processo, si era recato due volte nello studio di Wilfredo Vitalone ed in entrambi i casi aveva incontrato Claudio Vitalone capitato lì sempre per caso.

Questa inequivocabile affermazione trova conferma nella testimonianza di Mario Sarcinelli il quale nel riferire dei suoi incontri con Franco Evangelisti per la soluzione del caso Caltagirone Italcasse ha fatto presente che in quel periodo era stato interrogato dal G.I. e Franco Evangelisti il quale, secondo le sue dichiarazioni, era ben a conoscenza dell'interrogatorio e del suo contenuto per averlo appreso proprio da Claudio Vitalone.

La testimonianza di Rodolfo Guzzi dà anche conferma al contenuto dell’appunto di Carmine Pecorelli trovato tra i suoi scritti in cui questi si chiede cosa facesse Vitalone insieme a Gallucci nella stanza di Pizzuti; in altre parole cosa facesse Vitalone con i giudici che si occupavano dell’inchiesta sull’Italcasse e che avevano interrogato Mario Sarcinelli non sull’Italcasse, ma sulle motivazioni che avevano indotto la Banca d’Italia a mandare una ispezione presso l’Italcasse, quasi che sotto inchiesta non fosse la gestione dell’Italcasse, ma la stessa Banca d’Italia.

La testimonianza di Rodolfo Guzzi permette, con altrettanta chiarezza, di potere affermare che del salvataggio del gruppo Caltagirone si sono interessati Franco Evangelisti e Giulio Andreotti; affermazione che trova conferma nella testimonianza di Giampaolo Finardi e Mario Sarcinelli che parlano di un incontro tra di loro alla presenza del ministro del tesoro Gaetano Stammati e del sottosegretario alla presidenza Franco Evangelisti. Presenza questa ultima che non troverebbe logica spiegazione, poiché vi era il ministro istituzionalmente competente a trattare le questione relative alle banche, se non in un interesse diverso di Franco Evangelisti.

Ora, se a ciò si aggiunge che Mario Sarcinelli ha avuto con Franco Evangelisti altri colloqui presso la presidenza del consiglio e tali incontri sono avvenuti solo per motivi istituzionali, che in quella sede gli furono presentati i fratelli Caltagirone e gli fu anche detto che alla intera vicenda era interessata la presidenza del consiglio (presidente del consiglio all’epoca era Giulio Andreotti), resta dimostrato che anche quest’ultimo era interessato al salvataggio del gruppo dei fratelli Caltagirone.

Peraltro a conferma della circostanza vi sono altri due elementi:

Come si vede, alla luce delle considerazioni che sono state fatte deve ritenersi raggiunta la prova che sia Giulio Andreotti, che Claudio Vitalone si sono interessati della vicenda Italcasse/Caltagirone adoperandosi in favore dei secondi.

Né l’interessamento di Giulio Andreotti può escludersi perché il politico che si è interessato della vicenda è Franco Evangelisti che era amico personale di Gaetano Caltagirone, perché non è credibile che gli incontri presso la presidenza del consiglio si siano svolti senza il benestare di Giulio Andreotti anche perché per ammissione dello stesso Franco Evangelisti, della cui fedeltà al capo corrente non è possibile dubitare al momento in cui ha reso le sue dichiarazioni, ha affermato che Giulio Andreotti non era solito prendere impegni diretti e di ciò si ha una riprova nella vicenda degli assegni ricevuti dalla Sir in cui per ben due volte ha mandato intermediari da Ezio Radaelli per cercare di non essere coinvolto in quella vicenda dove, al contrario si era interessato personalmente; singolare, poi, è che per risolvere la posizione dei fratelli Caltagirone sono state utilizzate le stesse persone utilizzate per la vicenda di Michele Sindona a conferma dello stesso modus operandi.

Ma le prove raccolte permettono di fare una ulteriore affermazione e cioè che si è trattato di un intervento coordinato dal momento che alcune riunioni per discutere la vicenda sono avvenute a via Zanardelli, nello studio di Franco Evangelisti, alla presenza dello stesso Franco Evangelisti, di Claudio Vitalone, di Vilfredo Vitalone, dell’avv. Rodolfo Guzzi e di altri avvocati.

Essa poi interessava, lo si ribadisce, anche Claudio Vitalone il quale era indicato da Carmine Pecorelli, insieme a Giulio Andreotti e Franco Evangelisti come persona che si era adoperata per risolvere la situazione dei loro amici (si fa riferimento all’ing. Nino Rovelli e ai fratelli Caltagirone).

Vale sul punto riprendere quanto scritto da Carmine Pecorelli nel n. 78/04 di OP ove faceva presente che si notava una stretta amicizia tra Wilfredo Vitalone, legale della parte lesa Caltagirone e fratello del PM Claudio, e il PM Jeraci titolare dell'inchiesta sull'Italcasse insieme al GI Pizzuti (N.d.R. l'articolo va messo in correlazione all'appunto rinvenuto nello studio di Pecorelli in cui si dà atto di un incontro tra Vitalone e Gallucci nella stanza di Pizzuti) tanto che i due erano stati visti spesso insieme nei più disparati angoli del palazzo di giustizia ed è risultata provata la partecipazione di Claudio Vitalone alle riunioni dei difensori dei fratelli Caltagirone in merito alla vicenda Italcasse.

Del resto che fossero questi gli argomenti che interessavano in quel momento Carmine Pecorelli e che fosse in relazione a tali argomenti che egli aspettava notizie si ricava dalla deposizione di Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi, i suoi più stretti collaboratori, i quali sono concordi nell’affermare che in quel momento gli argomenti di interesse di Carmine Pecorelli erano l’affare Italcasse, comprendente anche la questione Sir, il caso Sindona e il sequestro Moro.

 

D). LA VICENDA MI.FO.BIALI

Preliminarmente occorre precisare che con il termine Mi.Fo.Biali si intende un dossier formato dal SID negli anni 1974/75 su Mario Foligni fondatore del Nuovo Partito Popolare con cui questi voleva contrastare la Democrazia Cristiana, che, secondo quello che egli riteneva, era degenerata perdendo i suoi originari valori.

L’indagine su Mario Foligni era stata ampliata alla Guardia di Finanza durante la quale erano state fatte anche intercettazioni telefoniche ed ambientali illegali, perché non autorizzate dalla magistratura, anche se erano state utilizzate strutture esistenti presso organi pubblici. L’autorizzazione a indagare su Mario Foligni e sul Nuovo Partito Popolare era stata data dal ministro della difesa che, all’epoca, era Giulio Andreotti.

Tale circostanza è affermata da Gianadelio Maletti ed appare credibile, malgrado la smentita di Giulio Andreotti e l’astio che può avere spinto Maletti a fare dichiarazioni contrarie all’imputato, perché Gianadelio Maletti riferisce di avere appreso la circostanza dal capo del servizio segreto ammiraglio Casardi e ha annotato l’ordine di continuare a indagare su Mario Foligni e sul Nuovo partito Italiano e di riferire direttamente o all’ammiraglio Casardi o a Giulio Andreotti; la circostanza peraltro è stata pubblicamente ammessa dal governo della repubblica italiana che rispondendo al senato e alla camera dei deputati, ha dato notizia della conoscenza del dossier da parte del ministro e della sua autorizzazione all’indagine

Il dossier era pervenuto nella mani di Carmine Pecorelli –ad ulteriore prova della bontà delle fonti di prova di cui egli disponeva- il quale ne aveva pubblicato ampi stralci sottolineando che da tale dossier emergeva non solo l’attività politica di Mario Foligni e del Nuovo Partito Popolare, ma, soprattutto, episodi di corruzione ed esportazione illegale di valuta degli alti gradi della Guardia di Finanza (in particolare del comandante generale dell’arma generale Raffaele Giudice, di sua moglie e del suo segretario particolare Giuseppe Trisolini, del vice comandante generale dell’arma Donato Lo prete) e un traffico di petrolio con la Libia a cui erano interessati non solo Mario Foligni, ma anche il fratello del premier dello stato di Malta Don Mintoff,, petrolieri italiani, alti prelati ed ancora il comandante della guardia di finanza generale Raffaele Giudice.

Si trattava, quindi, di un grosso scandalo anche alla luce di quello che stava emergendo in sede giudiziaria, in quel periodo, in ordine al contrabbando di petrolio.

Per tale fatto la corte non ravvisa alcun interesse di Claudio Vitalone, ma solo quello di Giulio Andreotti nella sua qualità di ministro della difesa che aveva autorizzato lo spionaggio politico utilizzando mezzi illegali, nonché gli appartenenti alla Guardia di Finanza che dalla pubblicazione degli articoli vedevano compromessa la loro posizione.

E’ stato prospettato da alcuni difensori che il movente dell’omicidio sia da individuare proprio nel possesso del dossier Mi.fo.biali, derivando tale affermazione dalle dichiarazioni, che, seppure a contestazione, sono state fatte da Franca Mangiavacca la quale ha dichiarato, allorquando ha consegnato il dossier alla magistratura, che solo il possesso del dossier le aveva salvato la vita in quegli anni.

Ritiene la corte, al contrario, che tale affermazione non sia conferente perché dal raffronto tra il dossier e quello che era stato pubblicato su OP si raggiunge la convinzione che oramai non vi era altro di scottante da rivelare in ordine alla corruzione dei vertici della Guardia di Finanza e al traffico di petrolio con la Libia. Peraltro non si comprende come il dossier in parola possa avere salvato la vita a Franca Mangiavacca, circostanza questa che presume la segretezza della notizia in suo possesso con il timore della sua divulgazione, se fin dalle prime indagini il dossier era stato sequestrato nell’abitazione di Carmine Pecorelli ed era a disposizione della magistratura. Evidentemente si tratta di una conclusione errata della testimone.

Né a maggiori risultati si perviene, sotto questo profilo, dalle dichiarazioni di Giacomo Ubaldo Lauro il quale riferisce di tale Tonino Saccà, da lui conosciuto come generale dell’esercito in pensione ma in realtà custode del museo militare dell’artiglieria dell’esercito, il quale nel febbraio 1979 gli aveva chiesto se era disponibile a uccidere una persona, identificata in un secondo momento in Carmine Pecorelli.

La versione dei fatti raccontata da Giacomo Ubaldo Lauro, non appare credibile e l’inattendibilità non investe la persona del dichiarante, malgrado lo stesso al momento della sua collaborazione abbia detto cose non vere (a riprova che all’inizio il rapporto tra autorità inquirenti e collaboratore non è facile e non sempre il collaboratore dice immediatamente la verità o ancora più la dice per intero), ma deriva dalla non plausibilità di quello che Tonino Saccà ha riferito al primo.

Non è plausibile il movente addotto per richiedere l’omicidio.

Invero, secondo il racconto di Giacomo Ubaldo Lauro era stato Tonino Saccà, e non il presunto mandante, a riferire che il movente dell’omicidio era da ricercare nel fastidio che Carmine Pecorelli stava dando ad alcuni alti personaggi della Finanza in combutta con Licio Gelli e con la P2 ed in particolare a persone che ricattava per lo scandalo dei petroli.

Tale affermazione è contraria alla figura di Carmine Pecorelli come ricattatore (si rimanda sul punto a quanto già detto), ed è contraria alla realtà delle cose perché alla data del conferimento del mandato omicidiario il dossier Mi.fo.biali era già stato pubblicato nelle sue parti essenziali e su di esso Carmine Pecorelli non riteneva di mantenere alcun segreto tanto da non avere avuto alcuna remora, come riferito dal giornalista Roberto Fabiani, a mettere a sua disposizione il dossier perché potesse da esso attingere notizie. Tale circostanza è l’antitesi del comportamento di un ricattatore perché nel momento in cui la notizia su cui si basa il ricatto non è più nel possesso esclusivo del ricattatore cade la possibilità di continuare a ricattare.

Non è credibile che il mandante dell’omicidio, se effettivamente era un ufficiale della finanza, abbia ricevuto nella sua stanza, all’interno degli uffici del comando dell’arma, il killer consegnandosi in tal modo nelle sue mani. Ma che quella non fosse la sede del comando della guardia di finanza e che l’interlocutore non fosse l’alto ufficiale della finanza deriva anche dal tempo in cui è avvenuto l’incontro, dalle modalità con cui Giacomo Ubaldo Lauro ha descritto la sede del comando della Guardia di Finanza che brillava per l’assenza di guardie armate e di personale in divisa.

Ma, a completare l’inverosimiglianza del racconto, vale aggiungere che Giacomo Ubaldo Lauro non sapeva di andare ad incontrare il mandante dell’omicidio perché, se la cosa gli fosse stata nota, egli non avrebbe accettato essendo per lui, uomo appartenente alla ‘Ndrangheta, inconcepibile che al conferimento del mandato omicidiario fossero presenti altre persone all’infuori dell’intermediario che nella specie era Tonino Saccà; nello stesso senso è la considerazione che Tonino Saccà non aveva nessuna necessità di fare conoscere all’esecutore materiale il mandante.

Ritiene, pertanto, la corte che la messinscena orchestrata da Tonino Saccà aveva altri scopi e cioè creare una falsa pista per deviare, qualora ve ne fosse stata necessità, le indagini approfittando delle notizie pubblicate da OP.

Riprova di ciò è che Tonino Saccà, pur avendo avuto la disponibilità di Giacomo Ubaldo Lauro a commettere l’omicidio, che sarà commesso effettivamente di lì a poco (non va dimenticato che all’epoca Lauro era latitante e quindi debitore nei confronti di Tonino Saccà avendo da questi ottenuto ospitalità), non lo ha più cercato ed è uso, secondo le stesse parole di Giacomo Ubaldo Lauro che nell’ambiente della malavita organizzata simili piaceri sono all’ordine del giorno.

E’ stata anche prospettata l’ipotesi che il movente dell’omicidio fosse da ricercare nel dossier Mi.fo.biali come espressione di vendetta da parte di alcuni alti ufficiali della Finanza rovinati dalle notizie apparse su Op e che si sarebbero rivolto alla mafia per commettere l’omicidio. Si fa riferimento alla notizia di reato che nasce dalle deposizioni rese da Mauro Obinu che riferisce notizie apprese da una fonte confidenziale del maresciallo Lombardo.

La fonte è inutilizzabile perché Mauro Obinu, ufficiale dei carabinieri, pur conoscendolo, ha rifiutato di fare il nome della fonte confidenziale onde le notizie da lui riferite non possono essere poste a fondamento della decisione e gli elementi emersi dalle indagini sul punto non permettono di affermare un qualche collegamento tra le notizie fornite dalla fonte confidenziale al maresciallo Antonino Lombardo ed il dossier Mi.fo.biali.

 

 

E). LA VICENDA MICHELE SINDONA

Come già detto, Pecorelli ha prestato molta attenzione, su OP, alla vicenda di Michele Sindona e alle sue manovre finanziarie. In particolare l’attenzione di Carmine Pecorelli si è soffermata, non avendo all’epoca gli elementi di giudizio che sono emersi dopo la sua morte, sui suoi rapporti con la S.G.I. (società generale immobiliare), con la Finambro, con la Franklin Bank, con il Banco di Roma, con la società Condotte, sui suoi rapporti con la mafia italo/americana, ed in particolare con Lucky Luciano dal 1952, definendolo fin dal 18/5/75 uomo d’onore, sui suoi rapporti con la Democrazia Cristiana di cui era stato un finanziatore, sui tentativi di salvataggio delle banche dopo che per esse era stato dichiarato lo stato di insolvenza, sui suoi rapporti con Giulio Andreotti, sulla pratica di estradizione di Michele Sindona dagli Stati Uniti d’America.

La posizione di Carmine Pecorelli nei confronti di Michele Sindona non è stata sempre di contrapposizione tanto da avere preso alcune volte le sue difese e da pubblicare anche una lettera inviata da Sindona al governatore della Banca d’Italia in cui chiedeva spiegazione del suo operato. Lettera ripubblicata pochi mesi prima della morte di Carmine Pecorelli.

Come già detto la vicenda del banchiere Sindona è stato oggetto di procedimenti penali le cui circostanze, accertate in tali giudizi, possono essere prese in considerazione da questa corte, come ripetutamente ribadito, al solo fine di verificare se esse, insieme ad altri elementi di prova emersi nel corso del dibattimento, possono oggettivamente costituire per taluno degli imputati un valido movente per un omicidio.

Preliminare a tale disamina è l’indicazione, anche se breve, delle forze e dei gruppi che a vario titolo hanno avuto un ruolo nella vicenda.

  1. Il primo dato che emerge è il legame di Michele Sindona con ambienti mafiosi italiani e americani ed il ruolo preminente che tale associazione criminale ha avuto nel tentativo di salvare le banche a lui facenti capo attraverso l’alleggerimento della sua posizione processuale.
  2. Elementi in tale senso sono il coinvolgimento della mafia nelle minacce al commissario liquidatore della Banca Privata italiana, Giorgio Ambrosoli, nelle minacce a Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca, nell’omicidio dello stesso Giorgio Ambrosoli commesso da sicari venuti dagli Stati Uniti d’America, il coinvolgimento di mafiosi di grosso calibro non solo italo americani come John Gambino, ma anche siciliani (vedi il ruolo della famiglia mafiosa di Rosario Spatola, quello di Stefano Bontade, di Giacomo Vitale, di Angelo Siino e Joseph Miceli Crimi nel grottesco tentativo, posto in essere da Michele Sindona nell’estate del 1979 quando era arrivato in Sicilia dopo un viaggio rocambolesco, per inscenare un golpe separatista della Sicilia mentre in realtà voleva solo tentare di salvare la sua posizione esercitando una continua e persistente pressione ricattatoria su ambienti e persone al solo scopo di ottenere un aiuto concreto per superare la sua critica situazione; linea questa esercitata anche nei mesi precedenti attraverso l’avvocato Rodolfo Guzzi nei confronti di Giulio Andreotti e di Roberto Calvi (ruolo del giornalista Luigi Cavallo–lo stesso indicato da Antonio Mancini come persona in contatto con Danilo Abbruciati a Milano - come titolare di agenzia giornalistica per fare ottenere denaro a Michele Sindona mediante affissione di volantini nella città di Milano e la pubblicazione, chiaramente ricattatoria nei confronti di Roberto Calvi, di articoli sulla propria agenzia tanto che quest’ultimo aveva versato a Michele Sindona $ 500.000.000).

  3. Il secondo dato che emerge è il legame di Sindona con gli ambienti della massoneria, italiana e internazionale, meglio ancora se segreta. La riprova discende dal fatto che sono affiliati alla massoneria internazionale Paul Rao e Philip Guarino (che nel 1976 hanno un incontro con Licio Gelli dopo essere stati ricevuti da Giulio Andreotti), che alla loggia segreta P2 sono affiliati Licio Gelli, Rodolfo Guzzi, avvocato di Sindona e contemporaneamente intermediario tra Michele Sindona e Giulio Andreotti, Joseph Miceli Crimi, il medico che durante il falso sequestro di Michele Sindona, per avvalorare la messinscena, gli aveva sparato un colpo di pistola ad una gamba, Donato Lo Prete e Raffaele Giudice, ai vertici della guardia di Finanza a cui Licio Gelli aveva chiesto di trasferire il maresciallo Silvio Novembre che si occupava della liquidazione della banca Privata Italiana, Roberto Calvi invitato da Lucio Gelli e Giulio Andreotti a intervenire in favore di Michele Sindona; analogamente sono appartenenti alla massoneria il ministro Gaetano Stammati, che su incarico di Giulio Andreotti aveva visionato il progetto di salvataggio delle banche di Sindona, Fortunato Federici e Mario Barone del Banco di Roma, interessati anch’essi al salvataggio delle banche di Michele Sindona; appartenenti alla loggia Camea ed ad una altra loggia segreta (loggia dei trecento) sono Michele Barresi, Stefano Bontade, Angelo Siino, Giacomo Vitale ed Aldo Vitale tutti coinvolti nel finto rapimento di Sindona.
  4. Il terzo punto che emerge è che Aldo Moro durante il suo sequestro ad opera delle Brigate Rosse scrive dei rapporti tra Giulio Andreotti e Michele Sindona anche in relazione alla nomina di Mario Barone ad amministratore del Banco di Roma.
  5. Su questo punto va immediatamente detto che durante le audizioni avanti alla commissione parlamentare di inchiesta per il caso Sindona è emerso che Michele Sindona è stato un finanziatore della D.C., che questi in occasione della campagna per il referendum per l’abrogazione del divorzio aveva erogato la somma di £ 2.000.000.000, che la nomina di Mario barone ad amministratore del Banco di Roma era avvenuto su indicazione di Amintore Fanfani che era all’epoca segretario della D.C. e del presidente del consiglio Giulio Andreotti e che per tale nomina era stato necessario modificare lo statuto della banca con la creazione di un terzo posto di amministratore delegato in pianta organica, che sulla base delle dichiarazioni di Bordoni, braccio destro di Michele Sindona, era emerso che alla notizia della nomina di Mario Barone ad amministratore delegato vi era stata una telefonata da parte di Michele Sindona a Giulio Andreotti.

  6. Il quarto punto che emerge è che Giulio Andreotti aveva rapporti da antica data con molte delle persone che a vario titolo si sono interessate della vicenda di Michele Sindona oltre che dello stesso Michele Sindona.

Andreotti infatti ha ammesso di avere avuto rapporti dagli inizi degli anni ‘70 quando Sindona era una persona stimata ed in auge, di averlo incontrato nel 1973 negli Stati Uniti d’America; è amico di Mario Barone amministratore del Banco di Roma (a sua volta finanziatore delle banche di Sindona) da vecchia data anche se tende a precisare che Barone era anche amico di Aldo Moro; ha avuto, fino a quando non e deceduto il 30/8/78, ottimi rapporti con Fortunato Federico che prima di Rodolfo Guzzi ha curato gli interessi di Sindona; ha avuto rapporti con Licio Gelli che ha svolto un ruolo rilevante per tentare di salvare Michele Sindona tanto che il numero di telefono riservato (non compariva sulla rubrica telefonica) della abitazione di Andreotti era indicato a penna, contrariamente a quello degli altri numeri, sulla rubrica sequestrata nel 1981 nella abitazione di Licio Gelli; era amico degli italo americani Rao e Guarino tanto da abbracciare il secondo in occasione dell’incontro avuto nel 1976 alla presenza di Rodolfo Guzzi; ha rapporti con Gaetano Stammati da lui conosciuto e apprezzato tanto da fare parte dello staff del suo ministero e da interessarlo di esaminare il piano di salvataggio che va sotto il nome di "giro conto capisec" (Stammati è anche colui che come ministro del tesoro ha un incontro con Finardi, Evangelisti e Sarcinelli per sistemare la questione sorta tra la Italcasse e i l gruppo dei fratelli Caltagirone); è in rapporti con Della Grattan che ha un ruolo non secondario nella vicenda; ha strettissimi rapporti con Franco Evangelisti che, per la carica di sottosegretario alla presidenza da lui ricoperta durante i gabinetti guidati da Giulio Andreotti, deve godere della massima fiducia del presidente del consiglio.

In questo scenario di rapporti intersoggettivi, e all’ombra delle organizzazioni individuate, la vicenda di Michele Sindona sulla base della testimonianza di Giuseppe Azzaro, Massimo Teodori e Gustavo Minervini può così ricostruirsi:

Michele Sindona all'inizio della sua attività da un lato aveva stretti rapporti con l'Istituto opere di religione IOR, banca del Vaticano, per trasferire i capitali mobiliari dello IOR dal mercato italiano a quello internazionale e dall'altro con il Banco di Roma ed in particolare con la società Immobiliare in cui vi erano compartecipazioni dello IOR, di Michele Sindona e del Banco di Roma; di qui la sua ascesa nel mondo finanziario.

Parallelamente Sindona, che aveva creato la Banca Privata Finanziaria e la Banca Unione, aveva rapporti internazionali con la Banca Hambro's di Londra e con la Continental Bank of Illinois.

Nella Banca Unione tra i dirigenti vi erano Massimo Spada e mons. Marcinkus dello IOR; gli interessi di Michele Sindona e dello IOR erano poi confluiti nella Finabank di Ginevra che sarà al centro delle vicende di Michele Sindona per essere stato il centro del sistema finanziario "sindoniano" e dello IOR.

Nel 1971/72 le banche di Michele Sindona erano state oggetto di ispezione della Banca d'Italia che con relazione 12.4.72 aveva accertato irregolarità ma non aveva preso alcuna determinazione trasmettendo le relazioni alla magistratura solo nel febbraio 1973.

Nel luglio 1973 il Banco di Roma aveva affidato alla Franklin Bank, facente parte del "sistema sindoniano", la collocazione sul mercato estero di un prestito obbligazionario di istituti di diritto pubblico italiano e di tale prestito obbligazionario era stato acquirente anche la Franklin Bank che all'epoca era già in crisi di liquidità ed era sottoposta ad attenzione delle autorità americane.

Per le difficoltà delle sue banche Michele Sindona nel marzo 1973 si era rivolto al Banco di Roma ed aveva ottenuto attraverso la consociata estera di Nassau di quel Banco un prestito di $100.000.000 che non era stato autorizzato dall'Ufficio Cambi Italiano (va aggiunto che la persona che aveva materialmente disposto il pagamento della somma prestata, regolarmente deliberato dal consiglio di amministrazione, era stato il responsabile del settore estero in persona di Mario Barone).

Il Banco di Roma per evitare il fallimento delle banche di Michele Sindona aveva posto in essere un tentativo di salvataggio con l'assorbimento delle banche, ma tale soluzione, vista favorevolmente dalla Banca d'Italia che in questa ottica aveva in precedenza autorizzato la fusione delle due banche nella Banca Privata Italiana, non era andata in porto per l'opposizione del presidente dell'IRI proprietaria del Banco di Roma.

Michele Sindona aveva cercato, allora, di porre rimedio alla situazione con un doppio aumento di capitale della Finambro, sua società, prima fino a 20 miliardi e poi fino a 160 miliardi. Operazione non andata in porto perché il secondo aumento di capitale, benché la delibera societaria fosse stata irregolarmente omologata, era priva dell'autorizzazione del comitato interministeriale del credito presieduto da Ugo La Malfa che, non sicuro di avere la maggioranza per respingere la richiesta, per molti mesi non aveva convocato il comitato stesso (va precisato che per tale aumento di capitale vi erano state altre irregolarità perché il precedente aumento di capitale non era stato versato e il verbale di assemblea, che aveva deciso tale aumento di capitale, era stato irregolarmente omologato tanto che successivamente la omologazione era stata revocata.

La conseguenza del mancato aumento di capitale della Finambro era stata la dichiarazione di insolvenza delle due banche, che nel frattempo si erano fuse, e la messa in liquidazione coatta della Banca Privata Italiana era stata decretata dal tribunale di Milano in data 14.10.1974.

In data 27.9.74 era stato emanato un decreto ministeriale che aveva creato una cintura di salvataggio intorno alle banche di Michele Sindona garantendo i risparmiatori e i depositati (le banche subentranti acquisivano un valore negativo che era compensato da una dote che lo Stato Italiano dava loro mediante la anticipazione su titoli a tasso dell'uno per cento per cui le banche, vendendo i titoli tassi di mercato lucravano la differenza).

La cintura di salvataggio posta in essere escludeva il rimborso dei depositanti coinvolti nella esportazione illegale di capitali stabilendo il rimborso dei soli piccoli risparmiatori (c.d. decreto Sindona).

Così ricostruito il quadro della intera vicenda elementi di giudizio per l’accertamento di fatti rilevanti per questo processo possono trarsi dalla sentenza emessa dalla corte di assise di Milano per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, avvenuto a Milano il 14/7/1979.

Tale sentenza ha accertato, per quello che qui interessa:

Altri elementi di prova emergono, poiché il parlamento italiano ha istituito una commissione parlamentare di indagine per accertare cosa fosse accaduto nella vicenda delle banche di Michele Sindona, dalle deposizioni di Gustavo Minervini, Giuseppe Azzaro e Massimo Teodori i quali riferiscono il contenuto degli accertamenti fatti in quella sede.

Vale, peraltro, ancora sottolineare che questa corte non può prendere in considerazione, se non sulla base di una propria valutazione del materiale probatorio acquisito, le conclusioni a cui è pervenuta la commissione parlamentare di indagine che esprime un giudizio politico che, come tale non può entrare a fare parte del processo.

Dalle testimonianze dei predetti parlamentari, escussi nel processo a carico di Giulio Andreotti celebratosi presso il tribunale di Palermo, qui transitati legittimamente, si è avuta la conferma che Giulio Andreotti nell’ambito della vicenda relativa alla messa in liquidazione della Banca Privata Italiana ha avuto contatti con Paul Rao, Philip Guarino (sui quali vi erano informazioni negative da parte dell’ambasciatore italiano Gaia comunicate al ministero degli esteri e al Quirinale), con Fortunato Federico, il quale aveva accesso presso Giulio Andreotti per esporre le ragioni di Michele Sindona ( Giulio Andreotti parteciperà al suo funerale tornando dalle ferie come risulta dalle sue agende) e, dopo la sua morte, con Rodolfo Guzzi; si è avuta la conferma che effettivamente Giulio Andreotti aveva avuto tra le mani il progetto di salvataggio della Banca Privata Italiana, che per seguire tale progetto aveva incaricato il Ministro Gaetano Stammati, che vi erano stati tentativi per fare incontrare l’avv. Rodolfo Guzzi, emissario di Michele Sindona, con i vertici della Banca d’Italia sia attraverso Franco Evangelisti che attraverso Gaetano Stammati.

Dalla testimonianza di Giuseppe Azzaro è emerso che non era risultato:

Dalla testimonianza di Giuseppe Azzaro era emerso:

Le circostanze riferite da Giuseppe Azzaro sono arricchite da quelle fornite da Gustavo Minervini, anch’esso membro della commissione parlamentare di inchiesta sul caso Sindona il quale ha dichiarato che:

In particolare l'estradizione chiesta dall'autorità giudiziaria di Milano per bancarotta e falso in bilancio, era stata trasmessa dal ministero degli esteri in data 1.3.75 all'ambasciata italiana negli Stati Uniti d’America che l'aveva trasmessa in data 2.3.75 in base alle norme del nuovo trattato di estradizione del 11.3.1975; vi era stata una prima sentenza a cui avevano resistito gli avvocati di Sindona che a sostegno delle loro istanze avevano presentato una serie di "affidavit" tra cui quelli di Carmelo Spagnuolo, procuratore generale presso la corte di appello di Roma, di Licio Gelli, di Flavio Orlando deputato socialdemocratico, Philip Guarino, lo stesso che si era incontrato con Andreotti per perorare il salvataggio delle banche di Sindona, Edgardo Sogno, l'avv. Strina, legale italiano di Sindona; il ministero di grazia e giustizia italiano, richiesto di fornire un profilo delle persone che avevano rilasciato l'affidavit, aveva risposto che si trattava di persone sconosciute ad eccezione di Sogno e di Spagnuolo; nel gennaio 1977 l'ambasciatore italiano Gaia aveva comunicato che era prossima la sentenza del giudice Griesa sulla estradizione di Michele Sindona e che la pronunzia avrebbe potuto essere anche interlocutoria; successivamente l'ambasciatore italiano Gaia, in data 18.5.77, aveva comunicato che la domanda di estradabilità era stata accolta mentre non era stata accolta quella di arresto di Sindona; successivamente alla sentenza di estradabilità erano giunti a Giulio Andreotti lettere e telegrammi della comunità italiana che sollecitavano interventi a favore di Michele Sindona sostenendo che si trattava di processo politico; avverso la sentenza di estradabilità del 18.5.77 era stata proposta opposizione da parte di Michele Sindona che era stata respinta; in data 19.3.1979 l'ambasciatore Italiano a New York comunicava che Michele Sindona era stato rinviato a giudizio per il fallimento della Franklin Bank e che dopo tale rinvio Michele Sindona aveva proposto altra opposizione alla estradizione sostenendo che i fatti giudicabili in Italia erano gli stessi del processo americano; sulla base della opposizione di Michele Sindona l’estradizione era stata sospesa dal giudice Werker il quale in data 6.7.79 aveva dato termine di gg 10 per presentare documenti a suffragio della richiesta di estradizione ma tali documenti non erano arrivati in tempo perché dal ministero della giustizia i documenti erano stati trasmessi a quello degli esteri a mezzo di assicurata ordinaria e l'assicurata aveva impiegato gg 20 per arrivare a destinazione (peraltro privi del visto di autenticazione del funzionario del ministero di grazia e giustizia); contro tale decisione era stato proposto appello che era stato accolto in data 25.3.80 e era stata confermata la estradabilità di Sindona.

a)la prima in data 19.1.79 in cui si fa riferimento a Della Grattan la quale invitava Michele Sindona a sollecitare l'intervento immediato affinché l'operazione fosse indirizzata nel senso desiderato e si scusava del suo comportamento perché erano altri che lo spingevano a ciò;

b) la seconda in data 1.3.79 in cui Michele Sindona, in relazione ad un loro colloquio chiedeva urgentemente un intervento su Warren Cristopher (segretario di stato americano) al fine di rappresentare le conseguenze negative per i due paesi nel caso in cui il nostro paese (secondo Minervini) fosse richiesto di chiarimenti;

c) la terza in data 9.3.79 in cui Michele Sindona diceva che nulla si era saputo (in relazione alla richiesta fatta nella precedente lettera) per cui i legali incaricati di prendere contatti con il dipartimento di Stato (Warren Cristopher) erano smarriti e preoccupati e chiedeva a Giulio Andreotti di essere messo in condizioni di dire qualcosa ovvero che questi facesse sapere qualcosa;

d) la quarta lettera in data 9.3.79 in cui Michele Sindona dava atto di avere ricevuto il messaggio di Giulio Andreotti e gli comunicava che Della Grattan aveva fissato un incontro con il consulente legale del dipartimento di stato americano per il giorno 13.3.79 e lo pregava di telefonare a Della Grattan il giorno successivo perché quella non era riuscita a contattare Giulio Andreotti;

e) la quinta del 13.3.79 in cui Michele Sindona comunicava che il giorno dopo il giudice avrebbe dovuto procedere alla sua incriminazione per i fatti della Franklin Bank e che l'ultima carta da giocare era un incontro diretto con la persona fisica a cui Giulio Andreotti avrebbe parlato o fatto parlare; f) la sesta lettera in data 14.3.79 in cui Giulio Andreotti veniva informato che Della Grattan gli aveva comunicato che nessun intervento era stato fatto presso il dipartimento di stato americano da parte di Giulio Andreotti o che temeva che la persona prescelta non avrebbe espletato il mandato ricevuto; g) la settima lettera in data 20.3.79 in cui comunicava che vi era stata la formale incriminazione per la Franklin Bank e che il 29.3.79 si doveva trattare la questione della libertà provvisoria e chiedeva un incontro perché aveva bisogno di parlare a Giulio Andreotti di persona.

h) l’ottava lettera in data 4.3.1979 in cui Michele Sindona insisteva sulla gravità della situazione in quanto mancando l'intervento o ritenendo che fosse mancato l'intervento si perdeva di credibilità all'interno e all'esterno e concludeva testualmente "la prego di dare le opportune istruzioni e occorrendo di convocarmi per riferire.

Dalla deposizione di Silvio Novembre si ha l’ulteriore conferma degli stretti rapporti tra Banca Privata Italiana e Banco di Roma e dei rapporti tra la prima e Mario Barone, amministratore del Banco di Roma, in ordine alla erogazione di un prestito di circa § 100.000.000 alla Banca Privata Italiana ricevendo in pegno le azioni della banca e assumendone la gestione in persona anche di Mario Barone.

Dalla stessa deposizione emergono due altre circostanze e cioè che dopo la liquidazione della Banca Privata Italiana Mario Barone, in violazione di legge, aveva rimborsato dei crediti, nominativamente di banche estere facenti capo a Michele Sindona ma di fatto di depositanti italiani che avevano illegalmente esportato capitali all'estero, per cui Mario Barone era stato processato per bancarotta preferenziale ma amnistiato in istruttoria.

Silvio Novembre sa anche, avendo, lavorato a fianco del liquidatore della Banca Privata Italiana, che negli anni 1976/77 Fortunato Federici e Rodolfo Guzzi, prima, e il solo Rodolfo Guzzi, poi, nell’illustrare le soluzioni per la sistemazione della vicenda avevano speso, nei confronti di Giorgio Ambrosoli, il nome di Giulio Andreotti dicendogli che a quel progetto era interessato lo stesso Andreotti; analoghe indicazioni erano state fatte dal genero di Michele Sindona, Piersandro Magnoni il quale però indicava in tutta la D.C. gli sponsor della operazione.

Va aggiunto per completezza che il nome di Giulio Andreotti era stato fatto anche dal mafioso che aveva fatto le telefonate minacciose a Giorgio Ambrosoli dicendogli di avere saputo da Giulio Andreotti che l’unico ostacolo alla accettazione del piano di salvataggio era proprio Giorgio Ambrosoli.

L’esistenza di pressioni per l’accettazione del piano di salvataggio della Banca Privata Italiana, ovvero, per meglio dire con le parole di Gustavo Minervini, il piano di salvataggio a spese dello Stato Italiano di Michele Sindona che sarebbe tornato alla guida delle sue società, non è stata rivolta nei confronti del solo Giorgio Ambrosoli, ma anche nei confronti dello stesso Silvio Novembre, attraverso velati avvertimenti, e dei vertici della Banca d’Italia come emerge dalla deposizione di Massimo Riva il quale riferisce di avere appreso dal governatore della Banca d’Italia di pressioni fatte nei confronti dei vertici della stessa Banca e come si evince anche dalla deposizione di Mario Sarcinelli il quale, pur riconoscendo che mai era stata posta in discussione l’autonomia dell’istituto di emissione, ha parlato di velati avvertimenti.

Questi gli elementi di fatto su cui porre l’attenzione.

Giulio Andreotti in merito alla intera vicenda ha negato ogni suo coinvolgimento ammettendo solo il suo interessamento per il salvataggio della Banca Privata Italiana, attraverso Fortunato Federici prima e Rodolfo Guzzi poi precisando però che:

La tesi difensiva è riduttiva perché, a parere della corte, l’interessamento di Giulio Andreotti è stato più pregnante di quanto da lui asserito. Ciò emerge a chiare lettere dalla deposizione di Rodolfo Guzzi il quale, nella sua veste di legale di Michele Sindona dal 1974 al 1980 ne ha seguito tutte le vicende, ha riferito non solo circostanze apprese da terze persone che a lui erano professionalmente legate, o con questi avevano stretti rapporti connessi alle sue vicende (si fa riferimento in particolare a Fortunato Federici, a Della Grattan, all’avv. Ungaro che era tra l’altro amico di Giulio Andreotti –vedi al riguardo quanto riferito dal teste Salvatore Albano sui motivi della sua conoscenza con Giulio Andreotti), ma anche circostanze vissute in prima persona, specie per quanto riguarda il contenuto dei colloqui da lui avuti con lo stesso Giulio Andreotti.

Da tale testimonianza, che trova conferma in altri elementi probatori di cui già si è detto, emerge che l’interesse di Giulio Andreotti per Michele Sindona è iniziato quanto meno dal 23/8/1976 allorché ha incontrato i due italo americani Paul Rao e Philip Guarino.

A quel tempo la vicenda della Banca Privata Italiana era scoppiata da parecchio tempo, Michele Sindona, colpito da mandato di cattura per bancarotta fraudolenta, per la legge italiana, era latitante negli Stati Uniti d’America tanto che la magistratura italiana aveva avviato una procedura di estradizione. La sua posizione di latitante era pertanto nota e poco importa che in quel paese Michele Sindona tenesse lezioni di economia in alcune università o conferenze di politica monetaria e fosse ossequiato e riverito. Sicuramente in Italia all’epoca –i fatti successivi dimostreranno l’esattezza del giudizio- Michele Sindona era imputato di gravi reati che avevano comportato un rilevante esborso di denaro pubblico per tutelare la massa ignara dei piccoli risparmiatori costringendo la Banca d’Italia alla emissione di titoli obbligazionari a tasso irrilevante in relazione a quelli correnti per permettere alle banche del consorzio di salvataggio di lucrare la differenza e con quella rimborsare i risparmiatori.

Di contro, nessun piano di salvataggio era stato ancora messo a punto onde l’unica questione rilevante per Michele Sindona, in quel momento, era la procedura di estradizione che, se accolta, avrebbe comportato una situazione per lui sicuramente dannosa in Italia.

Di qui la sua necessità da un lato di fare revocare il mandato di cattura nei suoi confronti e dall’altro di impedire o quanto meno di ritardare il più possibile l’estradizione.

Ed è proprio questo l’argomento del colloquio, che i due italo americani avevano avuto con Giulio Andreotti, i quali, dopo l’incontro l’avevano riferito a Rodolfo Guzzi e l’avevano confermato a Lucio Gelli, presente ancora Rodolfo Guzzi, durante la cena tenutasi quella sera all’Hotel Parco dei Principi; Licio Gelli che, per parte sua e con i suoi canali traversi, si stava interessando alla soluzione della stessa vicenda.

Ma che in quel periodo oggetto dell’interesse di Michele Sindona fosse solo il procedimento di estradizione emerge dal contenuto della lettera 28/09/76 inviata da Michele Sindona a Giulio Andreotti in cui chiedeva a quest’ultimo di contrastare la procedura di estradizione, di fare revocare la dichiarazione di fallimento della sua banca e, in altri termini, di aiutarlo nella intera vicenda.

Ulteriori elementi in tal senso emergono dalle annotazioni delle agende di Rodolfo Guzzi che indicano come la richiesta di intervento sul dipartimento di stato sia stata fatta e che si erano avute notizie che quell’ufficio non avrebbe esercitato pressioni per accelerare la procedura.

Né vale sostenere che l’estradizione è stata lunga per una serie di circostanze oggettive e per la bravura dei difensori di Michele Sindona. I due fattori non sono in contrasto, anzi si assommano, potendo concorrere allo stesso risultato. Le difficoltà oggettive e la bravura dei difensori, in assenza di una volontà della amministrazione del governo degli Stati Uniti d’America di spingere per l’estradizione (in tal senso era stata data assicurazione secondo le annotazioni sulle agende di Rodolfo Guzzi) hanno avuto il sopravvento sulle contrarie istanze di celerità fatte dall’ambasciatore italiano negli Stati Uniti d’America.

Deve poi escludersi il carattere pubblico dell’incontro perché i due italo americani erano stati ricevuti nello studio privato di Giulio Andreotti in piazza Montecitorio, l'appuntamento era stato preso direttamente da Michele Sindona (ovvero da un suo altro delegato) dal momento che il compito di Rodolfo Guzzi era stato solo quello di accompagnatore e soprattutto della sua attività Giulio Andreotti non ha reso edotto i titolari delle cariche che istituzionalmente erano deputate alla soluzione della vicenda.

Questa ultima osservazione dà, a giudizio della corte, contezza del successivo comportamento di Giulio Andreotti fino alla morte di Fortunato Federici (il quale riferisce tra l’altro a Roberto Guzzi di un incontro di Giulio Andreotti con Roberto Calvi per trovare una soluzione attraverso il Banco Ambrosiano, durante il quale l’atteggiamento di Roberto Calvi aveva lasciato sconcertato Giulio Andreotti).

Anche di tale attività non vi è alcuna traccia istituzionale.

Mai Giulio Andreotti ha partecipato dei tentativi in atto il liquidatore della Banca Privata Italiana, sia direttamente che attraverso i suoi collaboratori istituzionali, tanto che il liquidatore, Giorgio Ambrosoli, si era lamentato con Silvio Novembre, suo stretto collaboratore anche se su piani diversi, dell’isolamento in cui era stato lasciato e del disinteresse ufficiale che i politici avevano nei confronti della sorte di una delle maggiori banche private italiane.

Ma che l’interessamento di Giulio Andreotti non è stato a titolo istituzionale emerge dal comportamento da lui tenuto nel periodo successivo alla morte di Fortunato Federico durante il quale l’interlocutore è stato proprio Rodolfo Guzzi.

Il periodo va diviso in tre distinti momenti:

Questo progetto riguardava espressamente la Banca Privata Italiana e ad esso aveva partecipato inizialmente anche Mario Barone amministratore delegato del Banco di Roma; esso era stato abbandonato nella forma iniziale perché troppo oneroso per il Banco di Roma.

Il piano, successivamente e con delle modifiche, era stato sottoposto alla attenzione di Giulio Andreotti e aveva visto l’interessamento prima del ministro Gaetano Stammati, il cui nome viene comunicato a Rodolfo Guzzi con una telefonata del 2 agosto 1978 in cui Giulio Andreotti gli diceva che il Professor Gaetano Stammati lo attendeva il giorno successivo per parlare della questione, e poi del sotto segretario alla presidenza del consiglio Franco Evangelisti.

Per questo periodo, pacifico l’intervento delle due personalità, va precisato che non è credibile quanto affermato da Giulio Andreotti di non avere dato alcun incarico al sottosegretario Franco Evangelisti in quanto Rodolfo Guzzi riferisce di avere visto nelle mani di Franco Evangelisti la lettera di accompagnamento del piano di salvataggio da lui consegnata a Giulio Andreotti per cui essa non poteva essergli stata data che dallo stesso Giulio Andreotti.

Del resto che questa sia la sequenza degli eventi trova conferma indiretta nel fatto che la sostituzione di Gaetano Stammati con Franco Evangelisti era stata preannunziata a Rodolfo Guzzi dallo stesso Michele Sindona perché ritenuto più idoneo a muoversi nei meandri della politica; parimenti appare poco credibile che Franco Evangelisti, per quanto esuberante e intraprendente, abbia scavalcato il suo diretto superiore sul piano istituzionale e il suo referente politico, e si sia sostituito alla persona designata da Giulio Andreotti senza che costui non sia andato a lamentarsi con il presidente del consiglio per l’invadenza del suo sottosegretario alla presidenza del consiglio.

E’ credibile, invece, che Franco Evangelisti autonomamente abbia intrapreso delle iniziative, come quella di convocare presso la presidenza del consiglio il direttore del settore della vigilanza della Banca d’Italia Mario Sarcinelli sollevando in tal modo il rischio di un conflitto di competenze.

A tale conclusione si perviene anche sotto un altro profilo perché mentre Gaetano Stammati era persona tecnica che poteva dare un contributo solo sotto tale profilo, Franco Evangelisti era un "politico" e come tale sapeva muoversi meglio e trovare i contatti giusti per superare le eventuali difficoltà.

Se fosse vera la versione data da Giulio Andreotti secondo cui il suo intervento si sarebbe fermato nel dare risposta negativa a Rodolfo Guzzi (nell’incontro del 15/12/78), non troverebbero spiegazione il successivo incontro del 8/1/79 avvenuto perché ai primi di dicembre 1978 Della Grattan, venuta a Roma dove aveva avuto un incontro con Giulio Andreotti, aveva da questi saputo che per il momento il piano doveva essere accantonato e ciò aveva suscitato preoccupazione in Michele Sindona.

E’ per tale motivo che si ha l’incontro del 8/1/1979 in cui Giulio Andreotti ha fatto presente a Rodolfo Guzzi che Della Grattan non aveva ben compreso e che era difficile portare avanti il progetto di salvataggio in quel momento perché si sarebbero dovuti attendere tempi migliori.

Su questo ultimo punto Rodolfo Guzzi ha affermato di avere fatto a Giulio Andreotti plurime comunicazioni, a seguito di pressanti richieste da parte di Della Grattan e di Michele Sindona, circa il pericolo di una incriminazione negli Stati Uniti di America di Michele Sindona con cui era stato richiesto a Giulio Andreotti di intervenire sul segretario di Stato americano Warren Christopher perché si ritardasse questa decisone della autorità americana e di avere ricevuto in data 9/3/1979, in risposta di una sollecitazione della stessa mattinata, una telefonata di Giulio Andreotti che gli comunicava di avere dato istruzioni e che sarebbe tornato a informarsi.

A fronte degli elementi forniti dalla testimonianza di Rodolfo Guzzi, Andreotti ha sempre negato di avere fatto la telefonata del 9/3/79 sostenendo ironicamente che a telefonare sarebbe stato l’imitatore Alighiero Noschese ma ciò non è credibile sia perché non spiega come questi avrebbe potuto sapere del contenuto del colloquio avuto con Rodolfo Guzzi la mattina stessa del 9/3/1979 sia perché la versione dei fatti narrata da Rodolfo Guzzi trova conferma indiretta nelle lettere inviate da Michele Sindona a Giulio Andreotti nello stesso periodo della telefona in cui si fa riferimento proprio ad un intervento sul segretario di stato americano Warren Crhistofer.

Giulio Andreotti ha anche sostenuto che Rodolfo Guzzi non sempre è credibile ma in tal caso non troverebbe plausibile e razionale spiegazione perché questi, all’epoca stimato professionista, avrebbe dovuto annotare sulla sua agenda circostanze e fatti (alcuni dei quali sicuramente avvenuti perché riconosciuti dallo stesso Giulio Andreotti), solo perché costituivano elementi di prova in un futuro ed eventuale processo a carico di Giulio Andreotti assolutamente non prevedibile in quel momento; parimenti non spiegabile è la circostanza che sull’agenda sono state annotate circostanze riferite da persone, altrettanto stimabili, in rapporti di colleganza con Rodolfo Guzzi perché uniti nella difesa di Michele Sindona dove era necessario che tutti gli avvocati fossero messi al corrente di fatti utili allo svolgimento della difesa del comune cliente, ma che erano in un rapporto di amicizia con Giulio Andreotti e quindi in grado di smentire in qualsiasi momento quanto da Rodolfo Guzzi annotato nelle sue agende.

Va ancora detto, per la credibilità di Rodolfo Guzzi, che quanto da lui affermato circa un incontro a Roma nel dicembre 1978 tra Della Grattan e Giulio Andreotti trova conferma nella annotazione della agenda della segretaria privata di Giulio Andreotti sotto la data del 8/12/78 giorno festivo e quindi incompatibile con una attività pubblica di Giulio Andreotti (anche in questo caso Giulio Andreotti ha glissato sulla circostanza negata affermando sempre con la solita ironia che forse era la sorella di Della Grattan, ma ciò non toglie che alla annotazione debba essere dato il giusto peso).

Di nessun rilievo è anche la circostanza che non si sono avuti risultati favorevoli a Michele Sindona perché il fatto non esclude l’interessamento di Giulio Andreotti, non andato a buon fine, ovvero che egli abbia mentito su un suo interessamento, di fatto mai avvenuto, perché quello che rileva in questo momento, per i fini che qui interessano, è che Michele Sindona, colpito da mandato di cattura per fatti gravissimi, trovasse ascolto presso Giulio Andreotti tramite suoi emissari e che le sorti di costui, malgrado il danno provocato al paese, gli stessero a cuore.

Peraltro è emerso che pressioni sono state fatte sui vertici della Banca d’Italia perché si mostrasse favorevole alla soluzione della vicenda della banca di Sindona come emerge dalla testimonianza di Massimo Riva che, riferendo il contenuto di colloqui avuti con l’allora governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e avendo letto le annotazioni del diario di costui, ha affermato che per la vicenda di Michele Sindona il capo del settore Vigilanza della Banca d’Italia Mario Sarcinelli aveva subito pressioni, anche se Paolo Baffi non aveva riferito il nome dell’autore delle pressioni; sul punto è lo stesso Mario Sarcinelli che nel rievocare la vicenda del suo arresto nel marzo 1979 pur non avendo elementi per affermare che il suo arresto fosse da mettere in relazione alla sua posizione assunta per la soluzione della vicenda delle banche di Michele Sindona, ha ricordato contatti che gli erano sembrati avvertimenti.

Così, sicuramente, è stato inteso il mandato di cattura per omissione di atti di ufficio e per favoreggiamento emesso nei suoi confronti perché mancavano elementi indizianti a suo carico dovuti a carenza di un obbligo di trasmissione del rapporto alla autorità giudiziaria che incombe esclusivamente in capo al governatore e non vi erano altri elementi di accusa al di fuori di una sigla apposta da Mario Sarcinelli sul rapporto ispettivo).

Parimenti sicuramente è stato inteso come un avvertimento la successiva sospensione dai pubblici uffici mentre analogo provvedimento non era stato preso nei confronti del governatore della Banca d'Italia che era il titolare dell'obbligo e che al pari, se non di più, del capo del settore di vigilanza della Banca d'Italia poteva influire sugli ispettori – questa essendo la motivazione per la richiesta e la emissione del provvedimento di sospensione dai pubblici uffici-.

Per chiudere sull’argomento una ultima considerazione riguardante Della Grattan.

Costei, di professione addetta alle pubbliche relazioni, aveva conosciuto Giulio Andreotti circa 30 anni prima ed era con lui in ottimi rapporti perché ne curava l’immagine durante i suoi viaggi negli Stati Uniti d’America. Questa ultima circostanza è stata contestata da Giulio Andreotti ma essa appare a giudizio della corte sostanzialmente vera perché, anche se delle pubbliche relazioni Della Grattan non era formalmente incaricata, sicuramente si è interessato di Giulio Andreotti. Basta al riguardo controllare la copia del giornale "Il progresso Italo americano" in cui è pubblicata una fotografia che vede Giulio Andreotti e Della Grattan camminare affiancati per le strade della città mentre sono in visita in un quartiere frequentato da emigrati italiani.

Della Grattan è stata, poi, insignita, sotto la presidenza della repubblica di Giovanni Leone, presidente del consiglio Giulio Andreotti, della onorificenza di commentatore al merito della repubblica italiana; onorificenza, in mancanza di altri elementi che inducano a ritenere la sussistenza di tali meriti eccezionali diversi dalla amicizia e dai servigi resi a Giulio Andreotti negli Stati Uniti d’America, deve ritenersi concessa su proposta dell’allora presidente del Consiglio. Del resto che Giulio Andreotti non fosse restio a tali favori si desume dalla vicenda relativa al notaio Salvatore Albano a cui per intercessione di Giulio Andreotti è stato concesso il grado di grande ufficiale d’Italia. Tali elementi, in uno con la circostanza, riferita dalla stessa Della Grattan a Eduard Holiday, che Michele Sindona aveva incontrato Della Grattan almeno 8 volte, anche se di lui non aveva fiducia,, e che tali incontri, in mancanza di altri interessi comuni, non possono che essere riferiti al ruolo di intermediaria da lei esercitato tra Michele Sindona e Giulio Andreotti, a giudizio della corte confermano l’affermazione di Rodolfo Guzzi, secondo il quale Della Grattan è stata una intermediaria tra Michele Sindona e Giulio Andreotti.

Alla luce delle considerazioni sopra fatte, ritiene la corte che la vicenda relativa a Michele Sindona e alla sorte della sua banca sia di interesse di Giulio Andreotti oltre che del gruppo Mafioso facente capo a Stefano Bontade e ai suoi alleati.

 

 

F). LA VICENDA MORO

Carmine Pecorelli si è ampiamente occupato del sequestro di Aldo Moro, alla pari degli altri giornalisti, per l’importanza dell’evento che ha colpito uno dei massimi dirigenti del partito di maggioranza relativa del nostro paese, per l’innalzamento dello scontro armato che in quel momento storico insanguinava l’Italia, per la efferatezza dell’agguato in cui furono uccisi cinque agenti della scorta di Aldo Moro, per gli interessi in gioco in quella partita mortale tra le forze terroristiche, rappresentate dal partito armato delle Brigate Rosse, e lo stato italiano, per la paura e l’angoscia che un tale fatto aveva generato nelle coscienze dei cittadini, per i riflessi che un simile evento poteva avere, come in effetti ha avuto, sulla politica italiana.

L’attenzione di Carmine Pecorelli per il caso Moro si è diretta su vari argomenti in relazione alla evoluzione del sequestro.

In particolare, durante il periodo che va dal giorno del sequestro al 1/10/1978, giorno del ritrovamento del "c.d. memoriale Moro 1978", avvenuto a Milano, Carmine Pecorelli ha prestato attenzione:

E’ in questo filone di informazioni che vanno inseriti gli articoli pubblicati su OP in cui, oltre che a commentare notizie relativi alle lettere di Aldo Moro ufficialmente conosciute, ha dato notizie di lettere il cui invio era stato tenuto riservato (se non addirittura nascosto come quella inviata al segretario di Aldo Moro e di cui era data notizia nell’articolo "in nome del popolo trattare"), quelli in cui prende posizione sulla genuinità del contenuto delle lettere di Aldo Moro e della lucidità delle analisi fatte dallo statista (in contrasto con la tesi circolante in quel periodo di un Aldo Moro sotto l’effetto di droghe o quanto meno coartato psicologicamente; tesi peraltro smentita dallo stesso Moro nel c.d. memoriale in cui dà atto di essere a conoscenza delle voci circolanti sul suo stato di salute mentale e le confutava).

E’ in questo filone che vanno inseriti gli articoli sul "c.d comunicato del lago della Duchessa" ove sarebbe stato abbandonato il corpo di Aldo Moro e gli effetti che da tale annunzio ne sarebbero derivati.

E’ in questo filone che vanno inseriti gli articoli sulla distinzione tra lettere scritte da Moro per salvare la propria vita e i risultati del processo ad Aldo Moro che i brigatisti rossi avevano promesso di rendere pubblici (in particolare Carmine Pecorelli ha posto attenzione al fatto che sarebbero uscite dalla prigione molte lettere, rimaste segrete, dirette ai maggiori esponenti del partito in cui li rimprovererebbe di volere difendere lo stato mentre fino ad allora lo avevano tradito e truffato.

E’ sempre in questo filone che vanno inseriti gli articoli di commento alle lettere segrete pubblicate su OP quando ha affermato che in una di tali lettere, diretta a Giulio Andreotti, si parlava di accuse specifiche e spietate nei suoi confronti che avrebbero dato corpo e sostanza ai sospetti fino ad allora solo affiorati sulle malefatte private e pubbliche del presidente del consiglio e spiegava perché era stato sequestrato proprio Aldo Moro fornendo, come motivazione, l’esistenza di un progetto politico di Aldo Moro che prevedeva la sua elezione a presidente della repubblica alla scadenza del mandato di Giovanni Leone, la nomina di Benigno Zaccagnini a presidente del consiglio nazionale della DC e quella di Flaminio Piccoli a capo del governo esautorando in tal modo Giulio Andreotti; riteneva ancora che in questa prospettiva la nomina di Giulio Andreotti a capo del governo con il ripristino dell'originario progetto avrebbe significato l'esautoramento di fatto di Giulio Andreotti.

Durante il periodo che va dal ritrovamento del "c.d. Memoriale Moro 1978" alla pubblicazione del memoriale o meglio alcuni giorni dopo detta pubblicazione (che avviene intorno al 17/10/1978) Carmine Pecorelli si è interessato:

In particolare Carmine Pecorelli ha esaminato la situazione politica, ha dato conto della scoperta del covo di via Montenevoso a Milano e ha fatto notare che erano già iniziate le polemiche sul contenuto del materiale rinvenuto non sapendosi il numero degli arrestati, se i magistrati erano arrivati per ultimi, la quantità e qualità del materiale sequestrato (si fa riferimento alle bobine degli interrogatori, alla trascrizione degli interrogatori e soprattutto alla incertezza sulla completezza del materiale potendo, parte di esso, essere stato consegnato a uomini politici per essere depurato.

In particolare Pecorelli affermava che la fonte delle sue notizie era diversa da quella ufficiale e indicava sulla base di confidenze ricevute alcune circostanze che non erano vere (circostanze, anche se non tutte, che troveranno conferma quando verrà scoperto nell’anno 1990 nello stesso covo di Via Montenevoso a Milano un manoscritto di Aldo Moro; significativo sul punto è la circostanza che nel 1978 Carmine Pecorelli ha pubblicato la notizia del ritrovamento nel covo delle brigate rosse "di un manoscritto con grafia appartenente, apparentemente, ad Aldo Moro di 150 pagine formato extrastrong".

Di particolare rilievo in questo periodo sono gli articoli "Vergogna buffoni" pubblicato su Op del 16/1/1979 e l’articolo "Moro un anno dopo" pubblicato su OP del 20/3/1979 in cui Carmine Pecorelli manifestava l’intenzione di ritornare sul sequestro di Aldo Moro e di rivedere criticamente tutti gli aspetti del caso a partire dalle compiacenze e dall'inopportunità della lettera del papa a finire a coloro che avevano speculato sulla vicenda alzando il prezzo delle trattative in quanto volevano morto Aldo Moro e al riguardo (passando le notizie come ipotesi di fantapolitica) dava alcune indicazioni che implicavano la conoscenza di notizie precise sul sequestro relative a:

Questo, a giudizio della corte, era l’interesse di Carmine Pecorelli per il caso Moro ed è su tale interesse che va posta l’attenzione ai fini della individuazione del movente per verificare se quanto pubblicato su OP contenesse quanto meno "in nuce" notizie pericolose per le persone che si erano interessate del sequestro Moro.

Ritiene la corte che due siano le circostanze già pubblicate da Op che in caso di approfondimento, supportato da elementi probatori, potevano sconvolgere la valutazione del caso Moro con pesanti riflessi sulla situazione politica italiana e precisamente:

Entrambe le circostanze, se vere e portate a conoscenza del pubblico sicuramente, avrebbe sconvolto il panorama politico italiano perché erano la riprova che il potere politico non aveva voluto la salvezza di Aldo Moro e costituivano, a giudizio della Corte, un valido movente per l’eliminazione di Carmine Pecorelli per la potenziale pericolosità della notizia a sue mani.

Ora, se non vi sono elementi probatori a sostegno della circostanza della conoscenza da parte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa della prigione di Aldo Moro all’infuori della conoscenza tra Carmine Pecorelli e Carlo Alberto Dalla Chiesa, vi sono in atti elementi per affermare che erano stati presi contatti con i brigatisti rossi per la liberazione di Aldo Moro e che le trattative si erano all’improvviso interrotte.

Risulta infatti che vari sono stati i tentativi (al di fuori dei canali internazionali) di trovare la prigione di Aldo Moro e che essi non sono andati a buon fine per il veto o quanto meno per il disinteresse delle forze politiche.

Su tali tentativi occorre soffermare, anche se brevemente, l’attenzione.

Il primo tentativo ruota intorno alla figura di Edoardo Formisano che si serve, tramite la criminalità milanese facente capo a Francis Turatello e a Ugo Bossi, di Tommaso Buscetta il quale, d’altro canto, viene interessato anche dalla c.d. mafia perdente facente capo a Stefano Bontade.

Protagonisti della vicenda sono:

Questi i personaggi principali attorno ai quali ruotano altri personaggi minori il cui ruolo sarà di volta in volta illustrato.

La vicenda, come emerge dalla lettura degli atti, può, a giudizio della Corte, così ricostruirsi.

Edoardo Formisano, stante il dilagare degli attentati terroristici che in quel periodo travagliato della recente storia italiana insanguinavano le strade del paese, decide di interessarsi del fenomeno del terrorismo rosso e in particolare della politicizzazione dei detenuti comuni ad opera degli appartenenti alle Brigate Rosse detenuti nelle carceri italiane. A tal fine, verso la fine dell’anno 1977 o i primi mesi dell’anno 1978, in concomitanza con la gambizzazione di un consigliere regionale del Lazio, si mette in contatto con Ugo Bossi a Milano a cui chiede di avere notizie dal carcere tramite Turatello.

Ugo Bossi, usando delle complicità che aveva nel carcere di Cuneo, ove erano detenuti Francis Turatello e Tommaso Buscetta, in data 13/3/1978 entra nel carcere, utilizzando un colloquio con il detenuto D’Anna, per esporre la richiesta ed ottiene risposta sostanzialmente negativa da parte di Francis Turatello volendo questi combattere il terrorismo di sinistra con i propri metodi (si ha notizia della costituzione di gruppi che affrontavano anche con la forza gli appartenenti alle Brigate Rosse e che vi erano state azioni di pestaggio operate da Francis Turatello e dai suoi amici all’interno delle carceri per scongiurare l’opera di proselitismo da parte dei brigatisti rossi) e risposta positiva da Tommaso Buscetta.

Successivamente, dopo il sequestro di Aldo Moro, all’interesse di Edoardo Formisano di conoscere il fenomeno del terrorismo rosso si aggiunge quello di trovare la prigione di Aldo Moro confluendo quindi i due interessi in un unico filone. Su tale punto viene nuovamente interessato Tommaso Buscetta in altro colloquio, successivo alla data del sequestro Moro, il quale aveva manifestato la sua disponibilità a contattare brigatisti rossi per cercare di sapere il luogo della prigionia di Aldo Moro ma aveva posto come condizione (evidentemente per soddisfare anche il suo pregresso desiderio di andare via dal carcere di Cuneo in altro per lui più confortevole) di essere trasferito a Torino, dove in quel periodo si stava celebrando il processo ai capi storici delle Brigate Rosse, per avere una possibilità di successo, , per costringere costoro, con la forza, a rivelare il luogo della prigionia di Aldo Moro.

Tale ultimo intento è riferito da una fonte autorevole, militante nel campo avverso a quello di Francis Turatello, e cioè Alberto Franceschini, il quale aveva saputo, per averlo appreso dallo stesso Francis Turatello nel carcere di Nuoro, non solo che Formisano si era interessato della liberazione di Aldo Moro cercando di sapere attraverso i canali carcerari dove fosse la sua prigione, ma che l'interessamento passava attraverso la costituzione di una struttura clandestina all'interno del carcere con uomini di fiducia di Francis Turatello, una rivolta nel carcere di Torino dove allora si celebrava il processo ai capi delle BR, la presa in ostaggio di quei capi per conoscere la prigione di Moro e, alla fine, la loro uccisione finale.

Il trasferimento di Tommaso Buscetta a Torino era stato già disposto in sede locale con la complicità del maresciallo delle guardie carcerarie Manfra, in combutta con Francis Turatello e Ugo Bossi, ma era stato bloccato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a, capo della sicurezza nelle carceri, sulla base del contenuto delle intercettazioni telefoniche a carico di Ugo Bossi.

Dalle stesse intercettazioni telefoniche si ha contezza, ciò a conferma delle dichiarazioni rese da Ugo Bossi e Edoardo Formisano, delle azioni da loro intraprese per superare l’empasse dovuto all’intervento del generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

Infatti dalle telefonate fatte in corrispondenza dell'arrivo della terza lettera di Moro si ha la prova che per ottenere il trasferimento era necessario una nuova domanda perché il ministero aveva scavalcato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e che preposto a tale incombente era proprio Edoardo Formisano il quale vantava l’amicizia di persone importanti, e tra queste Claudio Vitalone, e aveva interessato Wilfredo Vitalone per il trasferimento.

In quella direzione vanno gli incontri tra Edoardo Formisano ed il generale Enrico Vitali a cui il primo si era rivolto per fare trasferire Tommaso Buscetta da Cuneo a Torino sottoponendogli anche una lista di persone disposte farsi arrestare per arrivare alla scoperta della prigione di Aldo Moro. Particolare interesse meritano, poi, nei rapporti di Ugo Bossi con Edoardo Formisano per ottenere il trasferimento di Buscetta, gli stimoli e le provocazioni dal primo fatti al secondo perché si attivasse ed i viaggi di Ugo Bossi a Roma per incontrare personalità dello Stato, a conferma del beneplacito, per continuare la ricerca della prigione di Aldo Moro.

Il tentativo di trovare la prigione di Aldo Moro posto in essere da Edoardo Formisano tramite Ugo Bossi, Francis Turatello e Tommaso Buscetta non è andato a buon fine perché non è mai stato superato l’ostacolo per il trasferimento di Tommaso Buscetta presso il centro clinico di Torino per il mancato interessamento di Edoardo Formisano che, intenso per un certo tempo, era in seguito diminuito anche se non si era mai arrestato.

E’ stato sostenuto da taluni difensori che la richiesta di trasferimento di Tommaso Buscetta presso il centro clinico di Torino non era finalizzata a contattare elementi delle Brigate Rosse, ma esclusivamente a permettere a quest’ultimo di allontanarsi dal carcere di Cuneo, considerato molto duro, e che l’intervento di Edoardo Formisano non era diretto a salvare la vita di Aldo Moro, ma solo a ottenere benefici per Francis Turatello imputato in quel periodo di gravi delitti.

La tesi non è condivisa da questa corte.

E’ ben vero che Tommaso Buscetta aveva cercato in tutti i modi di essere trasferito dal carcere di Cuneo, adducendo a giustificazione un suo asserito e falso stato di salute, prima che Aldo Moro fosse sequestrato; è ben vero che Edoardo Formisano e Ugo Bossi cercavano in tutti i modi di aiutare Francis Turatello, ma ciò non esclude che essi si siano adoperati per cercare la prigione di Aldo Moro. Tali circostanze significano solo che essi possono avere agito non solo per altruismo ma anche per tornaconto personale. Ne sono riprova:

Questa ultima circostanza è negata da Claudio Vitalone anche se egli riconosce che in varie occasioni, nel suo ufficio, Edoardo Formisano gli aveva dato consigli sul terrorismo.

Ritiene sul punto la corte, che l’affermazione di Edoardo Formisano trova conferma nel contenuto della lettera, scritta il 16.6.1979, quando l’accusa nei confronti di Claudio Vitalone era di là da venire ed egli era uno stimato e apprezzato magistrato della repubblica italiana appena eletto alla carica di senatore; in essa Edoardo Formisano comunicava a Ugo Bossi l’avvenuta elezione a senatore di Claudio Vitalone (amichevolmente chiamato Claus) e richiamava il loro interessamento quando alla Repubblica "scottava il culo" e gli era stato richiesto di rivolgersi a Ugo Bossi e ad altri proprio per il suo nome (ritiene la corte che si riferisce a Francis Turatello e all’intervento per cercare di salvare Aldo Moro), e lo definiva loro comune amico a cui aveva parlato del tentativo di trovare la prigione di Moro nelle occasioni in cui andava a trovarlo nel suo studio (di cui dà anche una sommaria descrizione).

Del resto che Claudio Vitalone e Edoardo Formisano si frequentassero è ulteriormente confermato dal fatto che il primo era stato ospite del secondo nella sua villa di Ansedonia nell’estate del 1977 come è ammesso dallo stesso Claudio Vitalone.

Ora se tra i due vi era una certa amicizia, se tra i due si parlava di terrorismo, appare ben strano che Edoardo Formisano, anche per l’emozione che il sequestro di Aldo Moro aveva generato nel paese e per l’importanza che avrebbe acquisito se il suo tentativo avesse avuto buon esito, non abbia messo al corrente il suo amico magistrato della attività più importante che in quel periodo stava facendo nel campo del terrorismo con il beneplacito, se non proprio l’invito, di talune autorità come il questore Mangano e il colonnello Vitali, specie se si tiene presente che nello stesso periodo anche Claudio Vitalone stava cercando di liberare Aldo Moro (di ciò si dirà in seguito).

Né sul punto è pensabile che Edoardo Formisano sia mosso da spirito di vendetta nei confronti di Claudio Vitalone perché il motivo di rancore, dovuto alla condanna da lui subita per detenzione e porto di armi insieme a Filocamo Ugo, a seguito di un processo nato da una relazione di Claudio Vitalone, è successiva alla lettera sopra richiamata in cui si lamentano già le incomprensioni dello Stato Italiano per la attività espletata da Bossi e Formisano in favore della liberazione di Moro.

Del resto vi è prova in atti di un emblematico episodio di cui sono protagonisti gli alti vertici dell’arma dei carabinieri –generale Siracusano e generale Coppola- di tentato sviamento degli investigatori dall’accertamento della reale portata, del reale coinvolgimento e del reale ruolo della malavita organizzata nella vicenda Moro (il colonnello Giuseppe Vitali ha affermato che la proposta era interessante e di averne parlato ai suoi superiori diretti e si è interessato per verificare la fattibilità del trasferimento di Tommaso Buscetta a Torino, mentre il generale Enrico Coppola solo dopo un confronto ha ammesso che tale comunicazione gerarchica non vi era stata); comportamento che trova la sua giustificazione nel diminuito interessamento in Edoardo Formisano alla riuscita dell’iniziativa dopo che "Frank tre dita Coppola" aveva suggerito a Ugo Bossi di desistere dal tentativo di trovare tramite Tommaso Buscetta la prigione di Aldo Moro.

Questo ultimo argomento conduce, in concomitanza con il tentativo operato da Edoardo Formisano di trovare la prigione di Aldo Moro, all’identico interesse mostrato dalla mafia, in persona di Stefano Bontade, per la salvezza di Aldo Moro.

Costui si era fatto promotore di analogo tentativo perché sollecitato da esponenti politici siciliani come Rosario Nicoletti oltre ai cugini Nino e Ignazio Salvo.

A tal fine Stefano Bontade aveva fatto venire a Palermo da Roma, pochi giorni dopo il sequestro di Aldo Moro, Angelo Cosentino, capo della sua decina romana, per verificare cosa potesse farsi; Angelo Cosentino, dopo aver interpellato Giuseppe Calò, aveva escluso che vi fossero speranze di liberare Moro, ma Stefano Bontade era riuscito a fare convocare la commissione per discutere della richiesta avuta e malgrado la contrarietà di Giuseppe Calò (il quale adduceva a motivo dell’opposizione ad un intervento della mafia per trovare la prigione di Aldo Moro che non era opportuno che la mafia si interessasse di cose politiche) a questi era stato chiesto da Stefano Bontade di cercare di fare trasferire Tommaso Buscetta, il quale in carcere, dove aveva conosciuto dei brigatisti rossi, in un carcere del nord dove potesse prendere dei contatti ma la cosa non era mai giunta a conclusione.

Il secondo tentativo ruota intorno alla figura di Benito Cazora, parlamentare della Democrazia Cristiana.

Esso nasce, come raccontano lo stesso Benito Cazora, Francesco Varone e Vincenzo Vinciguerra, e come indirettamente confermato da Sereno Freato e Emilio Pellicani, dall’incontro avvenuto pochi giorni dopo il sequestro di Aldo Moro tra il parlamentare democristiano e un individuo, successivamente identificato in uno dei fratelli Varone e precisamente Salvatore, che si faceva chiamare Rocco, il quale gli dice che vi era la possibilità di trovare la prigione di Aldo Moro e che per questa informazione non voleva denaro, ma solo agevolazioni per sé e per i suoi familiari.

Benito Cazora aveva comunicato le notizie alla direzione della D.C. in persona di Giuseppe Pisanu il quale si era mostrato interessato e gli aveva risposto che avrebbe dato una risposta. Dopo circa quattro giorni Benito Cazora era stato convocato presso la sede della D.C. ma mentre stava parlando con Giuseppe Pisanu era arrivata una delegazione del P.C.I. per cui Giuseppe Pisanu si era allontanato tornando dopo circa un quarto d'ora per comunicargli che nessuna trattativa era possibile. Tale impossibilità era stata riferita a Salvatore Varone il quale però, per dimostrare la sua attendibilità, lo aveva portato sulla Cassia all'altezza di Via Gradoli dicendogli che quella era la zona del covo ove era custodito Aldo Moro.

Tale informazione era stata immediatamente passata al questore De Francesco il quale il giorno dopo gli aveva detto che le ispezioni non avevano portato a nulla (va ricordato che il covo di via Gradoli scoperto il 18.4.1978 era stato oggetto di accertamenti precedenti che non avevano portato ad alcun utile risultato).

In data 18/4/1978, proprio nel giorno in cui era stato distribuito il volantino del lago della Duchessa, ed era stato scoperto il covo di via Gradoli, Salvatore Varone gli aveva telefonato dicendogli che aveva avuto ragione e che il volantino del lago della Duchessa era falso. Sempre in quella occasione Salvatore Varone gli aveva chiesto una fotografia ingrandita pubblicata sul messaggero e raffigurante la scena del delitto perché riteneva di avere riconosciuto un parente che avrebbe potuto essere implicato nel sequestro se era in quel posto.

Benito Cazora aveva richiesto la foto al ministro Francesco Cossiga il quale gli aveva detto di passare al ministero quella stessa sera; la sera il capo di gabinetto Squillante non solo non gli aveva dato la foto, ma, al contrario, gli aveva fatto una predica sulla inopportunità di qualsiasi trattativa. Benito Cazora aveva raccontato tutto a Sereno Freato, segretario di Aldo Moro, il quale aveva voluto incontrare Salvatore Varone restando colpito positivamente da quello che costui gli aveva detto perché coincidente con alcune notizie a sue mani; aggiungeva Benito Cazora che anche tramite Sereno Freato non era stato possibile avere la fotografia perché il negativo, che era stato consegnato al P.M. Luciano Infelisi, non si trovava.

Da Salvatore Varone era stata prospettata la necessità di acquisire notizie da suo fratello Antonio detenuto in un carcere della Sardegna per cui era necessario avere un colloquio con lui. Malgrado le richieste non era stato possibile ottenere tale colloquio.

Salvatore Varone aveva chiesto, allora, di fare temporaneamente trasferire il fratello a Roma per avere il colloquio e ciò era avvenuto dopo circa 20 giorni, e cioè circa otto giorni prima del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro.

Benito Cazora si era incontrato con Antonio Varone, usufruendo della sua qualità di parlamentare, e da lui aveva ottenuto una serie di nomi e la informazione che tramite una promessa alla moglie di Notarnicola sarebbe stata trovata la prigione di Aldo Moro; questa ultima circostanza era stata immediatamente comunicata al questore che aveva detto che la cosa non era fattibile.

Contestualmente, gli appunti presi in carcere con la serie di nomi ricevuti da Antonio Varone, erano stati consegnati al questore.

Continuava Benito Cazora affermando che Salvatore Varone gli aveva detto che in ogni caso loro avrebbero continuato le ricerche perché ritenevano di avere individuato la prigione di Aldo Moro.

Il sette maggio Salvatore Varone aveva telefonato dicendo di andare in via della Camilluccia ove avrebbero incontrato delle persone. Effettivamente avevano incontrato una persona che gli aveva detto che avevano individuato la prigione, che erano pronti a intervenire perché sapevano che da 36 ore Aldo Moro era solo perché i suoi carcerieri erano in una città del nord in riunione e che il cadavere di Aldo Moro sarebbe stato restituito il martedì successivo. La persona aggiungeva che avevano in ogni caso bisogno dell'aiuto della polizia per fare una irruzione.

Benito Cazora aveva allora parlato con il sottosegretario Lettieri il quale a sua volta aveva telefonato al capo della polizia ma al suo posto era venuto il questore De Francesco il quale aveva detto che da loro informazioni Aldo Moro sarebbe stato consegnato vivo il successivo martedì e che non poteva fornire il personale richiesto.

Il martedì Aldo Moro era stato ritrovato morto.

La versione dei fatti data da Benito Cazora trova conferma:

Il terzo tentativo ruota intorno alla figura di Daniele Pifano.

Daniele Pifano, leader dell’autonomia operaia, riferisce che:

La vicenda come narrata da Daniele Pifano non è sostanzialmente contestata da Claudio Vitalone il quale si riporta ad una sua relazione redatta in data 7/5/1978 e diretta al Procuratore Generale presso la corte di appello di Roma, se non nella parte relativa alla durata ed al tempo in cui l’intera vicenda si era svolta non ritenendo corretto quanto riferito sul punto da Daniele Pifano.

Ritiene la corte che il numero degli incontri avuti tra i due protagonisti, le modalità dell’intervento di Daniele Pifano, che per sua ammissione necessitava del consenso dell’assemblea dell’autonomia operaia la quale per essere convocata richiedeva comunque un lasso di tempo (era necessaria perché Daniele Pifano non era in contatto con i brigatisti rossi e riteneva che alcuni di loro frequentassero le assemblee perché nella loro lotta armata i brigatisti rossi non potevano non tenere conto delle opinioni del movimento dell’autonomia operaia e il modo per conoscere tali opinioni era quello di frequentare le assemblee), i riferimenti, fatti da Daniele Pifano per localizzare gli avvenimenti, alla chiusura della sede di Via dei Volsci e alla definizione del processo per l’occupazione del policlinico di Roma da parte del movimento dell’autonomia operaia, il riferimento al dato emergente dai comunicati delle Br in ordine allo scambio di prigionieri per la liberazione di Aldo Moro, il riferimento alla possibilità di liberazione della brigatista rossa Paola Besuscio per motivi umanitari, il riferimento a trattative diverse che si svolgevano a Torino e che non potevano essere quelle relative alla liberazione di Paola Besuscio avendo lo stesso Claudio Vitalone escluso di essere riuscito a entrare in contatto con i magistrati di Torino da cui dipendeva la liberazione della detenuta, fanno ritenere che il periodo e la durata della vicenda che vede come protagonisti Claudio Vitalone e Daniele Pifano sia quello indicato da Daniele Pifano.

Né la documentazione prodotta da Claudio Vitalone, il quale asserisce che sicuramente Daniele Pifano non ha un esatto ricordo proprio perché egli ha documentato la propria attività nella relazione de 7.5.1978, quando non era pensabile un suo coinvolgimento nell'omicidio di Carmine Pecorelli, è idonea a modificare il convincimento della corte atteso che, per espressa ammissione dello stesso Claudio Vitalone, egli del tentativo in atto, come esattamente riferito da Daniele Pifano, ha reso partecipe il ministro di grazia e Giustizia Francesco Bonifacio ed il presidente del consiglio Giulio Andreotti i quali si erano mostrati contrari a qualsiasi trattativa. Tale comportamento appare incompatibile con la mancanza di ogni comunicazione dell’iniziativa nei confronti dei titolari dell’azione penale.

La realtà, secondo la Corte, è che nel caso di specie, come meglio sarà detto in seguito, in quella occasione Claudio Vitalone non ha agito come magistrato della repubblica italiana, ma come un politico e come tale ha dato conto del suo operato ai suoi referenti politici e non anche ai magistrati titolari dell’inchiesta e la relazione scritta con la indicazione dei tempi in un ambito ristretto successivo al passaggio ufficiale dell’inchiesta dalla procura della repubblica presso il tribunale di Roma alla procura generale presso la corte di appello di Roma non ha altro significato, se non quello di giustificare il silenzio nei confronti dei titolari dell’inchiesta di una iniziativa che oramai iniziava a trapelare tanto che Luciano Infelisi, unico legittimato a prendere iniziative nel campo giudiziario, salva espressa delega del capo della procura, ha dichiarato di avere appreso della iniziativa di Claudio Vitalone da colleghi e avvocati ma non da Claudio Vitalone.

Claudio Vitalone nella memoria prodotta sul tema adombra il sospetto che le altre trattative a cui ha fatto cenno Daniele Pifano siano quelle relative al trasferimento di Tommaso Buscetta a Torino, ma tale collegamento non è possibile atteso che le trattative tramite Tommaso Buscetta non sono mai iniziate perché ne è mancato il presupposto: il suo trasferimento al centro clinico di Torino.

Quello che occorre porre in rilievo è che proprio la conoscenza da parte di Claudio Vitalone di altre trattative a Torino conferma che egli ha agito non nell’ambito del suo ruolo istituzionale, all’epoca era magistrato, ma come politico essendo confermato dallo stesso Claudio Vitalone che la trattativa era di natura politica e la notizia non può averla appresa che da fonte politica.

Il quarto tentativo ha come protagonista Flaminio Piccoli leader della democrazia cristiana.

Vi è agli atti la testimonianza di Maurizio Abbatino il quale riferisce che per tentare di trovare la prigione di Aldo Moro vi era stato un incontro tra esponenti della Banda della Magliana ed in particolare Selis e Giuseppucci. Di tale evento non vi sono però altri riscontri e deve ritenersi non provato.

Alla luce della esposizione sopra fatta e delle considerazioni che da tale esposizione sono discese, emerge un dato comune a tutti gli episodi relativi ai tentativi di salvare l’onorevole Aldo Moro: ad un dato momento le trattative, che in un primo momento hanno avuto il beneplacito di "persone delle istituzioni", non sono andate a buon fine e si è lasciata cadere ogni possibilità ufficiosa di salvare la vita di Aldo Moro.

Questo non vuole essere una critica alla c.d. politica della fermezza non rientrando tra i compiti di questa corte valutare l’opportunità o la convenienza politica di una tale scelta ma solo la constatazione di un dato di fatto che prescinde dalla ufficialità delle trattative perché non si è dato credito a persone che agivano come privati cittadini per cui la linea di rigore, scelta dalle forze politiche e dal governo della repubblica italiana, non avrebbe subito alcun compromesso.

Circostanza quest’ultima acquisita anche a questo dibattimento dove non si è disconosciuto che sono stati fatti tentativi non ufficiali per arrivare ad una felice conclusione della vicenda.

In tal senso, oltre che nei casi appena trattati, va anche il tentativo, riferito dal maresciallo Angelo Incandela, fatto dal detenuto Panariello il quale era stato trasferito da Cuneo a Roma per cercare la prigione di Aldo Moro e che, a detta del Panariello, era stato lasciato solo dalla questura per cui aveva preferito ritornare a Cuneo.

Quanto appena detto trova una autorevole conferma nelle parole dello stesso Aldo Moro che per la posizione in cui si trovava era partecipe e osservatore diretto dell’evolversi della situazione avendo con i suoi carcerieri, come si evince dal tenore dei suoi scritti, la cognizione degli eventi. Aldo Moro testualmente scrive in alcune lettere autografe e inedite ritrovate il 8.10.199 in via Montenevoso: "Mia dolcissima Noretta, credo di essere giunto all'estremo delle mie possibilità e di essere sul punto, salvo un miracolo, di chiudere questa mia esperienza umana. Gli ultimi tentativi, per i quali mi ero ripromesso di scriverti sono falliti. Il rincrudimento della repressione, del tutto inutile, ha appesantito la situazione. Non sembra ci sia via d'uscita. Mi resta misterioso perché è stata scelta questa strada rovinosa, che condanna me e priva di un punto di riferimento e di equilibrio. Già ora si vede che vuol dire non avere persona capace di riflettere. Questo dico, senza polemica, come semplice riflessione storica…. Non mi so immaginare onorato da chi mi ha condannato….". "…Pacatamente dirai a Cossiga che sono stato ucciso tre volte, per insufficiente protezione, per rifiuto della trattativa, per la politica inconcludente, cosa che in questi giorni ha eccitato l'animo di coloro che mi detengono."

Come si vede, per quello che si è detto sopra, il tema delle trattative per la liberazione di Moro è tema che in modo diverso e per aspetti diversi interessa Giulio Andreotti e Claudio Vitalone avendo essi avuto, ciascuno nel suo ruolo istituzionale, una parte o come scelta politica o come operatività nei tentativi di reperire la prigione dello statista sequestrato.

Resta ora da esaminare la vicenda Moro sotto i profilo dell’incidenza del c.d. memoriale sugli altri moventi individuati da questa corte.

Sul punto osserva la corte che all’apparenza non vi sono novità nelle parti inedite del manoscritto rinvenuto il giorno 8.10.1990 rispetto al dattiloscritto rinvenuto il giorno 1.10.1978 perché quest’ultimo conteneva le notizie inedite contenute nel primo.

Tuttavia la comparazione tra i due scritti permette di affermare che quello rinvenuto nel 1990 contiene notizie più pregnanti ed organiche rispetto a quello del 1978.

Invero sul caso Italcasse se da un lato nello scritto del 1978 vi è un riferimento al ruolo del debitore Caltagirone che tratta su mandato politico la successore del direttore generale dell’Italcasse, nello scritto del 1990 si fa un maggior cenno al motivo per cui Caltagirone ha mandato politico nella nomina del direttore dell’Italcasse e cioè la sistemazione della propria posizione debitoria

Parimenti sui rapporti tra Michele Sindona e Giulio Andreotti; mentre nello scritto del 1978 si parla quasi occasionalmente del viaggio di Giulio Andreotti negli Stati Uniti d’America per incontrare Michele Sindona (del viaggio si parla in relazione ai rapporti tra il presidente Giovanni Leone e Ovidio Lefevre come esempio di indebite amicizie tra finanza e potere politico) e della nomina di Mario Barone (come pretesa di Michele Sindona per la sua collocazione all’interno del Banco di Roma come contropartita per l’elargizione di £ 2.000.000.000, in occasione della campagna per il referendum per il divorzio, da parte di Sindona e delle ripercussioni che una tale nomina politica avrebbe avuto negli equilibri del Banco di Roma) si parla nell’ambito della valutazione della figura di Amintore Fanfani, nello scritto del 1990 i rapporti tra Michele Sindona, Mario Barone e Giulio Andreotti vengono organicamente trattati come espressione della personalità di Giulio Andreotti da lui definito nello scritto del 1978: "Un regista freddo, imperscrutabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana. E' questi l'on. Andreotti del quale gli altri sono stati tutti gli obbedienti esecutori di ordini"…….e continua affermando che" Andreotti e’ restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria". Giudizio completato nello scritto del 1990 quando, dopo avere unitariamente analizzato i fatti riferiti a Giulio Andreotti e avere tra questi inserito anche l’intervista in cui denunziava l’appartenenza di Guido Giannettini come agente del SID, afferma che quelli sono tutti segni di un incredibile spregiudicatezza che deve aver caratterizzato tutta una fortunata carriera (che non gli ho mai invidiato) e della quale la caratteristica più singolare che passi così frequentemente priva di censura o anche solo del minimo rilievo.

Come si vede anche il contenuto degli scritti di Aldo Moro, in relazione agli altri moventi individuati, interessano Giulio Andreotti.

Di particolare nel memoriale Moro è il fatto che solo nei confronti di Giulio Andreotti sono stati fatti apprezzamenti che esulano dalla attività politica delle persone di cui ha parlato nei suoi scritti accostando la persona a vicende quanto meno discutibili, sempre secondo il giudizio di Aldo Moro, sul piano della correttezza istituzionale.

Come si vede anche il contenuto degli scritti di Aldo Moro, in relazione agli altri moventi individuati, interessano Giulio Andreotti.

Fino ad ora il movente dell’omicidio è stato individuato sulla base di elementi oggettivi che conducono, per aspetti diversi, a Claudio Vitalone e a Giulio Andreotti; tale prospettiva trova una verifica sotto l’aspetto soggettivo nell’attività giornalistica di Carmine Pecorelli.

Invero se si esaminano i numeri di OP prima nella veste di agenzia di notizie e poi in quella di settimanale, si osserva che molteplici sono le prese di posizione nei confronti di Claudio Vitalone.

Egli infatti viene criticato perché:

Claudio Vitalone ha sostenuto che gli attacchi mossi alla sua persona sono stati originati esclusivamente dal fatto che egli aveva accusato e ordinato la cattura del generale Vito Miceli amico di Carmine Pecorelli ma la tesi è smentita dalla testimonianza di Paolo Patrizi il quale ha dichiarato che non vi erano motivi di rancore personale di Carmine Pecorelli nei confronti di Claudio Vitalone e che gli attacchi fatti su Op erano per motivi di carattere politico e giudiziario e derivavano dalla posizione che Claudio Vitalone, secondo il pensiero di Carmine Pecorelli, rivestiva all’interno della procura della repubblica di Roma, di referente del potere politico e d in particolare di Giulio Andreotti.

Parimenti deve dirsi di Giulio Andreotti.

Scorrendo i numeri della rivista, ma anche dell’agenzia, può dirsi che non vi sia numero che non contenga un articolo relativo a Giulio Andreotti a cui sono addebitati, in particolare, di avere riarmato la Libia fornendo armi malgrado il parere contrario del ministro degli esteri e del governo americano, di avere strumentalmente istruito il processo per c.d golpe Borghese, di avere distrutto i servizi segreti, di avere tratto giovamento, con la sua politica della fermezza, della morte di Aldo Moro, di avere aperto ai comunisti.

Tutti argomenti, questi, trattati anche da Aldo Moro nei suoi scritti dalla prigione con identica valutazione dei fatti.

CAPITOLO 08)

LA POSSIBILITA’ DI AVERE NOTIZIE RISERVATE

L’individuazione dei moventi, come sopra delineata comporta la verifica della possibilità concreta per Carmine Pecorelli di entrare in possesso di documenti o di notizie inediti.

Sul punto, si è già detto che Carmine Pecorelli aveva fonti qualificate che gli permettevano di accedere a informazioni riservate e importanti e di entrare in possesso di documenti classificati, addirittura, come segreti. Vale per tutti il possesso del dossier Mi.fo.biali, delle lettere di Aldo Moro non conosciute dal grande pubblico e riportanti il timbro di copia conforme della questura, dei documenti relativi al c.d. golpe Borghese attestanti la data di opposizione del segreto di stato sulla appartenenza di Guido Giannettini al servizio segreto italiano, la pubblicazione, per primo, della notizia relativa alla esistenza di una seconda lettera di Aldo Moro al Papa, il possesso, primo tra giornalisti italiani, della relazione ispettiva della Banca d’Italia all’Italcasse, il possesso dei numeri di serie dei c.d. Assegni del presidente.

Concreta era quindi la possibilità che Carmine Pecorelli interrogando le stesse fonti che avevano fornito le notizie già pubblicate, venisse in possesso di ulteriori notizie riservate e segrete.

La riprova di ciò si ha nella testimonianza di Ezio Radaelli, Franca Mangiavacca e di Paolo Patrizi i quali sono concordi nell’affermare che Carmine Pecorelli era in attesa di un pezzo forte e nella deposizione di Luciano Infelisi che aveva appreso proprio da Carmine Pecorelli, da lui incontrato la stessa mattina del giorno in cui è stato ucciso, che questi era in attesa di una notizia importante (era una bomba) come "esplosivo o scoppiettante era stato definito l’articolo che Umberto Limongelli aveva recapitato in tipografia per la pubblicazione e di cui non si è avuta più traccia.

Invero da tali testimonianze emerge che Carmine Pecorelli era in attesa di ulteriori notizie su Italcasse, nell’ampia accezione in cui il caso Italcasse è stato inteso dalla corte perché:

Del resto che Carmine Pecorelli fosse in attesa di notizie, relative alle vicende che in quel periodo lo interessavano particolarmente, emerge non solo dai citati elementi e testimonianze, ma ancora dalla deposizione di Paolo Patrizi e a quelle di Rosina Pecorelli, Liliana Chiocchetti e Gianadelio Maletti.

Da tali testimonianza si ha la prova da un lato che Carmine Pecorelli aveva ricevuto offerte da personaggi gravitanti intorno a uomini politici perché non pubblicasse una notizia e dall’altro che poco prima della sua morte aveva avuto contatti con un brigatista rosso e che era in possesso di una notizia che, se pubblicata o non pubblicata, avrebbe provocato, come purtroppo è avvenuto, la sua morte.

Non va sottaciuto, peraltro, che dalla testimonianza di Franca Mangiavacca emerge che Carmine Pecorelli era in attesa di avere notizie di un dossier da parte di Michele Sindona e di ciò, come si è già detto, vi sono elementi concreti nella pubblicazione, su OP del 25/7/78, dell’articolo "una risposta in cerca d’autore" lettera a firma di Michele Sindona di accusa al vertice della Banca d’Italia in relazione alla situazione della Banca Privata Italiana.

Ora, poiché la situazione di Michele Sindona si faceva sempre più pesante, l’invio di un dossier "esplosivo o scoppiettante" da parte di costui, con le conseguenze che le notizie ivi riportate avrebbero potuto avere sul panorama politico ed economico italiano, appare plausibile perché il fatto è conforme al carattere ricattatorio di Michele Sindona e l’operazione avrebbe ricalcato, con le dovute differenze, una analoga operazione fatta da Michele Sindona nei confronti di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, attraverso l’agenzia di stampa diretta da quel tal Cavallo che compare, sotto altre vesti in questo processo; operazione con cui Michele Sindona, sotto pena di rivelare notizie scabrose sul suo conto, aveva ottenuto da Roberto calvi la somma di 500.000 dollari statunitensi.

Che tale fosse il rapporto tra Carmine Pecorelli e Michele Sindona si ha conferma nella deposizione di Paolo Patrizi il quale ha espressamente dichiarato che Michele Sindona attribuiva le sue disgrazie a Licio Gelli e a Roberto Calvi e nella sua guerra aveva dato numerose notizie su Roberto Calvi a Carmine Pecorelli che le aveva pubblicate su OP.

In merito alla possibilità di Carmine Pecorelli di entrare in possesso di notizie relative al sequestro di Aldo Moro o al possesso di notizie relative ai documenti da lui scritti durante la prigionia o comunque relative al suo sequestro vi sono in atti elementi per affermare che Carmine Pecorelli aveva avuto notizie relativi a tali circostanze ed era in grado di riceverne altre.

Essi consistono:

Sul punto Franca Mangiavacca, pur escludendo che Carmine Pecorelli avesse informatori tra le Brigate Rosse, ha poi dichiarato che solo in una occasione aveva avuto un incontro con una persona che diceva di appartenere alle Brigate Rosse anche se non aveva coltivato la conoscenza ritenendo che non fosse effettivamente appartenente a tale organizzazione; la circostanza emerge, però, più chiaramente dalla testimonianza di Liliana Chiocchetti, moglie dell’avv. Gregori amico di Carmine Pecorelli, la quale ha affermato che la sera precedente l’uccisione di Carmine Pecorelli questi aveva riferito al marito di essere stato contattato da appartenenti alle Brigate Rosse ai quali doveva fissare un appuntamento e di temere le conseguenze che dall’incontro potevano derivare.

Le circostanze sopra indicate, mancando ogni riferimento temporale al momento in cui i contatti con gli esponenti delle Brigate Rosse sarebbero avvenuti, non escludono che tali contatti siano lontani nel tempo e possono essere messi in relazione al primo contatto di cui ha parlato Franca Mangiavacca.

Nell’articolo in questione al termine dell’analisi della situazione, dopo avere polemicamente fatto l’elenco delle cose che non erano state benfatte nella gestione del sequestro di Aldo Moro, Carmine Pecorelli ha fatto riferimento a "Maurizio il macellaio" attribuendogli così il ruolo di esecutore della condanna a morte di Aldo Moro. "Maurizio" che, come si saprà molto tempo dopo, solo in seguito, sarà identificato in Mario Moretti, uno degli esecutori materiali del delitto. Riferimento che Carmine Pecorelli non può avere appreso da persone che istituzionalmente si occupavano del sequestro essendo la circostanza ad esse ignota.

Sul punto occorre puntualizzare che fino al 1.10.1978 sulla stampa italiana si era sempre parlato di un memoriale scritto da Aldo Moro ma della sua reale esistenza, e soprattutto del suo contenuto, non si sapeva nulla. Della sua esistenza si è saputo solo dopo che nella data suddetta i carabinieri del reparto antiterrorismo comandato dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa penetrarono nella base delle Brigate Rosse sita in Milano in via Montenevoso dove vennero arrestati alcuni capi delle brigate rosse e fu trovato molto materiale documentale.

Quanto al suo contenuto le prime notizie erano comparse sulle pagine dei giornali, e precisamente su "La Repubblica" del sei e sette aprile 1978, mentre il governo aveva divulgato il documento nella sua interezza, secondo quello che viene definito memoriale Moro 1978, in data 18.10.1978.

Ora, se si leggono gli articoli in questione e quello scritto da Carmine Pecorelli su OP del 17.10.1978, distribuito nelle edicole il 10.10.1978, dal titolo "il filo rosso" si nota che nell’articolo scritto da Carmine Pecorelli si fa cenno ad una circostanza fino ad allora inedita e che troverà conferma, con la scoperta, nello stesso covo delle Brigate Rosse, di una altra versione del memoriale, il 9.10.1990: la presenza in via Monenevoso di un manoscritto di Moro di circa 150 fogli (invero se si sommano le parti inedite del 1978 e quelle edite si raggiunge all’incirca il numero di 150 pagine). Parimenti se si leggono gli articoli "Non c’è blitz senza spina" e "il memoriale: questo è vero questo è falso" pubblicati nello stesso numero di OP si osserva che viene data la notizia del ritrovamento di lettere inedite di Aldo Moro che verranno ritrovate nell’anno 1990 sempre in via Montenevoso, e si fa una cernita delle affermazioni fatte da altri giornali sul contenuto del memoriale Moro sulla base di notizie avute da un informatore dello stesso Cramine Pecorelli (con ciò si ha contezza, per la stessa voce di Carmine Pecorelli, del fatto che egli poteva arrivare a fonti informative in grado di conoscere notizie sui documenti di Aldo Moro).

A riprova di quanto detto vi è l’episodio del ritrovamento di documentazione nel carcere di Cuneo dovuto proprio alla informazione fornita da Carmine Pecorelli.

La affermazione della corte trova il suo fondamento nell’incontro che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e Carmine Pecorelli hanno avuto nel gennaio 1979 con Angelo Incandela, capo degli agenti di custodia di tale carcere, in una zona di campagna del cuneese.

Su tale incontro occorre soffermarsi.

Il primo punto da accertare è se Carmine Pecorelli ed il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa si siano conosciuti e quando.

Agli atti, oltre ad una serie di dichiarazioni che nulla aggiungono per la soluzione del quesito, come quelle dei collaboratori del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ovvero di Paolo Patrizi, Santo Sciarrone e Cristina Nosella, perché la loro non conoscenza dei rapporti tra le due persone non significa che essi non si siano conosciuti in occasioni a loro non note, vi sono le testimonianze di Giuseppe Vita il quale ha dichiarato di avere saputo dallo stesso Carmine Pecorelli della sua conoscenza con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e quella di Franca Mangiavacca la quale riferisce che Carmine Pecorelli e il generale Carlo Alberto Dalla chiesa si erano incontrati in un pomeriggio nel quale Carmine Pecorelli era arrivato in ritardo in redazione mettendo in pericolo i tempi del lavoro e che in quella occasione Carmine Pecorelli le aveva detto che non aveva compreso cosa volesse da lui il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Questa ultima affermazione trova conferma nelle annotazioni delle agende di Carmine Pecorelli da cui si evince che il nome del generale Dalla Chiesa è riportato più volte e precisamente il 21 agosto 1978, il 19 e i 22 settembre 1978 e il quattro ottobre 1978.

Dalla valutazione comparata tra le due circostanze si deduce, a giudizio della corte, che Carmine Pecorelli e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa si erano conosciuti e che la conoscenza è databile quanto meno al 4.10.1978. Essa trova giustificazione negli scritti di Carmine Pecorelli che su OP aveva iniziato a interessarsi del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel numero 78/15 per proseguire nel numero 78/21-22 e ancora nel numero 79/10. Scritto elogiativo il primo, di critica il secondo perché era stato bruciato frate Girotto, infiltrato nelle Brigate Rosse, e di difesa del generale attaccato, anche se indirettamente, per il caso del giornalista Viglione essendo egli tacciato, in quella occasione, quanto meno di ingenuità il terzo.

Né per escludere la conoscenza tra Carmine Pecorelli e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è sufficiente l’affermazione fatta da Egidio Carenini il quale ha negato, come sembrerebbe dalla interpretazione delle annotazioni dell’agenda di Carmine Pecorelli fatta da Franca Mangiavacca, di avere incontrato insieme Carmine Pecorelli ed il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa o quanto meno di essere stato il tramite tra i due personaggi per due ordini di motivi e cioè perché la conoscenza può essere avvenuta attraverso altri canali ovvero che Egidio Carenini non ricordi (o finge di non ricordare vista la sua labile memoria dei fatti avvenuti all’indomani della morte di Carmine Pecorelli quando gli viene contestato da Rosina Pecorelli il suo interessamento per le agende di quest’ultimo) la circostanza atteso che il suo nome compare per ben due volte sulle agende di Carmine Pecorelli in collegamento con quello del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e tali annotazioni non avrebbero alcun senso se non quello di indicare un collegamento tra le due persone; collegamento che, secondo il metodo adottato da Carmine Pecorelli, indica che la conoscenza è avvenuta tramite uno dei nominativi indicati sull’agenda e deve escludersi che sia stato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a presentare Egidio Carenini a Carmine Pecorelli stante l’antica amicizia tra i due..

Collegamento che trova una ulteriore ragione d’essere nel fatto che Egidio Carenini era un ottimo amico sia di Carmine Pecorelli che del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Ma se ciò non bastasse, vi è anche la testimonianza di Raffaele Cutolo, sulla cui parziale attendibilità si dirà in seguito, che ha affermato di avere appreso quando era stato detenuto nel carcere di Cuneo che Carmine Pecorelli e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa andavano insieme a fare perquisizione nel carcere di Cuneo (l’informazione va peraltro intesa come comunione di interessi alla perquisizione e non partecipazione materiale di Carmine Pecorelli all’atto).

Per escludere la conoscenza tra i due, Claudio Vitalone, nella memoria prodotta sul punto ha sostenuto che dalle testimonianze del generale Tateo e del generale Bozzo si ha la prova della non conoscenza tra i due personaggi.

Di loro si è sopra detto affermando che la loro non conoscenza di rapporti tra il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e Carmine Pecorelli, malgrado il rapporto di confidenza che essi avevano con il generale, non esclude tale conoscenza; occorre aggiungere una considerazione: il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, saputa la notizia dell’uccisione del giornalista, si è preoccupato di accertare presso il generale Bozzo che operava su Roma, se l’omicidio poteva essere stato commesso da aderenti al terrorismo rosso. Tale curiosità, ad avviso della corte, oltre ad una legittima curiosità, può essere stata generata proprio dal fatto che Carmine Pecorelli, insieme al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, si stava interessando in quel momento del caso Moro.

Il secondo punto da accertare riguarda la conoscenza e i rapporti esistenti tra il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e Angelo Incandela.

Essi risultano provati sulla base delle dichiarazioni dei più stretti collaboratori del generale e da quelle dei colleghi di lavoro del maresciallo Incandela. Tutti costoro sono concordi nell’affermare che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nella sua qualità di coordinatore addetto alla sicurezza delle carceri ha avuto rapporti con tutti i capi degli agenti di custodia delle varie carceri.

Dalle predette circostanze emerge, però, che il rapporto tra Angelo Incandela ed il generale era più intenso perché li accomunava la lotta al terrorismo ed il primo, per conto del secondo, effettuava opera di spionaggio nell’ambito carcerario provvedendo a registrare, anche di nascosto, i colloqui che i detenuti avevano sia con lo stesso maresciallo Incandela che con altre persone, a trasmettere la documentazione reperita in ambito carcerario, a controllare la posta dei detenuti. Emerge, anche, che Angelo Incandela, in questa lotta, ha avuto meriti per la collaborazione di Patrizio Peci, il primo brigatista rosso che ha collaborato con la giustizia (la circostanza è confermata dalla deposizione dell’allora ministro degli interni Francesco Cossiga che ha riferito di avere saputo dal sottosegretario agli interni Mazzotta di un intervento del maresciallo Incandela nella collaborazione di Patrizio Peci e che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa si era lamentato con lui per la gestione del collaboratore che doveva essere affidata a lui e non a personale del SISDE).

Ma i rapporti tra Angelo Incandela ed il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa superavano di intensità la normalità derivante dal ruolo ricoperto da ciascuno nell’ambito istituzionale perché Gianfranco Pala, operatore carcerario nel carcere di Cuneo, sa, per averlo appreso dallo stesso maresciallo Incandela, e per avere visto il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa all'interno del carcere di Cuneo, che i due si incontravano anche in luoghi riservati, sempre per riferire notizie relative alla lotta al terrorismo, che i contatti tra i due erano proseguiti anche dopo il trasferimento del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a Milano ove il maresciallo si recava tanto che alcuni di tali viaggi avvenivano con auto che andavano a prendere il maresciallo Incandela a Cuneo. Questa ultima circostanza è confermata dai testi Angelo Zaccagnino, Angelo Tateo e Nicolò Bozzo i quali ricordano di un incontro a Milano nell’anno 1981 tra il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e Angelo Incandela.

A ulteriore conferma degli stretti rapporti tra il maresciallo Incandela e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa vi sono il telegramma di auguri inviato dal secondo al primo nell’ottobre 1981 quando i rapporti professionali tra i due erano ormai cessati e il contenuto, particolarmente delicato, della richiesta fatta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa al maresciallo Incandela nell’incontro avuto a Milano nell’anno 1981 che può spiegarsi solo con la massima fiducia che egli riponeva nel secondo.

Sulla base di quanto detto la credibilità di Angelo Incandela, che ha riferito dei suoi rapporti con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa negli stessi termini emergenti dalle testimonianze sopra indicate, è piena e non vi sono motivi per dubitare che tra gli incontri riservati, rientrante anch’esso in quei rapporti di fiducia e di collaborazione esistente tra i due, vi sia stato anche quello che Angelo Incandela sostiene di avere avuto con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ed una altra persona una sera dei primi di gennaio del 1979 nei pressi del ristorante La Pantalera di Cuneo.

L’attendibilità del maresciallo Incandela trova conferma, anche se indirettamente, nelle citate testimonianze di Gianfranco Pala e Angelo Zaccagnino a cui il maresciallo Incandela, in tempi non sospetti, prima cioè che fosse iniziato il processo a carico di Giulio Andreotti e degli altri attuali imputati, aveva raccontato dell’incontro nei pressi del ristorante Pantalera con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, delle persone che vi avevano partecipato e del contenuto del colloquio.

Tale incontro è poi compatibile con le annotazioni delle agende del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, acquisite al fascicolo del dibattimento, le quali, interpretate dal figlio Fernando avanti al tribunale di Palermo, permettono di dire che nei primi giorni di gennaio 1979 il generale Dalla Chiesa era in Piemonte e poteva avere incontrato il maresciallo Incandela.

La difesa di Giulio Andreotti per affermare l’inattendibilità del teste, a parte la indelicatezza –ma ciò fa parte del legittimo esercizio di difesa- di avere, ripetutamente, fatto richiamo al soprannome con cui il maresciallo Incandela era conosciuto all’interno delle carceri per la lotta che egli conduceva per il ripristino della legalità in un mondo e in un periodo in cui i detenuti spadroneggiavano all’interno degli istituti di pena (tanto che il governo aveva sentito la necessità di affidare la sicurezza delle carceri al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa dandogli ampi poteri) senza menzionare le onorificenze allo stesso attribuite per la sua opera, ha sostanzialmente detto che:

L’osservazione non è determinante perché come ha ben spiegato il maresciallo Incandela il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa gli aveva detto di mantenere segreto l'appuntamento; se quindi l’appuntamento doveva rimanere segreto appare logico che egli non abbia presentato lo sconosciuto, né era prevedibile, a quella data, che il maresciallo Incandela venisse ancora a contatto con lo sconosciuto la cui identità sarà da lui scoperta solo a seguito del tragico avvenimento il cui accertamento è l’oggetto del presente processo. D’altro canto emerge a piene mani dalle deposizioni dei suoi collaboratori che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era molto riservato e alquanto restio a rendere edotti i suoi collaboratori delle sue iniziative.

Anche tale osservazione non è concludente per escludere l’attendibilità del maresciallo Incandela.

Invero la mancata annotazione dell’incontro sulla agenda di Carmine Pecorelli è spiegabile, come prima detto, con la segretezza dell’incontro ed in ogni caso esso non può influire sulla credibilità del teste. Non può farsi discendere dal comportamento omissivo di terze persone –che peraltro avrebbero motivo di comportarsi in tal modo- la credibilità di una persona che, in assenza di elementi concreti che ne inficino la attendibilità, in assenza di motivi che possono spingerlo a non dire il vero, per il vincolo derivante dall’obbligo di dire la verità sotto pena delle sanzioni penali di legge, è credibile fino a prova contraria.

Peraltro, deve notarsi che il secondo incontro tra il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il maresciallo Incandela, con la richiesta di trovare il secondo involucro, secondo il racconto fatto dallo stesso maresciallo Incandela, non è avvenuto alcuni giorno dopo il primo ma dopo che era stato ritrovato il primo involucro cosa avvenuta dopo circa 20 giorni dal primo incontro e nell’ambito dei normali rapporti relativi alla sicurezza del carcere di Cuneo a cui era preposto il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

E’ stato anche detto, per inficiare la attendibilità del teste, che l’incontro tra il maresciallo Incandela e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa non può essere avvenuto con le modalità raccontate perché il comportamento tenuto nell’occasione dal generale non è stato consono al suo modo consueto di agire.

Ritiene la corte che tale argomento è solo suggestivo e che esso, a ben vedere, corrobora la genuinità del racconto.

Invero il maresciallo Incandela sapeva che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era molto formale nei rapporti con i subordinati, come lo era anche con lui, e sapeva anche che raccontare un comportamento fuori dall’usuale, che nulla avrebbe aggiunto alla sostanza delle cose, avrebbe comportato solo l’insorgere di dubbi sulla sua credibilità. Se, malgrado ciò, egli ha ritenuto di raccontare tali modalità e di correre il rischio di non essere creduto, è segno che l’incontro si è svolto con le modalità da lui raccontate e che se il generale Dalla Chiesa si è comportato in quel modo, egli doveva avere i suoi motivi o non aveva altra possibilità di comportamento.

E’ stato ancora detto, sempre ai fini della attendibilità del teste, che vi sono divergenze tra quello che il teste ha detto avanti al tribunale di Palermo e quello che ha detto avanti alla corte di assise di Perugia, e che il teste ha già mentito una volta, nel processo a carico del maresciallo Manfra celebratosi avanti al tribunale di Cuneo, avendo negato di avere trovato l’involucro per cui può mentire una seconda volta. Tali considerazioni non sono condivisibili atteso che, a parere della corte, non sussistono divergenze se non in termini di sfumatura che possono trovare giustificazione sia nel tempo trascorso dai fatti sia in quello che ha detto e scritto il teste a questa corte e cioè che aveva ricevuto minacce e intimidazioni e che ciò era continuato fino a 15 giorni prima. Giustificazione posta a base anche della menzogna detta al tribunale di Cuneo.

Il terzo punto da accertare è la partecipazione all’incontro del gennaio 1979 di Carmine Pecorelli.

Sul punto il maresciallo Incandela è stato categorico in senso positivo. Egli in un primo momento aveva ritenuto che lo sconosciuto fosse un subalterno del generale, ma successivamente il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva chiesto allo sconosciuto un indirizzo o un numero di telefono e questi, dopo che il generale avere acceso la luce interna (Incandela ricorda con sicurezza la luce vicina allo specchietto retrovisore ma non esclude perché non vi aveva fatto caso altre luci posteriori o laterali), aveva consultato una agendina e aveva risposto negativamente aggiungendo che lo aveva in redazione (di qui il maresciallo Incandela aveva dedotto che fosse un giornalista).

In quel frangente il maresciallo Incandela aveva visto bene il volto dello sconosciuto e lo aveva riconosciuto per Carmine Pecorelli quando, dopo la sua uccisione, aveva visto riprodotta l’effigie di una sua fotografia formato tessera sui quotidiani e, nel darne la descrizione, riferisce particolari relativi alla inflessione di voce che era sembrata romanesca ma non marcata, alla presenza di occhiali chiari con montatura in metallo giallo, più rettangolari che rotondi, alla corporatura non grassa, alla altezza (a suo avviso più basso di cm 175, anche se lo aveva visto solo seduto), ai capelli scuri ma non neri portati leggermente a lato, alla fronte spaziosa, al naso non aquilino, alle labbra regolari.

Riferisce ancora un particolare che, anche se non estraneo all’incontro, acquista un certo rilievo: pochi giorni dopo l'incontro, a Cuneo era venuto il generale Galvaligi il quale, tra le altre cose aveva chiesto se era venuto il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa insieme ad un uomo politico o a un giornalista.

La descrizione si attaglia per alcuni particolari significativi a Carmine Pecorelli.

In primo luogo la professione non potendosi dubitare che il riferimento fatto da quella persona alla redazione come luogo ove conservava un numero telefonico o un indirizzo deve essere posta in relazione alla professione della persona stessa e Carmine Pecorelli era giornalista.

In secondo luogo il tipo e la forma degli occhiali visti dal maresciallo Incandela. Essi corrispondono a quelli che usava in quel periodo Carmine Pecorelli ed il particolare era inedito perché le foto apparse sui giornali avevano mostrato Carmine Pecorelli con occhiali aventi caratteristiche completamente diverse. Consegue che il riconoscimento non è stato effettuato sulla base delle fotografie pubblicate dai giornali ma solo perché il maresciallo Incandela aveva effettivamente visto la persona effigiata sui giornali.

In terzo luogo la domanda fatta dal generale Galvaligi sulla presenza del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa insieme ad un politico o un politico (questa ultima circostanza conferma anche se indirettamente l’effettività dell’incontro), che conferma la professione della persona incontrata alcuni giorni prima dal maresciallo Incandela.

Gli altri particolari della descrizione, come il colore dei capelli, l’ampiezza della fronte, la forma del naso e delle labbra sono generici e di nessun rilievo sia in senso positivo che in senso negativo.

Resta l’errata indicazione dell’altezza ( Carmine Pecorelli era alto oltre m 1,80), la mancata individuazione del colore degli occhi, che a detta della sorella Rosina era il particolare che caratterizzava il viso del fratello, e la mancanza di accenno romanesco nella inflessione della voce.

Quanto all’altezza osserva la corte che il maresciallo Incandela ha sempre visto l’interlocutore seduto (davanti a lui o al suo fianco) e in tale posizione è molto difficile stabilire l’esatta altezza di una persona perché essa è determinata, in misura rilevante, anche dalla lunghezza delle gambe; né tale altezza era percettibile in quel breve lasso di tempo in cui la persona si è spostata dal sedile anteriore a quello posteriore atteso che il maresciallo Incandela, stando seduto all’interno della macchina, poteva non avere visione completa della figura anche per la concomitanza oscurità in atto (l’incontro è avvenuto di sera).

Quanto all’inflessione della voce, Rosina Pecorelli ha affermato che il fratello parlava italiano forse con accenno romano, dovuto all’evidenza, al lungo periodo passato a Roma e ciò può avere generato in una persona non romana, quale è il maresciallo Incandela, la convinzione che parlasse romanesco.

Quanto al colore degli occhi ritiene la corte che all’interno di una vettura illuminata dalle luci di cortesia sia estremamente improbabile che si noti il colore degli occhi a meno che l’interlocutore non abbia un motivo ben preciso, che nel caso mancava, per osservarli attentamente.

Tali discordanze, quindi, a parere della corte, non appaiono concludenti per escludere che la persona incontrata dal maresciallo Incandela sia stato Carmine Pecorelli.

Il quinto punto da accertare, ed è quello che qui interessa maggiormente, è relativo al contenuto del colloquio intervenuto quella sera.

Riferisce sul punto il maresciallo Incandela:

E’ stato osservato che l’autenticità del ritrovamento e il contenuto dell’involucro restano affidate esclusivamente alla parola del maresciallo Incandela.

La corte innanzi tutto non comprende perché la circostanza non possa essere affidata alla testimonianza di una sola persona se questa è l’unica a saperla e perché quella persona non deve dire la verità solo perché è contraria agli interessi dell’imputato; se tale tesi fosse vera difficilmente si arriverebbe alla scoperta degli autori di un delitto prevedendo il nostro codice il principio del libero convincimento del giudice anche sulla base della testimonianza diuna sola persona (basta avere presente quello che avviene per i reati di violenza sessuale ove generalmente non vi sono testimoni esterni al fatto).

A tale considerazione, dirimente, deve aggiungersi che agli atti vi sono elementi esterni alla testimonianza del maresciallo Incandela che la confermano. Essi si desumono dalla testimonianza di persona lontana dall’ambiente frequentato dal maresciallo Incandela e da questi non conosciuto se non attraverso il controllo fatto sui visitatori del carcere di Cuneo su richiesta del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: Edoardo Formisano che nei confronti di Giulio Andreotti non ha reso dichiarazioni determinanti.

Costui infatti ha dichiarato che:

Come si vede, da tale testimonianza si ha la conferma che quantomeno alla data del 13.8.1978 Francis Turatello era in possesso di documenti talmente pericolosi da non consentirgli di darli al suo amico Edoardo Formisano per timore della sua vita.

Deduzione logica vuole che tali documenti siano quelli successivamente ritrovati dal Maresciallo Incandela.

Potrebbe obbiettarsi che i documenti non sono stati trovati nella disponibilità di Francis Turatello perché non sono mai entrati nel carcere di Cuneo (va ricordato che il luogo del ritrovamento è esterno a quello frequentato dai detenuti); tale obbiezione non è risolutiva.

Ritiene, sul punto, la corte che i documenti erano interessanti per Francis Turatello perché essi erano una merce di scambio nel senso che attraverso la loro consegna Francis Turatello tendeva ad acquisire benemerenze da spendere in suo favore. In tale situazione non era necessario che egli avesse la materiale disponibilità dei documenti, essendo sufficiente la possibilità di indicare agli interessati il luogo ove reperirli. Il nascondiglio fuori dello spazio a disposizione dei detenuti, che non può essere stato prescelto senza la collaborazione di personale del corpo delle guardie carcerarie ( in tal senso a parere della corte va intesa l’affermazione del Maresciallo Incandela quando ha riferito che Carmine Pecorelli aveva detto che a portare all’intero del carcere i documenti era stato il capo degli agenti di custodia) era il luogo ideale perché da un lato non vi era rischio che fosse trovato, non essendo il luogo soggetto a ispezione, e dall’altro era facilmente raggiungibile da personale della amministrazione per la consegna a persone, estranee all’amministrazione, indicate da Francis Turatello senza passare da controlli troppo severi (sarebbe stato sufficiente che la persona che aveva nascosto i documenti li avesse presi e consegnati a chi andava a colloquio con i detenuti) o anche che fosse direttamente preso dal visitatore dopo avere effettuato il colloquio.

La testimonianza di Edoardo Formisano dà anche contezza della situazione dei luoghi come constatata dal maresciallo Incandela in relazione al tempo in cui i documenti erano stati lì nascosti.

Resta la perplessità sul tenore dei documenti contenuti in tale involucro perché nessuno, ad eccezione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a cui il pacco era stato immediatamente consegnato chiuso dal maresciallo Incandela, può dire cosa esattamente contenesse; ma tale curiosità è destinata a restare insoddisfatta essendo questi morto nel tragico agguato in cui ha perso la vita insieme alla giovane moglie.

Quanto sopra detto conferma che Carmine Pecorelli alla data del gennaio 1979 era in possesso di notizie precise inerenti il sequestro di Aldo Moro essendo stato in grado di indicare esattamente la zona del carcere di Cuneo ove era nascosto l’involucro e la forma di esso.

Resta da esaminare, per completare la trattazione dell’episodio relativo al ritrovamento di documenti nel carcere di Cuneo, la vicenda avvenuta nell’anno 1981 in cui il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ha chiesto al maresciallo Incandela di far ritrovare in locali del carcere di Cuneo, in uso comune ai brigatisti rossi, dei documenti al fine di impedire la individuazione del possessore.

In quella occasione, ricorda il maresciallo Incandela, che:

Il significato di questo comportamento del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era evidentemente quello di rendere pubblici documenti di grande rilevanza per il paese (in tal senso va intesa la frase da lui pronunziata sui tanti modi con cui si può servire la patria quando pressava nei confronti del maresciallo Incandela perché aderisse alla sua richiesta) di cui aveva il possesso. Esso nulla toglie e nulla aggiunge, per quello che qui interessa, alla valutazione dell’episodio relativo al ritrovamento dei documenti da parte del maresciallo Incandela non potendosi in nessun caso affermare che quelle carte fossero i documenti trovati nel carcere di Cuneo, ovvero fossero diversi e in tal caso la loro provenienza e consistenza (a modo di esempio potrebbe affermarsi che i documenti fossero la trasposizione dei colloqui intercettati dal maresciallo Incandela nel carcere di Cuneo che erano nella esclusiva disponibilità del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ovvero che fossero documenti trovati dallo stesso maresciallo Incandela sempre nel carcere di Cuneo o ancora copia del memoriale Moro nella versione ritrovata nel 1990).

Come si vede le possibilità sono molteplici ma, come già detto, nulla aggiungono o tolgono a quello che ci interessa e cioè che Carmine Pecorelli aveva notizie sul sequestro Moro e che le sue fonti potevano dargli ulteriori notizie.

Fonti non identificabili nel generale Carlo Alberto Dalla Chiesa dal momento che il racconto fatto dal maresciallo Incandela indica che a fornire informazioni non è stato il generale, ma Carmine Pecorelli e nulla autorizza ad affermare che dopo il ritrovamento il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa abbia comunicato il contenuto dei documenti ritrovati nel carcere di Cuneo, o che ne abbia dato copia, al suo informatore.

Sempre per completezza sul contenuto dei documenti relativi alla vicenda connessa con il sequestro Moro, appare opportuno trattare in questo momento gli episodi narrati da Maria Antonietta Setti Carraro, suocera del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dal giornalista Giorgio Battistini che ha ricevuto informazioni dal generale Enrico Galvaligi aiutante del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Episodi collegati a quello raccontato dal maresciallo Incandela perché tutti in qualche maniera unificati dal possesso di documentazione, diversa da quella nelle mani degli inquirenti, da parte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Orbene ritiene la Corte che non vi sono agli atti elementi probatori per potere affermare che nella immediatezza della scoperta della base delle Brigate Rosse, avvenuta a Milano il 1.10.1978, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa sia entrato in possesso di documenti diversi da quelli ufficialmente acquisiti dalla autorità giudiziaria. Depongono in tal senso le testimonianze di coloro che in qualche modo sono stati diretti protagonisti dell’operazione.

Invero il teste Nicolò Bozzo, coordinatore dell’operazione che aveva portato alla scoperta e alla irruzione nel covo di via Montenevoso ha dichiarato che dell’intera operazione, nata prima che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa prendesse il comando della lotta al terrorismo, questi aveva iniziato a mostrare interesse solo quando aveva saputo che la base era frequentata anche da Nadia Mantovani che qualche tempo prima si era data alla latitanza tanto che la mattina della irruzione egli si trovava a Tortona ed era arrivato a Milano solo perché alcuni carabinieri erano stati feriti nell’operazione. Continua Nicolò Bozzo affermando che solo dopo aver pranzato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva saputo dal capitano Arlati, la persona che materialmente era entrato per primo nella base, che lì vi erano documenti relativi al sequestro di Aldo Moro e aveva deciso di andare d persona (il generale Bozzo non sa però se il generale è andato da solo o in compagnia della autorità giudiziaria).

Il generale Bozzo può ancora dire che la sera i documenti sequestrati nel covo erano stati fotocopiati presso la caserma dei carabinieri di via Moscova ed erano stati riportati nel covo di via Montenevoso mentre al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era stata rilasciata una fotocopia richiesta dal ministro degli interni Rognoni. Conclude sul punto il generale Bozzo che i documenti fotocopiati erano contenuti in una cartella azzurra del cui contenuto aveva preso visione dal verbale di sequestro.

Come si vede, dalla testimonianza su richiamata non si fa cenno ad altri documenti se non a quelli contenuti nella cartella azzurra di cui vi è nota nel verbale del relativo sequestro giudiziario.

Tale documentazione è quella che in seguito sarà resa pubblica dal governo della repubblica italiana il 18.10.1978.

Né argomenti diversi discendono dalla testimonianza di Giorgio Battistini (quella di Eugenio Scalfari nulla aggiunge sul punto) che riporta nei suoi articoli le confidenze del generale Enrico Galvaligi, aiutante del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, perché le notizie da questi fornite sono conformi a quelle contenute nel c.d. memoriale 1978.

E’ ben vero che tali notizie si riferiscono anche a nastri con la voce di Aldo Moro, ma tale ultima circostanza appare più frutto di deduzioni logiche dovute alla lunghezza del sequestro e al fatto che il c.d. memoriale 1978 è una copia di battitura a macchina. Tali deduzioni appaiono errate a fronte del rinvenimento nel 1990 dello stesso materiale manoscritto da Aldo Moro per cui evidentemente il documento del 1978 è la trascrizione a macchina, anche se parziale, del manoscritto di Aldo Moro trovato nel 1990.

E’ ancora vero che nell’articolo si fa riferimento all’invio a Roma degli originali dei documenti che sarebbero stati consegnati a personalità politiche e dopo essere stati fotocopiati rimandati a Milano, ma anche tale circostanza è riferibile ai documenti che saranno resi pubblici il 18.10.1978.

L’affermazione trova il suo fondamento nelle dichiarazioni rese da Franco Evangelisti il quale ricorda di essere stato svegliato nel cuore della notte dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa per fargli leggere parte del documento rinvenuto nel covo di via Montenevoso composto da un dattiloscritto di circa 50 pagine. L’affermazione trova conferma in due circostanze.

La prima che effettivamente il dattiloscritto del 1978 ha la lunghezza indicata da Franco Evangelisti e contiene quelle parti che (a torto o a ragione) sono state ritenute riferibili a quest’ultimo.

La seconda deriva dalla testimonianza di Nicolò Bozzo il quale ha dichiarato che il giorno dopo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa gli aveva telefonato da Roma.

La conclusione che da queste due circostanze trae la corte è che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, appena ricevuta copia dei documenti sequestrati in via Montenevoso si è precipitato a Roma per sottoporli alle massime autorità dello stato (non va dimenticato che in quel momento Franco Evangelisti che aveva un buon rapporto con il generale era anche sottosegretario alla presidenza del consiglio) e dopo averle fotocopiate nuovamente, le ha consegnate "a chi di dovere" come riferisce il generale Galvaligi al giornalista Battistini.

Se le conclusioni della corte sono esatte, è irrilevante, per questa corte, stabilire se il mattino successivo all’incontro tra il sottosegretario alla presidenza del consiglio Franco Evangelisti e

il generale Carlo albertoDalla Chiesa questi si sia recato dal presidente del consiglio Giulio Andreotti per dargli, anche eventualmente senza l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente, copia della documentazione sequestrata perché tale documentazione, resa pubblica di lì a poco, non può essere considerata notizia tanto pericolosa da giustificare l’omicidio di un giornalista proprio perché al momento dell’omicidio il memoriale 1978 era stato reso pubblico e le notizie ivi contenute avevano perso il carattere della novità.

Parimenti nessun elemento di giudizio può trarsi dalla testimonianza di Maria Antonietta Setti Carraro che nel riferire un episodio analogo ha affermato che:

Da tali dichiarazioni sembrerebbe che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fosse in possesso di altra documentazione, rinvenuta nel covo di Via Montenevoso, che non era stata consegnata alla competente autorità (irrilevante sarebbe se il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa non avesse consegnato parte della documentazione a sue mani che per altra via era già giunta nelle mani dell’autorità giudiziaria e per suo tramite alla autorità politica); tale tesi per le considerazioni sopra dette non è fondata. Ma a tali considerazioni deve aggiungersi che la stessa Maria Antonietta Setti Carraro dà dell’avvenimento una ricostruzione cronologica incompatibile con la nascita dei rapporti tra il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la famiglia Setti Carraro dal momento che questi sono iniziati formalmente dal maggio 1979 mentre Maria Antonietta Setti Carraro colloca l’episodio a pochi giorni dalla scoperta del covo di via Montenevoso a Milano.

Deve escludersi quindi che l’episodio raccontato da Maria Antonietta Setti Carraro sia avvenuto nei termini e nei tempi da lei indicati.

Potrebbe argomentarsi che i documenti a cui aveva fatto riferimento Emanuela Setti Carraro fossero altri e diversi da quelli trovati nel covo di via Montenevoso, ma in tal caso non troverebbe spiegazione l’affermazione che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa si era recato a Roma, su richiesta di Giulio Andreotti, per consegnare parte dei documenti a sue mani; ciò presuppone che Giulio Andreotti conoscesse che il generale fosse in possesso di tali documenti: evenienza questa che è da scartare perché non solo carente sotto il profilo probatorio, ma altamente incerto nei modi e nei tempi in cui l’episodio si sarebbe verificato.

CAPITOLO 09) EVENTI RILEVANTI PER L'OMICIDIO

A). LA CENA AL RISTORANTE "LA FAMIGLIA PIEMONTESE"

Fino ad ora si è parlato dell'omicidio di Carmine Pecorelli sotto il profilo della individuazione dei possibili moventi e della loro riferibilità oggettiva agli attuali imputati indicati dalla pubblica accusa come i mandanti dell'omicidio.

Per verificare se effettivamente l'ipotesi accusatoria è fondata, occorre parlare di alcuni fatti che, a giudizio della corte, hanno rilievo nella ricostruzione dei fatti.

Tra questi vi è la cena al circolo privato "la Famiglia Piemontese".

Preliminare alla trattazione della vicenda di detta cena è sciogliere la riserva, sopra esposta circa le fonti da cui desumere gli elementi di prova sui quali la corte deve fondare il suo giudizio avendo Carlo Adriano testi, Walter Bonino e Donato Lo prete esercitato la legittima facoltà di non rispondere all'esame essendo stati nella fase delle indagini preliminari indagati per il reato di false dichiarazioni a Pubblico Ministero.

Orbene, applicando i criteri sopra esposti che sono più favorevoli all'imputato, ritiene la corte che agli atti vi sono le dichiarazioni, utilizzabili al fine del decidere, di Franco Evangelisti, Franca Mangiavacca, Paolo Patrizi, Paolo Ferretti e altri nonché quelle degli stessi imputati Claudio Vitalone e Giulio Andreotti che, trattando gli argomenti relativi alla suddetta cena, rendono utilizzabili le dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso che si sono avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande. Dichiarazioni che pertanto trovano il loro riscontro in atti che non sono dichiarazioni di altri imputati in procedimento connesso o collegato che si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.

L'evento in questione, accaduto verso la fine di gennaio del 1979, è indicato come avvenuto in un giorno di martedì o di mercoledì.

Il giorno va individuato in mercoledì 24.1.1979, come è desumibile dall'agenda di Carmine Pecorelli che a tale data reca l'annotazione "ore 21 corso Vittorio Emanuele n. 24 1° piano"; a tale indirizzo corrisponde l'ubicazione di detto circolo privato.

L'annotazione è precisa perché, sulla base delle indicazioni date da Franca Mangiavacca, a cui Carmine Pecorelli, nell'immediatezza, aveva riferito di essere stato a cena presso quel circolo, evidenzia che quella era la prima volta in cui Carmine Pecorelli si recava in quel posto; circostanza, questa, confermata da Walter Bonino gestore del circolo e organizzatore della cena.

La data trova ulteriore conferma nell'interrogatorio di Franco Evangelisti; questi ha dichiarato che il giorno dopo la cena aveva contattato Pecorelli il quale due giorni dopo gli aveva fatto consegnare due copie della "copertina con lo strillo relativo agli assegni del presidente". La consegna è avvenuta quindi il 27.1.1979 ed è compatibile con quanto affermato da Franca Mangiavacca secondo cui le copertine erano state ritirate in data 26.1.1979 dalla tipografia dove, in mattinata, erano state consegnate le relative matrici ed era stata data urgenza per la loro stampa.

Alla cena, per concorde ammissione di tutti i partecipanti, erano presenti l'anfitrione Walter Bonino, il giornalista Carmine Pecorelli, il generale della guardia di Finanza Donato Lo Prete, i magistrati Claudio Vitalone e Carlo Adriano Testi.

Quanto appena detto, con i riscontri già indicati circa la data della cena e gli eventi immediatamente successivi relativi alla consegna delle copertine a Franco Evangelisti, rende intrinsecamente attendibili le persone indagate in procedimento connesso perché solo loro sono in grado di riferire quanto in essa accaduto.

Tanto premesso, una prima considerazione occorre fare.

Le indagini sulla cena alla Famiglia Piemontese rientrano in uno dei tanti buchi investigativi, di cui è pieno il processo nella prima fase delle indagini per l'uccisione di Carmine Pecorelli.

Nessuno dei partecipanti all'incontro ne parla spontaneamente e l'unico interrogato nell'ambito delle prime indagini, Walter Bonino, si guarda bene dall'accennare alla citata cena.

Basta confrontare sul punto le sue dichiarazioni rese in data 4.6.1979 quando già si parla della copertina con lo strillo "Gli assegni del presidente".

Della cena parla per la prima volta, nell'interrogatorio del 2.5.1980, Franco Evangelisti, il quale, nell'ambito dei suoi rapporti con Carmine Pecorelli, rendeva edotto il PM del contenuto dei colloqui fatti durante la cena e dei suoi risvolti relativi alla copertina del n. 79/5 di OP e dell'intenzione di Carmine Pecorelli di sferrare un attacco all'allora presidente del consiglio Giulio Andreotti. Ma, anche dopo tali dichiarazioni, tutto tace sul fronte investigativo perché nessuno dei partecipanti viene chiamato dall’autorità giudiziaria procedente per avere delucidazioni.

E’ solo dopo che la cena alla Famiglia Piemontese diventa oggetto di una campagna giornalistica che le attribuisce, nell'ambito delle indagini per l'omicidio di Carmine Pecorelli, un notevole rilievo, e solo dopo che il caso è approdato nell'aula del Senato, dove nel frattempo è stato eletto Claudio Vitalone, che il 18.11.1980, nello stesso giorno, venivano acquisiti agli atti processuali un esposto di Claudio Vitalone, presentatosi personalmente avanti al PM dell'inchiesta per dare la sua versione dei fatti accaduti quella sera mentre Carlo Adriano Testi rendeva spontanee dichiarazioni ed erano nuovamente interrogati Walter Bonino (in data 19.11.1980) e Franco Evangelisti (in data 20.11.1980).

Nessun interrogatorio veniva disposto per Donato Lo Prete (per questo ultimo quanto meno dopo il suo rientro in Italia).

Della cena alla Famiglia Piemontese torna a parlare nuovamente Claudio Vitalone, come dallo stesso ricordato, nell'interrogatorio del 18/1/1994; a seguito di tali dichiarazioni, che modificavano le precedenti dichiarazioni e gettavano nuova luce sulla vicenda, venivano sottoposti a intercettazione i telefoni degli altri partecipanti alla cena i quali erano sentiti sia come persone informate sui fatti che come indagati in procedimento connesso per il reato di cui all'art. 371 c.p. ed erano altresì sottoposti a confronto stante le divergenti versioni da loro date.

Questa la cronistoria degli accadimenti giudiziari che sono ruotati intorno alla cena presso il circolo "La Famiglia Piemontese".

Alla luce complessiva delle dichiarazioni rese da tutti i partecipanti, la corte ritiene, facendo propria l'ultima versione fornita da Walter Bonino, Carlo Adriano Testi e Donato Lo Prete, che i fatti devono così ricostruirsi:

Le motivazioni dell'incontro sono state ampiamente indicate da Walter Bonino il quale ha affermato che l'iniziativa di organizzare la cena era stata sua perché riteneva che un incontro sarebbe stato gradito a tutte le parti ed in particolar modo a Claudio Vitalone sia perché entrambi erano stati attaccati da Carmine Pecorelli sia perché in precedenza Claudio Vitalone gli aveva detto che aveva interesse ad avvicinare Carmine Pecorelli ma non sapeva come fare perché, a suo dire, nessuno del gruppo facente capo a Giulio Andreotti lo conosceva. Ha precisato, sul punto, Walter Bonino che alla affermazione di Claudio Vitalone, secondo la quale nessuno del "gruppo andreottiano" conosceva Carmine Pecorelli, egli aveva replicato che Franco Evangelisti conosceva Carmine Pecorelli e ne era un suo finanziatore.

Questa ultima circostanza, cioè l'incredulità mostrata da Claudio Vitalone in quella occasione, era stata un ulteriore motivo per cui Walter Bonino aveva organizzato la cena volendo fare venire alla luce, per bocca dello stesso Carmine Pecorelli, il fatto che Franco Evangelisti era un finanziatore di Carmine Pecorelli.

Ha precisato infine Walter Bonino che la presenza di Carlo Adriano Testi era stata richiesta da Claudio Vitalone perché assolvesse ad una funzione di moderatore, se ve ne fosse stato bisogno.

L'esattezza di quanto riferito da Walter Bonino trova conferma nelle dichiarazioni di Carlo Adriano Testi il quale, prima che ritrattasse le sue precedenti dichiarazioni, decidendosi finalmente a dire quello che realmente era avvenuto durante quella cena, ha affermato: "l'incontro era propiziato dal Pecorelli il quale desiderava avere uno scambio di vedute sia con il collega Vitalone sia con il Generale Donato Lo Prete che egli aveva fatto bersaglio di attacchi sulle colonne del suo settimanale OP. Tutti quanti, mi riferisco allo stesso Pecorelli ed al Vitalone, nulla so del Lo Prete, gradivano che io fossi presente. A quell'epoca ero componente del C.S.M. ed essi oltre che stimarmi mi ritenevano persona autorevole. Ritenevano quindi che la mia presenza potesse da un lato dare un tono alla serata e al contempo essere garanzia nelle diatribe che verosimilmente si accingevano a fare".

Del resto è lo stesso Claudio Vitalone che ha dichiarato di avere voluto la presenza di Carlo Adriano Testi a sua garanzia e una tale funzione non può trovare altra spiegazione se non va collegata alle eventuali discussioni che quella sera avrebbero potuto esserci; discussioni che presupponevano la necessità di chiarimenti per l'esistenza in atti di contrasti accesi (in tal senso va confermata l'affermazione che quella sera la discussione tra gli ospiti era stata molto animata)

Ma, se ve ne fosse ancora bisogno, l'esattezza dei motivi, come da lui riferiti, che avevano indotto Walter Bonino a organizzare la cena emerge ancora una volta dalle dichiarazioni di Donato Lo Prete il quale, in una fase processuale in cui era escusso ancora come persona informata sui fatti e anche se attribuisce la paternità dell'iniziativa a Carmine Pecorelli, ha dichiarato: "Feci presente che avevo qualche difficoltà a partecipare trovandomi appunto a Milano e il Bonino insistendo mi disse che si poteva approfittare di qualche mia venuta a Roma per altri motivi spiegandomi che il Pecorelli voleva quell'incontro per spiegare i motivi che lo avevano indotto ad attaccare me sulle colonne del suo giornale ed anche il Dott. Vitalone"; e ancora "Quando telefonai al Vitalone per aver conferma dell'invito rivoltomi dal Bonino ed il Vitalone mi disse che sarebbe stato presente il Dott. Testi egli spiegò che gradiva la presenza di un suo amico autorevole proprio affinché la cena non fosse limitata a noi tre intendendo il Pecorelli lui ed io".

Quanto appena detto esclude che la riunione conviviale sia stata organizzata, come sostenuto da Claudio Vitalone, per ricevere le scuse di Carmine Pecorelli.

La tesi trova smentita anche nel fatto che alla data del 24.1.1979 Carmine Pecorelli aveva già inviato una lettera di scuse a Claudio Vitalone (seguita da altra lettera perché la prima non era stata ritenuta soddisfacente da Claudio Vitalone) per l'attacco portato nell'articolo "Le cene di Gaetano Trimalcione" che, secondo le stesse ammissioni di Claudio Vitalone, era stato il solo articolo di OP che l’aveva interessato e l’aveva spinto a reagire, anche se con una lettera al procuratore generale presso la corte di appello di Roma, ove prestava servizio, poiché non leggeva abitualmente la rivista, ma solo alcuni articoli che gli venivano segnalati da alcuni colleghi.

L’affermazione trova riscontro per il giorno scelto per la sua organizzazione.

E' emerso, infatti, che quella sera al circolo "La famiglia Piemontese" vi erano solo gli invitati alla cena e che addirittura al cuoco/cameriere era stato detto di bussare ogni qual volta doveva entrare nella sala. Essa trova una indiretta, ma importante, conferma nelle stesse dichiarazioni di Claudio Vitalone, come riferite da Donato Lo Prete, con cui questi aveva spiegato al primo il motivo della presenza di Carlo Adriano Testi (le dichiarazioni di Donato Lo Prete sono state riportate sopra); spiegazione che trova il suo fondamento logico nella riservatezza con cui dovevano essere trattati gli argomenti oggetto di discussione quella sera.

Sul punto, tralasciando gli argomenti che oltre a non rivestire interesse nel presente processo sono altresì pacifici, per essere stati ammessi da tutti i partecipanti alla cena, come la questione del rilascio del passaporto a Carmine Pecorelli o la discussione su argomenti relativi alla Guardia di Finanza, occorre fermare l'attenzione sugli ultimi due argomenti di discussione e cioè sul finanziamento a OP da parte di Franco Evangelisti e sulla pubblicazione di un articolo contro Giulio Andreotti che sarebbe stato anche "lo strillo" della copertina del numero di OP sul quale l'articolo sarebbe stato pubblicato.

Il testimoniale escusso sul punto permette di affermare con tranquillità non solo che entrambi gli argomenti erano stati trattati durante la cena, ma che essi avevano interessato esclusivamente Claudio Vitalone il quale, alla notizia della pubblicazione di un articolo contro Giulio Andreotti, voleva persuadere Carmine Pecorelli perché soprassedesse alla pubblicazione ottenendo solo vaghe assicurazioni perché vi era ancora tempo fino al sabato successivo (termine ultimo per la stampa del giornale).

La ricostruzione sopra fatta comporta l'adesione della corte alle dichiarazioni rese da Walter Bonino, Carlo Adriano Testi e Donato Lo Prete, dopo che essi erano stati indagati per false dichiarazioni al pubblico Ministero e dopo che essi avevano smentito le precedenti dichiarazioni rese, in un primo tempo, nel corso dell'istruttoria, e poi delle indagini preliminari.

La riprova della esattezza della tesi accolta dalla corte si evince dai seguenti elementi:

La prima circostanza è confermata da Walter Bonino e da Giulio Andreotti. Il primo ha infatti dichiarato che alcuni giorni dopo la cena aveva incontrato Carmine Pecorelli il quale gli aveva riferito del colloquio con Franco Evangelisti e delle offerte che da questi aveva ricevuto nonché del fatto che due giorni dopo Carmine Pecorelli gli aveva fatto recapitare due copie della copertina "Gli assegni del presidente"; il secondo ha dichiarato che Franco Evangelisti gli aveva mostrato una copia di detta copertina.

La seconda circostanza è confermata da Carlo Adriano Testi il quale ha ammesso di avere avuto un incontro con Franco Evangelisti avente ad oggetto proprio il contenuto dei colloqui fatti durante la cena. Occorre nuovamente puntualizzare che le dichiarazioni sul punto fatte da Carlo Adriano Testi sono state fatte nel verbale 23/2/1994, anche se in forma ipotetica, ma saranno indicate come realmente avvenute nella sua lettera del 28/3/1994 e nell'interrogatorio fatto immediatamente dopo.

Ora, se Franco Evangelisti nell'immediatezza della cena è in grado di riferire a Carmine Pecorelli, così come riferito da Walter Bonino, e a Carlo Adriano Testi il contenuto dei colloqui avvenuti durante la cena; se tali argomenti non riguardavano solo la copertina con lo strillo "gli assegni del presidente"; se addirittura tale copertina è stata consegnata a Franco Evangelisti subito dopo; se gli argomenti trattati durante la cena sono stati riferiti a Franco Evangelisti dallo stesso Claudio Vitalone, come da lui ammesso, è logico ritenere che effettivamente durante la cena si è parlato della copertina con lo strillo "gli assegni del presidente", dell'articolo di attacco a Giulio Andreotti e del tentativo di dissuasione posto in essere da Claudio Vitalone.

Al riguardo è necessario puntualizzare, sulla base delle testimonianze assunte a dibattimento che la data riportata su ciascun numero della rivista avente cadenza settimanale, era quella in cui veniva distribuito il numero successivo. Consegue che il n. 79/5 di OP, avente come data di scadenza quella del 6.2.1979, è stato distribuito il 30.1.1979 (anche se i testimoni dicono che è stato distribuito alcuni giorni dopo per i disguidi sorti a causa della sostituzione del numero contenente il dossier sulla pornografia). Perché fosse possibile la distribuzione per il 30.1.1979, era necessario che il materiale da stampare fosse pronto, come emerge soprattutto dalla testimonianza di Paolo Patrizi e Franca Mangiavacca, entro il martedì precedente la distribuzione, per la parte relativa al dossier centrale formato di 32 pagine, ed entro il giovedì - al massimo venerdì mattina- per la restante parte. La copertina rientrava, come tempo di consegna alla tipografia, nel materiale da consegnare entro il martedì. Ne è prova il fatto che martedì 20.3.1979, giorno della uccisione di Carmine Pecorelli, vi era stata una riunione con il disegnatore per la scelta della copertina del numero in preparazione.

Con tali precisazioni va esaminata la storia della copertina con lo strillo "Gli assegni del presidente".

Essa è stata preparata prima della cena alla Famiglia Piemontese che, come si è detto, è avvenuta il mercoledì 24.1.1979 ed è stata consegnata il giorno precedente alla tipografia Abete per essere stampata con il numero 79/5. Ciò si evince dal fatto che la tipografia Abete non aveva stampato la copertina perché era stata sostituita e aveva, di controvoglia a causa delle grane che dalla circolazione di dette pellicole potevano derivare allo stampatore, restituito i bozzetti su richiesta esplicita di Carmine Pecorelli. Consegue che quando Carmine Pecorelli parla durante la cena alla Famiglia Piemontese della copertina con lo strillo "gli assegni del presidente" era ancora sua intenzione stampare la copertina in questione come richiamo dell'articolo che voleva pubblicare sugli assegni ricevuti da Giulio Andreotti.

La circostanza è provata dalla testimonianza di Franca Mangiavacca, Walter Bonino, Paolo Patrizi ed Ezio Radaelli.

La prima ha ricordato che Carmine Pecorelli, appena ricevuta la lettera indirizzata a "Caro Paul", relativa al sequestro del figlio di Giuseppe Arcaini, anch'essa pubblicata sul n. 79/5 di OP, aveva iniziato la ricerca degli assegni ricevuti da Giulio Andreotti (Mangiavacca parla di "caccia agli assegni"). Ricerca iniziata due o tre settimane prima della pubblicazione della lettera stando alle dichiarazioni di Walter Bonino che, nell'interrogatorio del 4.6.1979, colloca la ricezione della lettera due o tre settimane prima della sua pubblicazione. Ricerca dovuta al collegamento che Carmine Pecorelli riteneva esistente tra tale sequestro e alcuni costruttori romani a cui Giuseppe Arcaini, direttore generale della Italcasse, aveva negato il credito.

Paolo Patrizi, a sua volta, ricorda che alcuni giorni prima della preparazione del bozzetto su "gli assegni del presidente" aveva ricevuto l'incarico da Carmine Pecorelli di scrivere un articolo su tali assegni ma che la sua attività si era risolta nel tirare fuori i vecchio materiale, pubblicato nel 1977, in attesa del nuovo materiale che non era mai arrivato tanto che l'articolo non era mai stato scritto.

Le dichiarazioni di Ezio Radaelli permettono di potere affermare che l'interesse di Carmine Pecorelli per quegli assegni era ancora attuale e che egli era in possesso di notizie nuove rispetto a quelle già pubblicate avendo nel frattempo appreso che gli assegni erano stati dati a Giulio Andreotti da Nino Rovelli.

E' stato obbiettato che in realtà Carmine Pecorelli non aveva nulla di nuovo rispetto alle notizie, relative agli "assegni del presidente", pubblicate nel 1977. La obbiezione non è rilevante perché, come è dimostrato dalle dichiarazioni di Ezio Radaelli, egli aveva saputo della provenienza degli assegni e il possesso di fotocopie di tali assegni avrebbe permesso a Carmine Pecorelli di contestare documentalmente la ricezione degli assegni. Né vale obbiettare che egli non era in grado di procurarsi tali fotocopie, depositate ormai negli archivi delle banche emittenti, perché è dimostrato che Carmine Pecorelli aveva strade diverse e non comuni, ma sicuramente redditizie, per arrivare alla fonte delle notizie pubblicate.

Peraltro, a confutazione della tesi che alla data della cena presso la Famiglia piemontese non era più possibile inserire l'articolo e la copertina relativi agli "assegni del Presidente" va ricordato che la copertina, nella forma di bozzetto, era già pronta e per la sua produzione non necessitava di alcuna prova (vedi testimonianza Peroni) e che l'articolo, se non facente parte del dossier centrale poteva essere inviato alla tipografia Abete fino al venerdì mattina e cioè fino alla mattina del 26.1.1979.

La ragione, a giudizio della corte, è strettamente collegata al motivo per cui Carmine Pecorelli, all'improvviso, durante la cena alla famiglia piemontese, ha parlato della copertina e dell'articolo su "gli assegni del presidente".

Egli sapeva di parlare a persone vicine a Giulio Andreotti e al suo entourage e ha approfittato dell'occasione per lanciare un'esca, secondo lo stile del giornalista aduso a lanciare la pietra nello stagno per verificare le reazioni dell'avversario, con la consapevolezza che le sue parole sarebbero arrivate al vero destinatario; cosa puntualmente verificatasi se è vero che Claudio Vitalone ha cercato di convincere Carmine Pecorelli di desistere dal pubblicare l'articolo e nell'immediatezza ha riferito a Franco Evangelisti, sottosegretario alla presidenza del consiglio nel governo presieduto da Giulio Andreotti e suo braccio destro, gli argomenti ed il contenuto delle conversazioni avute quella sera.

Esca consistita nel fare presente che egli aveva notizie importanti su una certa vicenda senza peraltro specificare esattamente l'importanza della notizie a sua mani (va precisato che avere accennato al possesso di fotocopie di assegni percepiti da Giulio Andreotti nulla toglie o aggiunge alla importanza della notizia essendo esse solo il supporto documentale della notizia).

La stampa delle copertine e la consegna di due copie di esse a Franco Evangelisti (è irrilevante stabilire se esse furono fatte recapitare direttamente da Carmine Pecorelli - come la logica fa ritenere- ovvero per mezzo di Claudio Vitalone, come una certa interpretazione delle parole di Franco Evangelisti potrebbe anche autorizzare non avendo esse un senso univoco) ha il significato di una conferma, per il vero destinatario, di quanto detto nel corso della cena e cioè che sull'argomento "assegni del presidente" egli era in possesso di notizie importanti.

La circostanza è provata dalle dichiarazioni di Franco Evangelisti il quale riferisce che, nel conoscere l’oggetto dell’attacco nei suoi confronti, Giulio Andreotti era rimasto indifferente trattandosi di notizia vecchia. Del resto è lo stesso Giulio Andreotti che riferendo dei rapporti tra Carmine Pecorelli e Franco Evangelisti ammette di avere saputo quanto meno della "copertina relativa agli assegni del presidente" e tale conoscenza va posta nell’arco di tempo tra la cena alla Famiglia Piemontese e il 6.2.1979 data in cui Carmine Pecorelli aveva ringraziato Giulio Andreotti per l’invio di un medicinale idoneo a curare l’emicrania da cui entrambi erano afflitti. Ad ulteriore riprova che Giulio Andreotti è stato messo a conoscenza del contenuto dei colloqui fatti durante la cena alla Famiglia Piemontese deriva dalle dichiarazioni da lui rese nel corso dell’esame. Giulio Andreotti nega ogni suo coinvolgimento, anche a livello di semplice conoscenza dell’episodio, di cui ha avuto cognizione solo dopo che era divenuto processualmente importante (dopo il suo coinvolgimento nel processo come mandante), nega di avere appreso alcunché da Franco Evangelisti, nega addirittura di avere saputo delle dichiarazioni rese da Franco Evangelisti in data 2.5.1980, tuttavia è costretto ad ammettere prima di averne parlato nell’anno 1980 sia con Carlo Adriano Testi che con Claudio Vitalone e ne ha parlato sicuramente con Franco Evangelisti nell’immediatezza del fatto; se così non fosse non avrebbero coerenza logica le dichiarazioni di Franco Evangelisti, l’esibizione da parte di costui della notizia pubblicata nel 1977 da OP, l’esibizione della "copertina con lo strillo gli assegni del presidente", il riferimento all’emicrania di cui soffriva Carmine Pecorelli non essendo emersi altri motivi che inducessero in quel periodo Giulio Andreotti e Franco Evangelisti a parlare di Carmine Pecorelli.

Ciò nonostante ritiene la corte che l’espressione usata da Claudio Vitalone quando aveva chiesto di soprassedere alla pubblicazione dell’articolo perché egli ne parlasse in alto loco, secondo la versione data da Walter Bonino (vedi nota in cui è riportate le dichiarazioni di Walter Bonino) indica che Vitalone ha parlato con Giulio Andreotti anche se ciò non esclude che ne abbia parlato anche Franco Evangelisti che di Giulio Andreotti era all’epoca il braccio destro.

E’ ben vero che sia Giulio Andreotti che Claudio Vitalone hanno escluso di avere parlato della cena alla Famiglia Piemontese, ma le loro affermazioni non sono convincenti ostandovi argomenti logici.

Il primo di tali argomenti è relativo ai rapporti non idilliaci che esistevano tra Franco Evangelisti e Claudio Vitalone.

Non si comprende, quindi, perché il secondo sarebbe andato a raccontare circostanze che non interessavano il primo senza riferire le stesse circostanze all’interessato. Né appare credibile la spiegazione data sul punto da Claudio Vitalone, e cioè di non avere voluto mettere zizzania tra Giulio Andreotti e Franco Evangelisti, perché questi finanziava Carmine Pecorelli che attaccava sul suo giornale il suo capo corrente perché risulta per ammissione dello stesso Andreotti che egli sapeva dei buoni rapporti esistenti tra Carmine Pecorelli e Franco Evangelisti come sapeva del contratto pubblicitario fatto avere a OP per l’interessamento di Franco Evangelisti (contratto con la SPI di Milano di cui parla Franca Mangiavacca) che non si era perfezionato per la morte di Carmine Pecorelli ma per il quale erano stati fatti dei viaggi a Milano nel gennaio 1979 dopo la cena alla famiglia piemontese).

Ma la spiegazione data da Claudio Vitalone non è credibile anche perché egli stesso ha ammesso di non essere un lettore di OP se non per alcuni articoli sottoposti alla sua attenzione da amici e colleghi, per cui può escludersi che all’epoca, a meno di non affermare che la circostanza riferita non sia vera, che egli potesse sapere degli attacchi di Carmine Pecorelli a Giulio Andreotti.

La realtà, secondo il giudizio della corte, è che dopo la cena alla Famiglia Piemontese Claudio Vitalone ha comunicato non solo a Franco Evangelisti, ma anche a Giulio Andreotti (doveva riferire in alto loco e sicuramente tale personaggio non era Franco Evangelisti).

Il comportamento di Claudio Vitalone si è estrinsecato nel tacere quello che sapeva sulla cena alla famiglia piemontese e nel tenere un comportamento persuasivo nei confronti di alcuni commensali affinché questi, a loro volta, non rivelassero quanto a loro conoscenza.

Sotto il primo aspetto va osservato che egli non ha sentito il bisogno, benché espletasse all'epoca le funzioni di sostituto procuratore della repubblica presso il tribunale di Roma e fosse nota a tutti la sua intelligenza e la sua preparazione, di recarsi immediatamente, appresa la notizia della morte di Carmine Pecorelli, dal pubblico ministero titolare dell'inchiesta per portare alla sua conoscenza i fatti avvenuti il 24.1.1979. Né vale sostenere che non ne ha parlato perché non aveva dato alcuna rilevanza al fatto e perché nulla di illecito era avvenuto in quella cena. Tale affermazione non è vera perché qualcosa di rilevante quella sera era avvenuto quanto meno nei limiti ricordati dallo stesso Claudio Vitalone nell'interrogatorio del 18/1/1994.

Ma, se anche fosse vera la valutazione della irrilevanza della cena alla Famiglia Piemontese fatta da Claudio Vitalone nell'immediatezza dell'uccisione di Carmine Pecorelli, tale affermazione non è più valida nel momento in cui scoppia, sul caso, la violenta polemica giornalistica e politica. In quel momento la cena presso La Famiglia Piemontese aveva assunto rilevanza per l'omicidio di Carmine Pecorelli, ma, malgrado ciò, Claudio Vitalone, pur non potendo negare il fatto, sia nel suo intervento in senato che nella memoria depositata avanti al PM che conduceva le indagini, non ha riferito il contenuto della conversazione anche se l'aveva ben presente, quantomeno nei limiti, da lui ammessi, della conoscenza dei finanziamenti fatti da Franco Evangelisti a Carmine Pecorelli.

Il silenzio tenuto da Claudio Vitalone in quella occasione altro non è che la riprova del fatto che egli era ben consapevole della importanza del colloquio e della illiceità del suo comportamento. La successiva ammissione appare, a giudizio della corte, il tentativo, tacendo ancora il ruolo da lui avuto nel modo e nei tempi del suo intervento quella sera e successivamente (come sarà detto fra poco) di spostare l'attenzione dalla sua persona a quella di Franco Evangelisti. Tentativo reiterato anche nel corso del processo allorché ha indicato come movente del delitto il traffico di quadri falsi del pittore Giorgio De Chirico in cui, a suo avviso, sarebbe stato coinvolto Franco Evangelisti.

Anche per questa seconda prospettiva, Claudio Vitalone si è difeso asserendo che in quel colloquio non aveva ravvisato nulla di illecito, ma tale compito, come egli ben sapeva per le sue qualità professionali sopra ricordate, non gli competeva. Suo compito era quello di portare a conoscenza dell'autorità giudiziaria i fatti che realmente erano accaduti quella sera lasciando a quest'ultima la valutazione, alla stregua di tutte le risultanze probatorie acquisite al processo, la rilevanza o meno delle notizie fornite.

Né la valutazione negativa del comportamento tenuto da Claudio Vitalone muta sulla considerazione che il G.I. che conduceva le indagini ha ritenuto irrilevante la cena alla Famiglia Piemontese perché sicuramente essa avrebbe acquisito un diverso significato se alle parole di Franco Evangelisti si fossero aggiunte quelle di Claudio Vitalone e degli altri commensali potendo esse avere una influenza sul comportamento di altre persone informate sui fatti, come ad esempio Ezio Radaelli che nel 1980 terrà, anche lui, un comportamento omissivo sulla provenienza degli assegni indicati da Carmine Pecorelli nel 1977 e da lui incassati.

Ma il comportamento di Claudio Vitalone, nella vicenda relativa alla cena presso la Famiglia Piemontese non si è limitato solo a non dire quello che sapeva ma si è esplicitato in una opera di persuasione nei confronti di altri commensali presenti alla cena e precisamente, all'inizio delle indagini per l'omicidio di Carmine Pecorelli, nei confronti di Walter Bonino anche se è singolare che Carlo Adriano Testi e Claudio Vitalone si siano presentati nello stesso giorno dal PM incaricato delle indagini. Tali pressioni, quanto meno psicologiche, sono avvenute nei confronti di Carlo Adriano Testi in occasione dell'incontro avvenuto tra i due, alla presenza di Wilfredo Vitalone e dell'avvocato Saverio Pettinari, in casa di Carlo Adriano Testi nel febbraio del 1994 subito dopo che questi era stato invitato a presentarsi a Perugia per essere sentito sulla cena presso la Famiglia Piemontese. Sul punto le affermazioni di Carlo Adriano Testi rendono chiaro il modo di agire di Claudio Vitalone; modo di agire che appare ancora più chiaro ascoltando le telefonate intercorse tra la moglie ed il figlio di Carlo Adriano Testi quando commentano l'incontro della sera prima e le spiegazioni su tale telefonata data da Carlo Adriano Testi.

In altre parole Claudio Vitalone ha fatto in modo che, per la presenza dei suoi fratelli e dell'avv. Saverio Pettinari, Carlo Adriano Testi non potesse avere con lui un colloquio serio e proficuo sugli avvenimenti accaduti al circolo della Famiglia Piemontese e quando egli ha fatto cenno alla nuova situazione che si era venuta a creare con la sua convocazione a Perugia lo ha messo a tacere richiamando quello che già aveva dichiarato.

E' ben vero che nessuna pressione appare fatta, ma se si tiene presente il modo di fare di Claudio Vitalone, come emerge chiaramente dalla visione e dall'ascolto del confronto da lui sostenuto con Fabiola Moretti, il tono della voce, l'atteggiamento tenuto stanno a indicare che Carlo Adriano Testi doveva ben guardarsi dal cambiare la versione dei fatti data nel lontano 1980.

La realtà, alla luce delle considerazioni sopra fatte, alla luce delle motivazioni, riferite da Walter Bonino, che hanno indotto Claudio Vitalone a tenere il comportamento sopra descritto, è che questi ha immediatamente compreso la pericolosità, per Giulio Andreotti, dei discorsi fatti durante la cena alla Famiglia Piemontese e delle ripercussioni che essi potevano avere e si è comportato di conseguenza nell’interesse del suo referente politico. L'opera di persuasione non a caso nella prima fase è avvenuta nei confronti del solo Walter Bonino perché questi era legato da affari con il petroliere Nino Rovelli, del quale curava gli interessi immobiliari nella società Ostilia di cui si era anche occupato Carmine Pecorelli, che era amico di Giulio Andreotti ed era colui che a questi aveva dato gli assegni che dovevano diventare oggetto dell'articolo "Gli assegni del Presidente". Parimenti non è un caso l'opera di convincimento viene fatta con esito favorevole nei confronti di Carlo Adriano Testi perché anche questi era vicino a Giulio Andreotti tanto è vero che lo stesso Pecorelli scrive di lui su OP del 23/5/1978 e lo definisce "longa manus di Andreotti a Palazzo dei Marescialli"; giudizio che, anche se espresso in data anteriore, conferma la dichiarazione fatta da Walter Bonino il quale nel tracciare il profilo "politico" di Carlo Adriano Testi lo definisce in alcune fasi della sua vita "andreottiano" anche se amico di tutta la DC; giudizio che trova ulteriore conferma nello stesso esame di Giulio Andreotti il quale, anche se a contestazione, riconosce di avere chiesto informazioni, quando era scoppiata la polemica sulla stampa in merito alla cena alla Famiglia Piemontese, sia a Claudio Vitalone che a Carlo Adriano Testi. Non è, ancora, un caso che non viene avvicinato Donato Lo Prete essendo costui non più "ostensibile", secondo la definizione che di alcuni rapporti divenuti scomodi nel tempo ha fatto Claudio Vitalone, per le sue note traversie giudiziarie.

La circostanza emerge, a parere della corte, da una serie di circostanze che complessivamente valutate, malgrado la vibrata protesta dell'interessato, indicano l'esistenza di rapporti con Giulio Andreotti che sono andati al di là di quelli nascenti dalla semplice conoscenza (Claudio Vitalone ha dichiarato che all’epoca dell’omicidio di Carmine Pecorelli i suoi rapporti con Giulio Andreotti erano formali ma l’affermazione appare in contrasto con la partecipazione di Giulio Andreotti ad una cena organizzata da Claudio Vitalone nell’anno 1974, dagli incontri anche domenicali risultanti dalle agende di Giulio Andreotti nell’anno 1978 e 1979) e si sono concretizzati nella adesione di Claudio Vitalone alle posizioni politiche di Giulio Andreotti anche durante il tempo in cui lo stesso era magistrato e nella indicazione da parte di Giulio Andreotti di Claudio Vitalone a candidato nelle elezioni politiche del giugno 1979.

Rapporti che, a giudizio della corte hanno portato il primo ad assecondare sul piano giudiziario le scelte politiche del secondo.

Invero che Giulio Andreotti e Claudio Vitalone si conoscessero da lungo tempo e che intrattenessero rapporti proficui è ammesso dagli stessi imputati, i quali, malgrado alcune imprecisioni sull'inizio dei loro primi contatti, sono concordi nell'affermare che la loro conoscenza è databile quanto meno all’inizio degli anni ’70 quando Giulio Andreotti era capo gruppo della Democrazia Cristiana.

Gli elementi su cui si basa l’affermazione della corte sono i seguenti:

Sia consentito, sul punto, alla corte, espressione di quel popolo nel cui nome tutte le sentenze sono emesse e che per volontà del costituente partecipa personalmente alla amministrazione della giustizia in questo organo giudicante, dare sfogo, anche se le affermazioni non sono funzionali alla decisione, alla indignazione e allo stupore per il comportamento di due alti magistrati della repubblica italiana, di cui uno membro del Consiglio Superiore della Magistratura e l'altro uno dei più brillanti sostituti procuratori della repubblica presso il tribunale di Roma, non abbiano sentito il bisogno, per dare il loro contributo all'accertamento dei fatti, seppure piccolo, di andare a riferire l'accadimento e il contenuto della cena.

Indigna e stupisce ancora che essi abbiano potuto anteporre al bene dell’accertamento della verità altri e più terreni interessi.

Questi, estremista di destra ha conosciuto persone gravanti in quell’ambiente e tra questi il giornalista Franco Salomone, Aldo Semerari, Sergio Calore, Filippo De Iorio, Fabio De Felice e ha avuto rapporti con personaggi coinvolti a vario titolo nel c.d. Golpe Borghese. A Paolo Aleandri nell’ambito dell’organizzazione era stato affidato il compito di mantenere i contatti tra persone latitanti all’estero e persone rimaste in Italia ed in particolare ha avuto il compito di mantenere i contatti tra Filippo De Iorio e Franco Salomone incaricato di seguire la posizione del primo nell’ambito del processo al c.d. Golpe Borghese in cui Filippo De Iorio era uno dei principali imputati; per tale sua funzione aveva avuto svariati colloqui con Franco Salomone il quale in una di tali occasioni gli aveva detto di riferire a Filippo De Iorio di stare tranquillo perché Claudio Vitalone si stava interessando personalmente e che comunque, a suo dire (di Claudio Vitalone) non bisognava disturbarlo perché sarebbe finito tutto bene purché ci fosse stato il tempo di seguire una certa strategia e che l’esito del processo sarebbe stato favorevole indipendentemente dalle scelte processuali che sarebbero state prese nel processo. Aggiungeva Paolo Aleandri che, a quanto riferito da Franco Salomone, si trattava di una operazione politica perché, indipendentemente dai singoli eventi che potevano accadere giorno per giorno, c’era la volontà di risolvere politicamente la questione.

Quanto riferito da Paolo Aleandri trova conferma proprio negli scritti di Carmine Pecorelli che sul c,d, Golpe Borghese ha sempre denunziato la strumentalità dell’azione penale su richiesta di Giulio Andreotti e sull’esito del processo sostanzialmente favorevole agli imputati.

Sul punto è stata prodotta a sostegno della tesi esposta a dibattimento da Giulio Andreotti e Claudio Vitalone, che la scelta è stata del segretario Flaminio Piccoli, ma la lettera, a fronte delle testimonianza di Mino Martinazzoli e Vittorio Sbardella non è sufficiente, per il suo tenore e per la sua genericità, a superare le conclusioni della corte sul punto. Né influisce su tale conclusione che alla proposta non erano state sollevate obiezioni da alcuno dei membri della direzione essendo pacifico che tutti i partiti erano soliti inserire nelle loro liste personalità esterne al partito e tra queste anche magistrati.

Il messaggio lanciato da Carmine Pecorelli è stato immediatamente percepito dai diretti interessati e la conversazione sulla copertina con lo strillo "gli assegni del Presidente" e l’annunzio del paventato attacco a Giulio Andreotti hanno immediata ripercussione su Giulio Andreotti e sul suo entourage, segno questo che essi hanno avvertito il pericolo che dalla notizia a mani di Carmine Pecorelli poteva derivare per cui viene posta in essere tutta una attività diretta a disinnescare il temuto pericolo.

Solo in tal modo può spiegarsi la frenetica attività da parte di Franco Evangelisti, l’intensificarsi dei rapporti tra Carmine Pecorelli e Claudio Vitalone, l’attività di interferenza per l’accertamento dei fatti posta in essere da Giulio Andreotti nei confronti di Ezio Radaelli.

Solo in questo modo può trovare spiegazione la cortina fumogena che sulla cena presso la Famiglia Piemontese è stata sollevata per ostacolare le indagini giudiziarie.

Occorre pertanto esaminare i punti in cui si è espletata la cennata attività.

Sul primo punto si osserva.

Franco Evangelisti si è mostrato molto prodigo nei confronti di Carmine Pecorelli in materia di contributi, di aiuti nel campo tipografico e nel campo della pubblicità, come correttamente ed esattamente riferito da Walter Bonino il quale riporta le parole dettegli da Carmine Pecorelli, in occasione dell’incontro da lui avuto alcuni giorni dopo la cena alla Famiglia Piemontese.

Orbene quanto riferito da Walter Bonino ha trovato puntuale riscontro. Invero dalle dichiarazioni di Franca Mangiavacca (amministratrice della società editrice di OP) la quale riferisce di essere andato a Milano in data 25/26 gennaio 1979 per stipulare un contratto preliminare con l’agenzia di pubblicità facente capo a tale Stacchi, di Paolo Patrizi il quale parla di un viaggio a Milano fatto da Carmine Pecorelli e Franca Mangiavacca sempre relativo alla stipulazione di un contratto preliminare di pubblicità per £ 300.000.000 di minimo garantito e di Rosina Pecorelli la quale nel ricordare l’ultimo pomeriggio di Carmine Pecorelli ha riferito quanto dettole dal fratello sulle condizioni economiche del giornale e ha dichiarato " Poi dice (Carmine Pecorelli): "sono però abbastanza sereno perché mi è stato promesso un contratto pubblicitario per il mio giornale e poi una stampa del giornale in una tipografia a minor costo. Sai la pubblicità per un giornale è tutto". Dissi: "ma chi te le ha fatte queste promesse?" allora lui (Carmine Pecorelli) mi disse: dal gruppo dell'Onorevole Andreotti, tramite Evangelisti, mi disse che era stato anche a Milano per trattare questa cosa con questa società di pubblicità. che tramite e con l’aiuto di Franco Evangelisti era stato firmato un contratto pubblicitario" , si ha la prova che a Carmine Pecorelli era stato dato un concreto aiuto per la ricerca della pubblicità che per un giornale significa la vita finanziaria da parte del "gruppo andreottiano" di cui faceva parte integrante l’on. Franco Evangelisti.

Sempre dalle dichiarazioni di Franca Mangiavacca emerge che poco prima di morire Pecorelli aveva ricevuto £ 30.000.000 da Franco Evangelisti, o meglio, Franco Evangelisti aveva pagato tale somma alla tipografia Abete nei cui confronti OP aveva un debito di £ 40 milioni circa e che tale somma proveniva da Gaetano Caltagirone. Analoghe dichiarazioni ha reso Rosina Pecorelli la quale ha riferito che nell'incontro avuto con il fratello nel pomeriggio della sua uccisione, questi le aveva riferito, sempre parlando delle condizioni economiche del giornale, che Franco Evangelisti aveva pagato gli ultimi due numeri della rivista direttamente alla tipografia Abete.

La circostanza è confermata dagli stessi Franco Evangelisti, il quale ricorda di avere pagato parte dei debiti che Carmine Pecorelli aveva nei confronti della tipografia Abete che stampava la rivista, e Gaetano Caltagirone il quale ricorda di avere dato a Franco Evangelisti un assegno da trenta milioni ma non sa a chi fosse diretta la somma e aggiunge che su richiesta di Franco Evangelisti aveva incontrato circa un mese prima della sua morte Carmine Pecorelli a cui aveva dato un (ulteriore) contributo di £ 15.000.000.

Ancora: risulta confermato che presso lo stabilimento di Villa S. Lucia, di proprietà di Giuseppe Ciarrapico, è stato stampato un "numero 0" di OP (numero di prova per verificare le caratteristiche della stampa) mentre un secondo numero non fu portato a termine.

Ciò emerge dalle concordi dichiarazioni dell’editore Giuseppe Ciarrapico e del suo dipendente Angelo Graniero.

Risulta anche, a conferma delle dichiarazioni di Walter Bonino, dalla testimonianza dello stesso Ciarrapico che a favorire la stampa del settimanale presso la casa editrice di Giuseppe Ciarrapico era stato Franco Evangelisti i quale gli aveva chiesto di favorire Carmine Pecorelli praticando un minore prezzo per la stampa del giornale.

Il punto da accertare è se questa attività è da mettere in correlazione con la cena presso La Famiglia Piemontese.

All’apparenza tale nesso deve escludersi sulla base delle dichiarazioni rese da Giuseppe Ciarrapico che colloca temporalmente l’intervento di Franco Evangelisti nell’ottobre 1978 anche se ammette che il numero di prova ed il secondo numero non andato a buon fine è stato stampato nel 1979.

Esso, al contrario, a giudizio della corte, è provato sulla base dei seguenti elementi:

Sul secondo punto si osserva.

La conclusione della corte parte necessariamente dalla natura e intensità dei rapporti esistenti fino al 24.1.1979 e successivamente tra Carmine Pecorelli e Claudio Vitalone e si basa oltre che sulle testimonianze assunte al dibattimento anche su quanto emerge dalle agende di Carmine Pecorelli e dalle dichiarazioni dello stesso Claudio Vitalone oltre che dagli estratti dell’elenco telefonico relativo alle abitazioni e ai numeri telefonici di Claudio Vitalone.

Prima di affrontare la vicenda, occorre preliminarmente precisare che le annotazioni "Vitalone", riportate nelle agende di Carmine Pecorelli, si riferiscono a Claudio Vitalone perché il giornalista era solito fare precedere il cognome Vitalone dal nome Wilfredo, o dalla sua iniziale, quando voleva indicare il fratello di Claudio Vitalone.

Orbene, risulta dagli atti che prima del congresso dell’associazione magistrati tenutosi a Torino nell’ottobre 1978 Claudio Vitalone e Carmine Pecorelli non si conoscevano. Essi furono presentati da Carlo Adriano Testi. La circostanza trova puntuale conferma nell’agenda di Carmine Pecorelli che annota alla data del 30.10.1978.

Prima di tale data, infatti, le annotazioni riportate sulle agende di Carmine Pecorelli, relative a Claudio Vitalone, sono del 25 maggio 1978, in cui è riportata in riquadro la scritta: Famiglia Piemontese si incontrano De Matteo e signora, Gallucci e signora, Rovelli e signora, Vitalone e signora e del 17.10.1978, in cui sono chieste o dovevano essere chieste all’avv. Minghetti informazioni su Claudio Vitalone che all’epoca era oggetto di particolare attenzione giornalistica.

Risulta, altrettanto pacificamente, che Claudio Vitalone e Carmine Pecorelli si sono incontrati la sera del 24.1.1979 presso il circolo La Famiglia Piemontese.

Risulta che nell’agenda tascabile di Carmine Pecorelli è stato trovato il numero telefonico riservato dell’abitazione di Claudio Vitalone.

Risulta, ancora, che Carmine Pecorelli sapeva dove Claudio Vitalone abitasse all’epoca (la circostanza era stata anche oggetto di articoli su OP quando Claudio Vitalone prima di trasferirsi in corso Vittorio Emanuele aveva abitato in via Courmayeur e Cortina d’Ampezzo.

Risultano annotazioni del nome Vitalone sulla agenda di Carmine Pecorelli in data 11, 12, 14 (il nome è graffato), 15 e 19 dicembre 1978.

Risulta che in data 18.12.1978 Carmine Pecorelli ha scritto la prima lettera di scuse e in data 19.12.1978 ha scritto la seconda lettera di scuse a Claudio Vitalone (questa ultima lasciata nella cassetta delle lettere della casa di Claudio Vitalone dove era stato accompagnato da Paolo Patrizi).

Risulta ancora che nell’anno 1979 il nome di Claudio Vitalone è annotato nell’agenda di Pecorelli in data 9 gennaio, 15 gennaio (insieme a Donato Lo Prete), 16 gennaio (annotazione cancellata), 25 gennaio (il giorno successivo alla cena presso la Famiglia Piemontese il nome è annotato con quello di Walter Bonino - i due nomi sono graffati -), il 1, 2, 6, 7 (è annotato anche il nome di Wilfredo Vitalone che compare anche in data 12 insieme a quello di Ciarrapico e il 1.3 79), 14 (sono indicati i nomi di Vitalone e Ciarrapico tra parentesi), 16 (nel pomeriggio è indicato il nome di Ciarrapico), 17, 28 febbraio, 13 (insieme a Ciarrapico perché i due nomi sono uniti da una sbarra e subito dopo vi sono i nomi Evangelisti e Ciarrapico uniti da una sbarra), 16 (anche in questa data Vitalone è unito a Ciarrapico da un tratto) marzo 1979.

Questi gli elementi di fatto relativi alla conoscenza e alla freqentazione dicarmine Pecorelli e Claudio Vitalone.

Al di fuori di tali incontri, sostiene Claudio Vitalone, nessun altro contatto, neppure telefonico, vi è stato con Carmine Pecorelli.

L’affermazione ha trovato una conferma nella testimonianza di Franca Mangiavacca la quale ha dichiarato che, a sua conoscenza, tra Carmine Pecorelli e Claudio Vitalone vi sono stati solo due incontri.

Tale affermazione non è a giudizio della corte esaustiva e non implica che tra i due personaggi non vi siano stati contatti e rapporti.

Ciò a maggior ragione se si tengono presenti le numerose annotazioni fatte da Carmine Pecorelli sulle sue agende di studio, l’annotazione sulla agenda tascabile di Carmine Pecorelli del numero di telefono riservato di Claudio Vitalone e soprattutto l’invio da parte di Pecorelli di due lettere di scuse, a distanza di un giorno, la cui richiesta e il cui contenuto non possono essere state una iniziativa esclusiva di Carmine Pecorelli.

Va sottolineato, infatti, che un gruppo consistente di annotazioni è stata fatta proprio a ridosso della data di invio delle citate lettere (in data 11, 12, 14 (il nome è graffato), 15 e 19 dicembre 1978).

Le altre annotazioni, ad esclusione di quella in cui il nome di Claudio Vitalone è associato a quello di Donato Lo Prete e sta a significare, a giudizio della corte, una comunicazione relativa agli invitati per la cena del 24.1.179 presso la Famiglia Piemontese ,sono tutte successive alla cena presso la Famiglia Piemontese e indicano anche un riferimento o ai partecipanti alla cena o a persone che a vario titolo sono state coinvolte in rapporti con Carmine Pecorelli.

Né si può accedere alla tesi sostenuta da Claudio Vitalone di non avere saputo nulla delle modalità con cui le lettere di scusa sono state a lui recapitate ritenendo che se fosse occupato l’amico comune Walter Bonino perché la circostanza non risulta; anzi Walter Bonino ha affermato di avere saputo della lettera di scuse, ma di non averla vista per cui non può essere stato lui a fare da tramite e a riferire a Carmine Pecorelli che il tenore della prima lettera non era sufficiente per cui occorreva modificarlo nel senso riportato nella lettera.

Parimenti non si può accedere alla tesi che il suo nome per stato trascritto sulle agende come annotazione per riprendere i contatti perché una tale annotazione mal si concilia con il numero, la frequenza e l’indicazione di altri nomi accanto a quello di Vitalone, cioè quello di Ciarrapico, che nulla hanno a che fare con il desiderio di Carmine Pecorelli di riprendere i contatti con Claudio Vitalone.

Parimenti non trova logica spiegazione la trascrizione del numero riservato della abitazione di Claudio Vitalone nell’agenda tascabile di Carmine Pecorelli significando, questo, che il primo era disponibile ad avere contatti con il secondo anche al di fuori della attività professionale di ciascuno. Né può ritenersi che esso sia stato dato a Carmine Pecorelli da Carlo Adriano testi o Walter Bonino atteso che di un simile fatto non vi è alcun elemento di prova neppure a livello indiziario e apparendo singolare che essi, conoscendo l’acrimonia degli attacchi di Carmine Pecorelli a Claudio Vitalone e i consequenziali cattivi rapporti esistenti tra i due, abbiano commesso una così grave scorrettezza prima del 24.1.1979. Né la situazione si era modificata dopo la cena presso la Famiglia Piemontese atteso che l’annunzio di un attacco di Carmine Pecorelli a Giulio Andreotti aveva gelato l’atmosfera e sia Walter Bonino che Carlo Adriano Testi sapevano dei buoni rapporti esistenti tra Claudio Vitalone e Giulio Andreotti.

Alla luce delle considerazioni sopra fatte, ritiene la corte che per effetto della cena presso la Famiglia Piemontese e dei colloqui che lì si sono fatti, i rapporti tra Claudio Vitalone e Carmine Pecorelli si siano intensificati e tale intensificazione è stato un ulteriore effetto di quello che era avvenuto durante la cena anche se non è noto l’oggetto di tali rapporti.

Quanto detto trova una ulteriore conferma perché sulla scena compare, come si deduce dalle annotazioni delle agende di Carmine Pecorelli anche Wilfredo Vitalone, molto legato al fratello (è sufficiente ricordare in questo momento l’episodio della cena a casa di Carlo Adriano Testi nel febbraio 1994 e la definizione di "Clan Vitalone", data da Carmine Pecorelli ai due fratelli, sulla rivista OP.

Sul terzo punto si osserva.

L’indagine sugli assegni ricevuti da Giulio Andreotti nasce il 25.11.1980 alcuni giorni dopo il deposito della memoria di Claudio Vitalone e la nuova escussione di Walter Bonino avanti al PM del processo. Nasce perché il nome di Walter Bonino compare sia come organizzatore della cena alla Famiglia Piemontese che come interessato al processo per la ricerca della c.d. lista dei 500 relativa a esportatori illegali di valuta che operavano tramite Michele Sindona.

L’indagine permette di risalire al nome del richiedente gli assegni circolari in questione che facevano parte di un più ampio numero di assegni richiesti dalle società del gruppo di Nino Rovelli e si conclude con rapporto della Guardia di Finanza del 19.2.1981.

Fin dal 2 dicembre 1980, il capitano D’Aloia riferiva in via riservata al suo comandante, che annotava la notizia su un appunto riservato, che tra i giranti di alcuni assegni vi erano parlamentari italiani come Franco Evangelisti e il senatore Viglianesi e che essi erano "diretti a persone influenti, tra cui politici, a titolo di riconoscimento o riconoscenza, per i vantaggi ricevuti per finanziamenti agevolati".

L’informativa riservata non viene portata a conoscenza della autorità giudiziaria.

Le indagini proseguono per accertare i reali beneficiari degli assegni e nell’ambito di tali indagini, stralciate dagli atti del processo per l’omicidio Pecorelli, viene escusso come testimone Ezio Radaelli risultante prenditore di alcuni degli assegni richiesti dalle società del gruppo SIR.

Prima della sua audizione, avvenuta il 20.11.1983 avanti al PM Orazio Savia, Ezio Radaelli su richiesta di Giulio Andreotti, ha incontrato Rovelli Nino; nell'incontro quest’ultimo gli aveva chiesto se per la storia degli assegni fosse stato possibile tenere fuori Giulio Andreotti e che se fosse stato interrogato doveva riferire che era un contributo ricevuto direttamente dalla SIR per una manifestazione e che gli assegni erano stati dati dall'amministratore della SIR Wagner il quale non poteva smentirlo in un eventuale confronto per essere deceduto; in cambio Nino Rovelli doveva mettere a disposizione di Ezio Radaelli un appartamento per uso ufficio e abitazione per il quale non avrebbe dovuto pagare affitto per due anni. Precisa Ezio Radaelli che la testimonianza avanti al PM Orazio Savia era consistita praticamente nella sottoscrizione dl verbale perché il PM sapeva già degli assegni dati da Wagner e dettava le risposte alle domande che egli stesso faceva.

E’ ben vero che Ezio Radaelli non sa collocare esattamente nel tempo l'incontro con Nino Rovelli ma esso deve collocarsi poco tempo prima che fosse stato convocato dalla autorità giudiziaria e precisamente dal PM Orazio Savia.

La circostanza non è ricordata da Giulio Andreotti, ma il particolare relativo all’indicazione del nome dell’amministratore della SIR, quello della sua morte al momento dell’incontro sono risultati veri e tali fatti uniti alla circostanza che effettivamente gli assegni erano stati emessi dal gruppo della Sir ed erano stati consegnati a Giulio Andreotti rendono oltremodo credibile quanto riferito da Ezio Radaelli.

Analogo episodio si verifica il 26 maggio 1993 quando Ezio Radaelli, già esaminato il 23/10/1993 dalla DIA che gli aveva mostrato gli assegni ricevuti da Giulio Andreotti, era stato convocato per il giorno 28/5/1993 dal P.M. Salvi per riferire sugli stessi argomenti.

Infatti è pacifico che quel giorno Carlo Zaccaria, segretario particolare di Giulio Andreotti, su incarico dello stesso Giulio Andreotti era andato a trovare Ezio Radaelli a casa sua e aveva insistito per vederlo malgrado questi fosse indisposto, assumendo che veniva per conto di Giulio Andreotti e che si trattava di cosa da due minuti.

Su tale punto tutti gli interessati alla vicenda sono d’accordo.

Circa il motivo è altrettanto pacifico che quello indicato da Giulio Andreotti, relativo a congratulazioni per aver letto sui giornali della presenza di Ezio Radaelli alla presentazione presso la libreria Croce di un libro sulla mafia, era solo l’occasione per parlare del vero motivo e cioè della vicenda degli assegni dati da Giulio Andreotti a Ezio Radaelli.

Si trattava di motivo urgente se Carlo Zaccaria si è recato a casa di Ezio Radaelli senza preavvertirlo e ha insistito malgrado la sua indisposizione. Urgenza dovuta proprio alla convocazione di lì a due giorni avanti al PM di Roma di Ezio Radaelli.

Nell'incontro si era parlato degli assegni che Ezio Radaelli aveva ricevuto da Andreotti.

Ezio Radaelli, in particolare, ha riferito che:

Da tali circostanze, emerge un intervento di Giulio Andreotti nei confronti di Ezio Radaelli perché egli confermasse la versione data molti anni prima su invito di Nino Rovelli.

La conclusione della corte non è scalfita dalla deposizione di Carlo Zaccaria perché questi nel suo esame è caduto in tante contraddizioni e non ricordo, confermando, però, a contestazione, quanto dichiarato avanti al PM di Roma dove era stato sentito nella immediatezza del fatto, sul contenuto della conversazione avuta con Ezio Radaelli, da fare ritenere esatto che in quella conversazione si era parlato degli assegni ricevuti da Giulio Andreotti nel lontano 1976.

Del resto, se ve ne fosse ancora bisogno, la tesi di Ezio Radaelli è confermata da Graziella Magagnin, la quale, benché non abbia assistito alla conversazione, era presente in casa e subito dopo ha saputo da Ezio Radaelli il contenuto del colloquio e ha precisato che si era parlato degli assegni in questione.

Sostiene sul punto Giulio Andreotti nel suo esame che non era mai stata sua intenzione invitare Ezio Radaelli a tacere quanto a sua conoscenza sulla provenienza degli assegni perché sua intenzione era solo quella di non essere chiamato in causa anche per questa altra vicenda avendo già in corso un altro procedimento presso la procura della repubblica di Palermo e che l’invio di Carlo Zaccaria da Ezio Radaelli era dovuto solo al fatto di essere stato interrogato pochi giorni prima e di non aver ricordato l’episodio degli assegni ricevuti da Nino Rovelli.

La tesi non è convincente. Invero appare strano che Giulio Andreotti, il quale ha dichiarato di non essersi mai interessato della vita del partito e di non avere mai contribuito alla ricerca di risorse finanziarie per la attività di partito (con l’unica eccezione rappresentata dal contributo richiesto a Nino Rovelli a titolo personale per la peculiarità del momento caratterizzato dal timore del sorpasso da parte del PCI sulla DC) non abbia a ricordare un episodio tanto eccezionale nella sua lunga vita di politico; appare singolare che Giulio Andreotti (oltre agli assegni dati a Ezio Radaelli occorre aggiungere quelli dati ad altri parlamentari come Caiati ed Evangelisti) non ricordi nulla di una contribuzione così cospicua se rapportata al valore della moneta italiana al tempo della elargizione anche in considerazione che sicuramente quella elargizione era un illecito essendo vietata, in quella forma, il finanziamento ai partiti politici; appare ancora singolare che l’episodio gli sia tornato alla mente non al momento in cui è stato interrogato, quando ne sussistevano tutti i presupposti per un ricordo, ma solo alla lettura del verbale dell’interrogatorio reso, e ciò lo ha tanto turbato da inviare con solletica urgenza il fido Zaccaria da Ezio Radaelli non per cercare di sapere come stavano effettivamente le cose, ma per richiedergli il favore di non coinvolgerlo in un procedimento per omicidio; appare strana infine proprio l’urgenza dell’invio del fido Zaccaria immediatamente dopo che la vicenda degli assegni era tornata alla ribalta giudiziaria e prima che su di essi la magistratura facesse ulteriori accertamenti con l’audizione dell’unica persona in grado di dare l’esatta versione sulle modalità con cui era entrato in possesso egli assegni.

Per completezza sul punto la corte è sicura che nei confronti di Ezio Radaelli non sono state utilizzate pressioni intimidatorie, ma ciò non significa che l’episodio non sia da considerare una indebita pressione specie nei confronti di Ezio Radaelli che per la sua attività nel mondo dello spettacolo deve mantenere buoni rapporti con il mondo politico da cui dipende l’elargizione di contributi statali per l’allestimento di ogni manifestazione culturale; in tale situazione il cortese invito fatto da Giulio Andreotti a non coinvolgerlo vicenda degli assegni elargiti da Nino Rovelli assume altra e più pregnante valenza perché Ezio Radaelli sapeva e sa che il rifiuto nei confronti di chi elargisce contributi, può decretare il successo o l’insuccesso della propria attività professionale e si regola di conseguenza. Ciò è tanto vero che nella analoga situazione del 1983 egli ha aderito di buon grado alla richiesta di Nino Rovelli e la seconda volta non ha potuto fare altrimenti perché ormai aveva già reso dichiarazioni avanti alla DIA e non poteva, all’evidenza, cambiare versione.

Ulteriore effetto derivante dalla "Cena presso la Famiglia Piemontese è stato un riavvicinamento delle posizioni di Carmine Pecorelli rispetto al "gruppo andreottiano".

Di tale avvicinamento ne è testimone la sorella Rosina Pecorelli che nell’incontro avuto nel pomeriggio del giorno della sua uccisione aveva saputo proprio dal fratello che tramite Franco Evangelisti i rapporti con Giulio Andreotti e il suo gruppo erano migliorati che la sua situazione economica doveva radicalmente cambiare e che era intenzionato a lasciare quella professione di dì a due anni.

 

B). LA VICENDA CHICHIARELLI

Accanto all’evento, denominato da questa corte "La cena presso La Famiglia Piemontese", come prima ricostruito, altri eventi hanno caratterizzato l’ultimo periodo della vita di Carmine Pecorelli.

Si è già parlato delle minacce che in quel periodo sono arrivate al giornalista ed il timore per la sua vita dallo stesso manifestato. Si è parlato del danneggiamento dell’auto subito nello stesso periodo da Carmine Pecorelli.

Qui va ancora posto in rilievo il fatto che Carmine Pecorelli, nell’ultimo periodo della sua vita è stato sorvegliato e controllato attentamente.

La circostanza emerge:

L’ultima circostanza porta necessariamente ad esaminare la figura di costui perché è il primo ad essere messo in relazione con l’omicidio di Carmine Pecorelli ed il ruolo che egli ha avuto nel fatto delittuoso.

Orbene, è risultato sulla base delle testimonianze in atti, che Antonio Giuseppe Chichiarelli era abile nel contraffare i grandi pittori moderni (attività a cui si dedicava anche la moglie Chiara Zossolo) e in questa sua attività non disdegnava la più prosaica attività di falsificazione di documenti, come emerge dal ritrovamento nella sua villa di timbri lineari e tondi con cui falsificava patenti, passaporti e certificati di assicurazione per auto destinati anche ad esponenti della c.d. Banda della Magliana con cui era in contatto avendo rapporti con esponenti di rilievo di tale sodalizio (sono emersi i nomi di Ernesto Diotallevi, Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci personalmente conosciuti da Antonio Giuseppe Chichiarelli e con lui visti insieme) e frequentando lo stesso bar di Via Fermi che al contempo era luogo di ritrovo degli esponenti della banda della Magliana (era frequentato anche dagli estremisti di destra del gruppo EUR/Marconi i quali però avevano come sede abituale un altro bar sito in via Avicenna).

Sono emersi anche contatti tra Antonio Giuseppe Chichiarelli e persone quantomeno confidenti dei servizi segreti( Luciano Dal Bello era in contatto con il maresciallo Solinas a cui aveva riferito del progetto di Antonio Chichiarelli di sequestrare un cittadino libico - tale Treki e la cui documentazione è stata acquisita presso il SISDE -, voleva preparare un attentato alla scorta di una personalità dello stato (appunto Solinas del 1/3/1979) e una scheda relativa al presidente della camera Pietro Ingrao era stata fatta trovare insieme a quella di Carmine Pecorelli), aveva abbandonato tali schede nel borsello ritrovato il 14/4/1979 su un taxi.

E’ emerso infine che Antonio Chichiarelli era in contatto con elementi della destra eversiva a sua volta in contatto con tale Balassone, facente parte del centro Roma 2 del SISDE; in particolare è emerso che era in contatto con Massimo Sparti considerato da Cristiano Fioravanti, aderente al gruppo di estrema destra di viale Marconi/Eur, di cui facevano parte Alessandro Alibrandi, Massimo Carminati e i fratelli Fioravanti, suo padre putativo.

E’ emerso, infine, che negli ultimi tempi della sua vita, come aveva dichiarato la moglie Chiara Zossolo, Antonio Chichiarelli aveva frequentato, malgrado le sue idee non di sinistra, almeno secondo le dichiarazioni di Domenico Giordano suo ottimo amico, la sede del collettivo di Via dei Volsci di cui leader era quel Daniele Pifano già incontrato nel processo per il tentativo di liberazione di Aldo Moro di cui la corte si è già occupato.

Una figura, quindi, di sicuro interesse per questo processo come sarà detto, ma che rimane completamente sconosciuta fino alla data del suo omicidio avvenuto nel 1984.

Quanto al ruolo avuto da Antonio Giuseppe Chichiarelli, esso non può comprendersi se non si tengono presenti alcune circostanze che come sarà detto sono riconducibili alla sua persona e precisamente.

Tale circostanza era stata comunicata al maresciallo Solinas da parte di Dal Bello Luciano il quale era a conoscenza fin dal 1979 della circostanza, ma nulla era successo.

In particolare Antonio Giuseppe Chichiarelli ha apposto di suo pugno la indicazione Sereno Freato sulla scheda fatta ritrovare il 17.11.1980.

L’attribuzione di tali scritti ad Antonio Giuseppe Chichiarelli è fatta sulla base delle testimonianza in atti nonché dagli elementi di fatto emersi nel processo per la rapina alla Brink’s Securmark e dalla perizia grafica effettuata sui volantini e sulle schede, dal raffronto di essi, quanto meno per la parte manoscritta, con altre scritture sicuramente attribuibili a Antonio Giuseppe Chichiarelli.

Una figura ed una attività rilevante anche per questo processo su cui, malgrado vi fossero elementi investigativi interessanti fin da 1979, nessuna indagine è mai stata fatta fino al momento della sua uccisione.

Si osserva al riguardo che all’inizio dell’anno 1979 il fenomeno del terrorismo era ancora vigoroso, e gli organi inquirenti per la strage di via Fani e per la uccisione di Aldo Moro erano alla ricerca spasmodica della testina rotante per macchine da scrivere IBM con la quale erano stati redatti i comunicati delle Brigate Rosse.

Una di tali testine viene fatta ritrovare nel borsello abbandonato ed altra testina rotante viene trovata nel possesso di Antonio Giuseppe Chichiarelli di lì a pochi mesi e inspiegabilmente non solo tali fatti non vengono collegati, ma addirittura nessuna indagine viene fatta sulla testina rotante sequestrata a Antonio Giuseppe Chichiarelli e questa è tranquillamente restituita al possessore.

Se ciò non bastasse, gli inquirenti erano in possesso di notizie rilevanti per il processo, di cui si occupa questa corte, perché sapevano fin dal 1/3/1979 di un progetto di attentato ad una personalità politica e del suo autore e nel borsello abbandonato sul taxi il 14/4/1979, dopo poco più di un mese dalla comunicazione del progetto di attentato, veniva trovata una scheda relativa al presidente della camera dei deputati Ingrao ma nessun collegamento viene fatto tra i due eventi e nessun chiarimento viene chiesto al maresciallo Solinas quanto meno sulla fonte della notizia.

Gli inquirenti sapevano, quantomeno lo sapeva il maresciallo Antonio Solinas, che Antonio Giuseppe Chichiarelli era l’autore del falso comunicato delle Brigate Rosse relativo al lago della Duchessa, che era l’autore della rapina alla Brink’s Securmark e che aveva abbandonato sul taxi il borsello contenente le schede relative a Ingrao e a Carmine Pecorelli.

Il SISDE sapeva, quantomeno dall’anno 1982, che Tony Relli era il mandante del sequestro del cittadino libico Treki, e poteva risalire agevolmente alla sua vera identità (illuminante è la presenza tra tali documenti di fatture intestate a Chiara Zossolo).

Anche in questo caso, a parere della corte si è avanti ad un inspiegabile e grave (se non deliberato) vuoto investigativo che, se colmato a tempo debito, avrebbe permesso di arrivare con facilità ad Antonio Chichiarelli prima della sua uccisione e di chiedere conto del suo operato sia in relazione al sequestro e alla uccisione di Aldo Moro che in relazione all’omicidio di Carmine Pecorelli.

Così non è stato.

Ma, delineata la figura di Antonio Giuseppe Chichiarelli il complesso degli elementi probatori raccolti a dibattimento permette tuttavia di affermare che questi sicuramente era in possesso di notizie sull’omicidio perché nella vicenda gli era stato affidato il ruolo di raccogliere notizie sulla sua vita e sulle sue abitudini, in ciò facilitato dalla sua amicizia con Osvldo Lai che abitava nei pressi della redazione di OP; egli, pertanto era in grado di informarsi dell’omicidio presso coloro che lo avevano incaricato di raccogliere le notizie.

Invero, la sua presenza nei pressi della sede di Via tacito non molto tempo prima dell’omicidio, l’atteggiamento da lui tenuto, in quella occasione, nei confronti di Franca Mangiavacca e di Carmine Pecorelli (atteggiamento che aveva suscitato paura nella prima tanto da raccontare l’episodio al portiere dello stabile), l’accuratezza e la precisione delle notizie raccolte e trasfuse nella scheda fatta ritrovare nelle occasioni su ricordate, l’accenno fatto nella scheda ad una riunione protrattasi a lungo con un alto ufficiale dei carabinieri nella zona di piazza delle cinque lune (dove il colonnello Antonio Varisco, amico di Carmine Pecorelli, aveva uno studio) in occasione del pedinamento raccontato da Franca Mangiavacca sono tutti elementi che coinvolgono a pieno titolo Antonio Giuseppe Chichiarelli nell’omicidio. Del resto è lo stesso Antonio Giuseppe Chichiarelli che al suo amico Luciano Dal Bello in presenza di Osvaldo Lai, aveva chiesto un prestito adducendo a giustificazione che serviva per un giovane coinvolto nell’omicidio di Carmine Pecorelli.

Ad analoga conclusione si perviene esaminando la deposizione della moglie di Antonio Giuseppe Chichiarelli la quale riferisce che circa 15 giorni dopo la morte di Carmine Pecorelli (per maggior precisione l’episodio va collocato tra il 20.3.1979, morte di Carmine Pecorelli e la notte tra il 13.4.1979 e il 14.4.1979 data del ritrovamento del borsello, aveva visto il marito preparare le schede che avrebbe abbandonato in un taxi e in quella il marito, molto turbato, aveva affermato che Carmine Pecorelli non meritava di morire e che era stato ucciso perché aveva scoperto qualcosa che non doveva scoprire e che il delitto era stato commissionato da persone al di sopra di ogni sospetto, molto in alto, che si mascheravano dietro un falso perbenismo.

A conclusione dell’affermazione del coinvolgimento di Antonio Giuseppe Chichiarelli nell’omicidio vi sono le dichiarazioni di Osvaldo Lai che, seppure parzialmente difformi da quelle riferite da Chiara Zossolo, indicano un suo interessamento fuori dell’ordinario per l’omicidio di Carmine Pecorelli.

Resta da chiarire il motivo del comportamento tenuto da Antonio Giuseppe Chichiarelli che in tal modo ha rischiato di concentrare su di sé l’attenzione degli inquirenti.

Ritiene la corte che la rivendicazione della rapina alla Brink’s Securmark da parte delle Brigate Rosse lasciando sul luogo della rapina un volantino a loro riferibile, la rivendicazione della stessa rapina in data 26/3/1984 con il messaggio fatto ritrovare presso la statua del Belli, insieme all’originale della scheda relativa a Carmine Pecorelli in precedenza fatte ritrovare, aveva lo scopo precipuo di allontanare gli inquirenti che indagavano sulla rapina dalla pista della criminalità comune per portarli in tutt’altra direzione. A tal fine il collegamento di vicende all’apparenza così distanti tra loro, il riferimento a vicende del sequestro di Aldo Moro che si erano già rivelate essere false, il pregnante riferimento all’omicidio di Carmine Pecorelli aveva il fine ultimo di intorpidire le acque perché i messaggi di difficile interpretazione derivante dall’avere unificato sotto un unico comune denominatore eventi diversi avrebbe sicuramente catturato l’attenzione degli inquirenti distogliendoli dal seguire altre piste.

Ma, accanto a tale palese ed evidente scopo, ritiene la corte che Antonio Giuseppe Chichiarelli abbia voluto da un lato dare soddisfazione alla sua personalità e, dall’altro, dire agli inquirenti che egli era in grado di fornire informazioni su episodi criminosi di interesse rilevante per la vita della nazione.

Infatti la sua personalità egocentrica lo induce a fare cose più grandi di lui, a fare sapere agli altri le sue azioni eclatanti e a vantarsi delle azioni commesse che erano più grandi di quelle che gli altri ritenevano che fosse in grado di fare.

In tal senso depone la testimonianza di Chiara Zossolo quando descrive il carattere del marito; descrizione che è confermata, anche se con sfumature, da coloro che conoscevano e frequentavano Antonio Chichiarelli.

Quanto al secondo aspetto la giustificazione del comportamento di Antonio Giuseppe Chichiarelli trova il suo fondamento nella stato d’animo e nella frase, riferita dalla moglie, da lui pronunziata in occasione della preparazione del borsello da lasciare sul taxi e cioè: " in quella occasione aveva visto il marito molto turbato che aveva affermato che Carmine Pecorelli non meritava di morire".

Pronunziando tale frase Antonio Giuseppe Chichiarelli, a giudizio della corte, giustificava il suo operato volendo che si facesse luce sull’omicidio ed era pronto a dire quello che sapeva se si fosse risalito alla sua persona perché non era d’accordo con coloro che, dopo averlo mandato a sorvegliare Carmine Pecorelli, poco dopo lo avevano ucciso infliggendogli una punizione che non meritava.

Non a caso, a prescindere dal ritrovamento degli originali delle schede con la rivendicazione della rapina alla Brink’s Securmark che ha avuto uno scopo puramente depistante, il ritrovamento della fotocopia della scheda con "l’annotazione Sereno Freato" avviene quando si ricomincia a parlare dell’omicidio di Carmine Pecorelli poiché vi era una discussione in senato originato dagli articoli giornalistici che attaccavano Claudio Vitalone per la cena alla "Famiglia Piemontese", non a caso negli stessi giorni Claudio Vitalone e Carlo Adriano Testi si erano recati avanti al PM dell’indagine per l’omicidio di Carmine Pecorelli il primo per presentare una memoria denunzia e il secondo per rendere spontanee dichiarazioni quasi a volere sottolineare, da parte di Antonio Giuseppe Chichiarelli, che egli era in grado di fornire informazioni (favorevoli o contrarie alla tesi che in quei giorni si agitava sui giornali e in senato).

Il punto centrale è verificare quello che effettivamente Antonio Giuseppe Chichiarelli sapeva sull’omicidio in ordine ai suoi mandanti ed agli esecutori materiali.

Di ciò si parlerà in seguito.

In questo momento è sufficiente avere accertato che effettivamente Antonio Chichiarelli di è interessato dell’omicidio di Carmine Pecorelli ed il ruolo che egli ha avuto in esso.

 

C). IL DEPOSITO DI ARMI PRESSO IL MINISTERO DELLA SANITA’

Altro avvenimento importante per la ricostruzione dei fatti relativi all’omicidio Pecorelli è la scoperta il 27.11.1981, presso i locali del Ministero della sanità in via Liszt, di un deposito di armi.

Tale deposito, come accertato dalla sentenza della Corte di Assise di Roma relativa alla banda della Magliana, sulla quale si è formato il giudicato per il punto che qui interessa (la sentenza è stata annullata e rinviata al giudice di merito solo per accertare se si tratta di associazione a delinquere semplice o di stampo mafioso oltre che per l’accertamento di responsabilità di persone accusate di fare parte del sodalizio ma la cui posizione è ininfluente per questo processo) era frequentata oltre che dal custode Biagio Alesse, dagli uomini di rilievo della Banda della Magliana come Maurizio Abbatino, Marcello Colafigli, Franco Giuseppucci, Edoardo Toscano, Danilo Abbruciati, Claudio Sicilia, Alvaro Pompili, Antonio Mancini (per questo ultimo, a conferma della sua presenza nel deposito di armi del ministero della sanità vale, come da lui stesso dichiarato, l’affermazione di Biagio Alesse il quale, benché abbia negato –come sostenuto da Antonio Mancini- che nel deposito di armi presso il ministero della sanità gli aderenti al sodalizio si esercitassero al tiro a segno sugli interruttori della luce, ha dovuto riconoscere che una volta era stato sparato un colpo di pistola che aveva colpito l’interruttore della luce) e Massimo Carminati.

Poco importa, quindi, che Biagio Alesse abbia detto di non conoscere Antonio Mancini e Massimo Carminati sia perché ha dichiarato che a prendere le armi erano andati anche ragazzi che non conosceva, sia perché, all’evidenza, la sua deposizione è reticente e tende a ridurre al minimo la sua partecipazione (al momento dell’esame non era stata ancora emessa la sentenza di primo grado sulla c.d. Banda della Magliana) al sodalizio criminoso e a sminuire la posizione dei suoi coimputati. La reticenza emerge a chiare lettere dall’analisi di tutta la deposizione di Biagio Alesse, a cui in dibattimento è stato contestato ripetutamente quanto dallo stesso dichiarato in istruttoria, nonché dallo stesso andamento ondivago degli interrogatori resi nel processo, da lui subito per la detenzione delle armi al ministero della sanità, dovuto alle "pressioni" su di lui fatte dai membri della associazione anche nello stesso carcere ove era stato assalito.

E’ sufficiente, sul punto, osservare ancora l’andamento del processo, nato sulla base delle prime dichiarazioni di Biagio Alesse, che aveva avuto come unica conseguenza, malgrado la dovizie di dichiarazioni fatte (anche se poi ritrattate), l’affermazione della responsabilità del solo Maurizio Abbatino e la dichiarazione di non doversi procedere nei confronti di Marcello Colafigli per totale infermità di mente mentre tutti gli altri accusati erano stati prosciolti o assolti a vario titolo.

Il deposito di armi è importante per questo processo perché:

  1. In esso, oltre a confluire le armi del gruppo della banda della Magliana detto propriamente "gruppo di Acilia/Magliana" erano conservate anche le armi che lì potevano depositare Danilo Abbruciati e Massimo Carminati, autorizzati ad accedere al deposito e che, per quello che si dirà, avevano stretti rapporti tra di loro e con persone aderenti o simpatizzanti della destra eversiva che gravitavano intorno alla zona Viale Marconi/Eur.
  2. Il gruppo Acilia/Magliana della banda della Magliana non usavano, se non per difesa personale, ma non per commettere azioni delittuose programmate, pistole cal. 7,65 preferendo altro tipo di pistole per cui quelle di quel calibro erano state depositate o da Danilo Abbruciati o da Massimo Carminati.
  3. Del resto che questi avessero altre fonti di rifornimento di armi emerge dalla deposizione di Valerio Fioravanti il quale ha ammesso che vi era osmosi di armi tra i gruppi eversivi della estrema destra e la delinquenza comune perché all’inizio della loro attività eversiva si erano riforniti da questa ultima e poi, quando attraverso le rapine alle armerie si erano auto approvvigionati, le armi rapinate di scarso valore per il gruppo erano state cedute o scambiate con la delinquenza comune con esponenti della c.d. banda della Magliana in contatto con loro mentre quelle di pregio erano da loro trattenute.

    Rileva a questo fine la rapina alla armeria Omnia sport, dove erano stati portati via anche proiettili marca Gevelot e le armi (deve ritenersi compresi i relativi munizionamenti) erano state conservate anche da elementi della destra come Alessandro Alibrandi e Cristiano Fioravanti in rapporti con Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci.

  4. Nel deposito del ministero della sanità erano state trovate armi che potevano essere state impiegate per commettere l’omicidio di Carmine Pecorelli e munizioni dello stesso tipo di quelle usate per sparare a Carmine Pecorelli

La circostanza porta, necessariamente, a parlare dei proiettili e dell’arma che hanno ucciso Carmine Pecorelli.

Invero dal verbale di ispezione dei luoghi, redatto al momento del rilevamento degli elementi oggettivi di prova, emerge che furono esplosi nei confronti di Carmine Pecorelli quattro colpi di pistola essendo stati trovati nelle vicinanze dell’auto del giornalista quattro bossoli: due di marca Gevelot e due di marca Fiocchi e quattro proiettili, due marca gevelot e due marca Fiocchi, furono estratti dal corpo della vittima.

Tali bossoli erano idonei per essere esplosi da una pistola automatica o semiautomatica calibro 7,65.

Le perizie medico legale e balistiche disposte nel corso delle indagini, le cui conclusioni sono fatte proprie da questa corte perché conformi ai risultati degli esami specialistici effettuati e ai criteri scientifici che sovrintendono alle relative scienze, hanno accertato che a sparare è stata una unica pistola calibro 7.65 munita di silenziatore.

Analogo munizionamento e pistole dello stesso calibro di quella che ha ucciso Carmine Pecorelli sono state trovate nei sotterranei del ministero della sanità. Deve aggiungersi che almeno una delle pistole del calibro che interessa era stata adattata per potere utilizzare un silenziatore di tipo artigianale benché il modello e il tipo di pistola non fosse strutturalmente idoneo a utilizzare un silenziatore.

Del resto che la delinquenza comune e quella politica della destra fossero soliti modificare le armi in loro possesso e adattarle all’uso che più era loro comodo trova conferma negli atti processuali siano essi testimoniali che peritali o derivante da fatti oggettivi acquisiti al processo.

In tal senso depongono:

La circostanza è rilevante per un altro aspetto: essa serve ad escludere, come peraltro sostenuto da taluni difensori per minare la credibilità di alcuni indagati in procedimento connesso o collegato che hanno assunto la qualifica di collaboratori di giustizia, che la divergenza ideologica o il contrasto delinquenziale fosse di ostacolo alla conclusione di affari giovevoli ad entrambe le parti contrattuali o alla commissione concorsuale di delitti e per affermare che nel mondo della delinquenza quello che rileva è solo il proprio interesse e tornaconto.

E’ ben vero che nel corso dell’istruttoria, si era ancora sotto il regime del vecchio codice, è stata fatta una perizia balistica per verificare se effettivamente una delle armi rinvenute nel ministero della sanità fosse stata usata per commettere l’omicidio di Carmine Pecorelli e che tale perizia ha dato esiti negativi, ma ciò non esclude che nel deposito del ministero della sanità sia transitata l’arma in questione atteso che dal momento dell’omicidio al momento della scoperta del deposito di armi presso il ministero della sanità sono trascorsi più di due anni e mezzo, che l’arma è stata vista l’ultima volta –stando alle affermazioni di Antonio Mancini sul punto- poco prima del 16/3/1981 e che le armi rinvenute nei sotterranei del ministero della sanità al momento del loro esame da parte del perito si presentavano alterate, per la presenza di acidi, in modo tale da impedire un raffronto utile al fine della comparazione balistica tra i bossoli rinvenuti presso il cadavere di Carmine Pecorelli e quelli sparati dalle pistole in comparazione. Né vale obbiettare, sul punto, che dalla stessa perizia emerge che le armi erano perfettamente funzionanti perché l’alterazione riferita dal teste Ugolini non influiva sul buon funzionamento dell’arma, ma solo sugli accertamenti specialistici, in genere si usa un microscopio a scansione, ed erano, a giudizio della corte, alterazioni idonee ad impedire la verifica di quei particolari balistici che sono caratteristici di ciascuna arma.

Del resto che i componenti della banda della Magliana fossero in grado di intervenire presso qualche perito balistico per modificare le armi sequestrate, come affermato da Antonio Mancini, emerge da una fonte, lontana nel tempo, Claudio Sicilia, che ha riferito in tempi non sospetti per questo processo, di un incarico dato da Enrico De Pedis a Massimo Carminati perché intervenisse sul perito incaricato di periziare le armi sequestrate in un casale vicino a Roma e nella disponibilità di "Don Mario" alias Giuseppe Calò.

A risultati più pregnanti si è giunti per quanto riguarda i bossoli ritrovati sul luogo del delitto.

Le conclusioni della perizia balistica redatta da Ugolini, Levi e Benedetti, confermata per la parte che interessa da Antonio Ugolini e Bruno Levi, redattori della perizia sentiti nel corso del dibattimento, ha accertato che vi è compatibilità tra i bossoli Fiocchi rinvenuti in via Tacito e il tipo di proiettili Fiocchi sequestrati nello scantinato del ministero della sanità. Corrispondono infatti la marca e l’anello rosso rinvenuto su entrambi i reperti.

Ancora più pregnante è il raffronto tra i bossoli Gevelot trovati sul luogo del delitto e i proiettili della stessa marca sequestrati negli scantinati del ministero della sanità perché la loro comparazione porta ad un giudizio di identità dei due reperti (i bossoli rinvenuti sul luogo dell’omicidio e i proiettili sequestrati nello scantinato del ministero della sanità) sulla loro provenienza dallo stesso stock di proiettili. Entrambi i reperti presentano, infatti, le stesse imperfezioni di punzonatura e di stampaggio del marchio di fabbrica sul fondello e tale imperfezione identifica uno specifico lotto di fabbricazione dei bossoli perché impresso dallo stesso punzone.

E ben vero che i periti non hanno potuto stabilire la provenienza dei bossoli rinvenuti sul luogo del delitto dalla stessa partita sequestrata presso il ministero della sanità perché uno stesso punzone viene di regola utilizzato per stampare marchi fino ad un massimo di 400.000 proiettili, ma a tale giudizio di identità di partita può giungersi sulla base di alcune considerazioni che possono farsi alla luce delle risultanze processuali.

Innanzi tutto sulla base delle considerazioni fatte dai periti i quali hanno affermato che i reperti rinvenuti sul luogo del delitto e i proiettili sequestrati presso il ministero della sanità presentano particolarità molto vicine come lo stato di usura della matrice imprimente del punzone. La circostanza restringe l’ambito entro il quale va fatta la comparazione dovendosi escludere, per la naturale usura del punzone, che possa essere presa in considerazione tutto lo stock ricavabile dallo stesso punzone.

Così ridotto il campo di indagine, va ancora tenuto presente che i proiettili di origine estera vengono importati in quantità non rilevanti e vengono venduti in confezioni al dettagliante.

Consegue che la probabilità che i proiettili usati per uccidere Carmine Pecorelli provengano dalla stessa scatola aumentano.

La circostanza sopra esposta va unita alla considerazione che i proiettili Gevelot, di fabbricazione francese, non sono molto comuni in Italia, che il loro reperimento sul mercato illegale è ancora meno comune, che nella sua attività professionale il perito Ugolini, malgrado le migliaia di casi trattati non ha constatato l’uso di proiettili Gevelot nelle azioni delittuose sottoposte al suo giudizio, che tutti i rinvenimenti di munizionamento della marca in questione effettuati dalle forze di polizia non riguardavano, ad eccezione di un solo caso, proiettili calibro 7,65, che anche nel caso del rinvenimento di proiettili Gevelot cal. 7,65 avvenuto a Ladispoli

Tutte queste considerazioni fanno ritenere che i proiettili usati per commettere l’omicidio di Carmine Pecorelli provengono dal lotto di proiettili sequestrati nello scantinato del ministero della sanità.

Il convincimento della corte trova conferma nel dettato della corte suprema di cassazione che nel decidere sulla misura cautelare emessa nei confronti di Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera è giunta alle stesse conclusioni.

 

CAPITOLO 10

LE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI

1) INTRODUZIONE

Nel quadro generale sopra delineato occorre ora verificare se la responsabilità dell’omicidio sia da attribuire agli imputati di questo processo.

Si è finora visto, che due soli elementi possono ritenersi rilevanti per alla individuazione delle persone che hanno avuto un ruolo nell’omicidio: il borsello abbandonato sul taxi contenente la scheda relativa a Carmine Pecorelli che ha portato alla persona di Antonio Chichiarelli, in rapporti con Franco Giuseppucci, Danilo Abbruciati e con altri elementi della banda della Magliana, e il rinvenimento nello scantinato del ministero della sanità, adibito a deposito di armi della banda della Magliana, di proiettili Gevelot della stessa partita di quelli con cui è stato ucciso Carmine Pecorelli.

Entrambi portano allo stesso ambiente: la " Banda della Magliana" che ha operato a Roma dalla fine degli anni ’70 agli inizi degli anni ’90 (forse opera ancora con altri elementi e sotto altre forme di cui però non occorre occuparci).

Essi, da soli, non avevano permesso di approdare ad alcun risultato positivo tanto che le indagini per l’omicidio di Carmine Pecorelli non ebbero ulteriore impulso; anzi il relativo processo, pendente presso il tribunale di Roma, era stato definito con sentenza di proscioglimento nei confronti di tutti gli indagati.

In quella situazione di stasi, nell’anno 1993, intervengono le dichiarazioni di Tommaso Buscetta e Vittorio Carnovale a cui, in seguito, si aggiungeranno quelle di Antonio Mancini, Fabiola Moretti e Maurizio Abbatino e, marginalmente, quelle di altri imputati in procedimento collegato o connesso che avevano scelto la via della collaborazione con la giustizia.

Il primo fa riferimento ad un ruolo della mafia, denominata "Cosa Nostra", nell’omicidio di Carmine Pecorelli con specifico riferimento alle persone di Giulio Andreotti, Antonino (detto d’ora in avanti Nino) e Ignazio Salvo, Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti; gli altri fanno riferimento ad un ruolo della "Banda della Magliana" in connessione con Cosa Nostra ed in particolare al ruolo di Michelangelo La Barbera, Giuseppe Calò, Claudio Vitalone, Danilo Abbruciati, Franco Giuseppucci e Massimo Carminati, salvo altri rimasti ignoti.

Nessuno di essi ha però dato una visione complessiva della intera vicenda.

Tommaso Buscetta, infatti, si è limitato a riferire che l’omicidio è stato richiesto a Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti dai cugini Ignazio e Nino Salvo (nell’interesse o su richiesta di Giulio Andreotti).

I secondi, anche se partitamente, hanno riferito che mandante del delitto è stato Claudio Vitalone, che ad organizzare il delitto erano stati Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci su richiesta dei siciliani, da loro identificati in Giuseppe Calò e che ad eseguirlo erano stati Massimo Carminati e "Angiolino il biondo".

Prima di passare all’analisi delle singole dichiarazioni per verificare la fondatezza occorre brevemente parlare di Cosa Nostra e della banda della Magliana al fin di accertare la partecipazione a detti sodalizi delle persone che hanno reso le dichiarazioni per questo processo e di quelli da costoro accusati, la esistenza di rapporti tra le varie persone, le fonti della loro conoscenza.

Ciò si rende necessario alfine di verificare la tesi prospettata dalla pubblica accusa, secondo la quale il delitto sarebbe stato deciso da Giulio Andreotti per la tutela della sua posizione politica il quale, attraverso Claudio Vitalone avrebbe chiesto ai cugini Ignazio e Nino Salvo l’eliminazione dello scomodo giornalista. Questi a loro volta si sarebbere rivolti ai capi di cosa nostra Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti. Costoro attraveso Giuseppe Calò, che aveva conoscenze con esponenti della c.d. banda della Maiana ed in particolare con Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci, avrebbero incaricato costoro di organizzare il delitto utilizzando persone del luogo(Massimo Carminati) e associati alla mafia (Michelangelo La Barbera).

Occorre, pertanto, soffermarci su tali organizzazioni, anche se brevemente e solo in relazione alle circostanze e ai rapporti rilevanti per questo processo. Saranno, al contrario, tralasciati tutti quegli elementi che, pur trattati in questo processo, sono di specifico interesse di altri processi che hanno avuto già la loro definitiva conclusione o devono essere ancora definiti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

B) MAFIA DENOMINATA "COSA NOSTRA"

1B). ESISTENZA E FUNZIONAMENTO DI COSA NOSTRA

Come appena detto, l’esame e le problematiche inerenti Cosa Nostra sarà limitato a pochi argomenti.

Preliminare è l’affermazione dell’esistenza di una associazione a delinquere denominata Mafia o Cosa Nostra, della sua struttura e delle sue regole di funzionamento.

Al riguardo va detto che l’esistenza è stata giudizialmente accertata con sentenze ormai passate in giudicato. Essa è caratterizzata da una struttura di tipo verticistico e dalla aggregazione di diversi nuclei operativi, collegati tra di loro dal comune intento di perseguire profitti illeciti con la sopraffazione, al fine di porre sotto il proprio controllo ogni attività economica lecita o illecita che assicuri ingenti profitti e con una capacità di infiltrazione, a tutti i livelli della società, che ne aumenta la potenza e, quindi, la pericolosità.

Organizzazione con centro in Sicilia ma con ramificazioni in tutto il mondo.

La sua organizzazione è stata ricostruita sulla base delle dichiarazioni di numerosissimi affiliati che in tempi e condizioni diverse hanno scelto la via della collaborazione con la giustizia.

Essi, pur avendo ricoperto ruoli differenti, hanno avuto in comune la militanza attiva in detta associazione e ne hanno conosciuto profondamene le regole interne, e sono, su di esse, fondamentalmente concordi.

Costoro, infatti, utilizzano la stessa terminologia ("Uomo d'onore", "Rappresentante", "Famiglia", "Capo decina", "Commissione", etc..), fornendo così la dimostrazione della veridicità delle loro dichiarazioni con riferimento all'esistenza di "Cosa Nostra" ed al suo modo di operare.

E' stato, così, inconfutabilmente accertato anche con sentenze passate in giudicato che:

Quanto alle regole che disciplinano l'ingresso nell’organizzazione e i doveri di comportamento, è stato accertato che il soggetto viene per un certo periodo cautamente osservato, per saggiarne la disponibilità e valutarne le attitudini (coraggio, spietatezza) ed i requisiti, primo fra tutti, la mancanza di legami con magistrati o appartenenti alle forze dell’ordine.

Solo se questo esame ha dato esito favorevole si procede alla formale affiliazione dell’individuo il quale, alla presenza di tre o più membri della "famiglia" a cui apparterrà ed assistito da un "padrino", presta il giuramento di fedeltà a "Cosa Nostra", secondo il rito della puntura del dito medio della mano con una spina d’arancio amaro e la pronuncia di una formula sacramentale. L’iniziazione comporta la presentazione del nuovo adepto ai membri della famiglia e, all’occasione, delle altre famiglie ma può accadere che essa rimanga segreta e conosciuta solo dal capo mandamento o da pochi affiliati della famiglia o alla sola famiglia (in tal caso l’affiliato viene definito riservato).

Quanto alle regole che disciplinano la vita del sodalizio criminale, è stato accertata:

Va tuttavia precisato che tutti gli obblighi, come è emerso dalla istruttoria dibattimentale, erano tali fino a quando la loro osservanza era conveniente salvo poi a violarli bellamente se essi erano in contrasto con i propri interessi.

La violazione degli obblighi, quando era accertata, era duramente sanzionata prevedendo in genere una sola pena: la morte.

Tuttavia, per alcune violazioni Cosa Nostra prevedeva anche la sanzione della espulsione o la sospensione ( in gergo l’uomo sospeso era detto "posato") dall’organizzazione.

Quando erano comminate tali sanzioni l’uomo d’onore espulso o posato non poteva avere contatti per affari di mafia con altri uomini d’onore neppure della propria famiglia di appartenenza ed era lecito per gli altri uomini d’onore uccidere il posato o l’espulso.

 

2b). APPARTENENZA E RUOLI DI ALCUNI AFFILIATI

Con tali premesse, tenendo sempre presente che le affermazioni, i comportamenti, i rapporti tra uomini d’onore, lo scambio di opinioni tra loro, i tradimenti e la loro fedeltà ai capi vanno interpretati alla luce del mondo particolare formato da Cosa Nostra, gli argomenti che verranno esaminati riguardano essenzialmente:

L’appartenenza alla mafia o Cosa Nostra delle persone indicate come implicate nel delitto o come persone a conoscenza di fatti inerenti il delitto del giornalista Carmine Pecorelli.

In particolare l’attenzione sarà focalizzata sulle persone di Tommaso Buscetta, Gaspare Mutolo, Francesco Marino Mannoia, Stefano Bontade, Salvatore Inzerillo, Nino e Ignazio Salvo, Enzo Salvatore Brusca, Giovanni Brusca, Emanuele Brusca, Baldassare Di Maggio, Salvatore Cangemi, Gioacchino Pennino, Antonino Calderone, Giuseppe Marchese, Michelangelo La barbera, Gaetano Badalamenti, Angelo Cosentino, Gaetano Sangiorgi, Filippo Rimi, Natale Rimi, Vincenzo Rimi, Nunzio Barbarossa, Giuseppe Calò, Salvatore Riina, Francesco Scrima.

Per tali persone è stato accertato con sentenze passate in giudicato, oltre che per multiple e convergenti chiamate in reità e/o per esplicita ammissione degli stessi interessati, che essi hanno fatto o fanno ancora parte dell’associazione criminale denominata "Cosa Nostra"

In particolare, dall’esame delle sentenze acquisite al processo e dalle dichiarazioni di persone imputate in procedimento collegato o connesso che hanno deciso di dare il loro contributo all’accertamento di fatti di mafia, e dalle dichiarazioni testimoniali di persone che hanno riferito di rapporti tra le stesse persone, è emerso che:

Francesco Scrima è stato uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova nella quale ha rivestito la carica di consigliere; è cugino di Giuseppe calò che della stessa famiglia è il rappresentante.

 

3b). ATTENDIBILITÀ DEI DICHIARANTI.

Sono state acquisite agli atti numerose sentenze, ormai divenute definitive, i cui fatti oggetto del processo sono stati giudicati anche sulla base delle dichiarazioni di collaboratori di giustizia che avevano fatto parte di Cosa Nostra.

Dalla lettura di tali sentenze emerge un giudizio di attendibilità intrinseca dei collaboranti perché rispondenti ai requisiti, richiesti dalla giurisprudenza e indicati nella parte relativa ai criteri generali di interpretazione della prova, di coerenza, univocità, costanza, autonomia e spontaneità e sono state considerate serie e precise.

In particolare sono stati ritenuti attendibili Tommaso Buscetta, Gaspare Mutolo, Francesco Marino Mannoia, Marchese Giuseppe, Baldassare Di Maggio

Il giudizio di attendibilità è fatto proprio da questa corte non essendo sorti, nel corso di questo processo, seri elementi di fatto da inficiare quel giudizio di attendibilità intrinseca; giudizio di attendibilità che non viene inficiato da piccole discordanze, su uno stesso particolare, che ben possono verificarsi, anzi sono fisiologiche e segno di genuinità delle dichiarazioni, quando la persona è sottoposta a innumerevoli interrogatori da parte di una pluralità di autorità giudiziarie e di difensori che pongono l’accento più su alcuni aspetti che su altri (evidentemente in relazione al processo nel quale i dichiaranti sono ascoltati), ovvero quando l’esame diventa estenuante per la sua durata di talché la lucidità nelle risposte viene a volte meno; attendibilità che non viene meno neppure quando le versioni su punti anche qualificanti sono parzialmente diverse da dichiarante a dichiarante atteso che il più delle volte i dichiaranti hanno appreso de relato la notizie e la riferiscono come a loro raccontata o come da loro percepita.

Diversità che nel caso di notizie delicate come quelle relative ai rapporti tra i vertici delle associazioni mafiose e personalità politiche, i primi hanno un interesse a non rivelare interamente la natura e la portata dei rapporti facendo pervenire anche agli uomini d’onore una spiegazione parziale dei fatti e delle motivazioni di un dato comportamento che in ogni caso avrebbe avuto conseguenze rilevanti sulla via della intera organizzazione; le circostanze devono essere di conseguenza valutate con maggiore rigore non potendo d’altro canto trovarsi un riscontro nelle dichiarazioni di chi la notizia ha riferito proprio per la riservatezza con cui la notizia era data.

Certo, delle piccole discrepanze o delle diversità di versioni deve tenersi conto ma non per il giudizio generale di attendibilità, ma per l’affermazione o la negazione di quella determinata circostanza sulla quale sono state riscontrate le discordanze.

Quello che invece è da accertare rigorosamente in questo momento è il disinteresse a rendere dichiarazioni nei confronti degli imputati di questo processo perché tale giudizio ha una specificità particolare potendo l’interesse sussistere nei confronti di una determinata persona piuttosto che di una altra persona.

Orbene, a giudizio della corte come non è emersa, al di là della affermazione priva di riscontri, l’esistenza di un complotto nei confronti di taluni degli imputati (la corte ha già escluso l’ipotesi come detto in precedenza), come non è emerso che costoro sono stati animati da spirito calunnioso, proprio o di altri, allorché hanno riferito fatti e circostanze sugli attuali imputati, così non è emerso che gli stessi avessero motivi di rancore, sentimenti di vendetta nei confronti degli imputati.

Un chiarimento va dato in ordine a questo ultimo punto.

E’ stata messa in discussione l’attendibilità delle persone, in articolare modo di Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia, che hanno parlato dei rapporti tra Cosa Nostra e persone del mondo politico per il ritardo con cui tali rapporti sono stati denunziati rispetto all’inizio della collaborazione. La corte sul punto ritiene, anche se non moralmente condivisibile, plausibile la spiegazione fornita da coloro che hanno fatto tali dichiarazioni (Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia) i quali hanno giustificato la loro scelta ritenendo, nella loro ottica di lotta alla mafia, conoscendo le reazioni che sarebbero seguite alle loro dichiarazioni, non ancora maturo il tempo di rivelazioni relativo ai legami tra vertici dell’associazione e mondo politico e che in tal modo sarebbe venuta meno la lotta all’ala armata di Cosa Nostra da loro in quel momento ritenuta prioritaria.

Va, poi, escluso che il coinvolgimento di alcuni imputati (Giulio Andreotti e Gaetano Badalamenti) sia dovuto al rancore e all’astio di Tommaso Buscetta nei loro confronti perché il primo ritenuto responsabile della sua estradizione dal Brasile ed il secondo responsabile della uccisione dei suoi familiari nella faida mafiosa che va sotto il nome di 2° guerra di mafia scatenatasi a Palermo negli anni 1981/82.

Le considerazioni fatte sul punto dalle difese non sono convincenti e tali da fare ritenere a questa corte che Tommaso Buscetta sia stato pervaso da un sentimento di odio tanto forte da giustificare una accusa calunniosa.

Contrasta con tale tesi, a giudizio della corte, sia il fatto che dei rapporti tra Mafia e politica Tommaso Buscetta aveva accennato fin dal lontano 1985 agli inquirenti americani, sia perché non troverebbe spiegazione proprio il ritardo, con cui Tommaso Buscetta ha fatto le dichiarazioni contro i due imputati, che è stato posto a base di un giudizio di inattendibilità intrinseca dello stesso Buscetta.

Se effettivamente Tommaso Buscetta avesse voluto calunniare Gaetano Badalamenti, e con lui Giulio, Andreotti il momento più opportuno era proprio quello del processo negli Stati Uniti d’America anche perché a quel momento aveva già parlato di Gaetano Badalamenti e aveva accennato a rapporti tra Cosa Nostra e politica italiana facendo proprio il nome di Giulio Andreotti.

Alle considerazioni sopra fatte deve aggiungersi la mancata indicazione, tra le persone coinvolte nell’omicidio di Carmine Pecorelli, di Giuseppe Calò nei cui confronti egli aveva molti motivi di rancore in relazione alla decisione di costui e degli altri "corleonesi" di ucciderlo e alla esecuzione dei suoi familiari ad opera della fazione di Cosa Nostra di cui Calò faceva parte.

 

4b). POSSIBILITA’ DI CONOSCERE LE NOTIZIE RIFERITE

Occorre ore verificare se la posizione occupata all’interno di Cosa Nostra dalle persone che hanno riferito notizie sull’omicidio di Carmine Pecorelli era tale da permettere loro di apprendere le notizie stesse.

Tale accertamento se è agevole per quanto riguarda le notizie circolanti all’interno della propria famiglia mafiosa, quello relativo alla conoscenza da parte di persone inserite in altre famiglie mafiose passa necessariamente attraverso l’esistenza di rapporti così stretti da giustificare la trasmissione diretta di notizie molto delicate (come ad esempio quelle riguardanti un omicidio o rapporti con personalità politiche) ovvero l’esistenza di rapporti paritetici, così formali e rigidi, per cui vi era la necessità, per non correre il rischio di incappare in una delle sanzioni che Cosa Nostra commina per la violazione di regole interne, di rendere partecipe della notizia il paritetico (come nel caso di rapporti tra i membri della commissione provinciale per fatti di rilievo interessanti tutta l’organizzazione).

Orbene, gli aderenti a Cosa Nostra che hanno dichiarato di avere appreso qualcosa sull’omicidio di Carmine Pecorelli nel loro ambiente delinquenziale sono Salvatore Cangemi il quale ha riferito di avere saputo da Giuseppe Calò che a uccidere Carmine Pecorelli era stata la decina romana di Stefano Bontade e Tommaso Buscetta il quale ha riferito di avere appreso che a organizzare l’omicidio su richiesta dei cugini Nino e Ignazio Salvo erano stati Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti.

Ora se i rapporti, sopra delineati, tra Giuseppe Calò (rappresentante del mandamento di Porta Nuova) e Salvatore Cangemi (sottocapo dello stesso mandamento) giustificano ampiamente la possibilità che il primo abbia rivelato la notizia al secondo dovendo questi rappresentarlo negli affari del mandamento e della famiglia in sua assenza per cui era necessario che il sottocapo fosse a conoscenza di quante più notizie fosse possibile fargli conoscere; se è altrettanto agevole comprendere che Giuseppe Calò fosse messo al corrente dell’omicidio di Carmine Pecorelli, nella sua qualità di membro della commissione provinciale, per la importanza che l’uccisione di un giornalista rivestiva nell’ambito dell’organizzazione, occorre dimostrare che Tommaso Buscetta, semplice soldato della famiglia di cui Giuseppe Calò era il rappresentante, era in tali rapporti di amicizia e intimità con Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti da giustificare la propalazione di una notizia così riservata così come è altrettanto necessario dimostrare che i cugini Nino e Ignazio Salvo erano in tale confidenza con Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti da permettersi di chiedere un favore così grande, anche se a persone che avevano in nessun conto la vita umana.

L’istruttoria espletata sul punto ha permesso di accertare che i rapporti tra Tommaso Buscetta da un lato, Nino e Ignazio Salvo dall’altro, quelli tra Tommaso Buscetta da un lato Stefano e Gaetano Badalamenti dall’altro, quelli tra i cugini Nino e Ignazio Salvo, da un lato, Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti dall’altro, quelli tra Stefano Bontade da un lato e Gaetano Badalamenti dall’altro erano così stretti e intimi che giustificavano la confidenza, fatta da Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti a Tommaso Buscetta, di essere gli organizzatori dell’omicidio di Carmine Pecorelli; i rapporti tra Nino e Ignazio Salvo, da un lato, Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti dall’altro avevano la stessa intensità e intimità da permettere ai primi di chiedere favori ai secondi ivi compreso quello di uccidere qualcuno.

Al riguardo la esistenza di una tale amicizia emerge non solo da voci all’interno della stessa organizzazione, ma anche da voci esterne.

Sul punto basta accennare ad alcune circostanze che sono l’emblema di tali rapporti amicali oltre che sodali.

Come si vede si tratta di rapporti stretti di profonda conoscenza e amicizia perché non si ospitano persone latitanti, quando si rappresenta la faccia pulita e per bene della mafia se non si ha con il latitante un rapporto più che intenso di amicizia, non si rischia la propria vita e quella dei propri familiari se alla base per la accettazione del rischio non vi è la stessa profonda stima e amicizia.

Perché Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade si attivassero per uccidere Carmine Pecorelli è necessario verificare se era possibile per Claudio Vitalone e Giulio Andreotti richiedere la commissione dell’omicidio.

Tale verifica passa necessariamente attraverso l’accertamento della conoscenza e della esistenza di rapporti tra Claudio Vitalone e i cugini Nino e Ignazio Salvo e attraverso l’accertamento della conoscenza e dell’esistenza di rapporti tra i cugini Nino e Ignazio Salvo e Giulio Andreotti.

5b). RAPPORTI TRA NINO, IGNAZIO SALVO E CLAUDIO VITALONE

La circostanza è provata per cui vi era la possibilità che egli chiedesse di uccidere o fare uccidere il giornalista Carmine Pecorelli.

Claudio Vitalone nella fase delle indagini preliminari ha immediatamente e decisamente negato perfino la conoscenza con i cugini Nino e Ignazio Salvo, benché la circostanza gli fosse stata ricordata poco prima che egli rendesse sul punto le sue prime dichiarazioni al P.M. di Roma, tanto che gli inquirenti hanno indagato sulla contemporanea presenza sull’isola di Panarea, nell’anno 1992, di Claudio Vitalone e di Ignazio Salvo proprio per verificarne la conoscenza, negata fino ad allora.

Solo a seguito dell’evidenza emergente dagli atti delle indagini Claudio Vitalone ha ammesso una conoscenza superficiale di Nino e Ignazio Salvo, avvenuta durante la festa che si era tenuta a casa di Francesco Maniglia, in occasione del compleanno della moglie in data 30/9/1978, o in altre occasioni mondane, tanto da escludere che la conoscenza potesse essere avvenuta durante una crociera nelle acque delle isole Eolie a bordo della barca di proprietà della famiglia Di Bernardo perché durante quella crociera suo figlio aveva accusato un malore per cui aveva interrotto la crociera per tornare a Roma.

Tale tesi non è condivisibile perché sono stati acquisiti agli atti numerose testimonianze, provenienti da svariati ambienti e da persone sicuramente vicine a Claudio Vitalone e alla famiglia dei cugini Salvo che non hanno alcun motivo per affermare false circostanze, per cui le loro testimonianze sono altamente credibili, che a giudizio della corte permettono di affermare che Claudio Vitalone non solo ha conosciuto i cugini Nino e Ignazio Salvo, ma ha mantenuto con loro rapporti nel tempo fino al momento in cui essi sono stati accusati di associazione a delinquere e sono stati arrestati.

Il punto di partenza, pur nella genericità di alcune testimonianze dovuta al lungo lasso di tempo trascorso dagli eventi e all’accavallarsi di ricordi che a volte vengono riferiti ad una circostanza piuttosto che ad un’altra, sono le dichiarazioni di Maria Di Bernardo, all’epoca amica di Claudio Vitalone e proprietaria dell’imbarcazione Saharet, la quale, insieme a Francesco Maniglia, Nino e Ignazio Salvo, anche se ciascuno con la propria barca, ha fatto crociere nel Mediterraneo fino alla estate del 1978 poiché nella primavera del 1979 il marito si è ammalato e la barca è stata ceduta alla famiglia della figlia sposata con Francesco Caltagirone. Ad alcune di queste crociere, almeno a due ( Maria Di Bernardo parla di più crociere), ha partecipato anche Claudio Vitalone e la sua famiglia come ospiti della sua barca e dette crociere, per quello che prima si è detto circa la malattia del marito di Maria Di Bernardo, sono state fatte nell’anno 1978 e negli anni precedenti.

Costei ha anche affermato che in una di queste crociere il figlio di Claudio Vitalone si era sentito male ed era stato ricoverato per cui Claudio Vitalone e la moglie subito dopo erano rientrati a Roma.

Le affermazioni di Maria Di Bernardo hanno trovato conferma.

Effettivamente nell’anno 1978 nell’ospedale di Lipari è stato ricoverato Andrea Vitalone e la presenza della famiglia di Claudio Vitalone è ricordata dai partecipanti alla crociera e da alcuni marinai della barche in crociera.

Del resto la partecipazione a tale crociera è stata ammessa dallo stesso Claudio Vitalone il quale ha riconosciuto di essersi imbarcato in crociera da Milazzo in Sicilia e di essere ritornato subito dopo le dimissioni del figlio dall’ospedale di Lipari a Roma.

Ma le crociere fatte da Claudio Vitalone sulla barca Saharet, come affermato da Maria Di Bernardo, sono state più di una e tra queste sicuramente una in Sardegna a Porto Cervo.

La prova di questa seconda crociera emerge a chiare lettere dalla testimonianza di Francesco Maniglia, Giuseppa Puma, Piero Di Pierri, Pietro Scotto (il quale ricorda addirittura che era stato chiamato nel salotto della barca di Maria Di Bernardo per servire delle bibite e vi erano sia Claudio Vitalone che Ignazio Salvo mentre Giuseppa Puma parla di un drink sulla barca di Maria di Bernardo), Sergio Bernabé i quali sono concordi nel ricordare di un incontro avvenuto a Porto Cervo tra le barche di Francesco Maniglia, Maria Di Bernardo e dei Salvo e che in quella occasione era presente anche Claudio Vitalone.

La circostanza relativa a questa crociera fatta nelle acque della Sardegna emerge anche da altre fonti di prova e precisamente dall’annotazione sul libro degli ospiti d’onore della barca di Maria Di Bernardo in cui vi è, dopo la dedica dell’Aga Khan, quella della intera famiglia Vitalone che ringrazia per l’ospitalità.

Del resto, alla fine, è lo stesso Claudio Vitalone che riconosce di essere stato in barca in Sardegna con Maria Di Bernardo quando afferma di avere conosciuto l’Aga khan e di essere stato in barca per andare, ma invano a causa del cattivo tempo, all’isola di Cavallo in Corsica anche se colloca l’episodio in una gita di fine settimana.

Ora, se la crociera di Claudio Vitalone alle isole Eolie di cui si è appena detto deve collocarsi nell’anno 1978, se dopo l’estate del 1978 Maria Di Bernardo ha ceduto la barca a Francesco Caltagirone, tale crociera deve essere avvenuta quanto meno nell’anno 1977.

A comprova di quanto detto vi è un altro elemento di prova, proveniente da tutt’altro ambiente ed estraneo al mondo delle crociere, che conferma, anche se indirettamente, come effettivamente nell’anno 1977 Claudio Vitalone sia stato in crociera in Sardegna. La testimonianza di Ugo Bossi e di Edoardo Formisano che, come già detto, raccontano dell’arrivo improvviso, nell’agosto 1977, di Ugo Bossi nella villa che Edoardo Formisano aveva ad Ansedonia e dell’annunzio dell’arrivo imminente di Claudio Vitalone proveniente dalla Sardegna.

Del resto è lo stesso Claudio Vitalone che nell’illustrare i suoi rapporti con Edoardo Formisano riconosce di essere stato a cena una volta nella sua villa di Ansedonia; è ben vero che Claudio Vitalone colloca la cena dopo il 1977, ed esclude di essere venuto dalla Sardegna, ma le affermazione non sono credibili perché, come del resto riconosciuto dallo stesso Claudio Vitalone, la cena può essere datata anche in epoca anteriore dal momento che nel 1978 Edoardo Formisano era stato arrestato e la presenza di Claudio Vitalone in Sardegna nella stessa estate sono comprovate dagli elementi sopra indicati.

Acquista rilevanza, a tal fine, la data del 10/8/1977 riportata nel libro degli ospiti d’onore della barca di Maria Di Bernardo in occasione della visita dell’Aga Khan e la dedica della famiglia Vitalone è apposta dopo quella dell’Aga Khan. Ciò significa che la dedica è stata apposta nell'anno 1977 non ritenendo possibile che la famiglia Vitalone abbia manifestato ringraziamenti per la piacevole crociera nell’anno 1978 quando il piccolo Andrea si era sentito male e la famiglia Vitalone aveva precipitosamente interrotto la crociera per tornare a Roma.

Ulteriore conferma, ancora indiretta, proviene dalle dichiarazioni di Vittorio Sbardella per averlo appreso, negli anni 1991/92 dalla stessa Maria Di Bernardo in occasione di una cena nella sua casa dell’Olgiata e da Piero Di Pierri il quale riferisce, anche se genericamente, della crociera fatta nelle acque della Sardegna a cui aveva partecipato anche la famiglia di Claudio Vitalone; notizia appresa sia da Francesco Maniglia che da altri e in particolare da Maria Di Bernardo, in tempi non sospetti e cioè alla fine degli anni settanta, quando costui l’aveva casualmente incontrato in Via Veneto di Roma, all’uscita di una banca, e questa gli aveva raccontato, in un momento in cui era lontano dalla mente di tutti un coinvolgimento di Claudio Vitalone non solo come indiziato dell’omicidio di Carmine Pecorelli ma anche come testimone dei rapporti tra Giulio Andreotti e i cugini Nino e Ignazio Salvo che all’epoca, per dirla con le parole dello stesso Claudio Vitalone erano "persone ostensibili".

Ulteriore conferma, anche questa indiretta, su crociere fatte da Claudio Vitalone insieme ai cugini Nino e Ignazio Salvo derivano dalle dichiarazioni di Francesco Pazienza il quale in più occasioni ha saputo da Tobia Conte che Claudio Vitalone conosceva entrambi i cugini Salvo avendo partecipato ad alcune gite in barca o crociere negli anni 1980, 1981 quando era stato ospite dei Caltagirone (va ricordato che dopo il 1979 la barca Saharet della famiglia Di Bernardo era stata ceduta alla famiglia di Francesco Caltagirone genero di Maria Di Bernardo) o della barca di uno dei due cugini Salvo o ancora di Francesco Maniglia.

Anche in questo caso le notizie riferite da Francesco Pazienza e da Piero Di Pierri sono state apprese in epoca non sospetta e nell’ambito di conversazioni fatte durante alcune cene in cui si discuteva di barche, di crociere e di persone conosciute da tutti gli interlocutori o ancora nell’ambito di conversazioni amicali tra persone che si conoscono da molto tempo e parlano di amici comuni per cui non vi era alcun motivo di riferire fatti non veri; Tobia Conte infatti era amico dei fratelli Caltagirone, era socio o amico dell'ing. Maniglia e conosceva anche Nino e Ignazio Salvo mentre Piero Di Pierri era amico di Francesco Maniglia e Claudio Vitalone.

A completamento dell’esame delle prove sul punto deve farsi un cenno anche alla testimonianza della moglie di Nino Salvo, che pur nella reticenza della sua testimonianza (in ordine ai rapporti di suo marito con ambienti mafiosi e politici ha ammesso meno circostanze di quante ne avesse ammesso lo stesso Nino Salvo nei suoi interrogatori), non ha potuto fare a meno di riconoscere in ordine alla conoscenza tra Salvo Nino e Claudio Vitalone, che forse lo conosceva perché qualche volta in barca si erano conosciuti, ma se lo conosceva era una conoscenza superficiale durante le crociere e che mai Vitalone era andato a casa sua e ammetteva di averlo visto qualche volta, così, con la barca.

Gli incontri tra Claudio Vitalone e i cugini Nino e Ignazio Salvo non sono limitati, però, alle due crociere sopra ricordate perché agli atti vi è la prova di altre occasioni in cui essi si sono incontrati.

La circostanza è riferita da Francesco Maniglia, da Maria Di Bernardo, da Piero Di Pierri, da Tobia Conte (la cui presenza alla festa è confermata dallo stesso Maniglia) e, indirettamente, da Gioacchino Albanese e Marina Peloso che insieme alla moglie di Claudio Vitalone e Maria Di Bernardo hanno viaggiato sull’aereo privato di Francesco Maniglia. Va aggiunto che la circostanza è stata riconosciuta dallo stesso Claudio Vitalone, il quale asserisce che questa è stata una delle due volte che ha visto i cugini Nino e Ignazio Salvo, onde sul punto non occorre soffermarsi oltre.

La partecipazione di Claudio Vitalone alla cena, ospite in quella occasione di Gaetano Caltagirone, risulta pacifica in atti ed è ammessa dallo stesso Claudio Vitalone per cui su di essa e sui suoi partecipanti non occorre soffermarsi.

Quello che rileva è la testimonianza di Franco Evangelisti che ha partecipato alla cena e, pur escludendo che alla cena avessero partecipato i cugini Nino e Ignazio Salvo, ha riferito che in quella occasione vi era stata una visita di Nino Salvo all'albergo in cui era alloggiato insieme a Claudio Vitalone, anche se non ricordava, in quella occasione, la presenza anche di Ignazio Salvo.

La circostanza è riferita da Francesco Maniglia, da Maria Di Bernardo e da Giuseppa Puma, moglie di Ignazio Salvo la quale, contrariamente a quanto riferito avanti a questa Corte di assise, avanti al tribunale di Palermo ha dichiarato di essere andata una volta a cena all’Olgiata nei pressi di Roma e che alla cena era presente anche Claudio Vitalone.

Di tale festa, da tenere distinta da quella del 30/9/1978 in occasione del compleanno della moglie, ne hanno parlato Francesco Maniglia, Piero Di Pierri e Giuseppa Puma.

Ora se Maniglia è certo che a tale festa non ha partecipato Claudio Vitalone mentre hanno partecipato i cugini Nino e Ignazio Salvo (di ciò si ha conferma dalla deposizione resa dalla moglie di Ignazio Salvo avanti al tribunale di Palermo la quale ricorda la festa), dalle dichiarazioni di Giuseppa Puma e di Piero Pierri emerge il contrario. La prima, arricchendo le dichiarazioni rese avanti a questa corte di assise, ha asserito di avere conosciuto Claudio Vitalone ad una festa data da Francesco Maniglia per la inaugurazione della sua casa quando era ancora magistrato, ricordando altresì la presenza di Claudio Vitalone a tale inaugurazione; né tale festa può identificarsi con quella del compleanno della moglie di Maniglia in data 30/9/78 perché la festa di inaugurazione della villa è anteriore alle crociere fatte insieme alla famiglia di Claudio Vitalone.

Parimenti, dalle dichiarazioni di Piero Di Pierri emerge che Claudio Vitalone ha partecipato alla inaugurazione della villa di Francesco Maniglia avvenuta negli anni 1974/75 salvo, poi, a identificare tale festa con quella per il compleanno della moglie di Francesco Maniglia del 30/9/1978 per i riferimenti che egli ha fatto alla presenza degli ospiti arrivati da Roma con l’aereo privato di Francesco Maniglia a cui fa riferimento anche Maria Di Bernardo e altri testimoni sentiti sul punto..

Sembrerebbe, quindi, che vi sia incertezza sulla reale partecipazione di Claudio Vitalone alla festa del 1974/75 per la inaugurazione della villa di Francesco Maniglia ben potendo i ricordi di Giuseppa Puma come quelli di Piero Di Pierri essere confusi per il tempo trascorso.

Ritiene la corte che vi sono elementi di contorno che fanno ritenere certa la partecipazione di Claudio Vitalone alla festa dell’anno 1974/75.

Il primo riguarda la descrizione che dell’aereo che ha trasportato gli ospiti da Roma a Palermo viene fatta da Piero Di Pierri che da questi viene identificato nel primo aereo di proprietà di Francesco Maniglia e precisamente quello che era precipitato nelle acque di Ustica prima del 30/9/1978 per cui l’identificazione della festa in cui è stato presente Claudio Vitalone con quella del 30/9/1978 diviene più sfumata.

Il secondo riguarda un particolare, all’apparenza irrilevante, riferito dallo stesso Claudio Vitalone nel suo esame e riguarda la presenza dell’onorevole Ugo La Malfa, di cui peraltro parla anche Piero Di Pierri, come ospite di onore della festa del 30/9/1978.

A quella festa non ha, però, partecipato l’on. Ugo La Malfa il quale è stato presente solo alla festa per la inaugurazione della villa dell’anno 1974/75. Sul punto Francesco Maniglia è stato oltremodo sicuro.

Il terzo elemento deriva dalla testimonianza della moglie di Ignazio Salvo la quale colloca la conoscenza di Claudio Vitalone prima degli incontri durante le crociere che, come detto, sono avvenute negli anni 1977 e 1978.

Ora, se Vitalone ricorda che ospite d’onore della festa era l’on. Ugo La Malfa e questi ha partecipato solo alla festa per l’inaugurazione della villa del 1974/75 consegue, che egli era presente a tale festa.

Tale circostanza è emersa non avanti alla corte di assise di Perugia ma nel processo a carico di Giulio Andreotti celebratosi avanti al tribunale di Palermo e trova conferma indiziaria nelle dichiarazioni di Piero Di Pierri il quale ha riferito di avere saputo da Francesco Maniglia che le cene tra Claudio Vitalone e Nino Salvo sono state parecchie.

Alla luce delle considerazioni sopra fatte ritiene la corte che sia provato che la conoscenza tra Claudio Vitalone e i cugini Nino e Ignazio (il primo più del secondo per la diversità dei caratteri che contraddistinguevano i due cugini) Salvo data da molto tempo prima dell’incontro avvenuto a Porto Cervo nell’estate del 1977 e giustifica la circostanza riferita da Maria Di Bernardo dell’abbraccio tra Nino Salvo e Claudio Vitalone su una banchina del porto di Porto Cervo e la successiva presentazione di Nino Salvo a Maria Di Bernardo da parte di Claudio Vitalone.

Questa ultima circostanza è stata tenacemente contrastata da Claudio Vitalone sulla base delle dichiarazioni di Italo Viglianesi secondo il quale Maria Di Bernardo conosceva quanto meno Nino Salvo fin dal 1972 data in cui, avendola incontrata a Palermo, era stato da questa invitata in una casa di campagna di Nino Salvo per una colazione (per colazione deve intendersi il pranzo di mezzogiorno per il linguaggio particolare usato in quel ceto sociale).

La circostanza è parzialmente vera nel senso che effettivamente Maria Di Bernardo ha invitato Italo Viglianesi in una casa di campagna di proprietà di Nino Salvo, ma è errata la data ed il luogo dell’invito perché, come riferito da Maria Di Bernardo, tale invito su sua iniziativa, è stato fatto al termine della crociera dell’anno 1978, quando Italo Viglianesi era a Taormina ove alcune delle barche che erano alle isole Eolie si erano dirette, ed era relativa ad una tenuta che Nino Salvo aveva in territorio di Gela e alla quale teneva molto tanto da mostrarla ai suoi ospiti.

Il convincimento della corte deriva:

Ma a conferma della esattezza dei ricordi di Maria Di Bernardo sul tempo, luogo e modalità di conoscenza di Nino Salvo un elemento di conferma viene da Giulio Andreotti.

Questi ha dichiarato nel suo esame, ma la circostanza è confermata anche da Claudio Vitalone, di avere affrontato con Claudio Vitalone la questione della sua conoscenza con i cugini Nino e Ignazio Salvo dopo che sui giornali era trapelata quella notizia.

Ricorda ancora Giulio Andreotti che in quella occasione aveva chiesto se la notizia era vera ricevendo netta smentita perché Claudio Vitalone assumeva di non conoscerli o al massimo di averli incontrati in qualche occasione mondana di cui non aveva ricordo; Giulio Andreotti escludeva, in ogni caso, che Claudio Vitalone potesse averli incontrati su una banchina di un qualche porto. Questa ultima affermazione gli è stata contestata perché nell’interrogatorio del 31/3/1994 aveva detto di avere appreso, circa tre mesi prima, da Claudio Vitalone che egli non aveva rapporti con i cugini Nino e Ignazio Salvo e che una volta li aveva incontrati su un molo di un porto e che avevano scambiato solo saluti.

Come si vede la circostanza, proveniente dallo stesso Claudio Vitalone, riferita da Giulio Andreotti, anche se a contestazione a cui segue un eloquente "non ricordo" di Giulio Andreotti, ricalca le modalità di incontro raccontate da Maria Di Bernardo e poco importa se a Giulio Andreotti non è stato riferito dell’abbraccio di Claudio Vitalone con Nino Salvo stante l’evidente imbarazzo che una simile ammissione avrebbe creato nei loro rapporti.

Come si vede molteplici sono gli episodi specifici che vedono insieme Claudio Vitalone e i cugini Nino e Ignazio Salvo.

Essi sono la spia ed il segno di rapporti che non si sono esauriti nella semplice conoscenza mondana ed in incontri avvenuti in occasione di cene o crociere; essi hanno spessore ben più consistente che solo giustifica la tenacia con cui Claudio Vitalone ha negato la loro conoscenza e frequentazione.

L’intensità della frequentazione e dei rapporti trova una conferma in alcune circostanze dirette ed in alcune circostanze indirette.

  1. La prima circostanza emerge dalle dichiarazioni di Maria Di Bernardo.
  2. Questa ha riferito che parecchie volte nella sua casa dell’Olgiata ha avuto come ospite Nino Salvo quando questi veniva a Roma e che ad avvisarla dell’arrivo di Nino Salvo era proprio Claudio Vitalone. La circostanza, anche se riferita dalla sola Maria di Bernardo è credibile perché hanno trovato riscontro le altre circostanze, quanto meno quelle più importanti, sulla conoscenza tra Nino Salvo e Claudio Vitalone.

  3. Le dichiarazioni di Piero Di Pierri e Francesco Maniglia.
  4. Costoro, quando parlano dei rapporti tra Claudio Vitalone e Nino Salvo, parlano di un rapporto di amicizia e non di semplice conoscenza; rapporto di amicizia che si estrinseca nell’interessamento di Nino Salvo alla candidatura di Claudio Vitalone alle elezioni dell’anno 1979 per il senato; interessamento non superficiale ma frutto di conoscenze complete dal momento che lo stesso è in grado di sapere non solo la circoscrizione in cui Claudio Vitalone si doveva presentare, ma anche la sicurezza del collegio che avrebbe garantito (nei limiti delle umane previsioni) la sua elezione; fatti questi che non troverebbero giustificazione se effettivamente i rapporti tra i due fossero di semplice conoscenza avvenuta in uno o due incontri mondani come sostenuto da Claudio Vitalone e presuppongono quantomeno la richiesta di informazioni sulla sicurezza del collegio che non può derivare, come sostenuto da Claudio Vitalone, dalla pubblicazione della sua candidatura sui quotidiani. Del resto non si comprenderebbe perché Nino Salvo, all’epoca della candidatura di Claudio Vitalone uomo potente, si dovrebbe interessare delle sorti politiche di un magistrato, seppure noto alle cronache, con cui ha solo rapporti superficiali per incontri occasionati da feste mondane.

  5. Le dichiarazioni di Giuseppa Puma.
  6. Costei, come già detto è stata la moglie di Ignazio Salvo e ha dichiarato che Claudio Vitalone è stato uno di quelli che al momento dell’arresto del marito aveva loro voltato le spalle disconoscendo, in un primo momento, la conoscenza con i cugini Nino e Ignazio Salvo e riducendola, poi, a conoscenza casuale mentre lei sapeva che essi si conoscevano. L’uso di tale termine, a giudizio della corte, sta a significare che non di conoscenza sporadica si trattava ma di conoscenza frutto di rapporti frequenti.

  7. Le dichiarazioni di Tobia Conte in ordine alle conversazioni tenute da Claudio Vitalone e i cugini Ignazio e Nino Salvo durante la festa di compleanno della moglie di Francesco Maniglia.
  8. Le dichiarazioni di Salvo Lima, potente uomo politico siciliano e capo della corrente andreottiana in Sicilia, vicino a Cosa Nostra, amico di lunga data dei cugini Nino e Ignazio Salvo, che del primo erano grandi elettori.

Questi, amico di Vittorio Sbardella, era intervenuto nell’anno 1990/91, su richiesta di Claudio Vitalone, per cercare di appianare un dissidio sorto all’interno della corrente andreottiana tra lo stesso Vittorio Sbardella, Cirino Pomicino e Claudio Vitalone.

In quella occasione Salvo Lima alla domanda di Vittorio Sbardella sul perché "mi vuoi portare questo attrezzo" (con evidente riferimento a Claudio Vitalone per il quale manifestava apertamente antipatia per il suo modo di concepire la politica), stringendosi nelle spalle, aveva risposto: "sai sono vecchie frequentazioni siciliane" spiegando che Claudio Vitalone era da molto tempo buon amico dei cugini Nino e Ignazio Salvo e che lo era diventato in maniera autonoma e indipendente da lui.

Ed è, all’apparenza, un caso che Salvo Lima, passeggiando per via Veneto con Vittorio Sbardella, gli riferisce, passando avanti alla gioielleria di tale Capuano che questi è molto amico di Claudio Vitalone; fatto che assume un certo rilievo allorché Gaspare Mutolo, invitano dal difensore di Giulio Andreotti a indicare i componenti della "decina Romana della famiglia di Stefano Bontade", oltre al capo decina Angelo Cosentino e a tale Di Girolamo indica anche un "certo Capuano persona che ha una grossa gioielleria a Roma".

Nello stesso senso dell’esistenza di rapporti non occasionali tra i cugini Nino e Ignazio Salvo e Claudio Vitalone vanno le affermazioni di Giovanni Brusca che riferisce di dichiarazioni di Ignazio Salvo sulla sua conoscenza di Claudio Vitalone e i commenti fatti da Salvatore Riina e Bernardo Brusca sui viaggi a Roma dei cugini Salvo presso i loro referenti romani individuati anche in Claudio Vitalone.

6b). RAPPORTI TRA I CUGINI SALVO E GIULIO ANDREOTTI

Occorre ora verificare se Giulio Andreotti ha conosciuto ed era in rapporti con i cugini Nino e Ignazio Salvo, con la precisazione che per la posizione di primario rilievo che Giulio Andreotti aveva nel panorama politico italiano tale rapporti non necessariamente devono essere stati diretti ben potendo essere passati attraverso persone di sua stretta fiducia. Tale affermazione si basa su alcune circostanze di fatto emerse nel corso della istruttoria dibattimentale e di cui si è già parlato trattando dei moventi dell’omicidio di Carmine Pecorelli.

Si fa riferimento agli episodi che hanno riguardato i c.d. assegni del presidente in cui il ruolo di intermediario per convincere Ezio Radaelli a non parlare degli assegni ricevuti da Giulio Andreotti è stato affidato una prima volta a Nino Rovelli e una seconda volta al fidato Carlo Zaccaria, suo segretario; si fa riferimento al ruolo di Franco Evangelisti nella vicenda di Michele Sindona e nella vicenda dei fratelli Caltagirone.

Prima di affrontare le varie circostanze trattate nel corso della istruzione dibattimentale, occorre fare una ulteriore considerazione.

In questo processo sono stati riversati moltissimi atti assunti nel processo che si è celebrato avanti al tribunale di Palermo nei confronti di Giulio Andreotti accusato, avanti a quella autorità, di concorso esterno in associazione mafiosa.

Le circostanze che con tale produzione sono state portate all’attenzione della corte attengono maggiormente a fatti successivi all’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli o a fatti non rilevanti per questo processo perché tendenti all’accertamento di un diverso tipo di responsabilità penale.

Essi pertanto hanno scarsa importanza in questo processo e di essi si occupa il tribunale di Palermo suo giudice naturale.

In questa sede saranno esaminati, anche con l’ausilio dei documenti provenienti da quel processo, i fatti, anteriori o immediatamente posteriori alla uccisione di Carmine Pecorelli potendosi da quella collocazione temporale desumere elementi utili per la ricostruzione dell’omicidio.

Saranno pertanto esaminati, stante la tesi accusatoria, le circostanze relative all’accertamento della conoscenza o all’esistenza di rapporti diretti tra Giulio Andreotti e i cugini Nino e Ignazio Salvo e l’esistenza di una causale che possa avere fatto accettare a capi di Cosa Nostra la richiesta di uccidere Carmine Pecorelli.

In particolare, sotto il primo aspetto, saranno esaminati:

Ritiene la corte che, malgrado le secche e reiterate smentite di Giulio Andreotti, il regalo di nozze, consistente in un vassoio d’argento, è stato fatto.

Elementi in tal senso provengono sia dal mondo interno a cosa nostra che dal mondo esterno.

La prova di tale circostanza ruota intorno alla figura di Gaetano Sangiorgi che, sulla base di plurime chiamate in reità, è affiliato alla famiglia mafiosa di Salemi di cui facevano parte anche Nino e Ignazio Salvo.

L’esattezza delle affermazioni dei collaboratori di giustizia o comunque di imputati in procedimento connesso, trova il suo fondamento in alcuni riscontri acquisiti agli atti come il soggiorno di Tommaso Buscetta nel villino di S. Flavia di proprietà di Gaetano Sangiorgi, l’indicazione dell’architetto Salvatore Scardina – indicato come correo di Gaetano Sangiorgi e di Giovanni Brusca dell’omicidio di Ignazio Salvo - risultato strettamente legato a Gaetano Sangiorgi per esserne stato il testimone di nozze, il fermo, come riferito da Giovanni Brusca, di Gaetano Sangiorgi insieme al chirurgo Gaetano Azzolina mentre erano nei pressi della villa di Claudio Martelli per studiare i luoghi per procedere al suo omicidio, la presenza di Giovanni Scaduto uomo di fiducia di Ignazio Salvo insieme a Gaetano Sangiorgi e a Angelo Siino, il possesso della Jeep che nell’anno 1980 era stata data a Tommaso Buscetta.

Gaetano Sangiorgi è però un uomo d’onore sui generis perché, a differenza di altri uomini d’onore, è dotato di notevole favella, gli piace molto parlare e non rispetta la regola di Cosa nostra di mantenere il riserbo e il silenzio sulle cose che riguardano l’organizzazione. Né è la prova quanto è avvenuto avanti a questa corte durante il suo esame.

Del resto che Gaetano Sangiorgi sia una persona loquace e un uomo d’onore sui generis emerge dalla deposizione di due altri uomini d’onore e cioè Francesco Marino Mannoia il quale riferisce di una richiesta fatta da Nino Salvo a Stefano Bontade relativa ad una lezione da dare al genero per il suo modo di comportarsi e di Giovanni Brusca il quale definisce Gaetano Sangiorgi un vanitoso e una persona loquace che non riusciva a mantenere il segreto su cose che dovevano restare riservate.

Se, dunque, la valutazione della corte è giusta, trova spiegazione la propalazione della notizia del regalo di nozze fatto da Giulio Andreotti perché soddisfaceva la sua vanagloria potendo vantarsi di una conoscenza così altolocata. Propalazione fatta al sindaco di bari La Forgia, durante un soggiorno per una vacanza che la coppia Sangiorgi aveva fatto sul lago Maggiore, subito dopo che la questione del regalo ricevuto da Giulio Andreotti aveva acquistato una certa rilevanza (l’interrogatorio di Gaetano Sangiorgi e la perquisizione nella sua casa palermitana è del 21/7/1993 e la conversazione con il sindaco di Bari è avvenuta ad agosto dello stesso anno.

Sull’episodio ha riferito Rosalba Lo Jacono, moglie del sindaco La Forgia.

Né l’attendibilità della teste è sminuita dal fatto che solo nel marzo 1997 ha riferito le circostanze al P.M. di Bari perché la spiegazione che ella ha dato del suo comportamento è plausibile ed è stata dettata da un legittimo moto di sdegno nell’apprendere dalla stampa che Gaetano Sangiorgi non solo aveva smentito la conoscenza tra il suocero e Giulio Andreotti e di avere ricevuto da lui un vassoio di argento come regalo di nozze (negazione legittima), ma accusava i magistrati di complotto nei confronti di Giulio Andreotti travisando le sue risposte e inserendo nel verbale cose non dette.

Va ricordato, al riguardo, che Gaetano Sangiorgi è stato sentito avanti a questa corte in data 29/02/1997 e Rosalba Lo Jacono si è recata dal pubblico ministero di Bari in data 04/03/1997, questo a giustificare l’immediatezza dell’azione come conseguenza dello sdegno suscitato dal comportamento di Gaetano Sangiorgi.

Ritiene la corte che sarebbe sufficiente questa sola testimonianza per potere affermare la sussistenza della circostanza.

Vi sono però sul punto anche le testimonianza di Gioacchino Pennino, socio in affari con Gaetano Sangiorgi in un laboratorio di analisi a Palermo, e Brusca Giovanni, complice nell’uccisione dello zio Ignazio Salvo, i quali riferiscono di avere appreso in circostanze diverse la medesima cosa e cioè che Giulio Andreotti aveva regalato un vassoio di argento per il suo matrimonio, che la polizia lo aveva ricercato ma non lo aveva trovato perché nascosto da Gaetano Sangiorgi.

Anche in questo caso le notizie, anche se in situazioni diverse possono collocarsi a ridosso della perquisizione subita da Gaetano Sangiorgi anche perché, come riferito dallo stesso Sangiorgi, egli era stato arrestato nel gennaio 1994 in Francia ove si era rifugiato e le notizie non possono essere state data che tra la fine di luglio 1993 e il gennaio 1994. Esse poi, sono state date, a parere della corte, oltre che per soddisfare il suo desiderio di apparire "bravo e intelligente" anche per dare rassicurazioni al suo ambiente mafioso sull’esito della perquisizione subita per la ricerca proprio del regalo ricevuto da Giulio Andreotti. E’ notorio infatti come in Cosa Nostra siano preoccupati quando le indagini della magistratura e della polizia vertono su fatti che possono mettere in pericolo rapporti delicati e riservati come sono quelli con gli uomini politici. A tale proposito vale la pena richiamare il giudizio di Giovanni Brusca su Salvatore Riina allorché afferma che costui si allerta al semplice vedere un berretto riconducibile ad una qualche istituzione non perché egli abbia paura, ma perché è oltremodo sospettoso, cauto e prudente.

Da tali testimonianze, si ha la prova, quindi, che effettivamente per il matrimonio con la figlia di Nino Salvo Giulio Andreotti aveva regalato un vassoio d’argento.

Né sulle conclusioni della corte influisce il fatto che tale vassoio non è stato trovato perché come emerge dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca e di Gioacchino Pennino esso è stato nascosto.

Sul punto l’affermazione di Giovanni Brusca che il vassoio è stato ufficialmente regalato da un avvocato o un notaio romano non ha trovato riscontro non essendo emersi elementi sufficienti per affermare che esso sia quello regalato dal notaio Salvatore Albano anche se nella vicenda dell’acquisto di detto vassoio vi sono molti elementi di ambiguità così come non sono moto chiari gli scambi di favori e di doni tra Giulio Andreotti e il notaio Salvatore Albano.

Forse ad un risultato utile si sarebbe arrivato se, in occasione della perquisizione effettuata nella casa palermitana di Gaetano Sangiorgi, l’autorità delegata avesse ispezionato, come peraltro avviene normalmente, completamente la stanza da letto senza fermarsi davanti a dei cassetti chiusi a chiave provvedendo quindi alla rottura delle serrature; se avesse agito in tal modo forse nei cassetti avrebbe trovato qualcosa di più utile alle indagini in corso di quello che, qualche giorno dopo, Gaetano Sangiorgi ha spontaneamente consegnato sicuro che il vero vassoio, da lui occultato, non era tra numerosi vassoi di argento consegnati.

In definitiva, sul punto, la corte ritiene che il regalo del vassoio d’argento è stato fatto, che a farlo è stato Giulio Andreotti e che la circostanza, all’evidenza, sta a significare che il regalo non è stato fatto per la personalità dello sposo, un professionista medico analista di Palermo come ve ne sono tanti, ma perché diventava il marito della figlia di Nino Salvo, facente parte di una delle famiglie economicamente più potenti della Sicilia, in stretto rapporto con Salvo Lima e grande elettore dell’esponente di spicco della corrente alla cui testa era proprio Giulio Andreotti.

Esso indica, anche, che tra la famiglia dei cugini Nino e Ignazio Salvo e Giulio Andreotti vi erano rapporti tali da giustificare da un lato la spedizione della partecipazione a Giulio Andreotti del celebrando matrimonio e dall’altro il piacere di Giulio Andreotti di ricambiare tale partecipazione con un regalo.

L’albergo Zagarella, di cui si è parlato a proposito dei rapporti tra Francesco Maniglia e Piero Di Pierri, era all’epoca che qui interessa di proprietà di Nino Salvo oltre che di Francesco Maniglia ed era diretto e, poi, anche gestito in proprio, da Vittorio Di Martino cognato di Francesco Maniglia.

In detto albergo in occasione della chiusura della campagna elettorale per le prime elezioni europee, in cui candidato principale era Salvo Lima, si tenne una festa in onore di Giulio Andreotti che nel pomeriggio aveva tenuto il discorso di chiusura della campagna elettorale per la democrazia cristiana al cinema Nazionale.

La circostanza risulta da numerose testimonianze acquisite al dibattimento, specie nel processo a carico di Giulio Andreotti avanti al tribunale di Palermo, ma anche avanti a questa corte ed è ammessa anche da Giulio Andreotti(è pacifico in atti che ciò è avvenuto il 7/6/1979).

Al comizio aveva preso parte insieme alle personalità della democrazia cristiana dell’isola, anche Vito Ciancimino, discusso sindaco di Palermo, e affiliato alla Mafia come risulta da sentenze passate in giudicato, e Nino Salvo che vi aveva assistito, mentre al ricevimento presso l’Hotel Zagarella vi era solo Nino Salvo.

Tali presenze sono state documentate da fotografie, acquisite al processo avanti al tribunale di Palermo che qui possono essere utilizzate sulla base della testimonianza di Attilio Ruffini che nelle foto a lui mostrate ha riconosciuto sia Vito Ciancimino che Nino Salvo.

Il pranzo fu organizzato da Nino Salvo il quale aveva dato disposizioni alcuni giorni prima dell’evento indicando una affluenza di persone di circa 150/200 mentre in realtà ne arrivarono circa 300 e Giulio Andreotti ne era a conoscenza perché, come si evince dalla deposizione di Giovanni Amalfitano il Buffet era stato spostato dalla terrazza alla sala Ambassador perché vi era vento e l’ordine di spostare il buffet era arrivato nel pomeriggio.

Nino Salvo aveva poi provveduto a pagare il conto del ricevimento come affermato sia da Vittorio De Martino che dal vice direttore Giovanni Amalfitano che ricorda come sul promemoria del menù fosse indicato Nino Salvo come committente e pagatore.

Nino Salvo teneva moltissimo alla riuscita del ricevimento tanto che per la prima volta si era interessato del menù e della disposizione del buffet.

Nino Salvo aveva ricevuto e salutato personalmente Giulio Andreotti e lo aveva condotto, insieme ad altre persone, nella visita all’hotel rivolgendosi con il termine "Eccellenza", aveva seguito l’andamento del ricevimento interessandosi di Giulio Andreotti tanto da arrabbiarsi con Vittorio De Martino perché pretendeva che il buffet fosse servito al tavolo di Giulio Andreotti e la cosa non era possibile per l’organizzazione del ricevimento.

L’interesse di Nino Salvo alla buona riuscita del ricevimento si desume anche dal comportamento successivo da lui tenuto perché, come riferisce Giovanni Amalfitano, il giorno dopo si era complimentato per la buona riuscita del ricevimento con tutto il personale.

Da quello che si è finora detto in ordine al ricevimento presso l’albergo Zagarella discende una prima considerazione: l’interessamento di Nino Salvo è un interesse legato alla candidatura dell’onorevole Lima atteso che Giulio Andreotti era venuto a Palermo proprio per sostenere la candidatura di Salvo Lima a cui Nino Salvo era politicamente legato (in tal senso depongono una serie di testimonianze che indicano i cugini Nino e Ignazio Salvo come grandi elettori a titolo personale di Salvo Lima capo corrente della democrazia cristiana facente capo a Giulio Andreotti).

Una seconda considerazione discende dalle modalità con cui il ricevimento si è svolto, e con ciò si disattende la tesi difensiva di Giulio Andreotti di avere conosciuto occasionalmente Nino Salvo come proprietario dell’albergo Zagarella: l’interesse di Nino Salvo per Giulio Andreotti trascende la sua qualità di proprietario dell’albergo e si inquadra in quei rapporti politici e personali intercorrenti tra i cugini Nino e Ignazio Salvo con Salvo Lima e Giulio Andreotti. Se così non fosse non troverebbe spiegazione logica la circostanza che a dare il benvenuto all’ospite d’onore sia stato proprio Nino Salvo, perfetto sconosciuto a Giulio Andreotti se fosse vera la sua affermazione, che in quel momento non aveva rapporti con l’albergo perché era stato dato in gestione a Vittorio De Martino e che con il suo comportamento imponeva una presenza non richiesta scavalcando, tra l’altro, i rappresentanti locali più autorevoli del partito della democrazia cristiana che in quel frangente affollavano l’albergo.

Tale comportamento è, al contrario, plausibile e logicamente spiegabile proprio in forza di quei rapporti di cui si è appena detto e trova il suo fondamento nella pregressa conoscenza di cui è espressione l’invio del regalo per le nozze Sangiorgi/Salvo.

Ma l’albergo Zagarella assume ancora rilievo nei rapporti tra i cugini Nino e Ignazio Salvo e Giulio Andreotti perché lì si è tenuta un'altra riunione della democrazia cristiana a cui ha partecipato ancora Giulio Andreotti alla presenza di Nino e Ignazio Salvo.

La riunione viene riferita da Nicolò Graffagnini, Angelo Capitummino, esponenti locali della democrazia cristiana, Albano Salvatore notaio e amico di Giulio Andreotti e Francesco Filippazzo, l’autista che su incarico di Salvo Lima accompagnava Giulio Andreotti nei suoi spostamenti nell’isola.

Il primo ricorda che oltre al ricevimento per la chiusura della campagna per le elezioni europee del 1979, Giulio Andreotti aveva partecipato ad un altro ricevimento presso l’albergo Zagarella tenutosi in occasione di una commemorazione del maggio 1981 dell’uccisione di Aldo Moro quando si era tenuta a Palermo la riunione della direzione nazionale ed erano presenti anche personalità di diverse nazionalità anche se non sa indicare se erano eurodeputati; il secondo, oltre a ricordare le stesse occasioni aggiunge che al secondo ricevimento è sicuro della presenza di Salvo Lima ma non di Giulio Andreotti, ma fornisce un particolare che poi sarà ricordato da Francesco Filippazzo e cioè che il ricevimento si era tenuto ai bordi della piscina ed erano stati preparati carretti di pietanze tipiche della Sicilia. Filippazzo, a sua volta nel mentre nega di avere visto Giulio Andreotti alla Zagarella, in occasione del matrimonio di una figlia di Nino Salvo, afferma di avere visto Giulio Andreotti parlare con Salvo Lima e Mario D'Acquisto ai bordi della piscina, in occasione di una sessione del parlamento europeo che si era tenuto a Palermo durante la quale vi era stato lo stesso tipo di ricevimento; Filippazzo esclude che in quella occasione fossero presenti i cugini Salvo anche se vi erano persone che non facevano politica.

Salvatore Albano, a sua volta, ricorda le stesse modalità di svolgimento della festa raccontate da Filippazzo ma è sicuro, anche se a contestazione, che a quella festa era presente Giulio Andreotti e i cugini Nino e Ignazio Salvo

Da quanto sopra detto emerge che gli incontri che hanno visto la presenza contemporanea di Giulio Andreotti e dei cugini Nino e Ignazio Salvo (quantomeno di Nino) sono stati sicuramente due.

Del resto che Andreotti frequentasse l’hotel Zagarella è stato riferito dallo Stesso Nino Salvo (o da Gaetano Sangiorgi) al professor Francesco Cavalli che in Svizzera curava Nino Salvo durante la malattia che l’avrebbe portato alla morte.

Ritiene la corte che, la circostanza è provata e che, anche in questo caso, le smentite di Giulio Andreotti circa l’esistenza di rapporti con i cugini Salvo, nel caso di specie Ignazio, non sono convincenti.

L’annotazione del numero di telefono riservato di Giulio Andreotti su una delle agende sequestrate a Ignazio Salvo al momento del suo arresto è provata dalla concorde testimonianza di Laura Iacovoni, Francesco Forleo e Francesco Accordino.

La prima è la moglie del commissario di pubblica sicurezza Ninni Cassarà che aveva effettuato l’arresto di uno dei due cugini e seguiva le indagini sviluppatesi a seguito delle rivelazioni di Tommaso Buscetta e successivamente ucciso dalla mafia.

Il secondo ha fatto parte della segreteria del sindacato della polizia e, come tale, aveva tenuto una riunione sindacale alla presenza dello stesso Ninni Cassarà per discutere della sicurezza di quest’ultimo.

Il terzo è stato collega del commissario Ninni Cassarà essendo entrambi addetti alla squadra mobile di Palermo anche se in sezioni diverse.

Tutti sono concordi nell’affermare che il commissario Ninni Cassarà subito dopo l’arresto di Ignazio Salvo aveva loro fatto presente, per spiegare la potenza dei cugini Nino e Ignazio Salvo e la difficoltà delle indagini sui due personaggi, che costoro potevano arrivare a Giulio Andreotti avendo trovato sotto la lettera "G" della rubrica il nome Giulio con annotato il numero di telefono riservato di Giulio Andreotti. i testimoni hanno precisato che la riferibilità del numero trovato sull’agenda di Ignazio Salvo a Giulio Andreotti era fatto sulla base di accertamenti che lo stesso Ninni Cassarà aveva fatto e il teste Francesco Accordino ha aggiunto che l’agenda era stata a lui mostrata dal collega Ninni Cassarà.

E’ stato contestato che di tale agenda non vi era traccia perché in atti vi era solo l’agenda sequestrata a Nino Salvo sulla quale era annotato il numero del centralino della presidenza del consiglio.

La contestazione non è decisiva perché il teste Francesco Accordino ha escluso che l’agenda a lui mostrata fosse quella contenente l’annotazione e risulta, d’altro canto, che le agende sequestrate a Ignazio Salvo sono altre e che le stesse, successivamente, sono state restituite all’avente diritto.

Del resto, non si comprende perché il commissario Ninni Cassarà, nell’immediatezza del ritrovamento, avrebbe dovuto riferire circostanze che in quel momento erano neutre per il processo a carico di Giulio Andreotti a persone a lui vicine sia affettivamente che per motivi di lavoro volendo, con tale confidenza, sottolineare alla persona più cara la soddisfazione di vedere confermate l’ipotesi di indagini che stava conducendo e a quei suoi colleghi di lavoro, in cui aveva piena fiducia (non va dimenticato che egli prendeva precauzioni anche nei confronti dei suoi colleghi temendo fughe di notizie), le difficoltà delle indagini, che da lungo tempo conduceva a carico dei cugini Nino e Ignazio Salvo, uomini potenti e con amicizie altolocate tanto che nell’ambiente della squadra mobile della questura di Palermo circolava la battuta "chi tocca i Salvo muore" (come purtroppo è avvenuto per il commissario Ninni Cassarà).

Il testimoniale assunto a dibattimento, ivi comprese le testimonianze assunte nel processo a carico di Giulio Andreotti avanti al tribunale di Palermo, permette di affermare, senz’ombra di equivoci che dopo il rapimento subito nell’anno 1975 da Corleo, suocero di Nino Salvo, la Satris, società di gestione delle esattorie siciliane, di cui erano proprietari le famiglie Salvo, Cambria e Corleo, aveva acquistato delle auto blindate.

In tal senso depongono le testimonianze di Girolamo Di Giovanni, Giovanni Epifanio, Francesco Filippazzo, Gaetano Sangiorgi, Giuseppa Puma e l’interrogatorio di Antonino Salvo.

Invero dalla testimonianza di Girolamo Di Giovanni, nella sua qualità di prefetto di Palermo, emerge che il 7/6/79 Giulio Andreotti, quando era arrivato per una manifestazione di partito, era stato ospite della prefettura perché era presidente del Consiglio e per il trasferimento aveva usato una auto blindata messa a disposizione da Salvo Lima perché la questura e la prefettura non ne avevano a disposizione.

Giovanni Epifanio, all’epoca questore di Palermo, ha riferito che nella stessa occasione Salvo Lima aveva fornito una auto blindata escludendo di essersi rivolto, durante il periodo di sua gestione, ai cugini Nino o Ignazio Salvo per avere la disponibilità di un’auto blindata perché come questura erano tenuti a fornire solo la scorta alle personalità in visita a Palermo.

Francesco Filippazzo, uomo di fiducia e amico di Salvo Lima, ha dichiarato di avere accompagnato con la macchina blindata della Satris Giulio Andreotti quando questi veniva in Sicilia. L’auto era chiesta da Salvo Lima a Nino Salvo e di conseguenza lui si recava presso la Satris a prelevarla. L’auto, a detta di Francesco Filippazzo, in genere era usata per l’attività pubblica di Giulio Andreotti ma anche una volta per attività privata come quella per il matrimonio del figlio dell’onorevole Merlino.

La circostanza che le auto blindate fossero a disposizione di Salvo Lima è stata negata dai parenti dei cugini Nino e Ignazio Salvo ma la circostanza, oltre a risultare provata dalle testimonianze di cui sopra si detto, è stata ammessa dallo stesso Nino Salvo nell’interrogatorio avanti al giudice istruttore nel processo a suo carico per associazione a delinquere e ciò fa molto dubitare della sincerità dei parenti di Nino e Ignazio Salvo in ordine ai rapporti avuti dai loro congiunti con Giulio Andreotti. Valgono per tutti:

Le affermazioni di Francesco Filippazzo permettono di affermare che l’auto blindata nella disponibilità dei cugini Nino e Ignazio Salvo è sempre stata a disposizione di Giulio Andreotti per essere usata sia per spostamenti in occasione di incarichi istituzionali, sia in occasione di manifestazioni di partito, sia in occasione di viaggi privati; tali affermazioni sono state confermate dagli accertamenti fatti da Antonio Pulizzotto il quale dall’esame della documentazione dei viaggi fatti da Giulio Andreotti in Sicilia ha individuato le occasioni, riferite da Francesco Filippazzo, in cui Giulio Andreotti ha usato le auto blindate della Satris.

Del resto la circostanza è ammessa dallo stesso Giulio Andreotti il quale, sul punto, si è limitato ad affermare di non aver mai saputo che l’auto in questione era nella disponibilità dei cugini Nino e Ignazio Salvo e che l’auto in questione era messa a disposizione dalla prefettura.

La tesi non è credibile.

Invero ritiene la corte che la presenza costante di Francesco Filippazzo anche in occasioni che nulla avevano a che fare con l’attività pubblica di Giulio Andreotti (vale a smentire l’affermazione di Giulio Andreotti l’episodio relativo alla sua partecipazione al matrimonio della figlia dell’onorevole Merlino nel luglio 1980 dove sicuramente non può parlarsi di attività istituzionale o anche in qualche misura pubblica e ciò nonostante all’aeroporto di Catania, ove era atterrato, Giulio Andreotti era atteso da Salvo Lima che ivi era giunto con l’auto della Satris, condotta da Francesco Filippazzo.

Tale circostanza esclude che il viaggio possa essere stato organizzato da una autorità governativa o di partito e la presenza di Salvo Lima indica che gli accordi erano stati presi direttamente con quest’ultimo.

Altrettanto poco credibile è che Giulio Andreotti, persona molto prudente e attenta, non si sia mai informato sia con l’autista con il quale ha passato insieme anche alcuni giorni di seguito, sia con Salvo Lima sulla proprietà o disponibilità di un auto che per l’epoca non era un mezzo di trasporto usuale.

La tesi difensiva non è poi credibile, e appare una conseguenza della negazione della conoscenza dei cugini Nino e Ignazio Salvo, alla luce delle considerazioni che prima si sono fatte in ordine alla conoscenza personale e non occasionale di Giulio Andreotti e dei cugini Nino e Ignazio Salvo desumibile dagli episodi prima evocati del regalo per le nozze della figlia di Nino Salvo e del numero telefonico personale di Giulio Andreotti trovato nell’agenda di Ignazio Salvo.

Ma l’esistenza di un rapporto non solo di conoscenza occasionale, ma più intensa e amicale, deriva ancora una volta dalle dichiarazioni di Francesco Filippazzo il quale parla della presenza dei cugini Salvo nei luoghi dove Giulio Andreotti andava, i quali si avvicinavano, lo salutavano con cordiali strette di mano.

E’ ben vero che Francesco Filippazzo all’udienza dibattimentale ha negato di avere mai visto Giulio Andreotti insieme o separatamente con i cugini Nino e Ignazio Salvo, ma la negazione gli viene contestata sulla base di quanto dichiarato per ben due volte nella stessa giornata, alla polizia giudiziaria prima e al pubblico ministero poi, e cioè di avere visto sovente nei luoghi dove accompagnava Giulio Andreotti i cugini Salvo i quali, quando si trovavano vicino all'on. Andreotti, si salutavano cordialmente stringendosi la mano aggiungendo che essi sicuramente si conoscevano, anche se tra loro non vi era la stessa cordialità che c'era con Lima, e meravigliandosi di avere sentito l'on. Andreotti negare la conoscenza dei Salvo.

La corte, tra le due versioni ritiene più credibile la versione fornita nelle indagini preliminari ritenendo puerile l’affermazione di Francesco Filippazzo di non ricordare di avere detto tali cose, anzi, di avere detto di non sapere se si conoscessero o meno e di avere firmato il verbale senza rileggerlo o di non averlo letto bene solo se si tiene presente che il secondo verbale è stato redatto e sottoscritto dopo che del primo egli aveva avuto integrale lettura confermandolo.

Si tratta di un puerile tentativo di mitigare il senso delle proprie affermazioni nell’intento di non danneggiare una persona da lui conosciuta e per la quale ha stima e rispetto (non va dimenticato che egli è stato amico di Salvo Lima appartenente alla stessa corrente democristiana di cui Giulio Andreotti è il capo).

Fino ad ora si è parlato della conoscenza dei cugini Salvo e dei loro rapporti diretti con Giulio Andreotti sulla base di dati oggettivi e di testimonianze esterne all’ambiente mafioso di cui i cugini Nino e Ignazio Salvo avevano fatto parte fino alla loro morte.

Della loro conoscenza hanno parlato anche alcuni collaboratori di giustizia riferendo quanto loro appreso dagli stessi Nino e Ignazio Salvo.

Dell’esistenza di tali rapporti hanno parlato Tommaso Buscetta, Gioacchinio Pennino, Giovanni Brusca, Salvatore Cangemi per averlo appreso o direttamente dagli stessi Nino e Ignazio Salvo o dai vertici di Cosa Nostra come Raffaele Ganci e Salvatore Riina.

E’ ben vero che delle affermazioni dei cugini Nino e Ignazio Salvo non vi è alcun riscontro e che esse sono generiche mancando il riferimento a circostanze di fatto, ma vi è un argomento logico che induce a ritenere che non si è trattato di una loro vanteria.

Costoro, infatti, per la loro storia personale e per la loro dipendenza diretta prima da Stefano Bontade e poi da Salvatore Riina non potevano permettersi di raccontare ai loro capi diretti cose non vere.

La ragione di ciò sta nel fatto che essi facevano parte di quella fazione di Cosa Nostra detta "Mafia perdente" ed erano stati, per di più, in stretti rapporti con i capi di detta fazione. Per di più insieme a Stefano Bontade avevano mantenuto i rapporti con Gaetano Badalamenti, anche dopo che questi era stato espulso da Cosa Nostra.

Per le regole di Cosa Nostra il loro naturale destino era, quindi, la morte a meno che non avessero fatto atto di sottomissione completa ai vincitori, come in effetti hanno fatto, mettendosi "a disposizione" prima di Michele Greco e poi di Salvatore Riina che, in tal modo, ereditavano quei rapporti privilegiati che prima di lui avevano avuto Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti.

Va precisato che "essere a disposizione" indica che per l’utilizzazione "dell’uomo d’onore a disposizione" non è più necessario chiedere l’autorizzazione del rappresentante della famiglia di appartenenza, ma egli può essere utilizzato direttamente dal capo anche se non facente parte della propria famiglia.

L’obbedienza prestata a Salvatore Riina non escludeva, peraltro, che al minimo sgarro questi, come riferito da Giovanni Brusca, riprendesse l’originario progetto di uccidere i cugini Nino e Ignazio Salvo.

In tale situazione Nino e Ignazio Salvo non potevano permettersi di riferire a Salvatore Riina cose diverse dalla realtà pena la morte, come è avvenuto in realtà nei confronti del solo Ignazio Salvo nell’anno 1992 (nel frattempo Nino Salvo era deceduto per malattia), allorché, secondo l’ottica di Salvatore Riina, non erano giunti i risultati favorevoli richiesti per la soluzione del c.d. maxi processo a cui egli teneva particolarmente.

Ora, poiché l’interesse di Salvatore Riina per i cugini Nino e Ignazio Salvo era soprattutto quello di sfruttare le loro conoscenze e amicizie, e tra queste quella riferita con Giulio Andreotti, ritiene la corte che ciò sia una ulteriore riprova, dell’esistenza di rapporti tra i cugini Nino e Ignazio Salvo e Giulio Andreotti.

Ma, la conoscenza e l’esistenza di rapporti tra Giulio Andreotti e i cugini Nino e Ignazio Salvo, se soddisfa l’esigenza, prima individuata, dell’esistenza delle condizioni perché il primo potesse chiedere ai secondi di fare uccidere Carmine Pecorelli, ciò da solo non è sufficiente necessitando anche che la richiesta sia potenzialmente accoglibile dal destinatario ultimo della richiesta.

Ciò comporta, passando, così, al secondo aspetto del problema, la necessità di verificare se all’epoca dell’omicidio di Carmine Pecorelli, poco prima o poco dopo, fossero in essere, ovvero stessero per instaurarsi, tra i vertici di Cosa Nostra dell’epoca, individuati in Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti, per quello che interessa questo processo, e Giulio Andreotti rapporti nella consapevolezza di Giulio Andreotti di avere contatti con uomini che rappresentavano i vertici della criminalità organizzata.

L’accertamento passa necessariamente attraverso l’esame dei rapporti tra Cosa Nostra e Politica.

Una prima considerazione di carattere generale va fatta: l’allacciamento di rapporti tra Cosa Nostra e persone delle istituzioni, siano essi uomini politici, appartenenti alla pubblica amministrazione, alle forze di polizia, all’ordine giudiziario, al mondo imprenditoriale e delle professioni, sono ricercati e ambiti perché con essi, utilizzando anche la forza intimidatrice derivante dall’uso sistematico della violenza che inevitabilmente si traduce, come l’esperienza quotidianamente dimostra, in condanne a morte per chi non si piega alla sua volontà o costituisce intralcio per i suoi interessi, Cosa Nostra aumenta il suo potere e gestisce al meglio i suoi interessi.

Sotto il secondo aspetto, sarà esaminato il movente che spinge Cosa Nostra ad accettare di fare favori a uomini politici.

Questa ultima affermazione comporta una sintetica esposizione dei rapporti che, a giudizio di questa corte, possono instaurarsi tra Cosa Nostra e l’uomo politico.

Al riguardo va detto, escluso il caso dell’uomo politico organicamente inserito in Cosa Nostra (si fa l’esempio, perché il fatto è stato accertato con sentenza passata in giudicato, di Francesco Barbaccia, medico otorino del carcere dell’Ucciardone a Palermo), i casi che qui possono interessare riguardano la vicinanza dell’uomo politico che, per il proprio interesse politico, è costantemente in rapporto con esponenti mafiosi di talché, malgrado non vi sia una adesione agli scopi dell’associazione criminale, di fatto ne fa parte a tutti gli effetti (è il caso di Angelo Siino e di Salvo Lima, ciascuno per il suo ruolo, che gestivano, secondo le dichiarazioni dello stesso Angelo Siino, il sistema degli appalti pubblici in Sicilia benché entrambi non facessero parte, formalmente, di Cosa Nostra). La conseguenza, in questo secondo caso, è che negli affiliati si crea la ragionevole aspettativa che l’uomo politico è "a disposizione di Cosa Nostra", cioè interverrà, qualora ciò sia possibile, per risolvere un problema del sodalizio criminale spendendo la sua influenza politica. D’altro canto, l’uomo politico ha la ragionevole aspettativa di essere aiutato nelle competizioni elettorali.

Poco importa se, poi, tale aiuto si traduce anche nell’omicidio delle persone che ostacolano la carriera dell’uomo politico "vicino" a cosa Nostra.

Accanto a queste forme di "collaborazione pregnante" tra Uomo Politico e Cosa Nostra può ipotizzarsi una situazione meno incisiva e cioè che l’uomo politico in cambio di favori elettorali di tanto in tanto ricambi il favore a Cosa Nostra.

Irrilevante è per Cosa Nostra il partito di appartenenza del politico su cui contare, anche se la predilezione va ai partiti al potere, perché l’unico interesse di Cosa Nostra è avere un valido interlocutore che soddisfi le esigenze di Cosa Nostra e le esigenze possono essere soddisfatte meglio da chi gestisce il potere pubblico.

Se questi sono gli scenari in cui si inseriscono "i rapporti tra Cosa Nostra e l’Uomo Politico", se quella sopra prospettata è la finalità che Cosa Nostra vuole raggiungere attraverso i legami con "uomini delle istituzioni", vi è tutto l’interesse della organizzazione criminale a soddisfare una richiesta proveniente da quest’ultimo al fine di poterne sfruttare a proprio vantaggio la posizione.

Va da sé, poi, che il collegamento tra Uomo Politico e Cosa Nostra, proprio per la sua delicatezza, deve essere riservato e la riservatezza deve aumentare sempre più in relazione all’importanza dell’uomo politico. Tale stato di cose ha, come logica conseguenza, che gli interessati mantengono i contatti attraverso persone di fiducia che fungono da intermediari dovendosi ricorrere a contatti diretti solo se gli argomenti da trattare riguardano questioni molto importanti per uno dei due interlocutori.

Nell’ambito dei rapporti tra i vertici di Cosa Nostra ed il mondo politico un ruolo rilevante hanno avuto i cugini Nino e Ignazio Salvo da un lato e Salvo Lima dall’altro quando era necessario risolvere questioni di interesse di Cosa Nostra a livello nazionale.

I primi erano le persone di fiducia per Cosa Nostra i quali nel panorama socio economico della regione siciliana ricoprivano un ruolo di tutto rispetto e potevano mascherare sotto tale ruolo la loro vera funzione;

il terzo era uno dei più importanti uomini politici della regione siciliana in rapporto con i massimi esponenti nazionali della democrazia cristiana nella sua qualità di capo della corrente siciliana facente capo a Giulio Andreotti in Sicilia e suo fiduciario in quella regione.

Del resto dei rapporti di Salvo Lima con esponenti di cosa Nostra ne ha parlato lo stesso Salvo Lima, come si desume dalla testimonianza di Franco Evangelisti e Vittorio Sbardella (persone facenti parte della stessa corrente politica); al primo ha presentato Nino Salvo in occasione della cena avvenuta nella Pasqua del 1977 e ha confidato non solo di conoscere Tommaso Buscetta ma di avere di lui una ottima impressione perché era una brava persona; al secondo è in grado di segnalare, con noncuranza, il nome (il gioielliere Capuano) di quello che sarà indicato come uomo d’onore facente parte della decina romana della famiglia di S. Maria del Gesù il cui capo è stato Stefano Bontade. Non è di poco conto l’altra affermazione di Vittorio Sbardella relativo al ruolo di Salvo Lima proprio come intermediario tra Cosa Nostra e il mondo politico romano in ordine alle richieste di intervento presso la Cassazione per "l’aggiustamento dei processi" che era uno degli obbiettivi principali di Cosa Nostra.

Quello che appena ora è stato detto sta solo a significare che anche attraverso fiduciari era possibile per Giulio Andreotti fare pervenite una richiesta scabrosa ai capi di Cosa Nostra.

Si è trattato molto in questo processo, travasando anche la mole degli atti assunti nel processo a carico di Giulio Andreotti avanti al tribunale di Palermo, la questione se Giulio Andreotti ha avuto rapporti diretti con Michele Greco (capo della cosca di Giaculli e uno dei componenti più influenti della Commissione provinciale di Palermo, con Stefano Bontade e, dopo la sua morte, con Salvatore Riina il vincitore –insieme al predetto Michele Greco, della c.d. "seconda guerra di mafia".

Ritiene la corte che, nell’economia del processo, la verifica della circostanza sia estranea al processo perché tutti gli incontri sono avvenuti dopo l’uccisione di Carmine Pecorelli e ritenendo sufficiente perché si verificassero le condizioni per chiedere l’uccisione di Carmine Pecorelli, la conoscenza con i cugini Nino e Ignazio Salvo.

Invero, gli argomenti sottoposti alla attenzione della corte riguardano due incontri tra Stefano Bontade e Giulio Andreotti e di un incontro di Michele Greco e Giulio Andreotti.

Il primo, collocabile infatti nella tarda primavera, inizio dell’estate del 1979, sarebbe avvenuto nella riserva di caccia "La Stia" nella disponibilità dei fratelli Costanzo nelle vicinanze di Catania;

Il secondo, collocabile qualche mese dopo e comunque dopo l’uccisione di Piersanti Mattarella avvenuta all’inizio del 1980 sarebbe avvenuto in un villino di proprietà di Salvatore Inzerillo nei pressi di Palermo;

Il terzo, sarebbe avvenuto al cinema Nazionale di Roma ove era possibile proiettare in anteprima pellicole cinematografiche verso la fine del 1979 inizio del 1980.

Di rilevante per questo processo è solo l’episodio dell’incontro a Roma tra Giulio Andreotti e Gaetano Badalamenti e uno dei cugini Salvo ma di esso si parlerà più diffusamente avanti avendo specifica importanza per questo processo.

Alla luce delle considerazioni fatte deve affermarsi che vi era conoscenza personale tra Giulio Andreotti e i cugini Nino e Ignazio Salvo, con le modalità sopra esplicitate, e che tale conoscenza permetteva, in via ipotetica, al primo di chiedere ai secondi l’uccisione del giornalista Carmine Pecorelli.

C) BANDA DELLA MAGLIANA

1c) INTRODUZIONE

Come già detto sopra, notizie in merito a mandanti, esecutori e movente dell'omicidio di Carmine Pecorelli sono entrate nel procedimento per le rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia appartenenti alla c.d. "Banda della Magliana", operante in Roma tra la fine degli anni '70 e gli inizi degli anni '80.

Si tratta di Antonio Mancini, Fabiola Moretti, Vittorio Carnovale e Maurizio Abbatino che hanno reso dichiarazioni come imputati in procedimento collegato (di Fabiola Moretti si dirà in seguito), di cui occorre valutarne la attendibilità intrinseca; esame che va condotto sulla base dei principi di diritto vigenti, sopra esposti, ma che in questa sede occorre puntualizzare, per ribadire quanto già detto affrontando il tema della valutazione della prova, in relazione ai rilievi fatti durante il dibattimento dai difensori degli imputati.

In merito alla credibilità dei collaboranti, ed in particolare riguardo alla loro personalità, non si è mancato di sottolineare in modo certamente suggestivo, come il passato criminale di tali soggetti con la commissione di efferati delitti - per taluno, come Fabiola Moretti, commessi anche dopo la scelta collaborativa - impedisca di considerare le loro dichiarazioni come fonte di convincimento.

A ben vedere questa tesi presuppone valutazioni di carattere morale che, come la giurisprudenza pacificamente sostiene, alla luce della legislazione vigente, non possono avere rilevanza ai fini del giudizio di credibilità. Infatti la natura della figura del collaborante, così come codificata, trae giustificazione proprio dalla pregressa esperienza criminale. Non è ipotizzabile una figura di collaborante dal passato moralmente apprezzabile, perché, a parte l'oggettiva impossibilità, sarebbe una contraddizione in termini, sterile di contributi all'accertamento della verità e pertanto processualmente inutilizzabile.

In realtà sembra logico e coerente con lo spirito della legge, ritenere che i profili della personalità rilevanti ai fini del giudizio di credibilità siano quelli che consentano al giudice di convincersi della partecipazione del soggetto ad una associazione criminale e della conseguente disponibilità delle notizie riferite agli inquirenti.

Lo stesso procedimento valutativo viene seguito per i parametri delle condizioni economico/sociali e familiari e dei rapporti con i correi. Così può dirsi che i normali criteri di valutazione dell'attendibilità di un testimone, ossia il rispetto delle leggi, l'onestà di vita e la correttezza dei comportamenti, trattandosi di collaboratori di giustizia vengono in qualche modo ribaltati, diventando utili i criteri opposti.

Anche per quanto riguarda i motivi della scelta collaborativa sono stati formulati rilievi ancorati a considerazioni di carattere morale. Esprimono la convinzione che la credibilità del collaborante sia subordinata all'accertamento da parte del giudice che la scelta collaborativa sia frutto di una valutazione negativa della precedente condotta di vita ed un effettivo pentimento per le azioni criminali commesse.

La tesi non trova fondamento nel diritto positivo e non può essere condivisa.

Per il diritto le motivazioni profonde della scelta collaborativa sono indifferenti, trattandosi di moti dell'animo quasi sempre imponderabili e difficili da rappresentare chiaramente. E non è certo attribuita al giudice in nome delle proprie convinzioni, che, seppure condivisibili sono sempre opinabili, compiere valutazioni su tale terreno. Ed ancora il diritto non può avvalorare l'ipotesi secondo cui uomini che hanno fatto del crimine la loro filosofia di vita, abbiano improvvisamente un barlume di coscienza così profondo da renderli del tutto diversi (l'ipotesi si addice solo a figure letterarie o sparuti personaggi esistiti). Identificare in ciò il presupposto della credibilità equivarrebbe a rendere inoperante l'istituto.

In realtà, a ben vedere, ciò che veramente rileva è che vi sia da parte dell'interessato una cosciente e ferma volontà di collaborare con la giustizia e che di tale scelta sappia dare una logica giustificazione che consenta al giudice di vagliarne l'affidabilità.

Anche con riferimento più specifico alla attendibilità intrinseca, i difensori hanno più volte sostenuto la mancanza del requisito del disinteresse assumendo che la scelta collaborativa sia stata motivata dalla necessità di sottrarsi alla detenzione e per conseguire i benefici premiali. Anche questo argomento è del tutto inconferente.

Se fossero questi i criteri che evidenziano un "interesse" del collaborante, posto che le misure premiali sono stabilite in via generale e proprio allo scopo di suscitare la scelta collaborativa, si arriverebbe all'assurda conclusione che tutti i collaboratori, per definizione, sarebbero portatori di un proprio interesse. Cosicché il legislatore avrebbe creato un istituto che suscita un "interesse" personale a rendere delle dichiarazioni accusatorie, che per ciò stesso sarebbero inattendibili e quindi processualmente inutilizzabili.

Ciò porta inevitabilmente a concludere che il requisito del disinteresse è del tutto indipendente dall'intenzione di ottenere benefici premiali e deve essere valutato dal giudice secondo i parametri della assenza di sentimenti di vendetta nei confronti dell'accusato, o, al contrario, di favore nei confronti del responsabile o dalla volontà di compiacere gli organi inquirenti per motivi specifici.

Altro rilievo sul quale molto si è insistito da parte delle difese è quello delle inesattezze e/o contraddittorietà nelle quali sono incorsi i collaboranti.

In linea generale, e salvo l'esame che verrà condotto per ogni singola dichiarazione di rilievo, è possibile ritenere che alcune diversità nella ricostruzione dei fatti, sostengono la genuinità della dichiarazione, poiché dimostrano che non vi è una falsa verità costruita dolosamente ed ugualmente impartita. A ciò si aggiunga che se vi fosse stata una versione ufficiale imposta, la stessa sarebbe necessariamente consistita in un racconto di massima privo di contraddizioni, ed anche di particolari personalizzanti. Al contrario le dichiarazioni rese dai collaboranti sui fatti della loro vita passata, contengono particolari e peculiarità che fanno ritenere come le diversità indubbiamente esistenti siano da attribuire alla diversa forma di percezione e partecipazione relative ai singoli episodi.

 

2c). VICENDE E NATURA DELLA BANDA DELLA MAGLIANA

Alla luce dei principi già esposti occorre ora verificare se può essere affermata, in linea generale, l'attendibilità intrinseca di Antonio Mancini, Fabiola Moretti, Vittorio Carnovale e Maurizio Abbatino.

Ma prima di ciò occorre tenere presente la peculiarità della "Banda della Magliana", come emersa dalle fonti processuali e dalle sentenze intervenute sulla sua esistenza e configurazione, di essere una realtà più "dinamica e conflittuale" di altre associazioni criminose conosciute caratterizzata non da una struttura verticistica, ma da gruppi aventi uguale valenza, all’interno dei quali vi erano persone che avevano non la supremazia ma un ruolo più importante e determinato, spesso in conflitto tra loro, ma uniti verso l’esterno per affermare la supremazia del gruppo intero su un determinato territorio.

Solo tenendo conto la particolare struttura dell’associazione trovano spiegazioni i numerosi omicidi consumati all’interno dell’associazione determinati dal fatto che le persone uccise avevano manifestato ambizioni di comando sull’intera organizzazione.

Il primo punto è verificare se essi hanno fatto parte della associazione, o quanto meno sono stati in stretti rapporti con esponenti di essa, e se tale posizione ha loro permesso di accedere alle notizie da loro fornite.

In particolare, per quello che qui interessa, se per le qualità che denotano la statura delinquenziale di ciascuno, ed in dipendenza del ruolo assunto all'interno del sodalizio criminale e della partecipazione ai delitti ad essa attribuiti, essi hanno avuto la disponibilità di conoscenze sui fatti della struttura criminale che giustifichino anche le dichiarazioni riguardanti l'omicidio Pecorelli.

Occorrerà poi verificare l'attendibilità dei collaboranti in relazione alle singole dichiarazioni rese sull'omicidio per cui è processo in presenza dei requisiti elaborati dalla giurisprudenza.

Un primo dato di fatto emerge dalla istruttoria dibattimentale.

La Corte di Assise di Roma con sentenza resa in data 23/7/1996 nel procedimento nei confronti dei componenti della "Banda della Magliana" ha definitivamente accertato che a Roma nel periodo che interessa l’omicidio di Carmine Pecorelli ha operato una associazione a delinquere. E’ ben vero che la sentenza non è ancora definitiva ma il rinvio operato dalla corte di Cassazione ha come oggetto di nuovo accertamento, a prescindere dalla posizione di taluni imputati di quel processo irrilevanti ai fini che qui interessano, l’esclusione o la conferma della qualificazione mafiosa della associazione data dal primo giudice; si è formata, pertanto, il giudicato interno sulla esistenza di una associazione a delinquere denominata Banda della Magliana.

Essa contiene l'accertamento dei fatti che di seguito si elencano:

Un primo accordo riguardo alla futura banda avviene intorno al 1975 nel carcere di regina Coeli tra Antonio Mancini e Nicolino Selis il quale progettava di realizzare un'associazione sul tipo della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. In quella occasione vennero individuati alcuni malavitosi da inserire nella banda, quali Edoardo Toscano, Libero Mancone, Giuseppe Magliolo ed altri. Qualche tempo dopo Antonio Mancini viene trasferito al carcere di Pescara e Selis, Toscano e Magliolo riescono ad evadere dal carcere. Subito dopo avviene un incontro dei suddetti latitanti insieme a Franco Giuseppucci , Marcello Colafigli e Maurizio Abbatino con Raffaele Cutolo, anch'esso all'epoca latitante, a Fiuggi.

Se questi sono le circostanze emergenti dalla suddetta sentenza, ritiene la corte di potere fare proprio il giudizio espresso dalla Corte di Assise di Roma circa la sussistenza di un sodalizio criminoso che va sotto il nome giornalistico di "banda della Magliana", anche se gli adepti non hanno mai fatto riferimento ad una specifica denominazione, la sua struttura e i suoi collegamenti con altre organizzazioni criminali e con la delinquenza politica della destra eversiva, perché aderente alle risultanze probatorie emerse in questo dibattimento.

 

 

2c). PARTECIPAZIONE DI ABBATINO, MORETTI, MANCINI DE PEDIS, ABBRUCIATI E CARNOVALE ALLA BANDA DELLA MAGLIANA.

Di essa hanno fatto parte a pieno titolo le persone che qui hanno reso dichiarazioni in veste di imputati in procedimento collegato derivante dalla loro appartenenza alla suddetta organizzazione nonché Massimo Carminati, che in questo processo è indicato come uno degli esecutori del delitto, per essere stata accertata giudizialmente, per quello che si è detto, la loro partecipazione all’associazione.

Tali affermazioni, oltre ad essere state ribadite in questo processo dagli stessi interessati, ha trovato riscontro in altri elementi esterni ai dichiaranti e provenienti da realtà diverse tra loro che hanno riferito fatti da cui emerge la partecipazione dei predetti al sodalizio criminale.

Occorre ora vedere singolarmente la posizione che all’interno del sodalizio criminoso essi hanno rivestito per verificare se avevano la possibilità di apprendere le notizie riferite.

è stato uno dei capi storici della Banda della Magliana appartenendo al nucleo costituitosi in zona "Magliana" ed è stato attivo dalla fine degli anni '70 fino a tutto il 1986 partecipando in varie forme a tutte le imprese criminose. Contribuisce a formare la struttura definitiva della banda attraverso i contatti con i capi degli altri nuclei. Con sentenza 32/1/1987 è stato condannato a 18 anni di reclusione per tutti i crimini commessi fino al 1983. E’ stato arrestato nel 1983 e resta in carcere sino al 1986 mantenendo i contatti operativi coi suoi sodali sia esterni che interni al carcere. Riuscito ad evadere, resta latitante in Venezuela dove viene di nuovo arrestato nel 1992, suscitando grande panico nei membri dell'associazione che tentano di avere contatti con lui per evitargli l'estradizione.

è stato uno dei promotori dell'originario nucleo del sodalizio all'interno delle carceri insieme a Nicolino Selis. Ha scontato lunghissimi periodi di detenzione anche per la partecipazione all'omicidio Proietti, commesso come appartenente alla associazione criminosa, intervallati da brevi licenze e latitanze e per tale omicidio durante la detenzione è stato importante referente dell'associazione all'interno del carcere mantenendo tutti i contatti con i complici di volta in volta in libertà.

Il ruolo di rilievo avuto da Antonio Mancini all’interno della Banda della Magliana è stato fermamente contestato da talune difese sul presupposto che egli ha passato quasi tutta la sua vita in carcere.

L’affermazione non è conferente.

Si può avere un ruolo di rilievo all’interno dell’associazione anche se si è detenuti potendo agire, proprio perché detenuti, nell’ambito carcerario per gli interessi dell’associazione. Interessi che diventano rilevanti nel caso della banda della Magliana caratterizzata da latenti contrasti e diffidenze tra i vari gruppi che la componevano e non è stato isolato il caso di improvvise esplosioni di tali contrasti sfociati, come era costume del sodalizio caratterizzato da elevata ferocia, nella eliminazione dell’avversario divenuto pericoloso.

In tal senso depone l’episodio dell’uccisione di tale Nardilocchi richiesta ad Antonio Mancini dagli esponenti della banda in libertà e da questi fatto eseguire in carcere.

Ma a confermare, all’interno dell’associazione, il ruolo rilevante di Antonio Mancini e la sua considerazione da parte degli altri associati, il cui ruolo è stato senz’altro significativo e non contestato, vi sono alcuni episodi significativi emergenti dagli atti:

  1. La visita fatta da Edoardo Toscano nella casa di lavoro di Soriano del Cimino il quale per entrare ha approfittato dello stato di convivenza tra Antonio Mancini ed Elena Timperi usufruendo di un colloquio rilasciato al suo fratellastro Ottorino Addis e facendosi passare per questo ultimo.
  2. La commissione dell’omicidio di Sisto Nardilocchi su richiesta dei suoi sodali.
  3. La partecipazione all’omicidio Proietti, avvenuto il 16/3/81 in via di Donna Olimpia, commesso da appartenenti ai vari gruppi della banda.
  4. La presenza a delicati episodi della vita della associazione (incontro Fabbri/Abbruciati al laghetto dell’EUR, riunione al Gianicolo con persone delle istituzioni, riunione a casa di Carnovale per decidere l’uccisione di Danilo Abbruciati, i viaggi a Milano con Danilo Abbruciati); episodi tutti che comportano o un potere decisionale o sono caratterizzati da rapporto di fiducia.
  5. Il rapporto di convivenza (nel senso di persona abilitata a fare colloqui con il detenuto, tra Fabiola Moretti e Antonio Mancini quando questi era detenuto da anni per potere mantenere i contatti con gli associati in libertà.
  6. La sua attività, da detenuto, di intermediario per risolvere alcuni conflitti tra appartenenti alla banda come le visite ricevute dai parenti di Maurizio Abbatino nell’aula del tribunale dell’Aquila dove si celebrava il processo per l’omicidio di Sisto Nardilocchi.
  7. Va ancora detto che Antonio mancini nell’ambito della associazione ha avuto una posizione intermedia tra il gruppo propriamente detto della Magliana e il gruppo dei "testaccini" essendo contemporaneamente inserito, a tutti gli effetti, nel primo gruppo e in buoni rapporti, contrariamente agli altri associati del gruppo che diffidavano dei "testaccini", con Danilo Abbruciati e Enrico De Pedis.

A riprova di ciò sono emersi, al di fuori delle dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia, due fatti significativi idonei ad illustrare i rapporti di amicizia e fiducia che esistevano tra Antonio Mancini e Danilo Abbruciati: l’assistenza prestata da Antonio Mancini nell’incontro che Danilo Abbruciati ha avuto con il dirigente del Sisde Mario Fabbri e la presenza di Antonio Mancini nei viaggi fatti da Danilo Abbruciati a Milano in ben due occasioni (di questa ultima circostanza si parlerà ampiamente in seguito).

è il cognato di Edoardo Toscano, uno dei personaggi più in vista della associazione; ha partecipato alla associazione criminale in quanto membro del gruppo di Acilia insieme a Selis, Mancone, Abbatino e, in seguito, Marcello Colafigli con il quale ha vissuto il periodo di latitanza tra il luglio 1979 e l'agosto 1980. Ha partecipato a numerosi fatti omicidiari, quali l'omicidio di Enrico De Pedis ed ha seguito da vicino le vicende del gruppo Magliana, i contatti tra detenuti e liberi, l'insorgenza dei rapporti conflittuali tra i componenti dell'area Magliana e quelli del Testaccio.

ha militato nell'associazione sin dal 1979; ha sostanzialmente ricoperto il ruolo di esperta spacciatrice di stupefacenti, legata sentimentalmente, ancora prima della sua partecipazione alla associazione, a Danilo Abbruciati e poi, dopo la morte di questi, per un certo periodo ad Antonio Mancini, sposata a Franco Mazza da cui ha avuto un figlio e nuovamente legata ad Antonio Mancini da cui ha avuto una figlia.

E’ stata contestata la figura di Fabiola Moretti come compagna di Danilo Abbruciati ma la circostanza, oltre che dalla concorde dichiarazione dei collaboratori di giustizia, è riferita anche dall'avv. Franco Merlino che dichiara di averla appresa dalla Moretti alla presenza dell'avv. Ruggeri in un contesto in cui la stessa non aveva necessità di fare una affermazione del genere se non fosse stata vera ed è confermata dalla deposizione di Ugo Bossi e del maresciallo Giuseppe Soldano il quale riferisce che durante le indagini per l'omicidio di Amleto Fabiani aveva accertato che nel marzo 1980 Abbruciati e Moretti, di ritorno da un viaggio a Milano con Amleto Fabiani, avevano dormito insieme all'Holiday Inn e sa che a quell'epoca avevano una relazione. Altre conferme vengono dalla dichiarazione di Franco Collalti, che all’epoca era in rapporti con Danilo Abbruciati, il quale ha affermato di conoscere Fabiola Moretti per averla incontrata con Danilo Abbruciati apprendendo da entrambi che vi era stata tra loro una relazione, nonché dalla testimonianza di Milva Bonamore, l’ultima donna di Danilo Abbruciati, la quale riferisce di avere incontrato, una volta in cui era insieme a Danilo Abbruciati, Fabiola Moretti (chiamata, secondo lei in tono spregiativo da Danilo Abbruciati "Bucatina") e di sapere che era stata la donna di Abbruciati.

Ma se ciò non bastasse, è sufficiente rileggere le intercettazioni telefoniche ed ambientali a carico di Fabiola Moretti e valutare logicamente una serie di circostanze riferite da quest’ultima in ordine ai suoi rapporti con Danilo Abbruciati per affermare l’esistenza di un loro legame affettivo.

Questa ultima affermazione porta necessariamente ad esaminare la figura di Danilo Abbruciati e, di conseguenza, di Enrico De Pedis, detto "Renato o Renatino" nell’ambito della banda della Magliana, atteso che la maggior parte di quanto riferito da Fabiola Moretti e Antonio Mancini in merito all’omicidio di Carmine Pecorelli deriva da confidenze ricevute da queste due persone.

era conosciuto dal prefetto Ferdinando Masone, capo della squadra mobile romana nei primi anni ‘70 come un emergente tra i giovani delinquenti della capitale che mostrava, già all’epoca, una intelligenza ed uno spessore criminale superiore agli altri giovani delinquenti emergenti come Maurizio Abbatino, Antonio Mancini, Enrico De Pedis che confluiranno tutti nella banda della Magliana.

E’ stato a capo, fino alla sua morte, avvenuta il 27/4/1982 del gruppo denominato "i testaccini" i cui maggiori esponenti sono stati Enrico De Pedis ed Edoardo Pernasetti.

E’ stata una figura importantissima, anche se il suo spessore criminale è emerso agli occhi delle autorità inquirenti solo dopo la sua morte, della malavita romana per i rapporti che ha avuto con i più disparati ambienti della malavita, e non, del tempo.

E’ risultata la sua partecipazione, con la banda che imperava nei primi anni ’70, ai sequestri di persona che in quel periodo si erano verificati a Roma (c.d. Banda dei marsigliesi di cui erano capi Berenguer, Bergamelli e Bellicini).

Ha avuto rapporti con la malavita organizzata milanese essendo in rapporti fraterni con Francis Turatello, indiscutibilmente uno dei capi malavitosi di quella città, da lui ospitato a Roma durante la sua latitanza e della cui posizione processuale egli si è interessato.

Ha avuto rapporti con la massoneria e indirettamente con la loggia segreta P.2 perché sono emersi suoi rapporti con Egidio Carenini (definito da Antonio Mancini un politico malavitoso), ed Umberto Ortolani, oltre che con Francesco Pazienza e Roberto Calvi.

Ha avuto rapporti oltre che con "Cosa Nostra " ed in particolare con Stefano Bontade, Giuseppe Calò (e le persone a questi legate come Domenico Balducci, Ernesto Diotallevi, Flavio Carboni) e con Michelangelo La Barbera, anche con la camorra napoletana.

Ha avuto rapporti con i servizi segreti come emerge dalla frequentazione con Francesco Pazienza all’epoca al SISMI e con Giancarlo Paoletti e Mario Fabbri rispettivamente vice e capo del centro Roma 2 del SISDE.

Ha avuto rapporti con la destra eversiva romana ed in particolare con Massimo Carminati e Alessandro Alibrandi.

Come si vede Danilo Abbruciati è stato al centro di una ragnatela di rapporti e di interessi che lo hanno posto in una posizione di privilegio per la conoscenza di notizie che interessano anche questo processo.

Ha fatto parte, fino alla morte di Danilo Abbruciati avvenuta il 27/4/1982, del gruppo dei "testaccini" di cui era uno dei maggiori esponenti insieme a Edoardo Pernasetti e ne è diventato l’esponente di spicco dopo la sua morte subentrando nei rapporti tenuti dal primo.

Come tale ha continuato a mantenere i rapporti con le organizzazioni criminali che rifornivano di droga la criminalità romana, ha continuato a tenere i rapporti con la destra eversiva ed in particolare con Massimo Carminati.

Era in strettissimi rapporti di amicizia con Danilo Abbruciati e Edoardo Pernasetti, con i quali era anche in società e stavano sempre insieme come riferisce Franco Collalti.

Ha avuto contatti con i servizi segreti.

E stato proprietario del ristorante Popi Popi.

Da quanto si è detto si deduce che la posizione degli imputati in procedimento collegato che hanno reso dichiarazioni rilevanti per questo processo erano inseriti ad alto livello nella organizzazione criminale o erano collegati da vincoli parentali o di affetti con tali persone; di talché erano in grado o direttamente o tramite le persone a loro vicine di venire a conoscenza della notizie rilevanti per tutta l’associazione.

Quanto detto trova una conferma:

  1. nella struttura della associazione caratterizzata dal timore che qualcuno prendesse il sopravvento sugli altri per cui ogni azione rilevante doveva essere approvata dalle persone più in vista dei vari gruppi. l’inosservanza di tale regola, poiché comportava dei rischi per la intera organizzazione era foriera di vendette e di propositi omicidiari nei confronti di coloro che tale regola non osservavano.
  2. Nella partecipazione alla punizione di chi violava la regola, o più in generale ai delitti di sangue, delle persone più rappresentative dei gruppi.

Non è, pertanto un caso, che a numerosi omicidi hanno preso parte Vittorio Carnovale e Antonio Mancini e questo perché essi erano considerati importanti nella scala gerarchica dell’organizzazione e godevano la piena fiducia degli altri membri.

Finora si è affermata la partecipazione di Maurizio Abbatino, Vittorio Carnovale, Fabiola Moretti, Antonio Mancini, Danilo Abbruciati e Enrico De Pedis alla banda della Magliana sulla base di elementi probatori esterni alle loro dichiarazioni. Tale partecipazione appare pienamente confermata dagli stessi dichiaranti i quali, avendo agito all’interno della organizzazione, hanno avuto la possibilità di meglio delineare i ruoli di ciascuno a cui deve aggiungersi, perché convergente con gli elementi sopra delineati, l’affermazione di Giuseppe Marchese di avere avuto raccomandazioni da suo cognato Leoluca Bagarella, esponete di rilievo di Cosa Nostra, di prestare assistenza ad Antonio Mancini.

 

3c). ATTENDIBILITA’ INTRINSECA DEI DICHIARANTI DELLA BANDA DELLA MAGLIANA

Dalla predetta sentenza, con l’esclusione di Fabiola Moretti, le cui dichiarazioni sono state dichiarate inutilizzabili nel processo di secondo grado perché la stessa si era avvalsa della sua facoltà di non rispondere alle domande, emerge ancora un giudizio di attendibilità intrinseca dei collaboranti perché rispondenti ai requisiti, richiesti dalla giurisprudenza e indicati nella parte relativa ai criteri generali di interpretazione della prova, di coerenza, univocità, costanza, autonomia e spontaneità e sono state considerate serie e precise.

Il giudizio di attendibilità è fatto proprio da questa corte non essendo sorti, nel corso di questo processo, seri elementi di fatto da inficiare quel giudizio di attendibilità e le eventuali piccole discordanze, inevitabili quando la persona è sottoposta a innumerevoli interrogatori da parte di una pluralità di autorità giudiziarie che pongono l’accento più su alcuni aspetti che su altri (evidentemente in relazione al processo nel quale i dichiaranti sono ascoltati, ovvero quando l’esame diventa estenuante per la sua durata di tal che la lucidità nelle risposte viene a volte meno, non hanno influenza determinante su di esso.

Certo, di esse deve tenersi conto ma non per il giudizio generale di attendibilità, ma per l’affermazione o la negazione di quella determinata circostanza sulla quale sono state riscontrate le discordanze.

Quello che invece è da accertare rigorosamente in questo momento è il disinteresse a rendere dichiarazioni nei confronti degli imputati di questo processo perché tale giudizio ha una specificità particolare potendo l’interesse sussistere nei confronti di una determinata persona piuttosto che di una altra persona.

Orbene, a giudizio della corte come non è emersa, al di là della affermazione priva di riscontri, l’esistenza di un complotto nei confronti di taluni degli imputati (la corte ha già escluso l’ipotesi come detto in precedenza), come, quindi, non è emerso che Antonio Mancini, Maurizio Abbatino e Vittorio Carnovale sono stati animati da spirito calunnioso, proprio o di altri, allorché riferivano fatti e circostanze sugli attuali imputati, così non è emerso che gli stessi avessero motivi di rancore, sentimenti di vendetta nei confronti degli imputati.

L’unico episodio che potrebbe avere generato un sentimento di odio e di vendetta è quello dell’arresto subito da Maurizio Abbatino in data 9.4.1974, su ordine di cattura di Claudio Vitalone all’epoca sostituto procuratore presso il tribunale di Roma, ma esso è troppo lontano nel tempo e si è risolto positivamente per lo stesso Abbatino che è ritornato in libertà dopo circa 15 giorni tanto che lo stesso Maurizio Abbatino non ne aveva ricordo e ne ha fatto menzione solo a seguito di specifica domanda della difesa di Claudio Vitalone.

Diversa è la posizione di Fabiola Moretti, nei cui confronti, come detto, nessun giudizio di attendibilità è mai stato dato e che si trova nella particolare situazione di avere reso nella fase delle indagini preliminare dichiarazioni in veste di imputata in procedimento collegato, di essersi avvalsa in sede dibattimentale, in tale veste, della facoltà di non rispondere, per cui le sue precedenti dichiarazioni sono state legittimamente acquisite a dibattimento, di essere stata richiamata in sede dibattimentale per l’entrata in vigore della disciplina transitoria stabilita dalla L. 332/95 e di essere stata esaminata, questa seconda volta, come testimone essendo nelle more venuto meno il collegamento probatorio.

La corte, al di là della veste formale rivestita da Fabiola Moretti al momento in cui è stata sentita e ha reso dichiarazioni, ritiene che il giudizio di attendibilità intrinseca, anche se i verbali delle sue dichiarazioni sono stati acquisiti ai sensi dell’art. 500 c.p.p debba essere particolarmente attento e che per essa debba adottarsi una cautela pari a quella con cui il legislatore ha disciplinato le dichiarazioni di imputato in procedimento collegato perché esse sono state rese quando Fabiola Moretti non aveva l’obbligo di dire la verità perché la sue dichiarazioni potevano essere inficiate dalla necessità di tutelare la propria posizione processuale.

Le ragioni del convincimento derivano dal comportamento processuale tenuto da Fabiola Moretti avanti a questa corte ove la stessa ha inscenato una pantomima affermando di non ricordare nulla di quello che aveva dichiarato nella fase delle indagini preliminari adducendo, a ragione della sua "amnesia", la depressione psichica di cui ha sofferto dopo la nascita della figlia e che, a suo giudizio, si era manifestata in maniera silente già al momento in cui aveva reso le sue dichiarazioni.

La corte non crede minimamente alla giustificazione addotta non solo perché la malattia da cui essa era affetta non comporta le lamentate conseguenze (tanto che nei confronti da lei avuti con Francesco pazienza e con Claudio Vitalone effettuati quando, oramai, la malattia doveva essersi manifestata in pieno, il vigore del comportamento e la perentorietà delle sue affermazioni è in netto contrasto con una depressione psichica in atto), ma, e soprattutto, perché la ragione di un tale comportamento trova la sua piena giustificazione nelle stesse parole di Fabiola Moretti allorché ha affermato, a specifica domanda della corte, di "essersi pentita di essersi pentita" ritornando di conseguenza a quel codice d’onore della malavita in cui chi chiama in reità o in correità è un "infame", termine dispregiativo che può comportare la messa al bando di una persona nell’ambiente della criminalità.

Circostanza questa molto temuta da Fabiola Moretti la quale, dopo la rottura del rapporto affettivo con Antonio Mancini, ha ripreso la vecchia condotta di vita da cui si era allontanata con la collaborazione riallacciando i contatti con i vecchi sodali. Né è conferma:

Solo se si tiene presente il reale motivo del comportamento processuale tenuto da Fabiola Moretti trova giustificazione la "amnesia selettiva" che ha colpito la sua mente perché ricorda perfettamente i suoi rapporti con Danilo Abbruciati ed Enrico de Pedis, salvo a rifugiarsi nel generico quando si cerca di approfondire i ricordi, perché non ha memoria di tutto ciò che ha dichiarato in ordine all’omicidio di Carmine Pecorelli fino a giungere alla negazione della conoscenza di Claudio Vitalone (conoscenza quanto meno fisica derivante dal confronto avuto con quest’ultimo), alla negazione della sua individuazione in aula e alla affermazione di non avere ricordi dello stesso confronto, perché dei suoi sodali ancora in vita e di cui ha necessità per rientrare nel giro della malavita, parla bene.

Ma il comportamento processuale posto in essere da Fabiola Moretti porta, a giudizio della corte, a due conseguenze che a prima vista appaiono contrastanti:

La prima conseguenza rafforza, paradossalmente, la seconda.

Fabiola Moretti non si è infatti spinta nella sua reticenza a negare tutto e in particolare, per le ragioni sopra evidenziate, non poteva rinnegare l’amicizia di antica data con Raffaele Pernasetti, Enrico De Pedis e Danilo Abbruciati e il suo rapporto con Antonio Mancini e ciò conferma che la ragione della conoscenza delle circostanze da lei riferite è nella sua posizione all’interno del sodalizio criminoso derivante in parte dalla sua attività di spacciatrice e in parte dalla sua posizione privilegiata di compagna di vita di Danilo Abbruciati e di amica degli altri appartenenti al gruppo dei "testaccni".

Alla luce delle considerazioni sopra fatte, ritiene la corte che nel contrasto tra le dichiarazioni rese in dibattimento e quelle rese nella fase delle indagini preliminari, debba darsi la preferenza alle seconde ed esse, salva la valutazione delle precisazioni fatte a dibattimento e i nuovi particolari riferiti, complessivamente valutate rivestono quei caratteri che la giurisprudenza ha individuato per la credibilità non dei testimoni ma delle persone coimputate in procedimento connesso o collegato, purché esse trovino conforto di altri elementi probatori.

Del resto è lo stesso art. 500 c.p.p che disciplina il valore delle dichiarazioni usate per la contestazione affermando che esse possono essere utilizzate per la decisione se confortate da altri elementi di prova.

Per concludere sulla attendibilità intrinseca dei dichiaranti, questa volta compresa anche Fabiola Moretti, occorre ancora precisare:

  1. Le dichiarazioni rese dagli imputati di procedimento probatoriamente collegato sono molto complesse e riguardano la loro vita criminale all’interno di un sodalizio criminoso che ha operato sul territorio di Roma per un ampio arco di tempo, durante il quale i dichiaranti hanno alternato periodi di libertà, periodi di carcerazione e periodi di latitanza. Le notizie da loro fornite a volta sono dirette perché cadute sotto la loro personale sfera di percezione, a volta sono state riferite direttamente dai partecipanti al fatto e hanno colpito di più la loro attenzione perché interessavano più da vicino la loro vita di gruppo, a volta sono state riferite da persone a cui gli autori del fatto lo avevano riferito o ricadevano su persone o episodi di scarso interesse per loro. Si tratta quindi a volte di notizie di prima mano, a volta di seconda mano, a volta di terza o successiva mano, a volte dettagliate e a volta generiche e superficiali. Appare conseguente, a giudizio della corte, che con tale precisazione, la attendibilità del dichiarante non viene meno se nel complesso delle sue dichiarazioni ve ne sono alcune che si dimostrano non vere o grandemente generiche potendo la non corrispondenza o la genericità essere frutto di cattivo ricordo, se essa è stata di percezione diretta, ovvero, se "de"relato" mal riferita o percepita o, ancora mal ricordata per lo scarso interesse che al momento della percezione aveva il suo contenuto.

Una ultima notazione. Se si tratta di notizie "de relato", esse devono essere riscontrate anche in relazione alla sincerità di chi le ha riferite.

 

4c). AUTONOMIA DELLE DICHIARAZIONI

In questa sede non è il caso di esaminare tutti gli episodi che hanno riguardato i coimputati in procedimento collegato poiché questo compito è stato demandato e risolto dalla Corte di Assise di Roma competente per territorio i cui risultati sono fatti propri anche da questa Corte; quello che preme ribadire in questa sede è che i risultati probatori acquisiti dalla Corte di Assise di Roma permettono di ribadire la piena attendibilità intrinseca di Antonio Mancini, Vittorio Carnovale, Maurizio Abbatino a cui deve aggiungersi, per quello che si è detto, la attendibilità di Fabiola Moretti in ordine ai fatti relativi alla c.d. banda della Magliana.

Di tali fatti, in questa sede, verranno solo analizzati alcuni degli episodi che hanno specifica attinenza con l’omicidio di Carmine Pecorelli.

Quello che invece preme esaminare, prima di passare ai riscontri, è se le dichiarazioni rese dai dichiaranti sono autonome al fine di verificare se esse possono essere utilizzate come riscontro a dichiarazioni di altri coimputati in procedimento collegato.

Si è detto che uno dei riscontri alle dichiarazioni dei coimputati in procedimento connesso o collegato è dato dai riscontri soggettivi, cioè dalla concorde dichiarazione di due o più persone che rivestono la stessa qualifica a condizione che le dichiarazioni siano autonome.

Ciò comporta la necessità, per una valutazione complessiva della prova, verificare se le dichiarazioni dei vari chiamanti in correità non sono frutto di reciproca conoscenza.

La questione si pone sotto l’aspetto del previo accordo tra i dichiaranti e sotto quello della conoscenza del contenuto delle dichiarazioni di altri imputati in procedimento collegato al momento in cui l’imputato in procedimento connesso o collegato ha fatto le sue dichiarazioni

Al riguardo, ed in via generale, si osserva che, dopo l’inizio della collaborazione dei numerosi coimputati che hanno deciso di dare il loro contributo alla giustizia, non risulta alcun rapporto tra coimputati in procedimento connesso o collegato appartenenti alla banda della Magliana e coimputati appartenenti ad altre organizzazioni criminali come Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra di talché le dichiarazioni fatte da appartenenti a gruppi criminali diversi possono ritenersi riscontrate quando esse sono concordi su una medesima circostanza.

La situazione è diversa per alcuni appartenenti allo stesso sodalizio criminale per cui la situazione va valutata caso per caso.

Tanto premesso in via generale, può affermarsi che nessun rapporto è intervenuto tra Maurizio Abbatino, Vittorio Carnovale, Antonio Mancini e Fabiola Moretti, all’infuori di quelli derivanti da atti ufficiali di indagini (confronto Abbatino/Mancini) e di quelli tra Fabiola Moretti e Antonio Mancini, sia prima che dopo l’inizio della loro collaborazione, a causa dei vincoli di convivenza che esistevano tra loro.

Dagli atti, non risulta, anzi è stato escluso da Ferdinando Masone, che sia possibile, nell’ambito del servizio centrale di protezione, quando il collaboratore è in regime di detenzione extra carceraria, l’incontro tra collaboratori; tale regola non è stata derogata per i collaboratori di questo processo ad eccezione, come si è detto, di Antonio Mancini e Fabiola Moretti di cui si dirà in seguito perché a carico di tali collaboratori, durante tutto il periodo in cui sono stati sottoposti al programma di protezione non risultano infrazioni di tal genere che avrebbero comportato, come conseguenza, la revoca del programma di protezione.

Peraltro va detto che Maurizio Abbatino, il quale ha iniziato la sua collaborazione nell’anno 1992 ed è stato sottoposto a programma di protezione in data 3/11/1992, ha trascorso la detenzione prima presso il carcere di Belluno e successivamente presso la scuola di polizia di Campobasso in regime extra carcerario dal quale si è allontanato in data 7/8/1993 per essere trasferito in località protetta. Dal 4/8/1994 Maurizio Abbatino, poi, si è trasferito all’estero, dietro autorizzazione, e ha fatto ritorno in Italia solo per motivi di giustizia.

Ora, se si ha presente che Abbatino ha iniziato a parlare dell’omicidio di Carmine Pecorelli solo dal 20/9/1994 e in termini diversi da quelli riferiti dagli altri collaboratori, essendosi limitato a riferire di colloqui avuti con Franco Giuseppucci, mai raccontati dagli altri collaboratori, appare chiaro che le dichiarazioni rese sul punto dagli altri collaboratori della banda della Magliana non possono essere il frutto di collusione o di conoscenze ricevute da Maurizio Abbatino. Potrebbe al massimo essere avvenuto il contrario, ma anche ciò deve essere escluso per la natura delle informazioni fornite, diverse come già detto, da quelle fornite dagli altri collaboratori.

Analogo discorso vale per Vittorio Carnovale il quale, per i motivi indicati per Maurizio Abbatino, non ha avuto contatti con costui.

Vittorio Carnovale è stato il primo a parlare dell’omicidio di Carmine Pecorelli nell’agosto 1993 in regime di detenzione. In quel periodo è stato detenuto insieme ad Antonio Mancini fino al 2 giugno del 1993 quando è stato trasferito al carcere di Civitavecchia. Dopo tale data mentre Vittorio Carnovale dal settembre 1993 ha proseguito la detenzione in regime extra carcerario, Antonio Mancini è stato detenuto fino al 12/8/1993 quando è stato scarcerato ed è ritornato alla casa di lavoro di Saliceto da cui è uscito in permesso solo per il periodo 2/10/93-14/1/1994 allorché è stato nuovamente arrestato per detenzione di sostanze stupefacenti. Da tale data Antonio Mancini è sempre stato detenuto fino al 29.7.1994 quando è stato trasferito, in regime extra carcerario, in località protetta insieme a Fabiola Moretti.

Come si vede occasioni per concordare la stessa versione possono essersi verificate solo nel breve periodo i cui Antonio Mancini era in permesso dalla casa di lavoro, ma la circostanza, anche se ventilata da talune delle difese, non ha il minimo riscontro e deve essere confinata nel campo delle mere ipotesi di lavoro, improduttive di effetti processuali.

Quanto ai rapporti tra Vittorio Carnovale e Fabiola Moretti, il primo ha dichiarato di non avere conosciuto la seconda onde non può affermarsi in nessun modo che le loro dichiarazioni siano frutto di collusione. E’ ben vero che da una intercettazione telefonica a carico di Fabiola Moretti emerge che questa era in possesso dei verbali di Vittorio Carnovale, ma da ciò non può ricavarsi la convinzione che i due abbiano concordato le circostanze da riferire anche perché essi, in ordine all’omicidio di Carmine Pecorelli, raccontano fatti e circostanze diversi.

Ad analoga conclusione deve arrivarsi in ordine ai dichiaranti Fabiola Moretti e Antonio Mancini.

Come si è detto, i due avevano iniziato il loro rapporto di convivenza prima ancora che iniziasse la loro collaborazione.

Sicuramente, per ammissione dello stesso Antonio Mancini, i due hanno parlato prima dell’inizio della collaborazione, dell’omicidio di Carmine Pecorelli, ma anche per loro deve escludersi un previo accordo sul contenuto delle rispettive dichiarazioni.

Gli elementi che inducono la Corte ad un tale giudizio sono:

Quanto affermato in ordine all’autonomia delle dichiarazioni rese da Antonio Mancini e Fabiola Moretti comporta la convinzione della Corte che Fabiola Moretti non fosse a conoscenza della esistenza di intercettazioni a suo carico (ma di ciò si dirà in seguito).

E’ ben vero che dalle intercettazioni ambientali emerge che durante la detenzione di Antonio Mancini nel carcere dell’Aquila questi ha mantenuto i contatti con la convivente, sia telefonicamente che attraverso Natascia Mancini e Pasquina Tomassini, ma dal complessivo tenore delle conversazioni (telefoniche e ambientali registrate) emerge che oggetto delle notizie da riferire ad Antonio Mancini, o ricevere da questi, riguardavano essenzialmente il ritrovamento dell’eroina, la convinzione che il personale della DIA con cui Fabiola Moretti aveva i contatti era stato mandato dal convivente perché collaborasse ( altro indizio che esclude il previo accordo perché Fabiola Moretti non aveva alcuna intenzione di collaborare e voleva far conoscere la sua decisione al convivente), la visita ricevuta da Fabiola Moretti di "Angelo dei servizi", la comunicazione che durante l’interrogatorio da lei avuto il 26.4.1994 a Perugia era stato prospettato un suo coinvolgimento nell’omicidio di Massimo Barbieri (la circostanza esclude che i due si siano parlati in quella occasione e trova conferma l’affermazione fatta a dibattimento da Fabiola Moretti di avere solo intravisto quel giorno il convivente senza avere con lui un colloquio), la collaborazione di Antonio Mancini fortemente sospettata da Fabiola Moretti anche se non ne aveva la certezza.

Quanto detto esclude che Fabiola Moretti possa avere avuto altri colloqui non registrati sia perché una tale circostanza non emerge dai registri di ingresso del carcere dell’Aquila, sia perché dalle intercettazioni ambientali e telefoniche fatte nell’abitazione di Fabiola Moretti vi è una presenza continua e giornaliera incompatibile con un suo viaggio all’Aquila anche in considerazione delle precarie condizioni di salute in cui si svolgeva la sua gravidanza.

Colloquio presso il carcere dell’Aquila in cui Antonio Mancini compie opera di persuasione per convincere Fabiola Moretti sulla via della collaborazione e dove il primo cerca di avere conferma di notizie, ivi comprese alcune rilevanti per il processo, sui suoi rapporti con Danilo Abbruciati; comportamento tenuto da Antonio Mancini incompatibile con il previo accordo con l’allora sua convivente.

Si è già accennato al comportamento reticente tenuto da Fabiola Moretti al dibattimento.

Si è già detto dei motivi che, a parere della Corte, hanno spinto Fabiola Moretti a tenere un simile comportamento.

La redenzione, agli occhi del mondo criminale di cui Fabiola Moretti fa parte, necessariamente doveva passare attraverso la delegittimazione, sul piano processuale, di Antonio Mancini.

Di qui l’acredine nei confronti del suo ex convivente (la convivenza, di fatto, è cessata non appena Antonio Mancini è tornato dallo stato di detenzione al regime extra carcerario) accusato di tutti i suoi guai.

Rancore e acredine non sono giunti, però, a tale punto da accusare Antonio Mancini di averle inculcato le notizie poi raccontate durante la sua collaborazione.

Unici elementi comuni riferiti dai due imputati in procedimento collegato sono il ruolo di Massimo Carminati nell’esecuzione dell’omicidio (sul punto si dirà in seguito quando si tratterà della posizione di costui) e la circostanza relativa all’arma del delitto e quella di un ruolo di Danilo Abbruciati nell’omicidio senza peraltro saperlo ben specificare.

Su di esse, però, le circostanze in cui la notizia del coinvolgimento di Danilo Abbruciati è stata appresa sono diverse come parzialmente diversa è la loro descrizione dell’arma e tali fatti escludono che i due abbiano concordato di riferire gli stessi fatti. In tal caso essi non sarebbero caduti in quelle contraddizioni che sono state poste in evidenza dalle difese per escludere che l’arma vista dai due fosse quella che ha ucciso Carmine Pecorelli.

Alla luce delle considerazioni fatte deve escludersi che i collaboratori di giustizia abbiano concordato una comune versione dei fatti e ciò è una ulteriore conferma, a parere della Corte dell’inesistenza di un complotto di cui i due dichiaranti sarebbero parte rilevantissima.

Diverso è il risultato a cui si perviene in ordine alla conoscenza del contenuto delle dichiarazioni.

Sul punto, mentre va detto che manca ogni elemento da cui desumere, al di là delle mere ipotesi di lavoro improduttive sul piano processuale, a cui prima si accennava, che le dichiarazioni di Maurizio Abbatino fossero conosciute dagli altri imputati in procedimento collegato o che questi conoscesse le dichiarazioni rese da questi ultimi, risulta dallo stesso verbale in data 24/01/1994 che ad Antonio Mancini sono state lette le dichiarazioni rese da Vittorio Carnovale in merito all’omicidio di Carmine Pecorelli così come risulta dallo stesso verbale in data 7/5/1994 alle ore 22.00 che Fabiola Moretti ha avuto lettura delle dichiarazioni rese da Antonio Mancini in ordine ai fatti che erano stati oggetto del colloquio 6/5/1994 sui quali Fabila Moretti, nel precedente verbale reso alle ore 16.15 dello stesso giorno, aveva rifiutato di rispondere se prima non avesse conosciuto il contenuto delle dichiarazioni di Antonio Mancini (interrogatorio del 7/5/94).

Dalle intercettazioni ambientali a casa Moretti in data 27.4.1994 emerge che questa riferisce all’avv. Franco Merlino, che era andato a trovarla agli arresti domiciliari, di essere in possesso dei verbali resi da Vittorio Carnovale.

E’ chiaro che in tal caso le dichiarazioni comuni rese dai due imputati in procedimento collegato non possono essere di riscontro uno dell’altro a meno che non risulti che le fonti di conoscenza siano state autonome o che il secondo sia a conoscenza di elementi più significativi e particolari che indicano una autonoma conoscenza del fatto narrato.

Con le precisazioni sopra riportate va ora affrontato l’argomento della conoscibilità delle notizie e dei riscontri che, come detto, saranno limitati a pochi argomenti, nella moltitudine di circostanze riferite dai coimputati in procedimenti collegati, che hanno specifica rilevanza in questo processo.

5c). CONOSCIBILITA’ DELLE NOTIZIE RIFERITE E RISCONTRI

Al fine di verificare se le notizie riferite da Antonio Mancini potevano essere da lui conosciute, occorre analizzare i rapporti tra Antonio Mancini, Danilo Abbruciati ed Enrico De Pedis per verificare se essi erano tali da giustificare le confidenze fatte al primo. A tal fine saranno esaminati gli episodi relativi a:

L’episodio risulta provato.

Tale episodio è raccontato da Antonio Mancini e Maurizio Abbatino mentre è ignorato da Fabiola Moretti (Carnovale nulla dice al riguardo). L’episodio, controllato, quanto al tempo del suo accadimento da Soldano, sulla base delle dichiarazioni di Antonio Mancini è collocabile al 22/9/1979, data della uccisione di tale Di Chio e ad essa potevano avere partecipato le persone indicate da Antonio Mancini perché tutte in libertà o permesso.

L’incontro, a giudizio della Corte, trova un riscontro incrociato nelle dichiarazioni di Maurizio Abbatino il quale, anche se sollecitato da Antonio mancini nel confronto con lui avuto, ha ricordato l’episodio. Né il riscontro viene meno per il fatto che dell’incontro Antonio Mancini ha dato versioni contrastanti perché le divergenze non attengono alla sostanza del fatto riferito dai due, né alle motivazioni dell’incontro (allargamento della influenza della banda nel territorio dei fratelli Pellegrinetti per lo spaccio della droga che era l’attività più fiorente della banda), né alla presenza di Danilo Abbruciati e alla presentazione che costui aveva fatto di un tale Enzo, definito "guardia" ma alla successione degli eventi in quella particolare giornata e alla possibilità che in quella occasione si sia parlato, e da parte di chi, di un attentato al giudice Imposimato che in quel periodo dava fastidio alla banda.

L’incontro è provato.

L’incontro, raccontato da Antonio Mancini, emerge dalle dichiarazioni di Giancarlo Paoletti il quale lo ha saputo da Mario Fabbri, e dalle dichiarazioni dello stesso Fabbri il quale ha ammesso di avere avuto due contatti con persone appartenenti alla banda della Magliana; di questi il secondo era avvenuto presso il laghetto dell'EUR con Danilo Abbruciati che, in quella occasione, era in compagnia di una persona che a giudizio della corte va individuata in Antonio Mancini il quale è stato l’unico a parlare di quell’incontro.

Tale intervento, secondo le dichiarazioni di Antonio Mancini si è concretizzato nella dissuasione dei suoi compagni, in particolare di Edoardo Toscano, dall’uccidere Danilo Abbruciati su richiesta di Nicolino Selis e nel dissuadere i detenuti di Rebibbia dal tentare di uccidere Danilo Abbruciati quando era in atto il conflitto che questi aveva con tale Bebo Belardinelli.

Il primo episodio sarebbe avvenuto durante una riunione tenutasi nel settembre 1979 nella casa di Vittorio Carnovale in Acilia a cui avevano partecipato Antonio Mancini, Edoardo Toscano, Maurizio Abbatino, Marcello Colafigli e, come padrone di casa, Vittorio Carnovale.

Esso è comprovato dalle dichiarazioni di due dei protagonisti di quella riunione e cioè Vittorio Carnovale e Maurizio Abbatino. E’ ben vero che questi ultimi parlano di più riunioni tenutesi ad Acilia nella casa di Vittorio Carnovale e che era loro intenzione uccidere, specie dopo la morte di Domenico Balducci (avvenuta nel novembre 1981) quando Mancini era detenuto, tutti i "testaccini", ma è altrettanto vero che Vittorio Carnovale ricorda bene della richiesta di Nicolino Selis di uccidere Danilo Abbruciati (Selis è stato ucciso il 6/2/1981 prima di Domenico Balducci); di tale progetto ne ha ricordo, anche se a contestazione dopo la lettura delle sue dichiarazioni nel confronto avuto con Antonio Mancini, anche Maurizio Abbatino.

A parere della Corte la riunione a cui ha fatto riferimento Antonio Mancini è una delle tante che il gruppo della banda della Magliana facente capo a Edoardo Toscano e Nicolino Selis ha tenuto per prendere la supremazia sull’intera banda e per sedare definitivamente il conflitto latente che li vedeva contrapposti al gruppo dei "Testaccini" (l’esistenza di tale conflitto latente, sfociato poi nella uccisione di Edoardo Toscano da parte del gruppo dei testaccini e nella vendetta del gruppo di Toscano con la uccisione di Enrico De Pedis è pacifica in atti) e l’opera di dissuasione è stata posta in essere da Antonio Mancini per la sua posizione più vicina al gruppo dei "testaccini" come riferito sempre da Vittorio Carnovale e Maurizio Abbatino che, sul punto confermano ancora le dichiarazioni di Antonio Mancini.

Il secondo episodio non ha trovato conferma anche se appare plausibile alla luce delle dichiarazioni rese da Paolo Bianchi il quale dà atto della esistenza di un aspro conflitto tra Danilo Abbruciati e Bebo Belardinelli tanto che, durante una sommossa di detenuti nel carcere di Rebibbia, Danilo Abbruciati ed un altro detenuto avevano chiesto di essere trasferiti in isolamento perché temevano che la sommossa fosse un pretesto per gli uomini di Belardinelli di ucciderli. La circostanza riferita da Paolo Bianchi dà anche contezza dell’affermazione di Antonio Mancini, a cui una delle difese contestava che Danilo Abbruciati era un capo e non aveva necessità di protezione in carcere, il quale ha affermato che, indipendentemente dalla importanza, se nel carcere è stato deciso la morte di qualcuno, essa avviene indipendentemente dal ruolo che la vittima ha all’esterno del carcere.

La circostanza è provata dalla sentenza definitiva emessa dalla corte di assise di Roma per il processo alla banda della Magliana.

Quello che qui interessa è l’attività dei componenti della banda della Magliana nei confronti di tale Ottaviani, mai identificato dalle forze dell’ordine, malgrado le indicazioni fornite dai coimputati in procedimento connesso o collegato, e indicato come il mandante della uccisione di Franco Giuseppucci e come causa della guerra mossa da tutti i gruppi facenti parte della banda della Magliana nei confronti del gruppo avverso facenti capo al clan dei Proietti.

Sul punto le dichiarazioni di Antonio Mancini, su un particolare di scarsa importanza nell’economia della vita della banda, sono confermate da Maurizio Abbatino.

Antonio Mancini dichiara di avere partecipato ad un appostamento con Enrico De Pedis per scoprire un luogo frequentato dal citato Ottaviani per procedere alla sua eliminazione; Maurizio Abbatino ha confermato che era stata decisa l’uccisione di Ottaviani ed era stato incaricato Enrico De Pedis, che aveva maggiori informazioni su Ottaviani; si sapeva infatti che questi aveva un ufficio dalle parti di piazza Cavour ed erano stati fatti parecchi appostamenti a cui avevano partecipato Enrico De Pedis e Antonio Mancini.

L’episodio è provato, anche se vi sono alcune incertezza sui singoli ruoli giustificabili per il lungo tempo trascorso dalle dichiarazioni di Carnovale Vittorio e Maurizio Abbatino.

L’episodio è provato.

Non è un caso, infatti, che Fabiola Moretti, come si evince dalla sua testimonianza, è diventata la "convivente" (che nel mondo della malavita viene intesa anche e soprattutto come la donna che può avere i colloqui con i detenuti per mantenere i contatti con il gruppo in libertà) di Antonio Mancini, quando questi era detenuto da alcuni anni, su iniziativa di Enrico De Pedis ed Edoardo Pernasetti; non è un caso che ad Antonio Mancini si rivolgono i parenti di Maurizio Abbatino per cercare di risolvere la posizione di questo ultimo accusato dal gruppo dei testaccini di essersi appropriato di somme di denaro del sodalizio criminoso e per ciò si erano recati a L’aquila dove si stava celebrando il processo a carico di Antonio Mancini per l’omicidio di Sisto Nardilocchi; non è ancora un caso che Fabiola Moretti, nel suo esame, quando oramai i suoi rapporti con Antonio Mancini erano irrimediabilmente rotti, l’unica cosa che rimprovera a Enrico De Pedis è proprio il fatto di averla spinta ad avere rapporti con Antonio Mancini; non è, infine, un caso che fino al momento della sua collaborazione Fabiola Moretti, stabilmente legata ad Antonio Mancini da cui aspetta un figlio, percepisce aiuti economici da Edoardo Pernasetti.

Invero hanno trovato conferma in questo processo:

Sul punto Fabiola Moretti ha dichiarato, nella fase delle indagini preliminari, che Francesco Pazienza era il tramite tra Danilo Abbruciati e quelli dei servizi e che il primo si serviva di lei per fissare appuntamenti con tali persone mandandola ad incontrare Francesco Pazienza in un bar nei pressi di piazza dell’orologio.

Tali rapporti ed il ruolo di Francesco Pazienza delineato da Fabiola Moretti sono stati decisamente negati da quest’ultimo nel confronto disposto tra i due. Ma, in tale confronto, Fabiola Moretti, oltre a riconoscerlo come la persona da lei incontrata a piazza dell’orologio, ha affermato, a precisazione di quanto in precedenza dichiarato, che nell’estate dell’anno 1981 Danilo Abbruciati si era recato appositamente in Sardegna per incontrarlo e che al ritorno era molto arrabbiato.

Orbene, le affermazioni rese nella fase delle indagini preliminari sono state riscontrate da Giuseppe Martire il quale ha accertato, ma la circostanza non è negata da Francesco pazienza, che questi ha avuto a disposizione un appartamento nei pressi di piazza dell’orologio nel periodo indicato da Fabiola Moretti e che effettivamente in quel periodo egli aveva rapporti di collaborazione con il servizio segreto militare.

Ma, se ciò non bastasse a dare credito alle dichiarazioni di Fabiola Moretti, è emersa una conferma anche alla ulteriore affermazione resa da Fabiola Moretti durante il confronto avuto con Francesco Pazienza. Rosa Dongu, donna di servizio di Roberto Calvi presso la sua villa in Sardegna nell’anno 1981 ricorda che in quella estate a villa Monastero, residenza di Roberto Calvi che in quel periodo si serviva dei "buoni uffici di Francesco Pazienza", era venuta una persona, da lei successivamente individuata in Danilo Abbruciati nell’ambito di altra indagine portata avanti dal G.I. Imposimato sugli affari in Sardegna di Flavio Carbone, Domenico Balducci ed Ernesto Diotallevi (per la quale è intervenuta sentenza del tribunale di Roma già ricordata nel trattare i rapporti tra Danilo Abbruciati e Giuseppe Calò), che si era trattenuto a lungo a colloquio con Roberto Calvi e Francesco Pazienza.

Sul punto le dichiarazioni di Fabiola Moretti trovano conferma nel contenuto delle intercettazioni ambientali eseguite nella abitazione di Fabiola Moretti e nel carcere dell’Aquila oltre che nella deposizione del colonnello Di Petrillo il quale riferisce di avere avuto immediatamente notizia dell’incontro tra Fabiola Moretti e Angelo sotto lo studio del ginecologo, ma che l’immediato intervento dei suoi uomini non aveva portato ad alcun esito positivo.

Visite che avevano generato paura in Fabiola Moretti, soprattutto quando lo aveva rincontrato allo studio del ginecologo ove la stessa si era recata per una visita dovuta al suo stato di difficile gestazione.

"Angelo" ben conosciuto da Fabiola Moretti per essere una delle tre persone dei servizi che, di solito, incontravano Danilo Abbruciati a Roma e a Milano.

Un’ultima notazione su questo argomento occorre fare.

Dal rapporto tra Danilo Abbruciati e uomini delle istituzioni sono derivati vantaggi al gruppo a lui facente capo.

Un dato emerge su tutti dall’analisi della posizione giuridica di Danilo Abbruciati ed Enrico De Pedis: fino al momento in cui le persone delle istituzioni con cui questi avevano rapporti erano ad un livello basso, essi hanno subito lunghi periodi di carcerazione preventiva. Dopo che il livello di importanza è aumentato i periodi di scarcerazione sono stati di breve durata ed essi sono stati rimessi ben presto in libertà. Questa ultima considerazione dà conferma delle ragioni addotte da Antonio mancini quando indica le finalità e l’importanza di tali rapporti e la ragione o il movente della banda della Magliana ad accettare la proposta di uccidere Carmine Pecorelli.

I viaggi sono provati.

Antonio Mancini ha dichiarato di avere appreso da Danilo Abbruciati, durante i due viaggi che con lui aveva fatto a Milano, particolari sull’omicidio Pecorelli.

Premesso che nel periodo che qui interessa Antonio Mancini è stato detenuto ininterrottamente ad eccezione di una breve licenza dalla casa di lavoro di Soriano del Cimino nel 1979 e dall’ottobre 1980, quando, ottenuto un breve permesso, non è più rientrato in detta casa di lavoro, al 16/3/81 data del suo arresto per l’omicidio di via di Donna Olimpia, ritiene la corte che le notizie che riferisce sui viaggi a Milano sono frutto di conoscenza diretta perché non vi è alcun elemento per affermare che esse gli siano state riferite da altri e soprattutto perché egli è l’unico che riferisce dei viaggi, il loro scopo e il contenuto dei colloqui avuti con Danilo Abbruciati.

Tanto premesso, Antonio Mancini racconta che il primo viaggio:

Ritiene la corte che questo viaggio sia realmente avvenuto. Depone in tal senso la deposizione di Elena Timperi, sorella uterina di Addis Romualdo facente parte della banda della Magliana, la quale ha riferito di avere incontrato Antonio mancini a Milano, dove era in compagnia di Marcello Colafigli, pochi giorni prima del suo compleanno che cade il quattro febbraio tanto da essere stata invitata a venire a Roma per festeggiarlo.

Del viaggio si ha una conferma anche dalla deposizione di Biagio Alesse che, anche se a contestazione –ma della sua volontà collaborativa si hanno grosse perplessità per il tempo in cui la deposizione avanti alla corte è avvenuta-, ha dichiarato di avere assistito, poco prima che Marcello Colafigli fosse arrestato insieme a Antonio Mancini il 16.3.1981, ad un colloquio tra lo stesso Marcello Colafigli e Maurizio Abbatino in cui si parlava del viaggio a Milano fatto da Marcello Colafigli per incontrare dei grossi personaggi della malavita milanese e delle perplessità che per tale viaggio aveva avuto Maurizio Abbatino temendo l’insorgere di complicazioni.

Gli accertamenti di polizia giudiziaria per riscontrare le dichiarazioni del coimputato in procedimento collegato sono, poi, stati positivi anche se solo parzialmente.

Invero è risultato positivamente riscontrato che:

Non è stato accertato, per mancanza di possibilità, per cui i risultati degli accertamenti sono neutri che:

Per contro sono risultati negativi i riscontri:

Alla luce delle considerazioni sopra dette, valutando complessivamente le risultane sul punto, ritiene la corte che il viaggio a Milano riferito da Antonio Mancini sia veramente avvenuto con le modalità da lui descritte, convergendo in tal senso quella pluralità significativa di elementi sopra meglio evidenziati.

Per il secondo viaggio a Milano, fatto a poca distanza dal primo, Antonio Mancini racconta che:

Gli accertamenti per verificare se effettivamente questo secondo viaggio è stato fatto sono, come per il primo, in parte positivi, in parte neutri e in parte negativi.

Sono stati riscontrati positivamente:

Né ad escludere che il Cavallo indicato da Antonio Mancini non sia il Luigi Cavallo individuato in questo processo è sufficiente la lettera da questi mandata alla Corte perché, a parte la irritualità di un tale inserimento nel fascicolo del dibattimento e la sua conseguente inutilizzabilità, la sua dichiarazione di estraneità è contraddetta da troppi elementi per essere creduta.

Quest’ultima ha ammesso di avere conosciuto Danilo Abbruciati anche se non sa indicare la data della loro conoscenza, ma il collegamento che essa fa con la iscrizione della figlia presso l’istituto Mary Mount di Roma e la produzione in giudizio del certificato di iscrizione della figlia a tale scuola permettono di affermare che nel febbraio 1981 il rapporto tra Danilo Abbruciati e Neide Toscano era già in atto.

E’ ben vero che Neide Toscano ha escluso di avere mai conosciuto Antonio Mancini e di avere mai viaggiato in aereo da Roma a Milano, ma tali affermazioni non sono credibili. La prima perché non troverebbe plausibile spiegazione la descrizione, molto corrispondente alla figura di Neide Toscano, che di lei ha fatto Antonio Mancini, l’indicazione della sua nazionalità e l’esistenza del rapporto affettivo che la legava a Danilo Abbruciati.

La seconda perché Neide Toscano ha ammesso di essere andata una volta a Milano insieme a Danilo Abbruciati perché doveva ritirare alcuni effetti personali presso una sua amica e la circostanza confermerebbe l’affermazione di Antonio Mancini secondo il quale all’aeroporto la donna era andata per suo conto.

Ma a sostegno del convincimento della corte vi è la generale scarsa attendibilità della teste che ha cercato in ogni modo di sfumare la realtà dei suoi rapporti con Danilo Abbruciati allo scopo evidente di non permettere la ricostruzione cronologica dei fatti e la sua partecipazione ad eventi che in qualche modo potessero coinvolgerla.

Basta al riguardo rileggere le sue dichiarazioni in merito alle modalità della conoscenza di Danilo Abbruciati a Roma, della sua conoscenza di Ernesto Diotallevi e delle sue frequentazioni in Sardegna, dei cattivi rapporti con la sorella (legata alla malavita organizzata) mentre risulta, anche per sua stessa ammissione, che è stata ospite della stessa sorella in Sardegna.

Né a sminuire l’importanza del riscontro vale affermare che presso qualsiasi tribunale vi sono dei bar perché del locale Antonio Mancini ne ha dato una descrizione prima di essere portato a Milano ad effettuare dei sopralluoghi e la sua ubicazione di fronte al palazzo dove vi è la sede dei Cavalieri del Santo Sepolcro non può essere casuale come non può essere ritenuto casuale che quel palazzo era frequentato da persone in contatto con lo stesso Danilo Abbruciati (si è già detto di Cavallo, si può fare riferimento a Umberto Ortolani individuato da Fabiola Moretti come una delle persone che Danilo Abbruciati incontrava a Milano e che aveva visto uscire dal palazzo in questione; Umberto Ortolani che aveva incontrato a Roma, nello stesso periodo del viaggio a Milano Danilo Abbruciati e Antonio Mancini).

In quel colloquio tre sono stati gli argomenti, o quanto meno tre sono gli argomenti di rilievo per il processo, trattati: l’interesse di Danilo Abbruciati per la sorte processuale di Francis Turatello, l’interessamento per la vicenda Moro da parte del gruppo di Francis Turatello, per la quale Francis Turatello aveva dovuto fare una marcia indietro che aveva comportato non pochi guai con parte della mafia, l’interessamento per l’omicidio Pecorelli.

Orbene sulla prima circostanza emerge una costante attività degli amici di Francis Turatello per alleggerirne la posizione processuale (vedi al riguardo l’attività posta in essere negli anni precedenti da Ugo Bossi attraverso vari canali) e tra gli amici di Francis Turatello vi è sicuramente anche Danilo Abbruciati; se così non fosse non si comprenderebbe perché questi si sia recato numerose volte a Milano ad assistere al processo che in quel momento Francis Turatello aveva in corso, per non parlare dei processi per i quali i due erano stati giudicati insieme a Roma e a Milano.

Sulla seconda circostanza è emerso, da quello che si è prima detto in merito ai moventi, che il gruppo di Francis Turatello è stato interessato per la "faccenda Moro" così come si è detto che tale tentativo è stato sconsigliato da esponenti mafiosi (vedi atteggiamento da parte di "Frank tre dita" Coppola nei confronti di Ugo Bossi e dei fratelli Varone) in contrasto con altri esponenti mafiosi come Stefano Bontade (vedi deposizione di Francesco Marino Mannoia); contrapposizione all’interno della mafia che sicuramente ha creato degli screzi in quella fazione contraria ad un intervento in favore di Aldo Moro dovuti al fatto che il consiglio non è stato ascoltato e Ugo Bossi ha proseguito nella sua azione; comportamento di Ugo Bossi che, per la sua posizione all’interno del gruppo di Francis Turatello e per le particolari regole che governano l’ambiente della malavita, è stato attribuito a decisione di Francis Turatello che del gruppo era il capo indiscusso.

All’epoca del colloquio non erano ancora emersi collegamenti tra l’omicidio di Carmine Pecorelli e la Banda della Magliana, ma essi diventano certi sulla base di quello che si è detto a proposito del deposito di armi presso il ministero della sanità e dell’attribuzione dei proiettili Gevelot a tale sodalizio criminoso ed in particolare al gruppo dei "testaccini" e alle persone a questo collegate.

Non è stato accertato, per mancanza di possibilità, per cui gli accertamenti sono neutri, che:

Ciò non significa che non esista una contessa o principessa Pallavicini anche perché tale nome non è ignoto a Flavio Carboni, persona in contatto con gli ambienti della banda della Magliana ( è stato giudicato insieme a Ernesto Diotallevi, Domenico Balducci, Giuseppe Calò, Danilo Abbruciati e altri per il reato di associazione a delinquere anche se tutti sono stati assolti), frequentatore dei salotti romani e destinatario delle carte inerenti il processo a carico di Francis Turatello il quale pur dichiarando di non avere conosciuto la principessa Pallavicini ne aveva sentito parlare.

Negativo è stato l’accertamento sulla individuazione del palazzo "stile Liberty". Del resto tale accertamento ben difficilmente avrebbe potuto risultare positivo sulla base delle labili indicazioni date sul punto da Antonio Mancini e in assenza di ulteriori elementi se non quelli presi in considerazione dagli inquirenti.

L’impossibilità di individuare l’immobile in questione rende impossibile a parere della corte individuare le tre persone che avevano avuto il colloquio con Danilo Abbruciati per chiedere loro conto di quanto riferito da Antonio Mancini.

Sulla base delle considerazioni sopra dette ritiene la corte che anche il secondo viaggio a Milano raccontato da Antonio Mancini è realmente avvenuto e che il contenuto del colloquio avuto da Danilo Abbruciati con tali persone ha interessato anche l’omicidio di Carmine Pecorelli.

Gli elementi analizzati, anche se brevemente e sinteticamente, indicano tutti che tra Antonio Mancini, Danilo Abbruciati ed Enrico De Pedis e in genere tra Antonio Mancini ed il gruppo dei testaccini vi erano rapporti di fiducia e amicizia tanto da vedere la presenza di Antonio Mancini in episodi importanti e per fatti delicati (come omicidi, rapporti con personaggi delle istituzioni, equilibri tra i vari gruppi dell’associazione a delinquere), della vita di Danilo Abbruciati e del gruppo dei testaccini da giustificare la conoscenza, per confidenze ricevute, dei fatti riferiti da Antonio Mancini.

 

CAPITOLO 11)

RAPPORTI TRA BANDA DELLA MAGLIANA E DESTRA EVERSIVA

Al fine di verificare l’ipotesi accusatoria è necessario verificare se tra la banda della Magliana e, in particolare il gruppo deiTestaccini e la destra eversiva Romana operante nella zona diviale Masrconi/EUR, ed in particolare Massimo carminati e il suo gruppo, vi erano rapporti.

La circostanza risulta provata e data quanto meno dall’estate del 1978.

Invero è stato acquisito agli atti da dichiarazioni di imputati in procedimento connesso o collegato, di testimoni e da accertamenti dei carabinieri che:

Come si vede i rapporti tra destra eversiva e banda della Magliana sono stati stretti e risalgono nel tempo.

In particolare quelli tra Massimo Carminati e il gruppo facente capo a Franco Giuseppucci e Danilo Abbruciati, secondo le dichiarazioni degli imputati in procedimento collegato o connesso, risalivano quanto meno all’estate del 1978.

Tale data è riferita da Maurizio Abbatino il quale se nelle indagini preliminari ha indicato l’inizio della conoscenza genericamente nell’anno 1978, a dibattimento ha ricordato di una visita fatta da Alessandro Alibrandi, dai fratelli Bracci e da Massimo Carminati prima dell’omicidio di Franco Nicolini, detto Franchino il criminale( ndr avvenuto il 26/7/1978), a Franco Giuseppucci in una villa del Circeo ove loro si erano recati per crearsi un alibi in vista della uccisione del Nicolini.

Tale data trova conferma nelle dichiarazioni di Paolo Aleandri il quale ricorda l’intervento di Massimo Carminati per la sua liberazione, intervento che va collocato nella primavera del 1979, e la indicazione alla banda della Magliana del citato Sparago come soggetto da sequestrare da parte di Massimo Carminati.

Ora se per quello che ha riferito Paolo Aleandri il progetto di sequestrare lo Sparago è anteriore alla consegna del borsone delle armi da parte di Franco Giuseppucci e Maurizio Abbatino, consegna avvenuta nel dicembre 1978, si ha la conferma che alla data indicata da Maurizio Abbatino i rapporti tra Massimo Carminati con esponenti della banda della Magliana ed in particolare con Franco Giuseppucci erano ben consolidati.

La circostanza trova una ulteriore conferma nelle dichiarazioni di Antonio Mancini e Fabiola Moretti, i quali sono concordi nell’affermare che nel settembre 1979 Carminati era già inserito a pieno titolo nella organizzazione, e di Valerio Fioravanti che parla di stretti rapporti tra Alessandro Alibrandi e Massimo Carminati con la delinquenza comune a cui essi si erano avvicinati per il fascino del denaro abbandonando la pura lotta politica; in particolare Valerio Fioravanti ricorda che i rapporti tra Alessandro Alibrandi e Franco Giuseppucci erano stati causa del loro allontanamento e che più volte aveva cercato di dissuadere Alessandro Alibrandi dal continuare in tali rapporti datando tali fatti quanto meno alla primavera dell’anno 1980 o meglio al tempo del suo arresto a ponte Chiasso avvenuto nel giugno 1979.

Del resto, se tali rapporti non fossero stati stretti e derivanti da antica e solida frequentazione non troverebbe spiegazione la circostanza, riferita da Valerio Fioravanti a conferma delle dichiarazioni di Antonio Mancini, della messa a disposizione da parte di esponenti della banda della Magliana, nell’anno 1981, di un appartamento ove appartenenti ai NAR ricercati dalle forze di polizia avevano trovato ospitalità e rifugio.

 

CAPITOLO 12)

RAPPORTI TRA LA BANDA DELLA MAGLIANA E COSA NOSTRA

Per la verifica della ipotesi accusatoria occorre ora verificare se esistevano rapprti tra la bandabanda della Magliana e Cosa Nostra siciliana ed in particolare tra Abbruciati ed il suo gruppo con Stefano Bontade e Giuseppe Calò.

La circostanza è provata sulla base di molteplici e concordanti dichiarazioni sia di testimoni che di indagati in procedimento collegato o connesso e trova riscontro in accertamenti giudiziari divenuti definitivi.

Il complesso degli elementi probatori emergenti dalle fonti di prova sopra indicate è tale che permette di affermare senza ombra di dubbio che tra le organizzazioni criminali denominate Cosa Nostra e banda della Magliana sono incorsi rapporti stretti che si sono snodati nel tempo e che hanno visto protagonisti da un lato Angelo Cosentino, capo della "Decina Romana" facente parte della famiglia di Stefano Bontade, e Giuseppe Calò dopo il suo arrivo a Roma, nell’anno 1975, dove si era rifugiato durante la sua latitanza ed esponenti della malavita romana indicata genericamente come appartenenti alla banda della Magliana.

Tra questi vanno sicuramente individuati Domenico Balducci, Ernesto Diotallevi, Guido Cercola, la cui conoscenza è stata riconosciuta dallo stesso Calò, ma anche Franco Giuseppucci elemento di spicco del sodalizio criminoso romano tanto che la sua morte aveva scatenato la vendetta dell’intera organizzazione contro il clan Dei Proietti (sul punto vedi sentenza della corte di assise di Roma agli appartenenti alla banda della Magliana) e Danilo Abbruciati.

E’ in tal senso che devono intendersi:

Tutto quanto appena detto, essendo pacifico che Domenico Balducci e Ernesto Diotallevi erano vicini alla banda della Magliana di cui investivano i proventi illeciti ed erano molto legati a Danilo Abbruciati (Ernesto Diotallevi nei primi anni settanta è stato addirittura arrestato insieme a Danilo Abbruciati perché coimputati per rapina) dà conferma delle affermazioni di Antonio Mancini e di Fabiola Moretti degli stretti rapporti che legavano i testaccini a Giuseppe Calò tanto da essere chiamati dagli appartenenti agli altri gruppi della banda della Magliana "i Mafiosi".

 

CAPITOLO 13)

I RAPPORTI TRA ENRICO DE PEDIS E CLAUDIO VITALONE

Sempre per verificare la tesi accusatoria, occorre ora verificare se tra la banda della Magliana, in particolare con Enrico De Pedis e Claudio Vitalone vi sonostati rapporti.

Essi, a giudizio della corte, risultano provati.

Si è già detto della assenza di collusione nelle dichiarazioni dei due imputati in procedimento collegato Antonio Mancini e Fabiola Moretti.

Si è già detto dei limiti che tali dichiarazioni incontrano per i loro riscontri. Limiti che per quello che qui interessa non sussistono non avendo riferito Antonio Mancini dei rapporti tra Claudio Vitalone e Danilo Abbruciati e /o Enrico De Pedis o altri membri della banda della Magliana, ma solo che i favori relativi ai suoi trasferimenti carcerari avevano come interlocutore Claudio Vitalone che era in debito di favore nei confronti del gruppo dei testaccini.

Preliminare, quindi, è verificare se effettivamente tali rapporti vi sono stati per potere riscontrare se "i favori" indicati da Antonio Mancini hanno origine da tali rapporti.

Elementi, in tal senso, derivano dalle dichiarazioni di Fabiola Moretti che ha parlato di incontri tra Claudio Vitalone e Enrico De Pedis nel periodo in cui il secondo era latitante per il mandato di cattura emesso nei suoi confronti a seguito delle rivelazioni di tale Fulvio Lucioli che, per primo, aveva rilasciato dichiarazioni in ordine alla esistenza di una associazione a delinquere poi chiamata giornalisticamente Banda della Magliana.

Fabiola Moretti, in ordine a tali rapporti, ha dichiarato a dibattimento che, oggi come oggi, non è più sicura della circostanza per cui non voleva rispondere alle domande per non danneggiare nessuno con cose non precise e al difensore di Claudio Vitalone ha risposto di non sapere se lo aveva conosciuto; essa, poi, non ha ricordato di avere sostenuto un confronto con Claudio Vitalone e in aula non lo ha individuato.

Si è già Detto del valore dei "Non ricordo" di Fabiola Moretti per cui occorre analizzare e verificare le dichiarazioni che la stessa ha reso durante la fase delle indagini preliminari e durante il confronto avuto con Claudio Vitalone.

Al riguardo sono state contestate le dichiarazioni rese sul punto nelle indagini preliminari da cui risulta:

In particolare Fabiola Moretti riferisce.

E’ stato obbiettato che nessun riscontro è stato trovato della esistenza di tali incontri e che anzi si ha la prova che almeno uno di tali incontri non può essere avvenuto perché all’epoca in cui l’incontro è stato collocato il ristorante "La Lampara" era chiuso definitivamente perché distrutto da un incendio nell’agosto 1981.

Tale obiezione se rende non credibile l’affermazione di un incontro tra Enrico De Pedis e Claudio Vitalone presso il ristorante "La Lampara" non esclude che vi siano stati gli altri incontri raccontati da Fabiola Moretti.

Le affermazioni di Fabiola Moretti, sul punto, sono provate, a giudizio della corte, perché vi è agli atti la prova, formatasi anteriore alle stesse dichiarazioni, che pur provenendo dalla stessa persona, assume autonoma rilevanza ed è costituita dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali disposte nella abitazione di Fabiola Moretti e nel carcere dell’Aquila in data 6/5/1994 per ascoltare il colloquio tra Fabiola Moretti e Antonio Mancini contenendo, esse, affermazioni su incontri tra Enrico De Pedis e Claudio Vitalone per i quali Fabiola Moretti ha fatto da "ufficiale di collegamento".

Dichiarazioni rese prima che Fabiola Moretti iniziasse la sua collaborazione, in un contesto in cui l’interesse della donna era rivolto essenzialmente a tutt’altro oggetto, cioè al rinvenimento della droga nascosta dal convivente nel terreno retrostante la loro abitazione, e a persone diverse nei cui confronti non aveva alcun motivo di dire il falso.

Invero, per la prima volta Fabiola Moretti inizia a parlare di Claudio Vitalone durante le intercettazioni ambientali disposte nella sua abitazione da cui emerge che:

a) Fabiola Moretti, parlando con tale Armando, afferma che il P.M. di Perugia non aveva interesse ai traffici di droga interessandosi solo del delitto Pecorelli e che pur sapendo alcune cose cercava la conferma dei mandanti; Fabiola Moretti soggiunge, però, che le cose che sa Lei, quelle che sa Antonio Mancini e quelle che sa Raffaele Pernasetti non portavano a dimostrare la responsabilità di Giulio Andreotti; aggiunge ancora che con la indicazione dei nomi (N.d.R. da lei conosciuti) Cardella –PM di Perugia- sperava di arrivare, di nome in nome, a Giulio Andreotti.

b) Fabiola Moretti nel commentare con la madre gli eventi, che sono di attualità per lei, afferma che le cose che lei sa, come quelle che sa Raffaele Pernasetti, non permettono di arrivare alla individuazioni di responsabilità di Giulio Andreotti da lei non conosciuto; per individuare tali responsabilità il P.M. può arrivarci solo attraverso Claudio Vitalone e fa riferimento alla guardia di Claudio Vitalone che ne è il factotum.

c) L’argomento relativo ai rapporti tra Claudio Vitalone e Enrico De Pedis viene nuovamente ripreso da Fabiola Moretti nel colloquio avuto con Antonio Mancini nel carcere di L’Aquila.

In esso, come si evince dalla trascrizione del colloquio intercettato, nella versione più completa depositata dalla difesa di Claudio Vitalone, Moretti afferma di avere avuto incontri con Claudio Vitalone indicando, anche se succintamente le stesse modalità riferite nei successivi interrogatori; unico particolare è il riferimento ad un accompagnamento di Claudio Vitalone da tale "Patrizia".

E’ stato affermato dalla difesa di Claudio Vitalone che Fabiola Moretti e Antonio Mancini, quanto meno il solo Antonio Mancini, erano a conoscenza della esistenza delle intercettazioni a loro carico e in ogni caso le circostanze riferite da Fabiola Moretti sono state suggerite da Antonio Mancini.

La tesi sopra prospettata, non è condivisa.

Al riguardo, la corte, sciogliendo il rinvio in precedenza fatto, osserva, sulla conoscenza delle intercettazioni, telefoniche e ambientali, disposte a carico di Fabiola Moretti e Antonio Mancini che deve farsi una netta distinzione tra intercettazioni telefoniche ed intercettazioni ambientali e soprattutto tra intercettazioni ambientali a casa di Fabiola Moretti e quelle al carcere dell’Aquila.

Invero, se dal tenore delle intercettazioni telefoniche a casa di Moretti emerge come la stessa si fosse accorta, o quanto meno sospettasse fortemente, che i telefoni fossero controllati (dalla magistratura o dai servizi segreti avendo ricevuto sia la visita di "Angelo" sia l’avviso di possibili attentati nei confronti di personale della DIA, identificato nel maggiore Magarini), sicuramente la stessa non era a conoscenza delle intercettazioni ambientali disposte nella sua abitazione e nel carcere dell’Aquila il giorno 6/5/1994.

L’affermazione trova il suo fondamento nella diversità del tenore delle conversazioni telefoniche e di quelle ambientali.

Nelle prime il linguaggio è cauto, attento al contenuto delle conversazioni per non farsi sfuggire frasi compromettenti, si parla per allusioni, si affrontano con circospezione argomenti delicati, nelle seconde vi è un linguaggio aperto, franco, a volte sguaiato, si parla liberamente e con più persone di argomenti, anche delicati e intimi, della propria vita privata, si affrontano con disinvoltura argomenti pericolosi da cui possono discendere conseguenze penali anche pesanti per la stessa Fabiola Moretti e per le persone a lei vicine.

Quello che preme mettere in rilievo è che la maggior parte delle conversazioni esulano dall’interesse di questo processo e concernono il traffico illecito di sostanze stupefacenti, attività principale di Fabiola Moretti, e i suoi rapporti con i familiari di Antonio Mancini e con il suo entourage delinquenziale in relazione al "pentimento" di quest’ultimo. Pentimento, che, sospettato fortemente, andrebbe ad incidere nei suoi rapporti con il mondo della malavita organizzata romana a cui ben presto farà ritorno.

Ora, se argomento principale delle conversazioni è il traffico di sostanze stupefacenti e il contenuto delle intercettazioni ambientali può costituire, come in effetti ha costituito, prova della sua responsabilità penale, ritiene la corte che questo sia un elemento forte per escludere la consapevolezza in Fabiola Moretti di essere sottoposta ad intercettazione ambientale.

A tale argomento devono aggiungersi tre considerazioni:

la prima attiene alla affermazione, sia di Antonio Mancini che di Fabiola Moretti, emergente, peraltro, anche dal tenore del colloquio nel carcere dell’Aquila, che in quel periodo Fabiola Moretti ha avuto colloqui investigativi con personale della DIA e ha sentito la necessità di registrare tali colloqui;

la seconda è il contenuto del colloquio avuto da Fabiola Moretti con il proprio difensore avv. Franco Merlino all’indomani del suo interrogatorio avvenuto a Perugia il 26/4/1994 in cui riferisce circostanze negative sull’operato degli organi inquirenti;

la terza è l’epiteto, sicuramente non gentile, rivolto da Fabiola Moretti nei confronti del pubblico Ministero che sta indagando sull’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli.

Tali circostanze appaiono in contrasto con la consapevolezza di Fabiola Moretti sia di essere sottoposta a intercettazione ambientale, sia di un previo accordo con gli organi inquirenti sul contenuto delle sue dichiarazioni.

Non si registrano le conversazioni se si sa che esse sono intercettate, non si parla male degli inquirenti, non si fanno apprezzamenti offensivi sulle persone che li rappresentano in quel momento e possono, come tali, influire negativamente sulla propria vita sapendo che le conversazioni sono intercettate.

Ad analoghe considerazioni, e con gli stessi argomenti, deve giungersi ad escludere che Antonio Mancini conoscesse l’esistenza delle intercettazioni ambientali.

L’argomento dirimente, a giudizio della corte, è proprio il contenuto della conversazione, avuta con la convivente, in ordine al luogo, noto solo ad Antonio Mancini, in cui questi aveva sepolto due chilogrammi di eroina.

L’argomento era importante sia perché il venditore (il Basso e l’arabo nominati in tale colloquio e nelle intercettazioni ambientali nell’abitazione di Fabiola Moretti) reclamava la merce o il suo pagamento sia perché Fabiola Moretti riteneva che dalla vendita dell’eroina avrebbe posto un rimedio alla sua momentanea carenza di denaro (non a caso nel prosieguo del colloquio Fabiola Moretti e Antonio Mancini fanno riferimento alla somma di £ 5.000.0000 ricevuta da Raffaele (Pernasetti) con cui Fabiola Moretti era in contatto.

Il ritrovamento dell’eroina era tanto importante che Fabiola Moretti lo affronta come primo argomento di conversazione e su di esso ritornerà nel corso del lungo colloquio durato due ore (per completezza la documentazione acquisita dal carcere dell’Aquila esclude che vi siano stati altri colloqui, di cui peraltro da alcune difese era stata adombrata l’esistenza, sulla base di una documentazione generica inviata dalla direzione di quel carcere, non autorizzati e non registrati).

Ora, non appare credibile che Antonio Mancini, il quale nel momento in cui il colloquio viene intercettato ha già reso il nucleo delle sue dichiarazioni accusatorie ed è in attesa di essere sottoposto al regime di protezione previsto per i collaboratori di giustizia, parli liberamente della droga da lui nascosta sapendo di essere ascoltato dagli inquirenti rischiando non solo una pesante condanna per traffico di stupefacenti ma anche di perdere la sua credibilità e di vedere andare in fumo la prospettiva di un futuro migliore che è stato il motivo, in definitiva, che lo ha spinto alla collaborazione. Ciò a maggior ragione perché nella vicenda sarebbero rimasti coinvolti la sua convivente, da cui stava aspettando un figlio, e la figlia Natascia nata dal suo precedente matrimonio; persone a cui egli teneva, in quel momento, moltissimo.

Gli argomenti appena detti, confermano, a giudizio della corte, le decise smentite date dai due interessati circa la conoscenza o la consapevolezza della esistenza delle intercettazioni ambientali disposte nei loro confronti; di ciò si ha ulteriore conferma in un brano di conversazione telefonica intercorsa tra Fabiola Moretti e Antonio Mancini, dopo che i due erano venuti a sapere della esistenza della intercettazione, in cui Fabiola Moretti si lamenta del comportamento degli inquirenti che avevano intercettato le loro conversazioni e alle spiegazioni di Antonio Mancini circa la necessità degli inquirenti di sapere se loro due concordavano le dichiarazioni da fare Fabiola Moretti risponde che lei quelle cose non le fa; smentita a maggior ragione credibile per Fabiola Moretti in forza dei suoi attuali cattivi rapporti con l’ex convivente Antonio Mancini.

Deve altresì escludersi che le affermazioni fatte da Fabiola Moretti in ordine ai rapporti tra Enrico De Pedis e Claudio Vitalone siano state suggerite da Antonio Mancini.

Invero, se si segue l’andamento del colloquio si osserva che il riferimento a Claudio Vitalone compare per la prima volta (pagina 15 della trascrizione della intercettazione eseguita dal GIP presso il tribunale di Roma prodotta dalla difesa di Claudio Vitalone) su spontanea iniziativa di Fabiola Moretti, in riferimento all’interrogatorio fatto a Perugia il 26/4/1994 e ai timori che la stessa aveva di essere incriminata per reticenza o concorso nel reato di omicidio in danno di Massimo Barbieri, della esternazione di tali timori all’avvocato Ruggero e all’avvocato Merlino, dell’intenzione di farsi assistere dall’avv. Coppi o dall’avv. Taormina ritenuti difensori battaglieri. E’ in questo contesto che Fabiola Moretti, esprimendo evidentemente una sua deduzione, ritiene che l’indicazione dell’avvocato Coppi e dell’avvocato Taormina, che viene fatto per la prima volta dall’avvocato Merlino nel colloquio intercettato il 27/4/1994, sia stata suggerita da Claudio Vitalone implicato nel processo per l’omicidio Pecorelli in relazione al quale il 26/4/1994 aveva subito un interrogatorio a Perugia.

L’interpretazione della frase trova logica coerenza nel fatto che dopo questa affermazione continuano a parlare dell’interrogatorio del 26/4/1994 e non di Claudio Vitalone; segno questo che argomento della conversazione non era Claudio Vitalone ma l’interrogatorio avvenuto a Perugia il 26/4/1994 ed il nome di Claudio Vitalone è stato fatto occasionalmente per spiegare parte degli eventi.

E’ sempre in relazione all’avvocato Ruggeri che il nome di Claudio Vitalone compare nuovamente su autonoma indicazione di Fabiola Moretti.

Invero, dopo che Fabiola Moretti ha riferito ad Antonio mancini della visita di "Angelo" (delle sue richieste e delle sue offerte, dei rapporti che egli aveva avuto con Danilo Abbruciati), dopo che è stato instaurato un discorso sulla collaborazione di Antonio Mancini e sulla eventuale collaborazione di Fabiola Moretti, quando Antonio Mancini (pagina 35 della citata trascrizione) invita la convivente a non riferire all’avvocato Ruggeri la loro intenzione di collaborare è Fabiola Moretti che in risposta, ritornando alla sua deduzione circa il suggerimento proveniente da Claudio Vitalone per la nomina dell’avvocato Taormina, indica i fatti che hanno portato alla sua deduzione e li indica nella paura che Claudio Vitalone ha "…perché io l’ho incontrato quattro volte e l’ho accompagnato io da Patrizia, capito?".

Dopo che hanno parlato di fatti personali e nuovamente delle modalità pratiche della loro collaborazione, dei "servizi" che temono la collaborazione di Antonio Mancini, dell’eroina da questi nascosta, dopo che Antonio mancini ha chiesto di parlare con il tenente Fiumara del corpo delle guardie carcerarie, è ancora Fabiola Moretti (pagina 59 delle trascrizioni) che riprende il discorso su Claudio Vitalone riportato in nota, ma viene interrotta da Antonio Mancini che parla di altro.

Solo dopo molto tempo, durante il quale si è parlato di vari argomenti non rilevanti per il processo, il discorso ritorna con alcune frasi su Claudio Vitalone ad iniziativa di Antonio Mancini il quale fa riferimento ad un patto scellerato (pagina 29 e seguenti della trascrizione della bobina n. 2) per tornare, nell’ambito della collaborazione di Fabiola Moretti, subito dopo sulla attività di Danilo Abbruciati e nell’ambito di tale argomento sulla esistenza di incontri di costui con Claudio Vitalone ricevendo, in risposta, solo la conferma che Fabiola Moretti sapeva di incontri tra Claudio Vitalone e Enrico De Pedis (vedi trascrizione in nota). Il patto, però, contrariamente a quanto asserito da taluno dei difensori non è relativo a false accuse nei confronti di Claudio Vitalone, ma ad un patto tra lo stesso Vitalone e una persona, il cui nome è risultato incomprensibile alla trascrizione, che aveva aderito a tale patto solo per aiutare Fabiola Moretti e Antonio Mancini. Così come non è una conferma di un accordo per accusare falsamente Claudio Vitalone la richiesta di Antonio Mancini di sapere se Fabiola Moretti avesse mai visto insieme Danilo Abbruciati e Claudio Vitalone perché la domanda, che a tale fine è stata posta ad Antonio Mancini, si basa su un presupposto errato e cioè su una lettura della trascrizione del colloquio non conforme a quello risultante dalle trascrizioni ufficiali del nastro. Nel colloquio in questione Antonio Mancini non ha mai detto "chi ci hai messo" ma ha detto "ci hai mai visto Danilo parla’ co’ Vitalone" ricevendo come risposta "Renato si, Vitalone mai" con tutto quello che a tale affermazione segue.

Ma, se il contenuto delle intercettazioni ambientali non fosse da ritenere autonoma fonte di prova, essa sicuramente costituisce forte riscontro alle dichiarazioni che sul punto Fabiola Moretti ha reso nel corso degli interrogatori in cui, peraltro, ha avuto modo di spiegare e ridimensionare il contenuto di alcune parti della conversazione che appare frutto di deduzioni e ragionamenti più che di constatazione e registrazione di fatti.

Dichiarazioni che trovano conferma nelle affermazioni di Maurizio Abbatino e, indirettamente anche, di Elio Di Trocchio, addetto alla scorta di Claudio Vitalone dal 1976 al 1991, anche se saltuariamente.

Costui in tale veste ha accompagnato Claudio Vitalone e tra i vari luoghi ha indicato, oltre i Vivai del sud e l'Olgiata, le parti di viale Regina Margherita perché si recava dal notaio Florion, e ha ricordato (per vero solo dopo la contestazione di quanto dichiarato nella fase delle indagini preliminari) che poteva accadere che lui e Claudio Vitalone uscissero senza scorta e senza auto di servizio e che Claudio Vitalone scendesse dall’auto e salisse su un’altra auto (secondo le modalità descritte da Fabiola Moretti).

E’ ben vero che Elio Di Trocchio ha precisato che quando Claudio Vitalone saliva su una altra auto era in genere un’auto di colleghi, ma tale precisazione nulla toglie al valore della dichiarazione non apparendo logico che tali operazioni avvenissero anche quando al Di Trocchio era detto di aspettare per qualche tempo dopo di che Claudio Vitalone ritornava e risaliva in auto e quando tali incontri avvenivano senza che fosse chiamata la scorta e senza che fosse usata l’auto di servizio di cui beneficiava Claudio Vitalone.

Le modalità del servizio danno conferma, poi, di un altro particolare che emerge dall’intercettazione ambientale nel carcere dell’Aquila ed è relativa al ruolo di factotum attribuito da Fabiola Moretti all’autista di Claudio Vitalone da lei peraltro mai visto.

Quanto detto, a parere della corte, è sufficiente per affermare che Claudio Vitalone e Enrico De Pedis si sono incontrati e tali incontri presuppongono l’esistenza di rapporti.

Per completezza vale soffermarsi su alcuni episodi che farebbero da contorno a tali rapporti per verificare se da essi possono ricavarsi elementi di conferma o di smentita alla affermazione della corte.

L’attenzione deve soffermarsi sui regali fatti o ricevuti da Claudio Vitalone e precisamente sul regalo di un servizio per manicure fatto da Claudio Vitalone a Enrico De Pedis, sul regalo di un anello fatto da Claudio Vitalone a Fabiola Moretti e sul regalo di un orologio Rolex fatto da Enrico De Pedis a Claudio Vitalone e sugli omaggi di pesce da parte di Enrico de Pedis a Claudio Vitalone.

Orbene, non sono emersi elementi di riscontro, al di fuori di una generica attenzione di Enrico De Pedis per la cura della sua persona (ne è prova il rinvenimento nel contesto delle indagini per la sepoltura di Enrico De Pedis in una chiesa romana di uno di tali servizi), del possesso di un tale servizio da manicure da parte di Enrico De Pedis.

Parimenti non vi è riscontro alla circostanza specifica riferita da Fabiola Moretti, anche se all’epoca il Popi Popi era ristorante e pizzeria e vi lavoravano il fratello Marco e il padre di Enrico De Pedis, ed era gestito dai suoi familiari, che il ristorante serviva alla famiglia di Claudio Vitalone pesce già preparato in occasione di cene da lui organizzate nella sua casa; anzi, la circostanza è stata negata dai familiari di Enrico De Pedis.

Parimenti ancora non sono emersi elementi per potere affermare che Enrico De Pedis ha regalato un Rolex d’oro a Claudio Vitalone.

Le indagini sul punto permettono di affermare solamente che gli esponenti della banda della Magliana erano soliti fare regali di orologi marca Rolex, che Edoardo Pernasetti, quando è stato arrestato, era in possesso di un orologio Rolex, che nella casa di Ettore Marognoli, altro affiliato alla banda della Magliana, sono stati trovati certificati di garanzia di orologi Rolex.

Le stesse indagini, al contrario, hanno escluso che Claudio Vitalone fosse titolare di una garanzia per orologio Rolex che la ditta dà agli acquirenti di suoi orologi così come non è emerso che Claudio Vitalone sia stato possessore di un autentico orologio Rolex d’oro. E’ ben vero che a lui sono stati sequestrati un orologio tipo Rolex e alcune videocassette che mostrano al suo polso un orologio che potrebbe sembrare un orologio Rolex, ma la consulenza fatta dallo stesso P.M. permette di escludere che l’orologio sequestrato e quelli che appaiono nelle videocassette possano identificarsi in quello descritto da Fabiola Moretti.

Risulta provato, a giudizio della corte, il regalo di un anello da parte di Claudio Vitalone a Fabiola Moretti.

Gli elementi di prova per la conclusione della corte sono gli stessi che hanno portato alla affermazione della esistenza degli incontri tra Claudio Vitalone e Enrico De Pedis perché di tale regalo si parla nel colloquio intercettato del 6/5/1994 nel carcere dell’Aquila e tale fatto, come già detto, costituisce fonte autonoma di prova o quantomeno forte riscontro ad essa.

Se poi si aggiunge che Fabiola Moretti ha individuato e ha

indicato agli inquirenti l’anello ricevuto da Claudio Vitalone ritiene la corte che tali elementi consentono di affermare che la circostanza riferita da Fabiola Moretti è provata.

Né vale obbiettare che non è stato accertato che acquirente dell’anello sia stato Claudio Vitalone.

Il particolare non inficia i risultati sopra esposti.

Invero, le indagini esperite se hanno permesso di individuare il fabbricante dell’anello e i suoi rivenditori, per il periodo che interessa, sulla piazza di Roma ma non di collegare l’anello in questione con Claudio Vitalone o altri imputati di questo processo, ciò non significa che la circostanza riferita da Fabiola Moretti per i riscontri sopra detti non sia vera potendo l’anello essere stato acquistato da persone per conto di Claudio Vitalone o dallo stesso Vitalone in altro negozio atteso che i clienti della ditta produttrice, come si evince dall’elenco di tali produttori acquisito al dibattimento, è vasta.

Sulla base delle considerazioni sopra fatte occorre ora esaminare se effettivamente i rapporti tra Claudio Vitalone e Enrico De Pedis si sono tradotti in favori fatti dal primo perché richiesti dal secondo in debito nei confronti di quest’ultimo.

L’attenzione va posta su due episodi e precisamente i trasferimenti carcerari di Antonio Mancini e l’evasione di Vittorio Carnovale avvenuta il 24/5/1986.

Il fatto è storicamente provato.

Effettivamente Antonio Mancini in data 13/02/1986 è stato trasferito dal carcere di Pianosa a quello di Busto Arsizio.

Ritiene la corte che non è provato che tale trasferimento sia stato ottenuto per il tramite di Carlo Adriano Testi per interessamento di Claudio Vitalone.

Come in precedenza detto, dopo la morte di Danilo Abbruciati i componenti della Banda della Magliana e in particolare Enrico De Pedis e Raffaele Pernasetti avevano mantenuto i contatti con Antonio Mancini attraverso Fabiola Moretti che aveva acquisito, al fine di avere i colloqui in carcere con Antonio Mancini, la qualifica di "convivente" come peraltro emerge dalla documentazione acquisita presso il ministero della Giustizia.

Come risulta pacificamente da tutta l’istruttoria dibattimentale ed in particolare dalla documentazione carceraria prima richiamata, Antonio Mancini è stato detenuto per la maggior parte della sua vita e, per la sua qualifica di detenuto pericoloso, soprattutto presso istituti carcerari come Pianosa, Asinara e simili.

Di qui la necessità di ottenere il suo trasferimento in istituti dove la vita carceraria era meno dura e comunque in istituti più vicini alla abituale residenza di Fabiola Moretti e dei suoi familiari.

Innumerevoli sono in tal senso le domande presentate da Antonio Mancini, tutte respinte, ai competenti organi amministrativi.

Di qui la necessità di fare pressioni presso persone che in qualche modo potevano favorire il trasferimento di Antonio Mancini.

In tal senso depone l’affermazione di Antonio Mancini di essere stato trasferito, su richiesta dei suoi amici (Enrico De Pedis) da Pianosa a Busto Arsizio per interessamento di Carlo Adriano Testi tramite Claudio Vitalone.

Nello stesso senso depone l’affermazione di Fabiola Moretti di essere andata, su indicazione di Enrico De Pedis, dall’avv. Fabio Dean che aveva studio in lungotevere Mellini per cercare di trasferire Antonio Mancini da Pianosa lasciandogli un acconto di un milione che le era stato restituito quando il trasferimento non era avvenuto e che l’avv. Dean si era mostrato al corrente della situazione quando era andata nel suo studio a Roma.

Entrambe le dichiarazione hanno trovato riscontro in atti.

La seconda trova conferma nel colloquio intercettato presso il carcere dell’Aquila e nella istanza sottoscritta in quel periodo dall’avv. Dean, il quale, anche se non ricordava la circostanza, ha riconosciuto la propria firma in calce all’istanza e che effettivamente, come affermato da Fabiola Moretti, aveva lo studio a lungotevere Mellini (circostanze che depongono anche a riscontro delle dichiarazioni di costei).

La prima oltre che nelle dichiarazioni rese nello stesso senso da Fabiola Moretti trova conferma nella testimonianza di Ciro Vollaro al quale, in epoca non sospetta, durante la loro comune detenzione a Pianosa avvenuta nel periodo 22/5/1985 – 26/2/1986, Antonio Mancini aveva confidato che i suoi amici della banda della Magliana stavano cercando di farlo trasferire con l’aiuto di Claudio Vitalone.

Entrambe le vie indicate da Antonio Mancini e Fabiola Moretti portano a Carlo Adriano Testi, direttore generale del ministero di grazia e giustizia in quel periodo che, come tale, era sicuramente in grado per l’ambiente di lavoro e per la carica rivestita di potere "mettere una buona parola" per il trasferimento di Antonio Mancini.

Come si è visto, infatti, Carlo Adriano Testi era amico dell’avv. Fabio Dean il quale, per sua ammissione, non ha escluso –nell’ambito di lecite richieste - di essersi rivolto per pratiche relative a suoi assistiti (non va dimenticato che nella vicenda della cena alla famiglia Piemontese Carlo Adriano Testi è stato difeso proprio dall’avv. Dean) al suo amico Carlo Adriano Testi.

Parimenti Carlo Adriano Testi era amico, e ne subiva la forte personalità, di Claudio Vitalone (vale sul punto quanto detto a proposito della vicenda della cena alla famiglia piemontese, circa lo stato di soggezione del primo nei confronti del secondo che traspare dal tenore delle intercettazioni di telefonate tra i familiari di Carlo Adriano Testi quando commentano l’incontro tra il loro congiunto, l’avv. Francesco Pettinari, Claudio Vitalone e i suoi fratelli).

Ma, le considerazioni sopra fatte non indicano che ci sia stato un interessamento, fallito quello dell’avv. Dean, di Claudio Vitalone.

Esse indicano soltanto che Enrico De Pedis aveva la possibilità, in forza dei suoi rapporti con Claudio Vitalone, di chiedere al secondo un interessamento, nell’ambito sempre delle lecite richieste, per un avvicinamento di Antonio Mancini al centro dei suoi interessi.

Per escludere un qualsivoglia coinvolgimento di Claudio Vitalone in tale vicenda è stato fatto presente dal suo difensore che tra documentazione esistente presso il ministero della giustizia vi è la nota in data 13/11/1985 del P.M. di Roma dott.ssa Cordova che aveva segnalato, sulla base di interrogatorio di un coimputato, il progetto di Tummolo Altomare di uccidere in carcere, con l’aiuto di Mancini Antonio, Laudavino De Santis e che tale segnalazione, secondo il difensore di Claudio Vitalone era stata la causa del trasferimento, come emergeva dall’annotazione in data 22/11/1985 a margine di detta nota recante: "urgentissimo; trasferire Tummolo a Asinara sez. Fornelli, Mancini a Busto Arsizio sez. Reclusi".

Tale osservazione nulla toglie al valore di quello che si è prima detto atteso che non è stabilire se effettivamente il trasferimento è avvenuto per interessamento di Claudio Vitalone o per l’intervento di qualche altro personaggio o ancora per autonoma decisione del ministero di grazia e giustizia a seguito della segnalazione; quello che rileva e che in quel periodo Enrico De Pedis si stava interessando del trasferimento di Antonio Mancini e poteva utilizzare, a tal fine, la conoscenza con Claudio Vitalone.

Singolare, peraltro, è tutta la vicenda che emerge dalla lettura della documentazione amministrativa relativa al trasferimento dal carcere di Pianosa a quello di Busto Arsizio; invero non solo l’urgenza del trasferimento, che si era manifestata nella nota ministeriale del 25/11/1985 viene bellamente ignorata dal momento che il trasferimento avviene il 13 febbraio 1986, ma il trattamento riservato ai due detenuti implicati nel ventilato progetto omicidiario è nettamente diverso: Tummolo Altomare viene trasferito in un carcere ancora più duro come quello dell’Asinara sez. Fornelli mentre Antonio Mancini viene trasferito ad una casa di reclusione circondariale, malgrado quell’istituto carcerario fosse pieno, dove, appena arrivato, viene trattato non più come un detenuto pericoloso, e quindi soggetto a trattamento differenziato, ma come un normale detenuto.

Anche questo fatto è storicamente accertato.

Vittorio Carnovale in data 26/5/1986 mentre dall’aula Occorsio del tribunale di Roma, dove si celebrava uno dei tanti processo ai membri della banda della Magliana, viene trasferito alle celle sotterranee per essere ricondotto in carcere riesce ad evadere.

L’evasione, a giudizio della corte, ha visto l’interessamento di Claudio Vitalone che era in debito per un favore ricevuto.

Il primo che parla di un ruolo di Claudio Vitalone è Vittorio Carnovale.

Secondo il racconto di costui l’evasione era stata proposta dopo che era stata criticata la scelta di Wlfredo Vitalone a proprio difensore da parte di Enrico De Pedis perché non reputato all'altezza e dopo che Enrico De Pedis aveva risposto che della bravura del difensore non gli interessava nulla avendo risolto il processo in altro modo.

Tra i due gruppi (Magliana vera e propria e Testaccio) era sorta una violenta lite, anche perché la fazione della Magliana vera e propria sapevano che in altra occasione Enrico De Pedis ed Enrico Nicoletti avevano aggiustato un processo per cui vi erano state promesse di eliminazione reciproca appena in libertà. Per cercare di appianare i contrasti Enrico De Pedis aveva fatto la proposta della evasione di un coimputato.

La proposta era stata fatta a Edoardo Toscano che non fidandosi e temendo di essere ucciso appena riacquistata la libertà, aveva rifiutato; analogo rifiuto era stato opposto da Antonio Mancini il quale aveva scelto altre vie. Vittorio Carnovale, al contrario, aveva accettato perché la sua posizione processuale era molto compromessa in quanto nei suoi confronti era stato richiesto un ergastolo ed era stato già condannato a molti anni di reclusione.

Il progetto di fuga prevedeva che, alla uscita dalle gabbie, egli rimanesse per ultimo in modo che fossero applicate le manette all'americana anziché i ferri, che egli si nascondesse sotto la rampa di accesso all'aula e dopo un poco di tempo ( m 10/15) ritornasse nell'aula. Vittorio Carnovale aveva seguito le istruzioni, si era nascosto sotto la rampa dopo essersi confuso in mezzo al gruppo, aveva trovato la porta dell'aula aperta, ma non sa se era rimasta aperta od era stata aperta dalle persone che lo aspettavano, era entrato nell'aula dove aveva trovato una donna ed un uomo con cui era andato via.

Le persone avevano le chiavi per cui le manette erano state aperte e tolte; erano usciti dal tribunale dove ad attendere vi era una persona in macchina; gli avevano chiesto se era Edoardo Toscano e alla risposta negativa erano rimasti un poco stupiti ma gli avevano chiesto dove volesse essere accompagnato e lo avevano accompagnato da sua sorella Antonietta che, a sua volta, lo aveva accompagnato da una sua cognata. Nei giorni precedenti Vittorio Carnovale era sempre stato ammanettato con i ferri.

Enrico De Pedis aveva saputo che ad evadere sarebbe stato Vittorio Carnovale e non Edoardo Toscano l'ultimo giorno; dell'avv. Vitalone e del progetto di evasione si era parlato anche prima che il P.M. facesse le sue richieste conclusive.

Enrico De Pedis a lui personalmente non aveva mai detto che l'evasione fosse un piacere di Claudio Vitalone per cui poteva ipotizzarsi che Enrico De Pedis avesse detto così per "pomparsi", cioè per vantarsi perché voleva essere il primo della classe anche se non era un bugiardo.

Dalla versione data da Vittorio Carnovale non emerge un ruolo di Claudio Vitalone nella organizzazione dell’evasione perché questi ha riferito che a lui Enrico de Pedis non aveva fatto il nome del senatore Vitalone.

L’interessamento da parte di Claudio Vitalone è al contrario riferito da Antonio Mancini il quale, nel confermare la proposta di evasione fatta da Enrico De Pedis, le motivazioni per cui tale proposta era stata fatta e le modalità della fuga, ha affermato che Enrico De Pedis, per dare garanzia della serietà della proposta, aveva detto che la fuga era un favore di Claudio Vitalone come contropartita per un favore a lui fatto in precedenza, senza peraltro fare cenno al tipo di favore ricevuto da Claudio Vitalone, anche se per altre fonti aveva saputo che si trattava dell’omicidio di Carmine Pecorelli.

Dell’evasione di Vittorio Carnovale ha parlato, negli stessi termini anche Fabiola Moretti la quale, nel riferire cose apprese da Enrico De Pedis e Raffaele Pernasetti, collega l’evasione di Vittorio Carnovale a Claudio Vitalone.

Costei, peraltro, non ne ha parlato solo avanti alla autorità giudiziaria perché la circostanza emerge, negli stessi termini, dalle intercettazioni ambientali disposte nella sua abitazione in cui Fabiola Moretti, parlando con persona rimasta sconosciuta, fa espresso riferimento all’evasione di Vittorio Carnovale nei termini prima richiamati.

La versione dei fatti come narrata dagli imputati in procedimento collegato è stata aspramente contestata ma essa regge o quanto meno non è in contrasto con quanto è stato acquisito agli atti.

Invero:

Vale appena il caso di accennare che alla corte appare alquanto improbabile che Vittorio Carnovale, ammanettato secondo regolamento, avrebbe potuto allontanarsi indisturbato, scavalcando un cancello chiuso per dileguarsi, sempre ammanettato, tra la gente che cammina intorno al palazzo di giustizia.

Sia Vittorio Carnovale che Antonio Mancini fanno riferimento alla richiesta di ergastolo fatto nei loro confronti dal P.M. di udienza sia ad un intervento dell’avv. Wilfredo Vitalone che difendeva Enrico De Pedis. Dai verbali di quel processo, prodotti dalla difesa di Claudio Vitalone emerge che alla udienza del 6/5/1986 vi è stata la dichiarazione di chiusura del dibattimento e la parola viene data al P.M. per le requisitorie per cui le conclusioni del PM vengono prese alla udienza del 9/5/1986 con la richiesta di ergastoli come riferito dai coimputati in procedimento collegato. Da tale udienza fino alla discussione da parte dell’avv. Wilfredo Vitalone avvenuta all’udienza del 19/6/1986 questi non è più presente al dibattimento.

Da tali verbali emergerebbe, di conseguenza, secondo la difesa di Claudio Vitalone che non sarebbe possibile l’osservazione fatta da Edoardo Toscano e Antonio Mancini circa la scarsa preparazione e bravura dell’avv. Wilfredo Vitalone perché questi non è stato mai presente dopo le conclusioni del P.M..

L’osservazione non è decisiva sia perché le critiche alla bravura e preparazione dell'avv. Wilfredo Vitalone non necessariamente sono state fatte al momento della arringa (vedi sul punto Mancini che parla di requisitoria o di qualche altro intervento) sia perché manca, significatamente, il verbale dell’udienza del 10/5/1986, immediatamente successiva alle conclusioni del P.M. quando è prassi che per i processi complessi e delicati per la presenza di più imputati e per la gravità dei reati, dopo la chiusura dell’intervento del P.M., venga concordata tra tutti i difensori e l’organo giudicante un calendario degli interventi.

Né vale sostenere che la versione dell’evasione confermata da Antonio Mancini non è autonoma perché a conoscenza dei verbali delle dichiarazioni rese sul punto da Vittorio Carnovale perché la fonte delle notizie riferite da Vittorio Carnovale è proprio Antonio Mancini, oltre a Edoardo Toscano, perché sono loro i soggetti che discutono con Enrico De Pedis ed è proprio ad Antonio Mancini che Vittorio Carnovale rimanda, nei verbali da lui sottoscritti, per quello che ha saputo circa gli organizzatori dell’evasione.

 

CAPITOLO 14)

AMBIENTI IN CUI E’ STATO DECISO IL DELITTO

"Abbruciati mi disse, oltre a confermarmi gli esecutori dell’omicidio, che l’omicidio era stato messo in atto per entrare nelle grazie, era stato chiesto, insomma adesso no so quale è il modo per…, da un potere politico, massonico, giudiziario, va bhe, le persone che contano, dal dottor Vitalone" e ancora "Abbruciati mi disse che il mandante dell’omicidio Pecorelli era il dott. Vitalone perché Pecorelli poteva creare danni al dott. Vitalone e al gruppo politico finanziario, giudiziario…" ed infine " sull’aereo prendemmo posto in una fila io e Abbruciati e nell’altra Colafigli e Frau. Accennò Abbruciati a quei documenti che aveva ritirato da quella signora, disse che le persone delle quali, comunque una parte delle persone dovevano venire in possesso erano: l’avvocato Dipietropaolo, il dott. Vitalone, il dottor Bongiorno che era un magistrato, un giudice, Flavio Carboni ed Edoardo Formisano".

Quanto riferito da Antonio Mancini sopra porta l’attenzione della corte sull’ambiente nel quale è maturato il delitto.

Ambiente massonico, ambiente politico, ambiente economico, ambiente giudiziario di cui farebbero parte i destinatari di quei documenti che erano stati presi a Milano da Danilo Abbruciati e che facevano parte di quegli ambienti in cui, secondo quanto riferito da Antonio Mancini, era maturato il delitto.

Orbene le risultanze processuali permettono di affermare che quanto riferito da Danilo Abbruciati ad Antonio Mancini ha trovato piena conferma.

Si è già detto dei moventi individuati da questa corte. Essi delineano proprio quegli ambienti indicati da Antonio Mancini.

Invero, su tutta la vicenda relativa all’omicidio di Carmine Pecorelli incombe la Massoneria ed in particolare quel bubbone malefico della società italiana che è stata la loggia segreta P2 a capo della quale era il gran maestro Licio Gelli.

Iscritti alla massoneria e/o alla loggia P2 sono risultati Carmine Pecorelli ed il suo "caro amico Egidio Carenini", Carlo Alberto Dalla Chiesa, Umberto Ortolani, Michele Sindona, Francesco Pazienza, Roberto Calvi, Umberto Ortolani, Raffaele Giudice, Donato Lo Prete, i capi dei servizi segreti dell’epoca (Vito Miceli, Gianadelio Maletti, Grassilli, Santovito), il capo dei servizi segreti del viminale Federico Umberto D’Amato, i mafiosi Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, Paolo De Stefano, capo della ‘Ndrangheta, oltre ad altri personaggi legati a quel mondo come Vincenzo Cafari, Angelo Siino, Giacomo Vitale, Tonino Saccà, i giornalisti Luigi Cavallo, Franco Salomone e Alberto Sensini, il banchiere Giuseppe Arcaini e altri minori personaggi che a vario titolo sono entrati a far parte di questo processo.

Tramite la loggia P2 e la massoneria internazionale sono stati fatti i tentativi per salvare Michele Sindona e le sue banche, massoni e mafiosi erano le persone coinvolte nel falso rapimento di Michele Sindona e nell’omicidio di Giorgio Ambrosoli (da collegare strettamente alla vicenda Sindona).

Personaggi iscritti alla massoneria sono i capi della guardia di Finanza che sono stati duramente attaccati da Carmine Pecorelli per la vicenda MI.FO.BIALI.

Iscritti alla P2 e massoni sono i capi dei servizi segreti coinvolti nel c.d. golpe Borghese così come iscritti alla P2 sono risultati i capi dei servizi segreti –organismo preposto alla lotta al terrorismo- al tempo del sequestro di Aldo Moro.

Massoni e iscritti alla P2 sono risultati alcuni degli equivoci personaggi definiti "faccendieri" in voga al tempo dell’omicidio di Carmine delitto Pecorelli (purtroppo anche oggi) e precisamente Francesco Pazienza.

Ma la cappa della loggia P2 è ancora più pesante se si guarda alla influenza che essa, essenzialmente attraverso i rapporti "con le persone che contano" intessuti dal suo gran maestro Licio Gelli, aveva con i più disparati settori della società italiana.

Al riguardo è sufficiente esaminare le agende sequestrate a Licio Gelli per rendersi conto della enorme influenza che quella persona poteva esercitare nel campo della politica, della magistratura, dei servizi segreti, degli affari, del giornalismo: in una parola nei confronti delle persone che occupavano i gangli più importanti della vita pubblica dello stato italiano.

Merita solo ricordare, perché influente per collegare l’ambiente massonico al mondo politico, ed in particolare a Giulio Andreotti, la presenza nelle suddette agende del numero riservato di Giulio Andreotti al cui nominativo risultano ben tre numeri telefonici scritti a penna –contrariamente agli altri numeri scritti a macchina- con accanto rispettivamente l’annotazione U(fficio), A(bitazione),D(iretto) corrispondenti all’ufficio in S. Lorenzo in Lucina e alla privata abitazione in corso Vittorio Emanuele; ritrovamento del numero telefonico privato che è segno di intensità di rapporti che sono confermati, del resto dalla lettera inviata da Licio Gelli ad Andreotti il 18/12/1980 da cui si evince che a Licio Gelli era permesso andare a trovare Giulio Andreotti e fargli dei regali (circostanza che si ripete sovente come dimostrato dall’esame di Angela Sassu e del notaio Salvatore Albano).

Rapporti che hanno avuto concreta rilevanza in questo processo perché è emerso:

Parimenti non può negarsi che l’attività del mondo massonico individuato principalmente in quello della loggia P2 e del suo gran maestro era strettamente legato a quello economico.

Si è già detto di Michele Sindona e di Roberto Calvi che in quel periodo, fino al loro declino, erano delle potenze economiche; si è già detto degli interessi che ruotavano intorno alle loro vicende e ai personaggi, sempre gli stessi, che tali vicende hanno gestito.

Ad esse devono aggiungersi quelle relative alla SIR e al mondo del petrolio in genere, al caso Caltagirone, al caso Italcasse. Vicende tutte a cui sottostavano interessi economici di enorme portata e la cui soluzione, in un senso piuttosto che in un altro, avrebbe avuto conseguenze rilevanti sugli assetti economici e di gestione del potere reale.

Al riguardo basta tenere presente quale sarebbero state le ripercussioni se la SIR avesse continuato ad essere uno dei protagonisti della chimica italiana antagonista o complementare agli altri soggetti della chimica privata, quali i suoi effetti nei rapporti con la chimica di stato, quale lo scenario nel settore, vitale per l’economia, dell’energia; analogamente può dirsi per la soluzione in un senso piuttosto che in un altro della vicenda Italcasse per la importanza di tale istituto nel mondo del credito.

Strettamente connesso all’ambiente economico vi è quello giudiziario perché la soluzione di talune di quelle vicende non poteva avvenire, per la loro situazione oggettiva, senza un intervento della magistratura, che su di esse aveva aperto delle inchieste, e di personaggi a questa collegate. Vale sul punto ricordare quello che ha dichiarato Francesco Pazienza, di professione "faccendiere" cioè persona che si interessa, con le sue conoscenze e attraverso canali privati, di "faccende" di difficili soluzione, il quale sa che per risolvere un determinato problema occorreva rivolgersi a legali vicini al magistrato che trattava la vicenda (certo questo non fa onore alla magistratura o a determinati giudici, ma la realtà è stata quella che crudamente ha indicato Francesco Pazienza e di ciò è necessario prenderne atto).

Pacifico, a giudizio della corte, infine, è l’importanza del mondo politico che ha gestito le vicende che interessavano Carmine Pecorelli.

Mondo politico che, per quello che si è detto a proposito dei moventi è riconducibile ad Andreotti e al suo entourage politico.

Tutti settori che si intrecciano tra di loro in una inestricabile serie di rapporti interpersonali essendo emersi collegamenti tra persone appartenenti a mondi all’apparenza incomunicabili tra loro.

Così delineato lo sfondo sul quale il delitto è maturato, secondo le dichiarazioni di Antonio Mancini, occorre verificare se le persone a cui erano destinati i documenti prelevati da Danilo Abbruciati a Milano facevano parte di quegli ambienti indicati da Antonio Mancini.

Orbene, ai fini che qui interessano, non desta problemi l’inserimento di Claudio Vitalone nell’ambito del potere politico e/o giudiziario sia perché egli al momento della confidenza ricevuta da Antonio Mancini era membro del senato della repubblica e all’epoca dell’omicidio di Carmine Pecorelli era sostituto procuratore presso il tribunale di Roma, anche se talvolta agiva come esponente politico vicino a Giulio Andreotti (vale qui quello che si è detto in ordine ai moventi e a Claudio Vitalone che ha agito come politico e non come magistrato).

Parimenti non desta problemi inserire Flavio Carboni nell’ambito del potere economico. L’affermazione deriva sia dalla attività di costruttore ed editore da lui esercitata in Sardegna (costruzioni a Porto Rotondo e attività editoriale con il giornale La Nuova Sardegna), sia, soprattutto, dalla sua attività di faccendiere (non va dimenticato, al riguardo, che egli ha sostituito Francesco Pazienza nella attività di collaboratore negli affari poco chiari di Roberto Calvi - vale per tutti la vicenda della società Prato Verde, di cui Flavio Carboni era proprietario, che entra a pieno titolo nel fallimento del Banco Ambrosiano per un prestito fittizio ricevuto da quest’ultimo e destinato in realtà a Roberto Calvi); egli, poi, per i suoi interessi è entrato in contatto con i fratelli Claudio e Wilfredo Vitalone e si è interessato anche, con Benito Cazora, per la liberazione di Aldo Moro, ha conosciuto e incontrato Carmine Pecorelli ed era in stretto contatto con i maggiori esponenti della Banda della Magliana (Ernesto Diotallevi, Domenico Balducci, Danilo Abbruciati) e con Giuseppe Calò con il quale era in affari in Sardegna.

Di Edoardo Formisano si è già abbondantemente parlato per cui non occorre ritornare sopra; egli a buona ragione va inserito nel mondo dei politici con amicizie nel mondo giudiziario (Claudio Vitalone ed altri) e in quello della malavita organizzata romana e milanese.

L’avv. Maurizio Dipietropaolo ha difeso Valerio Fioravanti nel periodo in cui questi era imputato per l’omicidio di Carmine Pecorelli; è stato legale prima di Francesco Pazienza e poi di Licio Gelli tanto che il primo lo ha denunziato al consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma per scorrettezza deontologica a causa dell’incompatibilità delle difese tra Francesco Pazienza, da un lato, Licio Gelli, il generale Santovito e Giuseppe Ciarrapico, dall’altro; ha difeso insieme a Wilfredo Vitalone i fratelli Caltagirone; è stato in stretti rapporti con i fratelli Claudio e Wilfredo Vitalone. Di lui Francesco Pazienza riferisce che era l’emanazione del gruppo di Giulio Andreotti a palazzo di giustizia così come era notorio che altri avvocati erano l’espressione di altri gruppi di potere nel palazzo di giustizia; era fatto per cui chi si rivolgeva a uno di tali avvocati veniva etichettato come simpatizzante del gruppo di cui l’avvocato era espressione; E’ per tale sua appartenenza alla Democrazia Cristiana, in particolare al gruppo facente capo a Giulio Andreotti, che Gaetano Badalamenti, ristretto nella stessa prigione degli Stati Uniti d’America insieme a Francesco Pazienza, quando questisi è recato nella prigione per incontrare Francesco Pazienza, aveva chiesto e ottenuto un colloquio occasionale per rinfacciargli che la democrazia cristiana aveva completamente abbandonato i cugini Salvo che erano stati sempre a disposizione della Democrazia Cristiana autandola fino all’impossibile; conosce il presidente di sezione della Corte di appello di Roma Giuseppe Bongiorno, di cui si dirà dopo, avendo con lui un rapporto più che amicale, affettuoso tanto da avere il suo numero di telefono nella sua agendina tascabile – e ciò è indice di buona e ripetuta frequentazione.

Egli va inserito, a pieno titolo sia nell’ambiente giudiziario che di quello politico.

Giuseppe Bongiorno, presidente della prima sezione della corte di appello di Roma; conosce Claudio Vitalone nella sua qualità di collega con cui aveva rapporti amicali, normali, nulla di eccezionale; ha conosciuto l’avvocato Dipietropaolo con il quale aveva il tipo di rapporti prima indicati, l’avv. Gaito da lui frequentato e stimato malgrado alcune insinuazioni; ha conosciuto l’on. Franco Evangelisti perché residente nelle vicinanze della sua abitazione ed entrambi interessati al calcio ove avevano ricoperto cariche sociali nell’ambito della commissione giudicante della lega calcio; ha avuto rapporti di conoscenza con Giulio Andreotti e con il di lui fratello (più con il secondo che con l primo); ha conosciuto Domenico Balducci essendosi interessato della questione Ponti/Loren; è stato imputato per corruzione in atto giudiziario anche se poi assolto in sede di rinvio dalla corte di appello di Firenze per insufficienza di prove. Anche Giuseppe Bongiorno faceva parte quindi del mondo giudiziario a cui ha fatto cenno Antonio Mancini.

La corte si è chiesto, in mancanza del ritrovamento dei documenti e della donna, indicata da Antonio Mancini come avvocatessa Serra, se il racconto sia credibile sia in relazione alla consegna e al contenuto dei documenti, sia in relazione ai nominativi fatti da Antonio Mancini.

La Corte, anche se non è in grado di specificare il contenuto di tali documenti, ha dato risposta positiva alle domande sulla base di alcuni dati di fatto e di alcune considerazioni logiche.

I dati di fatto, poiché secondo quanto riferito da Antonio Mancini i documenti riguardavano in parte la posizione di Francis Turatello e in parte il sequestro dell’on. Aldo Moro, consistono:

Da tali elementi, a giudizio della corte, la indicazione di tali nomi trova giustificazione proprio nella loro attività per la liberazione di Aldo Moro.

Di qui la necessità che i documenti pervenissero a mani del giudice che in qualche modo avrebbe potuto alleggerire la posizione processuale di Francis Turatello con un intervento diretto, se possibile, o anche indiretto se quello diretto non fosse stato possibile.

Non è un caso, poi, che sia stato fatto il nome di Giuseppe Bongiorno atteso che emerge dagli atti:

Una prima considerazione emerge sulla base di questi ultimi elementi.

I documenti destinati al giudice Bongiorno non potevano essere a lui consegnati direttamente da Danilo Abbruciati, ma il passaggio doveva avvenire attraverso terze persone che il giudice conoscevano bene per essere in rapporti di amicizia con lui (il meccanismo descritto nel processo a carico di Giuseppe Bongiorno da Paolo Bianchi e Pietro Pestarini indica che ciò avveniva attraveso avvocati vicini al giudice Bongiorno). Di qui l’indicazione del nome di Maurizio Dipietropaolo che da un lato era in rapporti di amicizia con il giudice Bongiorno e dall’altro era in stretti rapporti con Claudio Vitalone, come detto sopra, destinatario degli stessi documenti.

La seconda considerazione deriva dalla presenza come coimputato di Giuseppe Bongiorno di tale Fabio Farre persona sconosciuta ed estranea al processo e non messo in relazione da Antonio mancini con Giuseppe Bongiorno.

L’esame attento degli atti processuali ha però posto in luce una singolare coincidenza: l’esistenza di rapporti stretti tra Fabio Farre ed esponenti della Banda della Magliana da un lato ed estremisti di destra dall’altro. Infatti Fabio Farre è stato imputato, in uno dei processi alla Banda della Magliana ( Processo Speranza perché nato dalle dichiarazioni di Massimo Speranza), di rapina proprio con Speranza e altri aderenti al sodalizio criminoso; Fabio Farre è colui che nell’estate del 1980 insieme a Franco Giuseppucci e Danilo Abbruciati viene controllato perché trovato insieme ad alcuni aderenti a movimenti eversivi della estrema destra; accertamento che, a parere della corte, costituisce il primo riscontro oggettivo di quella unione tra delinquenza organizzata e destra eversiva della capitale di cui si è detto.

La singolare coincidenza dà vigore alla affermazione di Antonio Mancini sulla identità del giudice Bongiorno come una delle persone che dovevano ricevere i documenti prelevati a Milano perché egli era ben conosciuto negli ambienti della Banda della Magliana come un giudice abbordabile; non va dimenticato infatti che gli accusatori di Giuseppe Bongiorno sono proprio Paolo Bianchi, aderente alla destra eversiva, e Pietro Pestarini vicino alla banda della Magliana tanto che alla morte di Danilo Abbruciati ha avuto una relazione con Milvia Bonamore, che di Abbruciati è stata, secondo quanto riferito dalla stessa Monamore e da altri testi come Collalti, la compagna negli ultimi tempi della sua vita.

Non va dimenticato, infine, che per espressa ammissione del giudice Bongiorno egli conosceva Domenico Balducci che della banda faceva parte.

 

CAPITOLO 14)

LA MATRICE DEL DELITTO

A) INTRODUZIONE

Si è prima accennato alla tesi prospettata dalla pubblica accusa, secondo la quale il delitto sarebbe stato deciso da Giulio Andreotti, per la tutela della sua posizione politica, il quale, attraverso Claudio Vitalone, avrebbe chiesto ai cugini Ignazio e Nino Salvo l’eliminazione dello scomodo giornalista.

Questi a loro volta si sarebbero rivolti a Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti.

Bontade e Gaetano Badalamenti, attraverso Giuseppe Calò, che aveva conoscenze con esponenti della banda della Magliana ed in particolare con Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci, avrebbero incaricato costoro di organizzare il delitto utilizzando persone del luogo (Massimo Carminati) e associati alla mafia (Angiolino il biondo).

Si è anche detto che tutti coloro che hanno reso dichiarazioni inerenti l’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli hanno fornito solo frammenti di notizie che possono incastrarsi l’uno con l’altro per collocare al loro giusto posto i vari personaggi che si sono mossi sulla scena del delitto il cui quadro generale, a giudizio della corte, è stato chiarito nelle pagine che precedono.

La conseguenza, qualora uno dei frammenti, che devono formare il quadro di insieme, non collima con gli altri, è una frattura che, se non colmabile con deduzioni logiche, fa venire meno la collocazione dei vari personaggi nel quadro di insieme che sopra si è delineato.

 

 

B) INDIVIDUAZIONE DI MICHELANGELO LA BARBERA

In tale contesto il primo aspetto da trattare è la individuazione di Angiolino il Biondo indicato insieme a Massimo Carminati come uno degli esecutori materiale del delitto.

Di esso e del suo ruolo hanno parlato Vittorio Carnovale e Antonio Mancini.

Il primo lo ha appreso da Edoardo Toscano, che a sua volta l’aveva appreso da Enrico De Pedis, alla celebrazione del processo durante la quale egli era evaso e/o da Danilo Abbruciati.

Il secondo lo ha appreso da Enrico De Pedis durante un appostamento per individuare il luogo migliore per preparare un agguato al " Bookmaker Ottaviani" e da Danilo Abbruciati prima e durante i viaggi fatti insieme a Milano.

Si tratta di due fonti autonome anche se le dichiarazioni rese da Vittorio Carnovale sono state lette ad Antonio Mancini durante l’esame del gennaio 1994.

Invero mentre Vittorio Carnovale si è limitato a riferire di avere saputo da suo cognato Edoardo Toscano che Angiolino il siciliano era uno degli autori del delitto insieme agli stesso Enrico De Pedis e Danilo Abbruciati, Antonio Mancini lo ha individuato, avendolo incontrato a Roma almeno due volte quando era in compagnia di Enrico de Pedis e/o di Danilo Abbruciati durante il breve periodo della sua latitanza; individuazione prima fotografica e poi personale nel corso di un confronto.

Angiolino il biondo va identificato in Michelangelo La barbera sulla base del riconoscimento prima fotografico e poi personale operato da Antonio Mancini ritenuto valido dalla suprema corte.

Ora le argomentazioni della corte suprema, su un aspetto così rilevante per il processo, sono condivise, anche per la validità endoprocessuale di tale sentenza, perché nel corso del dibattimento non sono emersi elementi contrari che inficino tali conclusioni. Anzi l’identificazione operata da Antonio Mancini ha trovato altri elementi di supporto nelle testimonianze di collaboratori di giustizia che nel tempo, a iniziare da quello in cui si è verificato l’omicidio di Carmine Pecorelli hanno avuto contatti con Michelangelo La Barbera.

Un dato emerge dalle descrizioni fatte: Angelo La Barbera viene indicato di carnagione chiara con occhi chiari e capelli castani, che non corrispondono alle caratteristiche che usualmente si riconoscono nei siciliani; di qui si spiega l’appellativo di Biondo con cui era conosciuto negli ambienti della banda della Magliana.

L’altro dato che emerge e che porta nella stessa direzione è il nome con cui egli è conosciuto. Benché il suo nome sia Michelangelo, egli è conosciuto, negli ambienti di Cosa Nostra, come Angelo o, addirittura, da alcuni come "Angeluzzu" che in italiano significa Angelino, Angiolino proprio con il diminutivo con cui lo ha conosciuto Antonio Mancini.

 

C) LA MATRICE COMUNE

1c) RAPPORTI CALO’- ABBRUCIATI

Il punto di partenza, lo snodo principale, sono i rapporti tra Giuseppe Calò da un lato, Danilo Abbruciati e/o Franco Giuseppucci dall’altro circolando nell’ambiente della banda della Magliana la notizia che l’omicidio di Carmine Pecorelli era stato organizzato da Danilo Abbruciati per fare un piacere ai siciliani, individuati nel gruppo facente capo a Giuseppe Calò, e che per organizzare l’omicidio Danilo Abbruciati può essersi servito di persone che al momento dell’omicidio erano libere, ed in particolare Franco Giuseppucci.

Tali notizie provenivano dallo stesso Danilo Abbruciati ovvero da Enrico De Pedis e da Franco Giusepucci.

In tal senso depongono le dichiarazioni rese da Vittorio Carnovale, Antonio Mancini, Fabiola Moretti e Maurizio Abbatino. Dichiarazioni che per alcuni versi sono confermate dalle intercettazioni ambientali a carico di Fabiola Moretti.

In senso parzialmente diverso sono le dichiarazioni che provengono da Raffaele Cutolo il quale parla genericamente di un coinvolgimento di Franco Giuseppucci anche se, per la loro ambiguità, non è chiaro se a commissionare l’uccisione di Carmine Pecorelli sia stata Cosa Nostra, o autonomamente la banda della Magliana.

Si è già detto che sono provati in atti i rapporti tra Giuseppe Calò e Danilo Abbruciati, quello che ora occorre verificare è se la loro conoscenza risaliva nel tempo quanto meno di poco antecedente il 20/03/1979, giorno dell’omicidio di Carmine Pecorelli.

Solo in questo caso la richiesta di Giuseppe Calò può avere un fondamento di verità.

L’accertamento della circostanza non può prescindere dalla constatazione che in quel periodo Danilo Abbruciati era detenuto da lungo tempo.

Invero, l’esame della cartella personale acquisita presso il ministero della giustizia indica che lo stesso è stato detenuto presso la casa circondariale di Milano dal 28.06.74 al 25.07.74; è stato arrestato e associato dal 28.11.1975 al 08.04.76 presso il carcere circondariale di Regina Coeli in Roma; è stato arrestato il 22.07.76 per essere rimesso in libertà il 13.07.79; in questo lungo periodo di carcerazione preventiva è stato, però, detenuto in carceri romane in prossimità dell’omicidio di Carmine Pecorelli e precisamente dal 11.11.78, proveniente dalla casa circondariale di Pescara, al 13.07.79 data di remissione in libertà dal carcere di Rebibbia.

Come si vede, per quello che qui interessa, poiché Giuseppe Calò si è trasferito a Roma intorno all’anno 1975, i periodi utili per una conoscenza personale tra i due sono quelli dalla scarcerazione del 25.07.74 al 28.11.1975 data di un suo nuovo arresto e quello tra il 08.04.76 data della sua nuova scarcerazione al 22.07.76 data del nuovo arresto che, come detto, si protrarrà fin dopo la data dell’omicidio di Carmine Pecorelli.

Né è possibile che i due si siano incontrati e conosciuti in carcere perché Giuseppe Calò risulta essere stato latitante per un lunghissimo periodo ed è stato arrestato solo il 29/03/1985.

Del resto, notizie di una conoscenza tra i due risalente a quel tempo non emergono dalla lettura degli atti.

Anzi, dalla testimonianza di Fabiola Moretti si hanno elementi contrari perché costei, parlando dei rapporti di Danilo Abbruciati con esponenti di Cosa Nostra, ha riferito che, all’inizio, prima dell’arresto del 1976, gli interessi di Danilo Abbruciati erano rivolti al traffico di cocaina, di cui peraltro faceva uso, per cui si riforniva di tale stupefacente da trafficanti colombiani con i quali era in contatto. Solo dopo la lunga carcerazione, terminata nel 1979, egli aveva deciso di entrare nel giro del traffico della eroina ed è nell’ambito di tali rapporti che sono iniziati i suoi contatti con uomini di Cosa Nostra.

Né elementi maggiori possono trarsi dal fatto che Danilo Abbruciati è stato imputato insieme a Giuseppe Calò per reati di associazione a delinquere legati al riciclaggio e alla ricettazione di proventi di rapine o di usura e alla costruzione di immobili in Sardegna perché dall’esame della relativa sentenza non è possibile fare risalire i rapporti personali tra Giuseppe Calò e Danilo Abbruciati a prima del 1979.

Infatti l’ingresso del gruppo facente capo a Giuseppe Calò nell’attività imprenditoriale in Sardegna risale all’anno 1977 quando Florence Lay Ravello con la cessione della società Mediterranea a Luigi Faldetta e con la cessione della società Iscia Segada a Domenico Balducci, il quale a sua volta l’aveva ceduta a Luigi Faldetta, aveva venduto le sue attività in Sardegna, mentre si hanno notizie dell’acquisto di una villa in Sardegna da parte di Danilo Abbruciati, tra quelle costruite dal gruppo di Giuseppe Calò, nell’anno 1981.

Unico elemento per affermare che tra Giuseppe Calò e Danilo Abbruciati vi fossero rapporti prima dell’arresto del 1976 sono le dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia il quale ha riferito che ai primi degli anni ‘70 Calò organizzava a Roma, con malavitosi romani, delle grosse rapine e in quel tempo Danilo Abbruciati era dedito a rapine. La circostanza riferita da Francesco Marino Mannoia è però troppo vaga e generica per potere assurgere a elemento, anche indiziario, per affermare l’esistenza di una conoscenza tra Giuseppe Calò e Danilo Abbruciati.

E’ stato sostenuto che rapporti di natura illecita possono essere intrattenuti anche senza una conoscenza personale e che lo stato di detenzione non è di ostacolo alla organizzazione di un delitto da eseguire all’esterno del carcere perché le carceri italiane, all’epoca dei fatti per cui è processo, erano molto permeabili per cui era facile fare pervenire una richiesta in carcere, e di qui passare l’ordine all’esterno, per la organizzazione ed esecuzione del delitto.

Tale affermazione è astrattamente da considerare realistica per la fragilità del sistema di sicurezza del circuito carcerario.

Invero, risulta provato, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, che vi sono stati contatti contro ogni regolamento e addirittura "contra legem" tra persone estranee all’amministrazione penitenziaria e detenuti (si fa riferimento al colloquio tra Edoardo Formisano e Francis Turatello nel carcere di Cuneo considerato di massima sicurezza, a quello tra Ugo Bossi e Tommaso Buscetta nello stesso carcere, ai distinti colloqui di Danilo Abbruciati con Giancarlo Paoletti e Paolo Virgili all’interno del carcere di Rebibbia, all’incontro tra Antonio Mancini ed Edoardo Toscano nel carcere di Sulmona o nella casa di lavoro di Soriano del Cimino di cui si è già parlato), agli incontri che il colonnello Raffaele Vacca, del centro SISDE Roma 2, aveva avuto all’interno del carcere di Rebibbia con detenuti della estrema destra, anche dopo la nomina del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a capo del dipartimento per la sicurezza nelle carceri; nomina disposta proprio per porre rimedio alla situazione di insicurezza delle carceri in quel periodo.

Ciò dà contezza delle affermazioni rese sul punto dai coimputati in procedimento collegato.

Essa, però, non deve restare a livello ipotetico, ma deve trovare un sostrato probatorio da cui evincere che tali rapporti vi siano stati e che una tale richiesta da parte di Giuseppe Calò sia stata fatta.

Una tale prova non è stata raggiunta.

E’ altrettanto vero che la richiesta di organizzare l’omicidio può essere stata fatta attraverso persone di comune conoscenza ma tale asserzione resta, come la precedente, sul piano teorico perché manca, anche in questo caso, ogni elemento di prova in tal senso.

Invero, va tenuto presente che all’epoca dell’omicidio di Carmine Pecorelli la banda della Magliana, anche se strutturata, era ancora poco visibile all’esterno in quanto i suoi vari gruppi avevano preferito tenere nascosto il patto che tra loro avevano stretto per cui le persone più vicine a Danilo Abbruciati in quel periodo erano i suoi sodali del gruppo dei testaccini ed in particolare Enrico De Pedis, Edoardo Pernasetti e Franco Giuseppucci.

Va, pertanto, esaminata l’ipotesi che a fare da tramite tra Giuseppe Calò e Danilo Abbruciati sia stato una di queste persone.

Anche sotto tale aspetto la prova non è stata raggiunta.

Innanzitutto va detto che a Enrico De Pedis non è stato attribuito alcun ruolo nell’organizzazione o nella esecuzione del delitto. Il suo nome non compare tra gli imputati del delitto ancorché deceduto, come è stato fatto per altri.

E’ ben vero che alcuni hanno affermato il contrario e hanno dichiarato che costui era sul luogo del delitto e che ha preso parte materialmente all’uccisione, ma esse sono palesemente inattendibili sul punto perché Enrico De Pedis al momento del delitto era detenuto da lungo periodo e sarà rimesso in libertà solo nel dicembre 1979. Appare chiaro che a coloro che hanno riferito tali notizie sono state riportate notizie false o quelle riferite sono state male comprese.

D’altro canto, sul piano probatorio delle informazioni rese da tali persone sullo specifico punto non può tenersi alcun conto mancando, ogni elemento di riscontro; anzi risultando "per tabulas", su questo punto, la loro non corrispondenza al vero.

Parimenti, nessun ruolo è stato attribuito a Edoardo Pernasetti la cui presenza in questo processo è stata evocata solo perché egli, come persona molto vicina a Danilo Abbruciati e a Enrico De Pedis, era in grado, forse, di riferire molte circostanze importanti per il processo se avesse manifestato la volontà di parlare.

Solo per Franco Giuseppucci è stato indicato un diverso ruolo nell’omicidio e cioè di destinatario dell’ordine di uccidere il giornalista Carmine Pecorelli dandogli il mandato di organizzare sul campo il delitto reperendo anche gli esecutori materiali di esso.

Ma, proprio il delineato ruolo di organizzatore, esclude che egli possa avere fatto da tramite tra Giuseppe calò e Danilo Abbruciati.

Non è, pertanto, provato che il tramite tra Danilo Abbruciati e Giuseppe Calò possa essere stato qualche altro associato del gruppo dei testaccini.

Potrebbe ipotizzarsi, anche, che il tramite tra Danilo Abbruciati e Giuseppe Calò siano stati Domenico Balducci ed Ernesto Diotallevi.

Il primo conosceva Giuseppe Calò fin dal 1954, tanto che ne era la persona di fiducia a Roma e responsabile della sua sicurezza in quella città fino alla sua morte. Egli conosceva anche Danilo Abbruciati, quantomeno dal 1976, allorché questi si recava nel negozio che egli (Domenico Balducci) aveva in Roma a Campo dei fiori per parlare di affari derivanti dal fatto che Danilo Abbruciati investiva il denaro provento dei suoi delitti, specie rapine, dandolo a Domenico Balducci che a sua volta lo investiva nell’usura.

Il secondo conosce Giuseppe Calò quanto meno dall’anno 1977 perché l’aveva ospitato in Sardegna e ne è stato uomo di fiducia; egli, alla pari di Domenico Balducci e Guido Cercola, ne garantiva la sicurezza in Roma. I rapporti erano tanto stretti e di fiducia che Giuseppe Calò era stato sorpreso e arrestato in un appartamento intestato alla moglie di Ernesto Diotallevi ed era il padrino al figlio del primo.

Ernesto Diotallevi conosceva, poi, Danilo Abbruciati quanto meno dal 1973, quando ancora non esisteva la banda della Magliana, perché entrambi erano stati fermati in occasione dell’omicidio di tale Faiella; Ernesto Diotallevi è stato il padrino della figlia di Danilo Abbruciati, ed entrambi sono stati coinvolti nell’attentato a Rosone vicepresidente del Banco Ambrosiano, entrambi facevano affari in comune.

La conoscenza anche sincera e profonda tra i vari personaggi sopra indicati, la loro comunanza di interessi delinquenziali, non significa però che essi siano stati il tramite del mandato omicidiario tra Giuseppe Calò e Danilo Abbruciati.

L’ipotesi resta, quindi, sul piano astratto perché sfornita del minimo riscontro probatorio.

Del resto neppure l’accusa ha ipotizzato una simile evenienza.

A migliori risultati non si giunge esaminando la deposizione di Maurizio Abbatino il quale riferisce che durante una detenzione con Franco Giuseppucci nel carcere di Regina Coeli, mentre stavano vedendo una trasmissione sull’omicidio di Carmine Pecorelli perché si vedeva il cadavere nell’auto, questi gli avrebbe riferito dell’omicidio di Carmine Pecorelli a lui commissionato da Danilo Abbruciati per fare un favore ai siciliani.

Se la circostanza fosse vera si avrebbero elementi di conferma di quanto raccontato da Antonio Mancini e Fabiola Moretti (delle dichiarazioni di Vittorio Carnovale e della loro valenza probatoria si è in parte già detto e meglio sarà detto in seguito) per cui, anche se non specificamente individuato il modo con cui la richiesta sarebbe stata avanzata, si avrebbe una conferma, quanto meno indiretta, dell’esistenza, all’epoca dell’omicidio di Carmine Pecorelli di rapporti tra Danilo Abbruciati e Giuseppe Calò.

La circostanza non è provata.

Gli accertamenti fatti per riscontrare un punto qualificante per questo processo, hanno permesso di accertare che Franco Giuseppucci e Maurizio Abbatino sono stati detenuti insieme nello stesso carcere di Regina Coeli dopo l’uccisione di Carmine Pecorelli solo nel periodo dal 22 al 29 gennaio del 1980. In tale periodo, però, nessun filmato o notizia relativa all’omicidio di Carmine Pecorelli, che sarebbe stata l’occasione per la confidenza, è stato trasmesso in televisione.

Venendo meno il tempo e l’occasione per ricevere la confidenza da Franco Giuseppucci le affermazioni di Maurizio Abbatino perdono di credibilità.

Di ciò si è reso conto lo stesso Maurizio Abbatino il quale ha affermato che il periodo della confidenza non è quello accertato dalla DIA perché ricordava che per la detenzione riscontrata dalla DIA egli era stato arrestato insieme a Franco Giuseppucci mentre per la detenzione durante la quale aveva appreso la confidenza Franco Giuseppucci era già detenuto per altro e precisamente per delle armi su una Roulotte (anche se dalla risposta non si comprende se l’arrestato per le armi riguardava lo stesso Maurizio Abbatino o Franco Giuseppucci.

Di tale detenzione comune non vi è però traccia nel fascicolo personale di Maurizio Abbatino e di tale mancanza non è possibile non tenere conto. Né vale sostenere che è manchevole il fascicolo personale perché, anche se in effetti le registrazioni e i trasferimenti dei detenuti potevano essere non precisi, per potere accedere alla tesi sostenuta da Maurizio Abbatino sarebbe stato necessario che la circostanza emergesse da qualche altra fonte di prova (come del resto è avvenuto per l’affermazione di Antonio Mancini in merito ad una sua detenzione comune con Nicolino Selis, quando si era discusso dell’idea di formare anche a Roma una associazione del tipo di quella facente capo a Raffaele Cutolo, che, non risultante dai loro fascicoli personali, è stata provata dalla testimonianza di Paolo Bianchi anch’egli presente nello stesso carcere.

Le argomentazioni sopra dette tolgono valore probatorio alle affermazioni di Maurizio Abbatino e fanno venire meno quei riscontri che avrebbero permesso di affermare da un lato il conferimento di un mandato omicidiario da parte di Giuseppe calò a Danilo Abbruciati e di un analogo mandato da Danilo Abbruciati a Franco Giuseppucci.

Né maggiori elementi probatori emergono dalla testimonianza di Raffaele Cutolo il quale si limita a riferire che Giuseppucci era a conoscenza dell’omicidio perché eseguito dalla banda della Magliana.

Ma ad escludere che Giuseppe Calò si sia rivolto a Danilo Abbruciati per l’uccisione di Carmine Pecorelli vi sono anche argomenti logici.

Non vi era motivo di rivolgersi a Danilo Abbruciati per fare organizzare un omicidio in Roma quando sulla piazza vi erano altri personaggi della malavita romana altrettanto, se non addirittura, più autorevoli di Danilo Abbruciati, che al tempo dell’omicidio erano liberi.

Si fa riferimento proprio a Franco Giuseppucci che, secondo la tesi accusatoria, sarebbe intervenuto in un secondo momento su richiesta di Danilo Abbruciati per organizzare il delitto.

Franco Giuseppucci che, secondo quanto riferito dallo stesso Maurizio Abbatino, conosceva sicuramente Giuseppe Calò e con lui aveva rapporti da tempo anteriore all’uccisione di Carmine Pecorelli come, peraltro, risulta da provvedimenti giudiziari e da testimonianze.

Non vi era motivo perché Stefano Bontade (Gaetano Badalamenti, per la sua posizione di espulso da Cosa Nostra, sicuramente non poteva rivolgersi a Giuseppe Calò con il quale non era in tali rapporti di amicizia e di intimità da chiedere un favore che comportava la violazione di una regola mafiosa punibile con la morte) si rivolgesse a Giuseppe Calò, con il quale in quel periodo i rapporti, quanto meno allo stato latente, non erano buoni per commettere un omicidio avendo a sua disposizione un "esercito di uomini d’onore" in grado di compiere tranquillamente la missione (si fanno i nomi, per esempio, di Francesco Marino Mannoia facente parte di una "decina" alle dirette dipendenze di Stefano Bontade, o di Angelo Federico ottimo sparatore, migliore anche di Francesco Marino Mannoia, e Killer fidato); né la commissione di un delitto fuori del proprio territorio era di ostacolo perché proprio la "famiglia" di Stefano Bontade aveva in Roma una propria decina e quindi era in grado di organizzare ed eseguire il delitto.

Né può ritenersi che occorreva gente del posto che conoscessero l territorio perché il capo decina, anche se

aveva perso autorità, sicuramente aveva ancora contatti con la malavita romana per reperire manovalanza che spiasse Carmine Pecorelli e supportasse gli assassini venuti dalla Sicilia.

La conseguenza della mancanza di prova di rapporti tra Danilo Abbruciati e Giuseppe Calò è che a carico di costui non vi sono elementi indichino un suo ruolo nella organizzazione o nella esecuzione dell’omicidio di Carmine Pecorelli.

Né indizio contrario può ricavarsi dal fatto, riferito dal solo Salvatore Cangemi, che Giuseppe Calò sapeva che a commettere l’omicidio di Carmine Pecorelli era stata la "decina Romana" di Stefano Bontade perché questa circostanza va in senso contrario ad una affermazione di colpevolezza per Giuseppe Calò.

Invero, la semplice conoscenza degli esecutori materiali dell’omicidio, peraltro in forma impersonale, non è indice di una sua partecipazione all’omicidio, ma anzi ha valenza probatoria contraria perché attribuisce la responsabilità al rappresentante della famiglia di cui la "decina" fa parte essendo impensabile per gli appartenenti a Cosa Nostra che il "capo decina" o qualche "soldato" commetta un delitto così importante senza l’ordine, o quanto meno l’assenso, del rappresentante della famiglia.

Ora, poiché rappresentante della famiglia era Stefano Bontade, deve escludersi una partecipazione di Giuseppe Calò che a quella famiglia era estraneo e con essa non aveva rapporti idilliaci.

 

2c) RAPPORTI BONTADE/ABBRUCIATI

Ma l’esclusione di rapporti tra Danilo Abbruciati e Giuseppe Calò non esime questa corte dal prendere in esame un altro aspetto del problema e cioè che all’epoca dell’omicidio di Carmine Pecorelli Danilo Abbruciati fosse in rapporti con altri esponenti di Cosa Nostra da cui avrebbe avuto la richiesta di organizzare il delitto.

Necessità scaturente, da un lato, proprio dalla affermazione di Salvatore Cangemi che riferisce di un coinvolgimento della "decina romana di Stefano Bontade" nell’omicidio di Carmine Pecorelli e, dall’altro, dalla circostanza che gli associati alla banda della Magliana che hanno collaborato con la giustizia hanno dichiarato che Danilo Abbruciati avrebbe organizzato il delitto "per fare un piacere ai siciliani" mentre l’identificazione dei "siciliani che avrebbero chiesto il piacere" con Giuseppe Calò e con il suo gruppo è una loro deduzione perché sapevano che dopo l’uscita dal carcere di Danilo Abbruciati e Enrico De Pedis questi avevano avuto contatti con Giuseppe Calò e con i "siciliani".

Deduzione esatta perché sono emersi contatti di Danilo Abbruciati non solo con Giuseppe Calò ma anche con Stefano Bontade.

Ma, anche sotto questo profilo, la circostanza è carente sul piano probatorio perché i primi contatti tra Danilo Abbruciati e Stefano Bontade sono documentati dalle dichiarazioni di Fabiola Moretti e risalgono alla primavera estate dell'anno 1980, allorché nella sua qualità di esperta di eroina, aveva accompagnato Danilo Abbruciati in Sicilia per acquistarne una partita e che, in quella occasione, Danilo Abbruciati si era incontrato con Stefano Bontade in una sua casa. Il viaggio a Palermo della coppia Abbruciati/Moretti sulla base anche dei periodi di carcerazione di Danilo Abbruciati e della data di acquisto del fondo Magliocco da parte di Stefano Bontade va collocato nel periodo maggio 1980 23/7/1980 data del nuovo arresto di Danilo Abbruciati e quindi in epoca successiva all’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli.

L’esattezza di quanto affermato trova riscontro nelle dichiarazioni di Maurizio Abbatino il quale fa riferimento a forniture di eroina da parte di Stefano Bontade durate poco più di un anno e poiché Stefano Bontade è stato ucciso nella Pasqua del 1981 la data di inizio dei rapporti tra Stefano Bontade e Danilo Abbruciati si colloca in un periodo sicuramente successivo al 20/3/1979 giorno dell’omicidio di Carmine Pecorelli.

Per completezza, anche se tale ipotesi non è stata prospettata neppure dall’accusa, un rapporto, tra Danilo Abbruciati e Stefano Bontade, antecedente alla morte di Carmine Pecorelli, potrebbe essere sorto tramite Angelo Cosentino che del secondo era capo decina a Roma.

Della esistenza di tale decina, della posizione di capo decina di Angelo Cosentino non è il caso di approfondire il tema, essendo una circostanza ampiamente provata.

Quello che preme mettere in evidenza in questo momento è che Angelo Cosentino, anche se persona molto rispettata, aveva perso potere a causa della sua età avanzata e già dal 1978 aveva perso i contatti con le sue conoscenze, stando alle dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, nell’ambito della criminalità romana tanto che ciò era fonte di rammarico e di cruccio per Stefano Bontade che vedeva soppiantato un suo uomo di fiducia da Giuseppe Calò con il quale già a quell’epoca i rapporti sostanziali cominciavano a deteriorarsi.

In ogni caso, anche se Angelo Cosentino era ancora in rapporti con la malavita romana non risulta, per gli stessi motivi sopra detti per Giuseppe Calò e Stefano Bontade, che egli abbia mai conosciuto Danilo Abbruciati o che con questi abbia mai avuto rapporti.

Una ultima considerazione occorre fare e riguarda la conoscenza tra Danilo Abbruciati e persone vicine a Stefano Bontade che avrebbero potuto fare da tramite tra i due: il riferimento è ad "Angiolino il biondo" indicato peraltro come uno degli esecutori materiali del delitto.

Si è già detto della individuazione di Angiolino il biondo con Michelangelo La Barbera. Costui al tempo dell’omicidio di Carmine Pecorelli faceva parte della "famiglia di Passo di Rigano" il cui rappresentante, Salvatore Inzerillo, era molto vicino a Stefano Bontade e con lui è stato falcidiato nella lotta per la supremazia durante la c.d. "2° guerra di mafia".

Di una conoscenza tra Michelangelo La Barbera e Danilo Abbruciati e in genere con il gruppo dei testaccini, hanno parlato Fabiola Moretti e ancora più Antonio Mancini.

Occorre quindi verificare se i rapporti tra Stefano Bontade e Danilo Abbruciati, prima dell’omicidio di Carmine Pecorelli, possono essere passati attraverso Michelangelo La Barbera.

La circostanza assume un particolare rilievo perché in questo modo troverebbe una logica spiegazione l’inclusione di Michelangelo La Barbera tra gli esecutori materiali del delitto, pur non facendo parte della "decina romana di Stefano Bontade".

Ritiene la corte che le risultanze probatorie non consentono una tale affermazione.

Invero la presenza a Roma di Michelangelo La Barbera è successiva a tale data perché non risulta che lo stesso sia mai stato arrestato prima del 22/03/1994 per cui deve escludersi che egli abbia potuto conoscere in carcere Danilo Abbruciati. Consegue, per gli stessi motivi che hanno portato alla affermazione della mancanza di prove di un rapporto di Danilo Abbruciati con Giuseppe Calò e Stefano Bontade, che una loro conoscenza può essere avvenuta solo dopo la scarcerazione di Danilo Abbruciati del luglio 1979.

Né a diverse conclusioni si perviene sulla base delle affermazioni di Fabiola Moretti e Antonio Mancini.

Le prime, per la loro genericità, non permettono di collocare nel tempo il momento in cui Danilo Abbruciati e Michelangelo La Barbera si sarebbero conosciuti, ma ragione vuole che la conoscenza sia intervenuta dopo che Danilo Abbruciati ha iniziato a trafficare in eroina con i siciliani di Cosa Nostra; le seconde permettono di localizzare la presenza a Roma di Michelangelo La Barbera, da lui incontrato insieme a Danilo Abbruciati e/o a Enrico De Pedis, in quei brevi periodi di libertà da lui goduta approfittando dei permessi di uscita dalla casa di lavoro di Soriano del Cimino che sono tutti databili dopo l’omicidio di Carmine Pecorelli.

Solo Francesco Scrima parla di una presenza a Roma di Michelangelo La barbera nell’agosto dell’anno 1978, quando, durante il suo viaggio di nozze, era stato invitato al ristorante Cecilia Metella, frequentato da Giuseppe Calò, Angelo Cosentino e Nunzio Barbarossa, in cove aveva trovato, anche se non ne era sicuro, oltre a Stefano Bontade, Giuseppe calò e Salvatore Inzerillo, anche Michelangelo La barbera.

La circostanza, oltre a non essere sicura, non è significativa perché si trattava di un incontro tra rappresentanti di "Famiglie" e la presenza di Michelangelo La Barbera era ampiamente giustificabile per la sua appartenenza alla famiglia di cui era rappresentante Salvatore Inzerillo e per la sua qualità di "uomo d’onore fidato" (salvo, poi, a tradire il suo capo e a transitare nelle file dei corleonesi durante la seconda guerra di mafia), con evidenti funzioni di guardaspalle.

Del resto che la circostanza non sia probante emerge dalla stessa deposizione di Francesco Scrima il quale non è a conoscenza di rapporti tra Michelangelo La Barbera e appartenenti alla banda della Magliana.

Parimenti giustificabili sono le presenze di Michelangelo La Barbera nelle occasioni in cui è stato visto con Enrico De Pedis e/o Danilo Abbruciati stante i traffici di eroina che tra i siciliani (tra essi vanno compresi tutte le famiglie alleate di Stefano Bontade che trafficava eroina in quantità industriali inondando l’Italia dalla Sicilia) e i testaccini erano in pieno fulgore.

 

D) LA DIVISIONE DELLE MATRICI

La mancanza di prove sull’esistenza di un rapporto tra Danilo Abbruciati, da un lato, Giuseppe Calò e Stefano Bontade dall’altro al momento della commissione dell’omicidio di Carmine Pecorelli ha come conseguenza che la tesi di un concorso dei due sodalizi criminosi nella commissione dell’omicidio non è più percorribile per essere venuto meno l’elemento comune, l’anello di congiunzione tra le dichiarazioni di Tommaso Buscetta che indica una pista facente capo ai mandanti principali ed intermedi e le dichiarazioni degli associati alla banda della Magliana che indicano il coinvolgimento di quel sodalizio criminoso nell’omicidio di Carmine Pecorelli.

Degli elementi probatori in atti occorre però dare conto per verificare se essi non idonei a supportare l’originaria tesi permettono ugualmente di pervenire ad un risultato utile per scoprire gli assassini siano essi mandanti o esecutori materiali.

 

1d). LA MATRICE MAFIOSA

Per primo saranno esaminati gli elementi probatori relativi al versante che porta a Cosa Nostra.

L’analisi non può partire che dall’esame delle fonti di prova.

Un primo dato emerge: Cosa Nostra non era a conoscenza della partecipazione di suoi affiliati all’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli.

Invero, tra gli imputati di procedimento connesso per fatti di mafia che hanno reso dichiarazioni in questo processo, o le cui dichiarazioni sono state acquisite perché rese in altro dibattimento, nessuno sa che l’omicidio è stato deciso dall’organo dirigenziale di Cosa Nostra.

Di tale omicidio parlano solo Tommaso Buscetta e Salvatore Cangemi della cui valenza probatoria sul punto si è già detto; egli appare, peraltro, poco credibile atteso che Michelangelo La Barbera, indicato come uno degli esecutori materiali dell’omicidio, non ha mai fatto parte della decina romana di Stefano Bontade.

La mancanza di notizie riguardante l’omicidio di Carmine Pecorelli all’interno del circuito di Cosa Nostra può avere, a giudizio della corte, due spiegazioni:

  1. L’omicidio non è stato deciso da Cosa Nostra, ma personalmente da Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade, secondo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, per cui la decisione di eliminare lo scomodo giornalista non è mai stata portata all’attenzione dei componenti la commissione.
  2. Questa spiegazione, essendo pacifico che "una delle regole di Cosa Nostra" imponeva che l’uccisione, per l’importanza della vittima e per le ripercussioni che tale evento poteva avere sugli interessi di Cosa Nostra, è plausibile e trova la sua giustificazione nel fatto che l’omicidio non interessava la Sicilia, dove Cosa Nostra aveva i suoi interessi specifici, e nel fatto che una simile richiesta comportava per Stefano Bontade, la cui posizione all’interno della commissione si era indebolita per l’espulsione di Gaetano Badalamenti, ammettere una frequentazione con Gaetano Badalamenti violando un’altra delle "regole di Cosa Nostra" con la conseguente inevitabile punizione ovvero dare spiegazioni sulle sue amicizie politiche non messe a disposizione di tutta l’organizzazione.

  3. L’estraneità di Cosa Nostra nella commissione dell’omicidio.

In questo secondo caso può ipotizzarsi:

L’esame delle prospettive sopra indicate deve avvenire, per una corretta conclusione, esclusivamente sulla base delle prove legittimamente acquisite al fascicolo del dibattimento.

La puntualizzazione è necessaria perché nel dibattimento è stato assunta la deposizione di Tommaso Buscetta in qualità di testimone e non di imputato in procedimento collegato (nelle more è venuto meno il collegamento probatorio tra questo processo e quelli in corso per fatti di mafia a carico dello stesso Tommaso Buscetta) e sono confluiti nel fascicolo del dibattimento le deposizioni da lui rese il nove e dieci gennaio 1996, nel processo a carico di Giulio Andreotti celebratosi avanti al tribunale di Palermo, e quelle rese il 25/4/95 nel processo celebratosi avanti alla corte di assise di Palermo per l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima; deposizioni rese in qualità di imputato in procedimento connesso o collegato e di tale veste deve tenersi conto nel momento in cui ha reso le sue dichiarazioni.

Ora se a rigore di legge le dichiarazioni rese da Tommaso Buscetta in questo processo non hanno bisogno di riscontri oggettivi per cui deve farsi solo una valutazione della sua attendibilità soggettiva, alla pari di un qualsiasi testimone, tuttavia per la coerenza complessiva che Tommaso Buscetta ha mostrato nelle sue deposizioni deve necessariamente essere tenuta presente la sua qualità di imputato in procedimento collegato nel momento in cui le dichiarazioni sono state rese per la prima volta e delle quali quelle oggetto di esame ne sono una sostanziale conferma.

In altre parole ritiene la corte che per Tommaso Buscetta sia necessario una maggiore attenzione nella valutazione della sua attendibilità intrinseca.

Un’altra puntualizzazione è necessaria.

Nel corso dei vari esami si è fatto ricorso a contestazioni di dichiarazioni rese dalla persona esaminata nella fase delle indagini preliminari, ma di tali verbali non è stata chiesta l’acquisizione ovvero non sono stati materialmente acquisiti al dibattimento onde delle contestazioni può tenersi conto limitatamente a quello che la persona esaminata ha risposto.

Con tali precisazioni vanno esaminate le dichiarazioni di Tommaso Buscetta che interessano questo processo.

Mentre le notizie apprese da Stefano Bontade, per la loro genericità, possono avere solo il valore di labile conferma delle notizie riferite da Gaetano Badalamenti, quelle apprese da gaetano Badalamenti riguardano essenzialmente gli incontri che Tommaso Buscetta ha affermato di avere avuto con questo ultimo in Brasile nella seconda metà dell’anno 1982 e nella prima metà dell’anno 1983 durante i quali Gaetano Badalamenti avrebbe fatto due ammissioni: la prima di avere incontrato, insieme a uno dei cugini Salvo e Filippo Rimi, Giulio Andreotti per il suo interessamento in ordine ad una vicenda riguardante un processo a carico di Filppo Rimi e l’assunzione di responsabilità, sua e di Stefano Bontade, per l’omicidio di Carmine Pecorelli.

Omicidio che sarebbe stato commesso su richiesta dei cugini Nino e Ignazio Salvo a causa dell’attività giornalistica di Carmine Pecorelli contraria agli interessi di Giulio Andreotti.

Delitto commesso per fare un favore personale ai predetti cugini.

I due punti sono strettamente collegati perché, come ha riferito Tommaso Buscetta, è regola di Cosa Nostra che un delitto di tal genere non viene commesso se non si chiede il motivo e le ragioni dell’omicidio e se non si avvisa il richiedente. Di qui, per deduzione logica, la duplice funzione dell’incontro

Il primo punto è verificare se effettivamente Tommaso Buscetta ha avuto incontri con Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti nei periodi in cui ha dichiarato di avere appreso le notizie sull’omicidio di Carmine Pecorelli.

Ora, se è provato, se non addirittura pacifico, che nel periodo giugno 1980 gennaio 1981 Tommaso Buscetta è stato nascosto a Palermo durante la sua latitanza e che in tale periodo ha avuto frequenti incontri con Stefano Bontade, occorre verificare se Tommaso Buscetta e Gaetano Badalamenti si sono incontrati in Brasile, dove Tommaso Buscetta si era rifugiato dall’inizio dell’anno 1981 avendo sposato, o convivendo, con una brasiliana, nel periodo da lui riferito.

La prova, a giudizio della corte, è piena.

Essa è riconosciuta dallo stesso Gaetano Badalamenti nell’interrogatorio reso negli Stati Uniti d’America a seguito di rogatoria internazionale del 20/6/1994 in cui ha ammesso gli incontri con Tommaso Buscetta in Brasile verso l'anno 1982 nelle occasioni di cui gli era stata data notizia durante il processo Pizza Connention e precisamente: una prima volta a Rio de Janeiro forse nel giugno 1982 (come dice lui –Buscetta-); la seconda volta nel settembre 1982 l'aveva incontrato in un albergo di Belem (sempre come dice lui –Buscetta-); la terza volta - sempre a suo dire - era andato a fargli visita in una sua campagna nei pressi di Rio de Janeiro dopo la uccisione del fratello e dei nipoti.

La circostanza è confermata dal teste Sansone Fabrizio il quale ha conosciuto in Brasile sia Tommaso Buscetta che Gaetano Badalamenti.

Gli incontri sono stati numerosi (lo stesso Gaetano Badalamenti ricorda almeno tre periodi diversi in cui ha incontrato Tommaso Buscetta) si sono protratti anche per giorni se è vero che i due sono andati a caccia insieme, come testimoniato dalla fotografia polaroid acquisita agli atti, insieme hanno visitato delle aziende da acquistare (come emerge dall’interrogatorio di Gaetano Badalamenti) e hanno viaggiato in città diverse (vedi testimonianza di Fabrizio Sansone a conferma di questi viaggi quando afferma di avere appresso da Tommaso Buscetta dell’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa al suo ritorno da una città diversa da quella di S. Paolo del Brasile dove Tommaso Buscetta ha dichiarato avere dimorato Gaetano Badalamenti con la moglie Teresa).

Il secondo punto riguarda il contenuto di tali colloqui.

Ora, se il contenuto dei colloqui avuti con Stefano Bontade è talmente generico, essendosi limitato ad una semplice assunzione di responsabilità nell’ordinare l’omicidio senza fornire indicazioni sulle modalità del colloquio, sulla occasione che ha generato la confidenza e soprattutto sul motivo per cui Stefano Bontade aveva sentito la necessità di informare Tommaso Buscetta di un fatto grave non riguardante Cosa Nostra, da non permettere alcuna controllo su tale circostanza, quello dei colloqui avuti con Gaetano Badalamenti permette qualche spunto.

Invero Tommaso Buscetta ha affermato con sicurezza che in una di quelle occasioni ha appreso dalla stessa voce di Gaetano Badalamenti che l’omicidio di Carmine Pecorelli era stato opera di Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti i quali avevano agito su richiesta dei cugini Nino e Ignazio Salvo perché Carmine Pecorelli era diventato pericoloso per la carriera politica di Giulio Andreotti a causa di quello che egli poteva pubblicare.

Ha anche ricordato il tempo e il luogo i cui tale colloquio è avvenuto, l’occasione della morte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa da cui era scaturita la confidenza e ha riferito il particolare dell’equivoco in cui era caduto avendo capito che Gaetano Badalamenti si riferiva a tale Pecorella e non al giornalista Carmine Pecorelli.

Di tali particolari sono risultati provati sia il tempo che il luogo dell’incontro nonché l’occasione della confidenza sulla base delle dichiarazioni rese da Fabrizio Sansone.

E’ risultato provato anche l’omicidio per scomparsa (c.d. lupara bianca) del giovane Stefano Pecorella (quello scambiato da Tommaso Buscetta per Carmine Pecorelli).

Del contenuto del colloquio non è possibile al contrario avere conferme esterne perché nessuno ha assistito ad essi.

Si è contestata aspramente l’attendibilità intrinseca di Tommaso Buscetta, ma essa, a parere della corte non è minata dalle critiche.

E’ ben vero che Tommaso Buscetta nel racconto di questi incontri è apparso talvolta generico, talvolta titubante, talvolta impreciso e talvolta anche contraddittorio, ma ritiene la corte che la genericità, la titubanza, l’imprecisione e la contraddizione che si ravvisano in certe sue affermazioni appaiono il frutto di uno sforzo che egli ha fatto per rendere chiaro, a persone non a conoscenza del linguaggio e del comportamento degli uomini di Cosa Nostra, quello che realmente è stato detto in quei colloqui a spiegazione dei comportamenti di associati a Cosa Nostra.

Non va dimenticato quello che prima si è detto in merito al particolare sistema di comunicare e di agire Cosa Nostra a fronte di determinate situazioni.

In particolare, per minare la credibilità di Tommaso Buscetta, è stato detto che questi, nel riferire la richiesta dei cugini Ignazio e Nino Salvo, talvolta ha parlato di lamentele di costoro, talvolta di favori richiesti per interessamento di Giulio Andreotti, talvolta di richiesta perché l’omicidio ledeva gli interessi politici di Giulio Andreotti.

All’apparenza si tratta di motivazioni che sono in contrasto tra di loro ma che in realtà stanno a significare una sola circostanza: i cugini Nino e Ignazio Salvo hanno fatto presente a Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti una certa situazione di nocumento per Giulio Andreotti e questi hanno reagito nell’unico modo in cui erano abituati a reagire e cioè con l’omicidio risolvendo in tale modo radicalmente il problema.

Quello che realmente Tommaso Buscetta ha voluto dire, adoperando parole diverse che nel linguaggio comune assumono significati diversi, è da lui esplicitamente detto rispondendo ad una delle innumerevoli domande a cui nel corso dei vari procedimenti è stato sottoposto. E che questo sia un sistema usuale in Cosa Nostra si ha conferma dalla deposizione di Giovanni Brusca il quale indica lo stesso metodo per risolvere i problemi quando qualcuno sbarra la strada a persone amiche o vicine a Cosa Nostra.

Con ciò si vuole dire che l’esposizione da parte dei cugini Ignazio e Nino Salvo di un problema, o di una lamentela da loro ascoltata (direttamente o da comuni amicizie), che interessava Giulio Andreotti (è stato accertato l’esistenza di rapporti per quello che si è detto prima) è stata riferita da Gaetano Badalamenti con la frase in dialetto siciliano "C’interessava ‘o senatore Andreotti" nel senso che era un problema che riguardava Giulio Andreotti ed è stata infelicemente tradotta in italiano da Tommaso Buscetta nell’interesse o per interessamento di Giulio Andreotti.

E’ stato obbiettato che Tommaso Buscetta è stato indeciso nell’indicare dove avrebbe appreso la notizia, ma ciò, a parere della Corte, non è esatto perché egli ha sempre detto che la notizia fu da lui appresa mentre si trovava a Belem quando erano state trasmesse in televisione le immagini dell’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa anche se non ha saputo precisare se si è trattato proprio della stessa sera o di uno dei colloqui che in quel periodo ha avuto con Gaetano Badalamenti e che vertevano essenzialmente sugli avvenimenti che accadevano in Sicilia. Gaetano Badalamenti, infatti, voleva convincere Tommaso Buscetta a tornare in Sicilia come mediatore del conflitto in atto all’interno di Cosa Nostra. Imprecisione dovuta al tempo trascorso dagli avvenimenti e all’accavallarsi delle notizie apprese anche successivamente da altri o dalla lettura dei giornali. Da ciò non possono trarsi motivi di inattendibilità.

Le stesse considerazioni valgono anche per le indecisioni e le contraddizioni relative alle notizie a mani di Carmine Pecorelli e alla fonte di tale notizie, che, peraltro sono frutto di deduzioni e di osservazioni di Gaetano Badalamenti.

E’ stato anche osservato che non era possibile l’equivoco tra (Carmine) Pecorelli e (Stefano) Pecorella, perché Tommaso Buscetta era già a conoscenza dell’omicidio di Carmine Pecorelli avendolo saputo da Stefano Bontade qualche tempo prima (dalla fine dell’anno 1980 al settembre 1982 sono peraltro passati circa due anni), e quindi confondere l’episodio dell’uccisione del figlio di Salvatore Inzerillo e del suo amico Stefano Pecorella con quella di Carmine Pecorelli e perché dell’uccisione dei due giovani Tommaso Buscetta aveva saputo in quella occasione.

L’osservazione non è decisiva perché, a giudizio della corte, in quel momento l’interesse di Gaetano Badalamenti e di Tommaso Buscetta era relativo al loro mondo criminale, il nome Pecorella era ben noto a Tommaso Buscetta in quanto in padre di Stefano Pecorella, Antonino, era uomo d’onore della famiglia dello stesso Salvatore Inzerillo per cui ben si spiega la meraviglia di Tommaso Buscetta allorché Gaetano Badalamenti accosta l’uccisione di Pecorelli/Pecorella alla stessa fazione di Cosa Nostra. L’equivoco sul nome della vittima è a parere della corte spiegabile come è spiegabile che sia stato Gaetano Badalamenti a riferire non dell’avvenuto omicidio, ma delle sue modalità delle quali Tommaso Buscetta nulla sapeva.

A conferma della genuinità delle dichiarazioni sullo specifico punto deve aggiungersi che non è credibile che Tommaso Buscetta, persona sicuramente intelligente, abbia riferito una circostanza così particolare, così poco influente nella ricostruzione dei fatti che qui interessano se essa non fosse stata vera.

In altre parole riferire o tacere il particolare dell’equivoco in cui egli era caduto sul nome della vittima, a fronte della mancanza di altri particolari sulla vicenda principale, nulla toglieva e nulla aggiungeva alle circostanze relative alla uccisione di Carmine Pecorelli per cui inserirlo nel contesto del racconto, se non vera, oltre a non avere alcuna rilevanza, dava adito solo a possibili contestazioni che potevano influire sulla sua credibilità perché facilmente accertabile.

E’ stato infine contestato l’attendibilità delle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, in ordine all’incontro tra Gaetano Badalamenti e Giulio Andreotti, e "all’interessamento di Andreotti per il processo a carico di Rimi, come riferito da Gaetano Badalamenti. L’attendibilità delle dichiarazioni sono state oggetto di contestazione sotto vari profili: la data in cui si sarebbe verificato l’incontro, le persone nei cui confronti si sarebbe ottenuto "l’aggiustamento del processo" e il motivo per cui vi sarebbe stato l’incontro.

A parere della corte il problema presenta due aspetti: il primo riguarda la effettività dell’incontro, il secondo "l’interessamento di Giulio Andreotti".

Sul primo punto si osserva che avanti a questa corte di Assise Tommaso Buscetta non ha mostrato alcuna incertezza. L’incontro, secondo quello che Gaetano Badalamenti gli ha riferito, è avvenuto nell’anno 1979 perché egli doveva ringraziare Giulio Andreotti per essersi adoperato per il processo che si era celebrato a carico di Filippo Rimi, cognato di Gaetano Badalamenti, essendo questi accusato della morte di certo Stefano Lupo Leale.

Tale sicurezza emerge sin dalla prima volta che egli è stato ascoltato sul punto, quanto meno a questa corte non risultano formalmente altre occasioni, in un pubblico dibattimento, nel contraddittorio delle parti. Si tratta del processo celebratosi avanti alla corte di assise di Palermo per l’omicidio dell’onorevole Salvatore Lima.

Le stesse circostanze sono state confermate nel processo a carico di Giulio Andreotti celebratosi avanti al tribunale di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa nel quale ha ribadito che l’incontro era avvenuto nell’anno 1979 e che serviva per ringraziare Giulio Andreotti dell’interessamento mostrato in ordine alla posizione processuale di Filippo Rimi. E' durante l’esame avanti al tribunale di Palermo che vengono contestate precedenti dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari in base alle quali le dichiarazioni dibattimentali appaiono in contrasto.

Di tali contestazioni, benché i relativi verbali non siano stati acquisiti al dibattimento può tenersi conto proprio perché risultanti dal contesto dell’esame del teste.

Le stesse circostanze sono state confermate avanti a questa corte di assise.

Orbene dal complesso delle varie deposizioni rese sul punto da Tommaso Buscetta a prima vista emergono contrasti sul riferimento allo stato del processo avendo parlato di processo "aggiustato" in cassazione e delle persone nel cui interesse sarebbe stato promosso "l’interessamento" nonché sulla causale dell’incontro.

E’ stato infatti detto che non è possibile un interessamento in cassazione nell’anno 1979 perché la cassazione aveva deciso nell’anno 1971 e non è possibile che vi sia stato un interessamento per "aggiustare il processo" nell’anno 1979 perché in cassazione il processo era stato ormai definito. Parimenti non poteva esserci ringraziamento per entrambi gli imputati (Rimi Vincenzo e Rimi Filippo) perché Rimi Vincenzo era ormai morto da alcuni anni.

Ritiene la corte che le piccole contraddizioni, quando esistenti perché a volta sono solo apparenti, non intaccano il quadro complessivo delle dichiarazioni.

Quanto al riferimento fatto alla cassazione il teste ha spiegato esaurientemente i motivi della sua indicazione; la sua spiegazione è plausibile e convincente perché frutto di una conoscenza non piena dei meccanismi giudiziari. Non è un caso, del resto che proprio nel febbraio 1979 presso la corte di appello di Roma si è celebrato il processo di rinvio dalla cassazione del processo a carico del solo Filippo Rimi e che nelle sue prime dichiarazioni, utilizzabili perché oggetto di contestazione, egli ha fatto riferimento al solo Filippo Rimi. Né la rettifica dell’organo giudicante che aveva emesso la sentenza, da cassazione a corte di appello di Roma, appare strumentale perché solo dopo l’affermazione di Gaetano Badalamenti relativa alle conclusioni delle varie fasi del processo egli si è reso conto che il processo a cui faceva riferimento non poteva essere stato definito favorevolmente dalla cassazione precisando che la indicazione data da Gaetano Badalamenti era in relazione alla località e non anche all’organo avanti al quale si era celebrato il processo per cui l’indicazione della cassazione era una sua deduzione fatta sulla base delle sue conoscenze giuridiche.

Peraltro, va osservato, che intanto ha senso parlare di ringraziamento in quanto il fatto per il quale il ringraziamento deve essere fatto è vicino e non ha senso logico che il ringraziamento avvenga a distanza di molti anni dal provvedimento in cui l’interessamento si sarebbe verificato.

Quanto al secondo aspetto, emerge da plurime dichiarazioni di coimputati in procedimento collegato, si fa riferimento a Antonino Calderone, Salvatore Cangemi, Francesco Marino Mannoia, ascoltati direttamente da questa corte o le cui deposizioni sono state acquisite agli atti del dibattimento, che sia Vincenzo Rimi, che i massimi esponenti di Cosa Nostra si sono adoperati per risolvere la posizione processuale degli stessi Vincenzo e Filippo Rimi e tra questi si è distinto soprattutto Gaetano Badalamenti che con Filippo Rimi era anche imparentato.

Ciò, ovviamente, quanto meno a livello ufficiale, fino alla sua espulsione da Cosa Nostra che, va ricordato è dell’anno 1978.

Vale sul punto ricordare quello che ha riferito lo stesso Tommaso Buscetta in ordine al c.d. "Golpe Borghese" a cui era stata richiesta l’adesione di Cosa Nostra e che prevedeva la liberazione dei mafiosi detenuti, in particolare di Vincenzo e Filippo Rimi tanto che era stata indetta una riunione con lo stesso Gaetano Badalamenti che era il più interessato alla liberazione dei suoi congiunti o ancora la testimonianza di Antonino Calderone che riferisce di un piano per fare evadere i Rimi.

La conferma più importante dell’interessamento di Cosa Nostra per la posizione di Filippo Rimi deriva però dalle affermazioni di Giovanni Brusca il quale riferisce di avere appreso dallo stesso Nino Salvo di un intervento riuscito presso Giulio Andreotti per la sistemazione del processo a carico di Rimi e di avere avuto conferma di ciò sia da suo padre Bernardo Brusca che da Salvatore Riina ai quali aveva immediatamente chiesto conferma della notizia riferitagli da Nino Salvo.

Altra conferma, anche se indiretta, proviene da Gaetano Badalamenti il quale, secondo la testimonianza di Francesco Pazienza, saputo dell’arrivo nel carcere dell’avv. Dipietropaolo per un colloquio chiarificatore con il suo ex assistito Francesco Pazienza e dei rapporti che l’avvocato aveva con il gruppo della D.C. facente capo a Giulio Andreotti, aveva voluto incontrarlo e nel colloquio gli aveva rinfacciato che la D.C. aveva completamente abbandonato i cugini Nino e Ignazio Salvo che avevano aiutato fino al limite dell’impossibile la D.C.. Reazione comprensibile perché al momento dello scatto d’ira i cugini Nino e Ignazio Salvo erano ancora in vita e nei loro confronti era stato emesso solo un mandato di cattura per associazione a delinquere, ma il processo era ancora nelle fasi dell’istruttoria.

A conclusione sul punto, richiamando le considerazioni fatte allorché si è affrontato il tema della attendibilità in generale dei coimputati in procedimento collegato probatoriamente, non si comprende il motivo per cui Tommaso Buscetta, in assenza di motivi di rancore o di odio doveva riferire fatti e circostanze inventate rischiando un processo per calunnia.

Alla luce delle considerazioni fatte, la corte ritiene che effettivamente quello che Tommaso Buscetta ha riferito è stato da lui appreso nelle circostanze riferite.

Del resto, è sintomatico che lo stesso Gaetano Badalamenti nel suo interrogatorio reso in rogatoria negli Stati Uniti d’America, nel riferire della sincerità di Tommaso Buscetta ha affermato che questi non sempre dice la verità salvo poi a confermare tutte le circostanze da costui riferite ad eccezione di quelle relative all’omicidio di Carmine Pecorelli e dei suoi rapporti con Giulio Andreotti. Si tratta all’evidenza di un messaggio "mafioso" con cui Gaetano Badalamenti invitava Tommaso Buscetta a rivedere le sue dichiarazioni sulla sua posizione per non comprometterlo ulteriormente. La prova di ciò si ha nel non mai chiarito episodio in cui il difensore americano di Gaetano Badalamenti ha chiesto un colloquio a Tommaso Buscetta in ordine alla sua posizione giudiziaria negli Stati Uniti d’America.

Alla dichiarazione di attendibilità di Tommaso Buscetta non consegue, a parere della corte, che le circostanze siano vere dovendo l’analisi spostarsi sulla sincerità di Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti.

Al riguardo manca ogni elemento per potere affermare che Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti hanno detto il vero; anzi vi sono elementi che fanno ritenere che essi non sempre dicevano il vero per cui le loro affermazioni, riportate "de relato" da Tommaso Buscetta, non possono assurgere, in mancanza di altri elementi probatori, alla dignità di prova.

Invero, sulla mancanza di sincerità di Gaetano Badalamenti vi sono episodi emblematici riferiti dallo stesso Tommaso Buscetta, alcuni dei quali sono confermati da Fabrizio Sansone, da cui si evince che per fini personali egli ha taciuto circostanze importanti per la vita di Tommaso Buscetta, se non addirittura ha riferito fatti falsi.

L’attenzione deve soffermarsi su quattro episodi riferiti dallo stesso Tommaso Buscetta.

Il primo episodio è relativo alla reiterata falsa comunicazione, da parte di Gaetano Badalamenti, dell’espulsione, dalla famiglia mafiosa di appartenenza di Tommaso Buscetta ad opera del rappresentante Giuseppe Calò.

Comunicazione non vera tanto che Tommaso Buscetta dopo la sua evasione dal carcere di Torino nel giugno 1980 è stato ospite di Giuseppe calò a Roma.

Il secondo episodio è relativo all’arresto in Spagna di Gaetano Badalamenti per traffico di droga benché egli avesse sempre negato di trafficare in stupefacenti.

Il terzo episodio riguarda i contatti che Gaetano Badalamenti ha continuato ad avere con esponenti di Cosa Nostra facenti parte della fazione avversa con cui continuava a fare ancora affari illeciti, soprattutto traffico di stupefacenti.

Sul punto vi è la testimonianza di Fabrizio Sansone che descrive la delusione e la rabbia di Tommaso Buscetta nell’apprendere i nomi dei coimputati di Gaetano Badalamenti per traffico di stupefacenti al momento del suo arresto in Spagna.

Il quarto episodio riguarda i motivi per cui nel Natale del 1982 Gaetano Badalamenti è tornato in Sicilia.

Egli ha taciuto a Tommaso Buscetta le vere ragioni del suo viaggio in Sicilia: l’intenzione di uccidere "Scarpuzza o Scarpuzzedda" Greco. Progetto fallito le cui nefaste conseguenze si sono abbattute sulla famiglia di Tommaso Buscetta, reo di avere avuto contatti con Gaetano Badalamenti in Brasile e ritenuto partecipe del progetto omicidiario proprio perché Gaetano Badalamenti aveva propalato in terra siciliana i suoi incontri con Tommaso Buscetta.

Quanto alla sincerità di Stefano Bontade va ricordato che egli non ha mai riferito a Tommaso Buscetta dei suoi traffici di droga benché fosse, all’epoca, il più grosso trafficante di stupefacenti della Sicilia.

La circostanza emerge pienamente dall’esame di numerosi imputati in procedimento collegato sentiti nel corso del dibattimento.

Con ciò va sfatata, in questa sede, una delle ferree leggi non scritte che, secondo gli affiliati a Cosa Nostra che hanno deciso di collaborare con la giustizia, regola la vita del sodalizio criminoso: l’obbligo, tra "uomini d’onore" di dire sempre la verità.

E’ una regola che se applicata non avrebbe scatenato quelle faide sanguinose che hanno funestato la terra siciliana.

La verità è che all’interno di Cosa Nostra, come all’interno di qualsiasi organismo delinquenziale, vi sono e vi saranno sempre tradimenti per la tutela dei propri interessi, per la conquista del potere e per l’affermazione della propria supremazia e se per il raggiungimento di tali obbiettivi è necessario passare sui cadaveri di amici e conoscenti "l’uomo d’onore" mente e tradisce con la massima facilità.

Valgono per tutti due esempi emersi nel corso del dibattimento.

Il comportamento di Gaetano Sangiorgi che per salvare la propria vita non ha esitato a vendere quella dello zio Ignazio Salvo mettendo a disposizione di Giovanni Brusca e di altri la propria abitazione per commettere l’omicidio.

Il tradimento di Salvatore Buscemi e Michelangelo La Barbera che, rispettivamente sottocapo e soldato fidato di Salvatore Inzerillo, non hanno esitato a tradirlo e a schierarsi dalla parte dei "corleonesi" per prendere il suo posto (Salvatore Buscemi è diventato rappresentante della famiglia e Michelangelo La barbera il suo vice).

Comportamenti che sono incompatibili con l’obbligo di dire sempre la verità necessitando, il tradimento, di omertà con il nemico e di finzione con la parte tradita.

Certamente se "l’uomo d’onore" viene scoperto nella violazione della legge la sanzione sarà inesorabile, ma ciò evidentemente non spaventa.

E’, quindi, tenendo presenti i comportamenti concreti degli "uomini d’onore" e non in astratto che va valutata la loro sincerità.

Ma a ritenere che occorre valutare con attenzione le confidenze fatte da Stefano Bontade in ordine all’omicidio di Carmine Pecorelli vi sono altre considerazioni di ordine logico che male si conciliano con altri comportamenti e altre regole di cosa nostra, che, sebbene allegramente violate, pur tuttavia costituiscono delle regole di vita di quell’associazione.

La prima a cui si è fatto prima cenno, è la mancanza di notizie sull’omicidio all’interno di Cosa Nostra.

Alla luce delle deposizioni assunte in questo processo è emerso che Stefano Bontade non era una persona taciturna tanto che erano a conoscenza di fatti e circostanze della sua attività, anche delinquenziale, non solo "uomini d’onore", ma anche persone esterne, ancorché vicine, all’organizzazione. Ciononostante nessuno ha mai saputo nulla dell’omicidio di Carmine Pecorelli.

Non l’amico di caccia e di sport Angelo Siino, non il fido Francesco Marino Mannoia che di Stefano Bontade hanno raccolto confidenze significative.

L’omicidio non è conosciuto neppure dai capi della opposta fazione benché di quel gruppo faccia parte a pieno titolo quel Michelangelo La barbera che è indicato come uno degli esecutori materiali del delitto. Appare strano, di conseguenza, che a costui non sia stato chiesto conto della circostanza dopo il clamore suscitato dalla sua incriminazione insieme a quella di Giulio Andreotti e Claudio Vitalone, per l’importanza che un simile fatto poteva avere per la vita di Cosa Nostra; altrettanto strano appare che i coimputati di procedimento collegato, che hanno iniziato la collaborazione dopo l’inizio di questo processo e hanno avuto un ruolo importante nei rapporti con i capi della fazione dei "Corleonesi", Salvatore Riina e Bernardo Brusca, nulla hanno saputo riferire su un intervento, anche a titolo personale, di Stefano Bontade nell’omicidio di Carmine Pecorelli.

Si osserva, poi, che Tommaso Buscetta non ha saputo indicare il tempo esatto in cui la confidenza gli è stata fatta, né l’occasione che ha generato la confidenza, né infine il motivo per cui essa è stata fatta.

Ciò rende arduo comprendere perché Stefano Bontade è venuto meno all’altra regola di Cosa Nostra secondo la quale una volta commesso un delitto non se ne parlava più a meno che non se ne presentasse l’occasione in relazione ad altre attività e ad altri discorsi.

Questi elementi sono segni indicativi della non attendibilità delle confidenze fatte sull’omicidio di Carmine Pecorelli da Stefano Bontade e gaetano Badalamenti.

Esse, peraltro, trovano plausibile spiegazione nella molla che spingeva costoro ad agire in un certo modo in quel particolare momento storico.

Gaetano Badalamenti, persona sicuramente intelligente, al momento in cui fa le sue confidenze è formalmente fuori da Cosa Nostra per esserne stato espulso alcuni anni prima ma ritiene, insieme ai suoi amici più fidati, la sua espulsione ingiusta e continua a tessere le sua trame per rientrare in seno all’organizzazione e riprendere il posto di comando che ritiene adeguato alla sua persona avendo di sé una alta opinione. In tale senso si spiegano le frasi di elogio che egli afferma di avere avuto da Giulio Andreotti e quelle riferite nel suo interrogatorio in sede di rogatoria internazionale durante il soggiorno obbligato a Sassuolo.

Del resto che questo fosse lo scopo della vita di Gaetano Badalamenti si evince anche dal motivo per cui egli si era recato in Brasile: voleva che Tommaso Buscetta, che per motivi familiari si era allontanato dall’Italia ma che formalmente faceva parte della famiglia di Porta Nuova capeggiata da Giuseppe Calò facente parte dei "corleonesi", rientrasse in Italia per cercare una soluzione di compromesso con la fazione avversa dopo l’uccisione di Stefano Bontade e dei suoi amici.

E’ nel desiderio di convincere Tommaso Buscetta per continuare a lottare e vincere il duello mortale con la avversa fazione che, a parere della corte, sta la ragione delle confidenze riferite a Tommaso Buscetta.

Con esse, ha fornito informazioni che davano di sé una immagine forte vantando rapporti con altissime personalità dello stato come Giulio Andreotti a cui poteva rivolgersi per avergli fatto un grandissimo favore eliminando una persona che poteva nuocergli politicamente aspettandosi da questa favori.

Analogo discorso va fatto per Stefano Bontade che nell’anno 1980 ha in corso lo strisciante conflitto con Salvatore Riina che esploderà alcuni mesi dopo con la sua eliminazione.

Anche egli ha bisogno di alleati e non a caso tra gli argomenti di conversazione con Tommaso Buscetta vi erano essenzialmente i progetti di eliminazione di Salvatore Riina e dei suoi alleati.

Identica, quindi, la molla, identico il comportamento.

La conclusione della corte sul punto è che le confidenze fatte da Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti in ordine all’omicidio di Carmine Pecorelli, in mancanza di altri elementi di riscontro non sono idonee a supportare la tesi di un coinvolgimento di costoro nell’omicidio.

Convinzione che diventa ancora più salda nel momento in cui l’accusa prospetta che ad eseguire materialmente il delitto sia stato Michelangelo La Barbera che nulla aveva a che fare con "la famiglia di Stefano Bontade" o con Gaetano Badalamenti.

Egli infatti all’epoca dei fatti era "soldato della famiglia facente capo a Salvatore Inzerillo per cui, per l’ulteriore legge di Cosa Nostra, poteva prendere ordini, per fatti di mafia, solo dal suo rappresentante o dalla "commissione".

Né vale osservare che non si trattava di delitto di mafia e che in ogni caso i rapporti tra Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo erano tali per cui il primo poteva mettere a disposizione del secondo i suoi uomini per l’esecuzione del delitto.

L’osservazione cade nel momento in cui di tale ipotesi non vi sono riscontri probatori.

Perché l’ipotesi fosse riscontrata era necessario che fosse provato un ruolo di Salvatore Inzerillo nell’intera vicenda, ma le prove in tal senso non solo mancano ma neppure Tommaso Buscetta ha mai sentito che Salvatore Inzerillo fosse coinvolto a qualsiasi titolo nel delitto e non vi sarebbe stata ragione che Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade non facessero riferimento ad un ruolo di Salvatore Inzerillo nell’intera vicenda se egli ne avesse avuto uno.

Gli unici elementi che sono emersi dal processo su Salvatore Inzerillo sono i profondi rapporti di amicizia che lo legavano a Stefano Bontade e l’appartenenza di entrambi alla stessa fazione di Cosa Nostra all’interno della commissione.

Alla luce delle considerazioni fatte deve ritenersi non provato un coinvolgimento nell’omicidio di Carmine Pecorelli di Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti per carenza di riscontri sul piano probatorio.

Essa è, poi, contraddetta, come già detto, da elementi oggettivi che portano ad altri ambenti criminali e precisamente alla banda della Magliana i cui esponenti, a giudizio della corte, non erano all’epoca, in rapporti con Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti.

 

 

2d). LA MATRICE BANDA DELLA MAGLIANA

Per l’esclusione della riferibilità, a causa della mancanza di elementi probatori di riscontro, dell’omicidio a Stefano Bontade e a Gaetano Badalamenti e per la contemporanea presenza di elementi che riconducono l’uccisione di Carmine Pecorelli nell’ambito della banda della Magliana è necessario verificare se tale strada permette di arrivare a risultati positivi per la individuazione degli assassini.

Anche per questa indagine occorre partire dagli elementi probatori acquisiti al dibattimento.

Si è più compiutamente già detto, nel quadro generale prima delineato, che sono stati accertati due elementi rilevanti per la individuazione delle persone che hanno avuto un ruolo nell’omicidio: il borsello abbandonato su un taxi da mettere in relazione con la figura di Antonio Giuseppe Chichiarelli, in rapporti con Franco Giuseppucci, Danilo Abbruciati e con altri elementi della banda della Magliana, e il rinvenimento nello scantinato del ministero della sanità, a disposizione della banda della Magliana, di proiettili Gevelot della stessa partita di quelli con cui è stato ucciso Carmine Pecorelli perché entrambi portano allo stesso ambiente.

Dello stesso ambiente hanno fatto parte (Fabiola Moretti per quello che si è detto in ordine alla sua testimonianza, è tornata a farne parte) gli imputati di procedimento collegato Antonio Mancini, Vittorio Carnovale, Fabiola Moretti, Maurizio Abbatino, Claudio Sicilia che hanno reso sul punto dichiarazioni.

A tali elementi probatori, occorre aggiungere quelli emergenti dal contenuto delle intercettazioni ambientali disposte a carico di Fabiola Moretti, riferibili sempre allo stesso ambiente criminale.

Delle intercettazioni ambientali come autonoma fonte di prova o come riscontro delle dichiarazioni rese da imputati in procedimento probatoriamente collegato si è anche detto, della attendibilità intrinseca di questi ultimi si è già detto e ad esso si rimanda.

Altre persone di estrazione diversa dall’ambiente della banda della Magliana che hanno reso dichiarazioni sull’omicidio di Carmine Pecorelli sono Guelfo Osmani, anche se in qualche modo legato alla banda della Magliana, e Raffaele Cutolo, nonché Chiara Zossolo, Osvaldo Lai, Luciano Dal Bello, Germano La Chioma, Domenico Giordano e Cristina Cirilli, tutti gravitanti, anche se a vario titolo, intorno ad Antonio Giuseppe Chichiarelli.

La distinzione è necessaria perché alcune delle notizie riferite da più persone sono state apprese da altre fonti onde è necessario verificare se esse provengono da una o più fonti nonché la loro attendibilità.

Tali fonti hanno fatto riferimento congiuntamente o separatamente, a Claudio Vitalone, Danilo Abbruciati, Franco Giuseppucci, Giuseppe Calò, Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera come persone coinvolte nell’omicidio e hanno indicato sullo sfondo, come reale interessato all’attuazione dell’omicidio, Giulio Andreotti.

Tanto premesso in via generale, va detto che la deposizione di Raffaele Cutolo non ha, per i fini che qui interessano, rilevanza probatoria.

Questi è scarsamente attendibile perché, a giudizio della corte, ha sapientemente distribuito scampoli di verità con scampoli di menzogne e quando gli veniva fatto presente che le sue dichiarazioni erano in contrasto con elementi oggettivi si è trincerato dietro i vuoti di memoria che lo affliggono dopo moltissimi anni di carcere in isolamento.

Le circostanze da lui riferite in tanto possono essere prese in considerazione in quanto trovino conferma in altri elementi probatori che ne confermino la attendibilità. Influisce negativamente sulla sua credibilità, anche l’altalena di versioni date in ordine alla organizzazione che avrebbe eseguito il delitto trincerandosi, anche qui, dietro la situazione di stress derivante dai continui interrogatori a cui nell’anno 1994, quando per la prima volta aveva reso dichiarazioni sull’omicidio di Carmine Pecorelli, era sottoposto per il susseguirsi di interrogatori da parte di numerosi pubblici ministeri di varie parti d’Italia.

E’ per questo motivo che ogni singola dichiarazione resa da Raffaele Cutolo sarà ritenuta vera, anche se la persona che le rende è testimone e non persona imputata in procedimento connesso o collegato, solo se essa troverà conferma in altri elementi probatori.

E’ per lo stesso motivo che la corte ritiene che dalla deposizione di Raffaele Cutolo non sia possibile trarre elementi utili per la individuazione degli autori del delitto al di là di un generico riferimento alla conoscenza del delitto da parte di Franco Giuseppucci nei giorni immediatamente successivi all’omicidio e alla sua riferibilità alla banda della Magliana, o meglio al gruppo facente capo allo stesso Franco Giuseppucci. Non un elemento è possibile trarre in ordine al ruolo di Franco Giuseppucci, di Danilo Abbruciati o ancora di Massimo Carminati, Claudio Vitalone e Giulio Andreotti per non parlare del versante di Cosa Nostra. Raffaele Cutolo, pertanto, non fornisce elementi utili per la ricostruzione del delitto in ordine ai suoi esecutori materiali e ai mandanti.

Parimenti di nessun rilievo sono le dichiarazioni rese da Guelfo Osmani.

Questi, nel riferire quello che ha appreso sull’omicidio, fornisce una serie di informazioni non vere.

Riferisce, contrariamente al vero, che l’omicidio è stato organizzato se non proprio eseguito materialmente da Enrico De Pedis quando è pacifico che al momento dell’uccisione di Carmine Pecorelli Enrico De Pedis era detenuto da alcuni anni; ha ancora affermato di avere appreso le notizie da Tony Mattei in un primo momento nrgli anni successivi al 1981 e in un secondo momento dopo la morte di Enrico De Pedis avvenuta il 2/2/1990; ha ancora affermato di non sapere al momento in cui per la prima volta ha fatto dichiarazioni sull’omicidio di Carmine Pecorelli che Tony Mattei era morto mentre in realtà conosceva la circostanza.

Né la sua credibilità deriva dalle inesatte informazioni che gli avrebbe dato Tony Mattei.

Questi, persona della delinquenza romana legata alla banda della Magliana (di lui parlano Antonio Mancini e Fabiola Moretti in relazione a due e distinti ambiti criminali) ed in particolare a Danilo Abbruciati con il quale nei primi anni settanta commetteva rapine, non poteva riferire quello che ha detto Guelfo Osmani perché non è vero che dopo l’omicidio di Carmine Pecorelli egli è stato detenuto insieme a Tony Mattei nel carcere di Rebibbia a Roma.

Orbene gli accertamenti della polizia giudiziaria e la testimonianza dell’agente di custodia Leonardo Chimenti hanno permesso di accertare che a Rebibbia N.C., per il periodo che interessa, Guelfo Osmani non è stato detenuto insieme a Tony Mattei e che l’unico periodo di detenzione comune era anteriore all’omicidio di Carmine Pecorelli e precisamente nel periodo 15/11/77- 18/10/1978.

In ordine alle notizie fornite da Chiara Zossolo e delle altre persone, su menzionate, ruotanti intorno alla figura di Antonio Giuseppe Chichiarelli al di là del suo interessamento nei termini di cui si è detto esaminando la vicenda del falso comunicato delle B.R., denominato "comunicato del lago della Duchessa", della compilazione e della diffusione delle schede relative a Carmine Pecorelli di cui hanno parlato Chiara Zossolo, Osvaldo Lai, Luciano Dal Bello, Germano La Chioma, Domenico Giordano e Cristina Cirilli, elementi maggiori possono trarsi solo dall’esame di Chiara Zossolo.

Costei ha parlato con Antonio Giuseppe Chichiarelli dell’omicidio di Carmine Pecorelli in due distinte occasioni.

La prima, già menzionata, subito dopo la uccisione del giornalista allorché turbato aveva esclamato che Carmine Pecorelli non meritava di essere ucciso.

La seconda avvenuta, dopo la rapina alla Brink’s Securmatik, in cui Antonio Giuseppe Chichiarelli avrebbe fatto un riferimento a Claudio Vitalone e Giulio Andreotti come persone implicate nell’omicidio di Carmine Pecorelli e avrebbe identificato le persone che avevano commissionato il delitto, a cui aveva genericamente fatto riferimento nella prima volta in cui aveva parlato dell’omicidio, con i due attuali imputati.

Prima di esaminare il merito della testimonianza, occorre sgombrare il campo dall’ipotesi, introdotta dalla difesa di Claudio Vitalone, della falsità delle dichiarazioni rese da Chiara Zossolo perché indotta a dire quello che sapeva da promesse di denaro ad opera di un non meglio identificato maggiore che avrebbe promesso tutto quello questa volesse se avesse detto quello che sapeva.

Ipotesi introdotta con la produzione di una cassetta magnetica su cui è registrata una conversazione tra la stessa Chiara Zossolo con tali Vincenzo Cirillo e Maurizio D’Onofrio.

A giudizio della corte si tratta di un maldestro tentativo, il cui autore è rimasto ignoto (è ben vero che Vincenzo Cirillo ha dichiarato che la difesa di Claudio Vitalone conosceva la circostanza perché da lui in precedenza riferita all’avv. Prioreschi, ma quest’ultimo ha negato di conoscere Vincenzo Cirillo e la circostanza, non avendo la corte motivo di dubitare della sincerità e buona fede dell’avv. Prioreschi getta un’altra ombra sulla vicenda che vede Vincenzo Cirillo protagonista), non potendo la corte credere che le due persone (quantomeno Vincenzo Cirillo) abbiano agito di loro iniziativa per amore di giustizia o per le ragioni addotte da Vincenzo Cirillo.

Osta alla credibilità di tali ragioni, le modalità della registrazione, interrotta quando, contrariamente a quanto dichiarato da Vincenzo Cirillo, Chiara Zossolo non stava facendo rivelazioni pericolose (ma non era questo lo scopo della registrazione?), la conduzione della conversazione sull’argomento che interessava da parte dello stesso Vincenzo Cirillo, l’indicazione, ad opera dello stesso Vincenzo Cirillo, per la prima volta nella conversazione del "maggiore" come presunto promittente, la "casuale" dimenticanza del registratore in macchina allorché le due persone si sono recate nell’abitazione della donna (dimenticanza incompatibile con lo scopo della visita non potendo essi sapere quando la donna avrebbe iniziato a fare rivelazioni pericolose e se, soprattutto, sarebbe andata con loro in auto).

A tale intrinseca debolezza delle ragioni addotte si aggiunge la contraddizione, non solo interna a ciascuna dichiarazione, tra le versioni date da Vincenzo Cirillo e Maurizio D’Onofrio sui luoghi (in casa, in macchina, al ristorante Mac Donald, parte in casa parte in macchina e parte al ristorante) in cui la conversazione sarebbe avvenuta e sui giorni in cui essi sarebbero andati a trovare Chiara Zossolo.

Ma quello che esclude che le dichiarazioni rese da Chiara Zossolo siano una conseguenza della promessa di denaro ad opera del fantomatico maggiore ( in realtà quello che emerge dall’esame di Vincenzo Cirillo e Maurizio D’Onofrio è che le promesse non sarebbero state fatte da alti ufficiali ma dal personale che avrebbe eseguito una perquisizione –abusiva -, di cui non vi è traccia, circa un anno prima della registrazione) si evince dallo stesso tenore della registrazione da cui emerge che la offerta sarebbe stata fatta dopo che la donna era stata assunta dal pubblico Ministero. Essa però non si riferisce alle dichiarazioni rese per questo processo.

Invero l’esame di Maurizio D’Onofrio e soprattutto di Vincenzo Cirillo permette, infatti, di collocare correttamente l’evento nel tempo.

Essa si riferisce, a giudizio della corte, a offerte di denaro fatte in relazione alla rapina alla Brink’s Securmark prima dell’interrogatorio reso in relazione all’omicidio di Carmine Pecorelli da parte della polizia giudiziaria e del P.M. di Perugia dopo.

Dall’esame di Chiara Zossolo, poi, emerge che la stessa per effetto della condanna subita per favoreggiamento e ricettazione per i fatti connessi alla predetta rapina, è stata detenuta dal 1990 al 1991.

Vincenzo Cirillo ha dichiarato che prima del maggio 1997, epoca in cui è avvenuta la registrazione della conversazione, non aveva visto Chiara Zossolo dalla morte dell’avv. Sacchi avvenuta il 23/7/1992; ha anche riferito di avere saputo che durante la sua carcerazione Chiara Zossolo era stata portata a Perugia per essere interrogata sull’omicidio di Carmine Pecorelli (circostanza questa impossibile perché il processo a Perugia è stato trasferito solo alla fine dell’anno 1993 pervenendo materialmente all’inizio dell’anno 994);

Vincenzo Cirillo ha anche riferito che notizie di offerte di denaro da parte di alti ufficiali della polizia giudiziaria erano a lui note già dagli anni 1992/93 e che già da quella data sapeva che Chiara Zossolo avrebbe testimoniato al processo di Perugia (in realtà nella conversazione registrata Chiara Zossolo afferma di non sapere se sarà chiamata a testimoniare al processo di Perugia e in ogni caso nell’anno 1993 non poteva sapere che il PM di Perugia l’avrebbe sentita perché non era titolare dell’inchiesta) perché Chiara Zossolo ne aveva ripetutamente parlato.

Ora, se Vincenzo Cirillo non vedeva Chiara Zossolo dal 1992 e a quell’epoca sapeva già delle offerte di denaro miliardarie ricevute perché riferisse quello che sapeva, tali offerte non possono essere messe in relazione all’indagine pendente avanti alla procura della repubblica di Perugia.

Una simile evenienza può ritenersi solo se si ritengono vere le affermazioni di Vincenzo Cirillo e di Maurizio D’Onofrio in ordine alla causale di tale offerta da loro messa in relazione a dichiarazioni a carico di Giulio Andreotti e Claudio Vitalone, ma la scarsa attendibilità, se non proprio la falsità dei due esclude che ad essi possa darsi credito.

Ma se può escludersi che la testimonianza è stata pilotata, ciò non comporta conseguentemente che sia provato tutto quello che la donna ha riferito in ordine all’omicidio di Carmine Pecorelli.

Le perplessità della corte hanno un duplice ordine di motivi.

Il primo attiene alla credibilità della teste ed il secondo alla credibilità di Antonio Giuseppe Chichiarelli.

La corte osserva sul primo punto che Chiara Zossolo più di una volta è stata reticente. L’osservazione va fatta non solo alle dichiarazioni rese in ordine a fatti che effettivamente potevano aggravare la sua posizione nell’ambito del processo per la rapina alla Brink’s Securmatik, ma anche su fatti estranei come l’omicidio di Carmine Pecorelli.

Per questo ultimo manca ogni riferimento nell’interrogatorio del 25/01/1985 a uno dei motivi per cui Antonio Giuseppe Chichiarelli avrebbe depositato il borsello sul taxi il 14/04/1979 e precisamente di avere voluto aiutare le forze dell’ordine per la ricerca degli autori dell’omicidio; manca ogni riferimento alla conoscenza dei mandanti dell’omicidio da lui indicati genericamente come persone insospettabili.

Ancora. Pur interrogata sulla cassetta registrata contenente un servizio sulla rapina alla Brink’s Securmark, e pur avendo ammesso di aver visto tale cassetta si è ben guardata dal riferire che nella stessa occasione suo marito Antonio Giuseppe Chichiarelli era tornato a parlare dei mandanti dell’omicidio di Carmine Pecorelli con riferimento a Claudio Vitalone e a Giulio Andreotti che, a dire di suo marito, erano implicati nel delitto.

Ma se ciò da solo non fosse sufficiente a fare ritenere la propensione di Chiara Zossolo a tacere circostanze importanti, vale ricordare quello che è successo avanti a questa corte in ordine ai colloqui avuti circa un mese prima con Maurizio D’Onofrio e Vincenzo Cirillo perché avanti a questa corte ha negato il contenuto di tali colloqui, trincerandosi dietro non credibili vuoti di memoria, per essere alla fine costretta ad ammetterli.

La scarsa propensione di Chiara Zossolo a non dire subito tutto quello che sa non è però sufficiente per escludere che quanto riferito non sia vero per cui ogni circostanza da lei raccontata va sottoposta al vaglio.

Con questo metro di giudizio, la corte ritiene che la prima circostanza, per il ruolo attribuito ad Antonio Giuseppe Chichiarelli, sia vera e che, l’intento di Antonio Giuseppe Chichiarelli era anche quello di mettere gli inquirenti sulla buona via, come già detto, anche alla luce del riconoscimento, fatto da Franca Mangiavacca, di Antonio Giuseppe Chichiarelli come la persona che sorvegliava Carmine Pecorelli. Questa ultima circostanza è indirettamente confermata anche da Luciano dal Bello il quale ricorda che in quel periodo Antonio Giuseppe Chichiarelli sorvegliava qualcuno, anche se non sa indicare chi.

Su tale argomento si è già detto trattando l’evento rilevante denominato " vicenda Chichiarelli" e ad essa si rimanda.

Diversa è la situazione per la seconda circostanza riferita da Chiara Zossolo relativa alla individuazione delle alte personalità che, dietro un perbenismo di facciata, erano implicati nell’omicidio.

Qui le perplessità sono maggiori. A fronte della costanza della versione fornita sul primo episodio avvenuto subito dopo la morte di Carmine Pecorelli, sul secondo episodio, verificatosi dopo la rapina alla Brink’s Securmatik, le versioni si sono modificate nel tempo.

Nella prima occasione in cui riferisce la circostanza Chiara Zossolo è categorica: Anche lei aveva assistito alla trasmissione, Claudio Vitalone partecipava alla trasmissione ed l’esclamazione di suo marito era stato fatto durante la registrazione del servizio sulla rapina alla Brink’s Securmatik proprio perché era apparso Claudio Vitalone che commentava l’argomento della rapina che per l’entità del bottino aveva fatto scalpore.

Nella seconda occasione, durante l’interrogatorio del 11/11/1994, in cui è tornata sull’argomento, a seguito delle contestazioni del pubblico Ministero, che le faceva presente l’assenza di Claudio Vitalone nel servizio registrato, Chiara Zossolo ha modificato la sua versione affermando di non avere visto tutta la trasmissione e che anche se Claudio Vitalone non compariva nel servizio, il commento di suo marito può essere stato causato dall’apparizione di Claudio Vitalone in quella circostanza anche se non nel servizio.

Nella terza occasione in cui ha parlato dell’episodio, Chiara Zossolo ha ancora modificato la sua versione non essendo più sicura nemmeno del coinvolgimento di Giulio Andreotti e Claudio Vitalone nel delitto sfumando le sue affermazioni precedenti, per ben due volte, prima che le fossero contestate le precedenti dichiarazioni, nella forma dubitativa (indicata in nota) e precisando contrariamente a quanto dichiarato nella fase delle indagini preliminari che in entrambe le occasioni vi era stato il riferimento a Giulio Andreotti e Claudio Vitalone anche se in forma dubitativa la prima volta e non sapendo neppure precisare se il marito aveva visto Claudio Vitalone o Giulio Andreotti nel momento in cui ha fatto il commento o in occasione della registrazione del servizi sulla rapina alla Brink’s Securmark.

L’unica cosa sicura, per Chiara Zossolo, è il commento riferito su Giulio Andreotti e Claudio Vitalone.

Come si vede la confusione è grande e di ciò si è resa conto la stessa Chiara Zossolo che per giustificare le varie versione l’attribuisce alla sua confusione (torna il refrain del vuoto di memoria di cui si è detto prima).

In tale situazione la corte non ritiene che il fatto riferito da Chiara Zossolo sia provato.

Né maggiori elementi contrari possono trarsi dall’acquisizione di un servizio del telegiornale del 28 marzo 1984 del terzo canale televisivo della RAI in cui vi è un servizio sulla rapina alla Brink’s Securmatik e dopo circa cinque minuti e mezzo un servizio alla libreria Croce per la presentazione di un libro in cui compare la sola immagine di Claudio Vitalone perché tale immagine contrasta con la versione data da Chiara Zossolo sia nella forma originaria che nelle successive perché manca qualsiasi commento di Claudio Vitalone che solo potrebbe giustificare l’attribuzione della qualifica di moralista.

Ma anche a ritenere che effettivamente la frase riferita da Antonio Giuseppe Chichiarelli sia stata pronunziata non per questo solo può ritenersi vero il suo contenuto.

Torna a questo proposito il carattere particolare di Antonio Giuseppe Chichiarelli il quale, come riferito dalla stessa Chiara Zossolo e da Cristina Cirilli che di Antonio Giuseppe Chichiarelli ne è stata l’amante e la madre del figlio.

Alla luce delle considerazioni fatte, dalle testimonianze delle persone che erano legate in qualche modo alla persona di Antonio Giuseppe Chichiarelli gli elementi utili che si ricavano riguardano solo la riconducibilità dell’omicidio nell’ambito della banda della Magliana con cui Antonio Chichiarelli era in contatto. Non è un caso, a parere della corte, che il verbale di interrogatorio del 20/02/1985 termina con una domanda all’apparenza estranea al contesto dell’esame e riguarda la conoscenza tra Antonio Giuseppe Chichiarelli e Danilo Abbruciati. Domanda incomprensibile se nelle mani degli investigatori non vi fossero elementi per indagare in quella direzione in relazione al borsello fatto ritrovare su un taxi.

Restano da esaminare le deposizione degli imputati di procedimento collegato facenti parte della banda della Magliana.

Al riguardo si osserva che nulla aggiunge Claudio Sicilia sulla fonte delle notizie apprese sull’omicidio di Carmine Pecorelli.

Egli si limita a dire che nell’ambiente della banda della Magliana, di cui aveva fatto parte, correva voce che l’omicidio si inquadrava in uno stretto rapporto tra la banda della Magliana ed estremisti di destra confermando ancora una volta che l’uccisione di Carmine Pecorelli è stata eseguita da appartenenti alla banda della Magliana in stretto contatto con elementi della destra eversiva di cui si è già parlato e a cui si rimanda.

Claudio Sicilia non è in grado di fornire indicazioni specifiche sugli attuali imputati e soprattutto non è in grado di dare elementi per potere controllare la fonte delle notizie che circolavano nell’ambiente.

Elementi probatori in senso accusatorio derivano dalla deposizione di Maurizio Abbatino.

Costui dà informazioni sulla propria fonte delle notizie, identificandola in Franco Giuseppucci, sul suo ruolo di organizzatore del delitto, sugli esecutori materiali, indicandolo in Massimo Carminati, sui mandanti identificati in Danilo Abbruciati e Giuseppe Calò su richiesta del quale Danilo Abbruciati avrebbe chiesto l’organizzazione del delitto.

Si è già esaminata la deposizione di Maurizio Abbatino quando si è trattato dell’individuazione della persona che avrebbe fatto da tramite tra Danilo Abbruciati e Giuseppe Calò e alle considerazioni ivi fatte occorre richiamarsi per escludere una partecipazione di Franco Giuseppucci nell’organizzazione del delitto. Del resto un tale ruolo è delineato solo da Maurizio Abbatino non potendosi avere una conferma, in tale senso, dalle deposizioni di Antonio Mancini e Fabiola Moretti che ipotizzano un ruolo di Franco Giuseppucci, come persona vicina a Danilo Abbruciati, solo perché messi di fronte al fatto che Danilo Abbruciati era detenuta da anni al momento del delitto.

Si sono già dette le ragioni per cui va escluso che possa essersi verificata l’occasione, di tempo e di luogo, in cui Franco Giuseppucci avrebbe fatto le sue confidenze ammettendo la propria responsabilità nell’omicidio e indicando quella di Danilo Abbruciati e Giuseppe Calò, oltre a quella generica degli esecutori materiali del delitto, da lui procurati.

Ma, se la circostanza, alla luce delle risultanze processuali non è provata, anzi gli elementi acquisiti, allo stato, la escludono, ritiene la corte che, conseguentemente, deve ritenersi non provata anche la seconda occasione in cui Maurizio Abbatino assume di avere appreso notizie da Franco Giuseppucci sull’omicidio di Carmine Pecorelli e cioè l’indicazione di Massimo Carminati come l’esecutore del delitto.

Ostano alla credibilità di Maurizio Abbatino, sul punto, tre considerazioni.

La prima è di ordine logico.

Se il colloquio nel carcere di Regina Coeli non può essere avvenuto per i motivi su esposti, non vi era alcuna ragione perché Franco Giuseppucci gli comunicasse che ad uccidere Carmine Pecorelli era stato Massimo Carminati. A maggiore ragione se tale comunicazione, secondo la versione data da Maurizio Abbatino, sarebbe stata fatta in occasione della presentazione di Massimo Carminati, avvenuta dopo che entrambi erano stati rimessi in libertà, perché a quel tempo Maurizio Abbatino già conosceva Massimo Carminati.

Questa seconda circostanza non è vera, e si passa così al secondo argomento, perché è lo stesso Maurizio Abbatino ad ammettere che a quel tempo già conosceva Massimo Carminati.

Rilevanti per la localizzazione temporale della conoscenza sono due episodi ricordati dallo stesso Maurizio Abbatino: il primo relativo ad una visita fatta da Massimo Carminati e altri di estrema destra a Franco Giuseppucci nell’estate del 1978 quando avevano preso in affitto una villa per crearsi l’alibi per l’uccisione di Franchino il criminale; il secondo relativo al sequestro di Paolo Aleandri, avvenuto nella primavera del 1979, per la mancata restituzione di alcune armi depositate da Maurizio Abbatino presso di lui, e liberato per interessamento di Massimo Carminati. Ora, poiché nell’anno 1979 Maurizio Abbatino è stato arrestato il 16/2/1979 ed è stato scarcerato nel luglio 1979 appare a questa corte che l’episodio narrato da Paolo Aleandri debba ragionevolmente collocarsi prima del 16/2/1979 in conformità alle dichiarazioni di Maurizio Abbatino che colloca il sequestro nell’anno 1978/79.

La terza circostanza riguarda il ritardo con cui ha riferito le notizie in suo possesso sull’omicidio di Carmine Pecorelli.

La perplessità nasce non dal fatto che esse sono state rese a distanza di anni dall’inizio della collaborazione ma dal fatto che a maggio del 1994, pochi mesi prima di rendere le sue dichiarazioni accusatorie, egli aveva categoricamente negato di sapere alcunché limitandosi a riferire che aveva saputo genericamente dell’omicidio mentre era detenuto a Regina Coeli.

Né può ritenersi che il silenzio sia dovuto a timore derivante dalla presenza di Claudio Vitalone, come imputato, nel processo perché non sono emerse differenze di trattamento tra il maggio ed il settembre 1994 in ordine alla sicurezza del collaborante, atteso che le sue prime lamentele che potrebbero giustificare la sua reticenza sono del febbraio 1995.

Alla luce delle considerazioni fatte deve escludersi che Maurizio Abbatino possa essere considerato fonte, anche se "de relato", dell’omicidio di Carmine Pecorelli.

Tra le fonti dirette di conoscenza relative all’omicidio di Carmine Pecorelli non può annoverarsi Vittorio Carnovale perché, come dallo stesso sempre ammesso, le sue conoscenze dell’omicidio risalgono al processo alla banda della Magliana durante il quale egli era evaso. Si tratta di notizie apprese molto tempo dopo l’accaduto per cui egli ha riferito circostanze apprese da altri.

Circostanze "de relato" che non hanno origine dalle persone che direttamente hanno partecipato ai fatti e che a loro volta le hanno apprese da terze persone.

Riprendendo brevemente quello che si è detto a proposito dell’evasione di Vittorio Carnovale, va precisato che questi ha sempre dichiarato di non avere appreso quello che aveva riferito direttamente da Enrico de Pedis il quale in quella occasione, come riferito da Antonio Mancini, non aveva fatto cenno all’omicidio di Carmine Pecorelli come favore reso a Claudio Vitalone, ma ha sempre dichiarato di avere appreso le notizie da Marcello Colafigli, Antonio Mancini e soprattutto da suo cognato Edoardo Toscano, i quali a loro volta le avevano apprese da altri.

Si tratta quindi di una notizia "de relato" ricevuta da persona che a sua volta l’aveva saputo da altri.

E’ evidente, quindi, che Vittorio Carnovale non può costituire idonea fonte di prova per verificare se gli attuali imputati sono coinvolti nell’omicidio di Carmine Pecorelli. Inidoneità della fonte che deriva anche dalla errata indicazione di Danilo Abbruciati e Enrico De Pedis come presenti sul luogo del delitto e ciò, come ripetutamente detto, è incompatibile con lo stato di detenzione dei predetti al momento del fatto.

Quanto appena detto porta all’esame delle altre fonti e precisamente di Antonio Mancini e Fabiola Moretti.

Un primo dato va precisato: la lettura dei verbali degli interrogatori fatta dal P.M. ad Antonio Mancini nel suo esame del gennaio 1994 non hanno alcuna influenza sull’autonomia delle sue conoscenze.

E’ lo stesso Vittorio Carnovale, infatti, a riferire di avere appreso anche da Antonio Mancini parte delle cose riferite, in coerenza con quanto dichiarato da Antonio Mancini, che ai colloqui relativi alla proposta di evasione durante il quale sarebbe stato fatto cenno al favore dovuto da Claudio Vitalone erano tra Enrico De Pedis, Edoardo toscano e Antonio Mancini i quali ultimi glie ne avevano riferito. Ora, se durante quei colloqui non si è fatto cenno all’omicidio di Carmine Pecorelli, appare conseguente dedurre che il riferimento all’omicidio di Carmine Pecorelli, come "il favore" fatto a Claudio Vitalone, anche se tramite i siciliani, era già conosciuto da Antonio Mancini.

A ciò deve aggiungersi che le circostanze riferite da Antonio Mancini sono diverse o quantomeno più articolate e precise di quelle riferite da Vittorio Carnovale e soprattutto non contengono quegli errori grossolani che ne inficiano "ab origine" la credibilità.

Con tale precisazione va puntualizzato che la posizione di Antonio Mancini e Fabiola Moretti è diversa quanto a fonte delle notizie perché essi in parte riferiscono cose accadute sotto i loro occhi e quindi sono portatori di fatti direttamente percepiti e in parte riferiscono fatti appresi da altri, in particolare da Danilo Abbruciati e Enrico De Pedis.

Di tale distinzione occorrerà tenere conto nella valutazione della loro deposizione.

Parimenti occorrerà tenere presente, poiché al momento del delitto sia Enrico De Pedis che Danilo Abbruciati erano detenuti, che molte delle cose da loro riferite non sono diretta espressione della loro conoscenza, ma di quello che evidentemente a loro è stato riferito.

Una ultima considerazione occorre fare perché agli atti vi sono le trascrizioni delle intercettazioni ambientali disposte nei confronti di Fabiola Moretti.

Come già detto esse costituiscono fonte autonoma di prova, o quanto meno forte riscontro alle dichiarazioni dalla rese da Fabiola Moretti, ma nulla aggiungono rispetto alla fonte delle notizie quando in esse non è contenuta alcuna informazione maggiore di quella riferita all’autorità giudiziaria.

Tanto premesso, le circostanze rilevanti per questo processo relativamente a Fabiola Moretti sono:

Le circostanze riferite da Antonio Mancini riguardano

Sulla base dei suddetti elementi, l’unica certezza che si ha è che Danilo Abbruciati è coinvolto nell’omicidio di Carmine Pecorelli.

La circostanza riferita dallo stesso Danilo Abbruciati a plurime persone ed in particolare alla convivente Fabiola Moretti e agli amici Enrico De Pedis e Antonio Mancini ha trovato oltre che nelle reciproche dichiarazioni dei due imputati in procedimento collegato, nella assunzione di responsabilità dell’omicidio in occasione del viaggio a Milano che, per le ragioni prima dette, è realmente avvenuto, nel rinvenimento di proiettili Gevelot negli scantinati del ministero della sanità, adibito a deposito di armi dalla banda della Magliana e al quale poteva avere accesso Danilo Abbruciati, e dove i proiettili, al di fuori dei componenti del gruppo Acilia/Magliana, poteva essere portato solo da Danilo Abbruciati o Massimo Carminati i quali erano i soli che adoperavano pistole e proiettili cal, 7,65.

Gli stessi elementi non sono idonei per ritenere provato che a sparare siano stati Massimo Carminati e Angiolino il biondo identificato in Michelangelo La Barbera, né che a dare il mandato omicidiario sia stato Claudio Vitalone.

Invero, posto sempre come premessa che al momento dell’omicidio Danilo Abbruciati ed Enrico de Pedis erano in stato di detenzione, va detto che le notizie relative agli esecutori materiali riferite a Fabiola Moretti, Enrico De Pedis e Antonio Mancini (quelle riferite ad Antonio Mancini da Enrico De Pedis, a parere della corte, possono avere come fonte solo Danilo Abbruciati posto che Enrico De Pedis non ha rivelato le sue fonti e neppure se aveva appreso la notizia in prigione o dopo essere stato scarcerato e non è stato ipotizzato un suo ruolo nella commissione del delitto) hanno come unica fonte Danilo Abbruciati.

E’ lui, infatti, che riferisce della pistola utilizzata per uccidere Carmine Pecorelli; è lui che dichiara che la pistola era conservata nel deposito della banda della Magliana presso lo scantinato del ministero della Sanità; è lui che giustifica la considerazione che ha per Massimo Carminati in relazione all’efficienza da costui dimostrata nell’eliminare il giornalista.

E’ sempre lui che conferma le stesse circostanze ad Antonio Mancini.

Se così è la chiamata in correità, proveniente da Antonio Mancini e Fabiola Moretti deve considerarsi una unica chiamata in correità.

Va peraltro aggiunto che tutte le notizie, componenti la chiamata in correità proveniente da Danilo Abbruciati, a parere della corte, devono essere considerate, a loro volta, notizie "de relato".

Il convincimento della corte parte ancora una volta dalla considerazione che al momento dell’omicidio Danilo Abbruciati era detenuto per cui necessariamente egli ha appreso da terze persone quello che a sua volta ha raccontato a Enrico De Pedis, Antonio Mancini e Fabiola Moretti.

Non è, infatti, ipotizzabile che il mandato a uccidere sia stato dato direttamente da Danilo Abbruciati a Massimo Carminati quando non è provato che egli lo conoscesse prima del 1976, data del suo ingresso in carcere da cui esce nel luglio 1979, e risultando un inserimento di Massimo Carminati nella futura banda della Magliana, quanto meno come fiancheggiatore, a partire dall’anno 1978; non è ipotizzabile che a priori Danilo Abbruciati sapesse chi tra i tanti Killer sulla piazza di Roma sarebbe stato scelto per l’assassinio e quale pistola egli avrebbe utilizzato e soprattutto se e quando l’assassino avrebbe consegnato la pistola che aveva utilizzato.

Se così è la chiamata in correità deve considerarsi non solo unica ma anche non diretta.

Essa per essere posta, da sola, a base di una pronunzia di condanna necessità non solo dell’attendibilità del chiamante in correità, ma anche della persona che ha fornito la notizia oltre che dei riscontri esterni alla dichiarazione stessa.

Nel caso di specie, la corte può spingersi fino ad affermare l’attendibilità di Danilo Abbruciati, oltre che di Fabiola Moretti e Antonio Mancini, sulla base della posizione che Danilo Abbruciati rivestiva all’interno della banda della Magliana e dei riscontri che sono stati fatti alle dichiarazioni di Fabiola Moretti e Antonio Mancini anche su circostanze riferite da Danilo Abbruciati (al riguardo è sufficiente tenere presente la vicenda dei suoi rapporti con persone delle istituzioni e alle visite ricevute in carcere) che riguardano le medesime circostanze, ma nonostante ciò l’affermazione resta tale in mancanza di altri elementi di riscontro.

Essi, infatti non possono essere ricavati dalla semplice frequentazione del deposito di armi del ministero della sanità mancando elementi per stabilire quando i proiettili Gevelot e la pistola che è stata usata per commettere l’omicidio sono stati lì portati e chi li ha portati.

Parimenti non può ritenersi un riscontro quello che emerge dalle intercettazioni ambientali; in esse Fabiola Moretti palando sia con l’avv. Franco Merlino che con un tale Armando fa espresso riferimento al mandato omicidiario che sarebbe stato conferito da Danilo Abbruciati a Massimo Carminati ma ciò non ha altro valore che di conferma della attendibilità di Fabiola Moretti ma nulla aggiunge a quanto dalla stessa riferito, e negli stessi termini, alla autorità giudiziaria.

La questione della chiamata in correità unica non si supera perché anche nelle intercettazioni ambientali la fonte delle notizie resta sempre e solo Danilo Abbruciati

Esse, pertanto, nulla aggiungono sul piano probatorio.

Quanto detto per Massimo Carminati vale anche per Michelangelo La Barbera.

Nei confronti di quest’ultimo, anzi, vi è ancora meno perché manca ogni riferimento di costui con la banda della Magliana al momento dell’omicidio.

Va ricordato infatti che non sono stati trovati riscontri non solo a all’esistenza di rapporti tra questi e la banda della Magliana risalenti agli anni precedenti il 1979, ma anche della sua presenza a Roma nello stesso periodo se si eccettua quella probabile dell’anno 1978 riferita da Francesco Scrima di cui si è già detto.

Anche per Michelangelo La Barbera gli elementi probatori raccolti non consentono di ritenere riscontrata la chiamata in correità fatta da Danilo Abbruciati e riferita da Fabiola Moretti e Antonio Mancini.

Resta da esaminare la posizione di Giulio Andreotti e Claudio Vitalone.

Sul primo nessun riferimento specifico è stato fatto se non come referente di quel gruppo politico, affaristico, giudiziario massonico nel quale sarebbe maturato il delitto perché Carmine Pecorelli costituiva per questo gruppo un pericolo.

Sul secondo va detto innanzitutto, che le voci interne alla banda della Magliana, escluso Antonio Mancini che lo indica, con riferimento a quanto dettogli da Danilo Abbruciati, come il mandante intermediario che ha commissionato, tramite terze persone rimaste ignote, il delitto, non indicano Claudio Vitalone come mandante del delitto. Non Maurizio Abbatino, a prescindere dalla sua attendibilità, che pur rivestendo un ruolo di rilievo all’interno dell’organizzazione e come tale doveva essere a conoscenza dei fatti più rilevanti per la sopravvivenza del sodalizio criminoso, non ha saputo dire, né ha mai sentito, di un coinvolgimento di Claudio Vitalone nell’omicidio, non Claudio Sicilia che ricollega l’omicidio ad ambienti della destra, non Vittorio Carnovale che solo nel 1985 ha saputo qualcosa in occasione della sua evasione, ma è inattendibile, non Fabiola Moretti che di Danilo Abbruciati ha condiviso la vita violenta e delinquenziale.

Sul piano probatorio la sua chiamata in correità, proveniente dal solo Danilo Abbruciati, ha come riscontri un valido movente e i suoi rapporti con Enrico De Pedis da cui è scaturito, perché provato, quanto meno un aiuto per l’evasione di Vittorio Carnovale.

Entrambi i riscontri non hanno però valenza univoca.

Quanto al movente anche se, a giudizio della corte, è stato accertato la presenza di un interesse proprio oltre che del gruppo politico per il quale Claudio Vitalone si è adoperato all’interno del palazzo di giustizia, egli non era il solo che aveva interesse alla eliminazione di Carmine Pecorelli.

Invero dalla stessa deposizione di Antonio Mancini vi sono almeno tre persone che sono nella stessa posizione di Claudio Vitalone e sono i tre individui che a Milano hanno incontrato Danilo Abbruciati e Antonio Mancini e ai quali Danilo Abbruciati ha rimproverato, senza ottenere alcuna reazione di sdegno, che egli si era adoperato prontamente, su loro richiesta o quanto meno del gruppo di cui essi erano espressione, per l’omicidio di Carmine Pecorelli mentre loro, al contrario, non mostravano sollecitudine nei confronti di Francis Turatello.

Accanto a tali personaggi, rimasti misteriosi, ve ne sono altri, altrettanto misteriosi, che sono rimasti sullo sfondo e sono indicati da Fabiola Moretti sia nel colloquio con Antonio Mancini nel carcere di L’Aquila, che nelle intercettazioni ambientali effettuate nella sua abitazione.

Fabiola Moretti, infatti, nel commentare la visita del misterioso "Angelo dei servizi" riferisce ad Antonio Mancini che Angelo faceva ricadere la colpa della morte di Danilo Abbruciati su Enrico De Pedis indicandolo come la persona che aveva interrotto i rapporti con i "servizi" e precisa che per sevizi non doveva intendersi Vitalone perché i rapporti erano diversi e l'uno esisteva all'insaputa dell'altro. Ed Enrico De Pedis aveva troncato con i servizi mentre aveva continuato a "intrallazzare con Vitalone".

Contenuto del colloquio che trova il suo fondamento in precedenti affermazioni di Fabiola Moretti, intercettate nella sua abitazione in data 16/4/1994, quando la sua collaborazione non era ancora prevedibile a breve termine, la quale, parlando con Natascia Mancini della visita di "Angelo dei servizi" imputa ai servizi l’uccisione di Carmine Pecorelli e nell’analogo discorso, fatto all’indomani dell’interrogatorio effettuato a Perugia il 26/4/1994, in occasione della visita dell’avv. Franco Merlino durante la quale nell’illustrare l’interesse degli inquirenti alla conoscenza di fatti relativi all’omicidio di Carmine Pecorelli, torna sull’argomento parlando dei volti che conoscono solo lei e Edoardo Pernasetti.

Analogamente per quanto riguarda i rapporti con Enrico de Pedis il loro significato è dubbio.

Essi sono "uno schizzo di fango" che rimarrà attaccato alla persona di Claudio Vitalone non trovando alcuna giustificazione, se non in rapporti a dir poco non chiari, che un magistrato della repubblica italiana, un senatore che ha rappresentato l’Italia all’estero intrattenga rapporti con esponenti di spicco della malavita organizzata romana.

"Schizzo di fango" che può essere la contropartita del mandato omicidiario, come riferito da Antonio Mancini nel suo esame, ma che può avere origine anche nell’altra vicenda che vede all’opera gli stessi personaggi: il tentativo di trovare la prigione di Aldo Moro.

Non va dimenticato che in quel periodo la criminalità romana e milanese si stava adoperando per aiutare, in tutti i modi, Francis Turatello a risolvere le sue pendenze giudiziarie e non è un caso che i documenti che in occasione del primo viaggio a Milano di Danilo Abbruciati e Antonio Mancini sono diretti anche a quel tale Edoardo Formisano che tanta parte ha avuto nel tentativo, abortito, di trovare la prigione di Aldo Moro tramite Tommaso Buscetta e che aveva come referenti istituzionali il colonnello Enrico Vitali e Claudio Vitalone (sul punto si rimanda a quanto già detto).

Non è ancora un caso che quando Ugo Bossi è stato arrestato per il sequestro Nassisi Edoardo Formisano lo ha invitato a mettersi in contatto con Claudio Vitalone il quale accorre prontamente e va a interrogare Ugo Bossi, spostandosi da Roma a Brescia pur non avendo specifica competenza sul caso stante a quel tempo la sua qualifica di sostituto procuratore generale presso la corte d’appello di Roma.

Non è ancora un caso che Edoardo Formisano sente il bisogno di comunicare a Ugo Bossi l’avvenuta elezione a senatore del loro amico "Claus" e non è ancora un caso che Edoardo Formisano ha chiesto e Francis Turatello di mettersi in contatto con Claudio Vitalone nell’ottobre 1978, in occasione di un suo transito per le carceri romane.

 

CAPITOLO 16

CONCLUSIONI

Quelli finora esposti sono gli elementi di fatto e le conclusioni a cui è giunta la corte nell’esaminare le risultanze processuali che ha ritenuto rilevanti per la decisione.

Alla luce delle considerazioni fatte, poiché è venuto meno per mancanza di prove il collegamento, all’epoca dei fatti, tra Giuseppe Calò e Danilo Abbruciati, e di conseguenza è venuta meno la prova del ruolo di collegamento a lui attribuito, secondo la tesi accusatoria, tra Cosa Nostra e la banda della Magliana o quantomeno il gruppo dei "Testaccini", e non vi è altro elemento probatorio che lo indichi come partecipe in qualunque modo all’omicidio Giuseppe Calò va assolto dal delitto a lui ascritto per non avere commesso il fatto.

Sempre per mancanza di idonea prova, non essendo emerso alcun coinvolgimento di Cosa Nostra nell’organizzazione dell’omicidio, né alcun elemento probatorio, al di là della sussistenza di un valido movente, che colleghi Giulio Andreotti alla banda della Magliana e all’omicidio di Carmine Pecorelli, Giulio Andreotti va assolto per non aver commesso il fatto.

Pur sussistendo un valido motivo e la prova di rapporti tra Claudio Vitalone e la banda della Magliana in persona di Enrico de Pedis, i predetti elementi probatori non sono univoci e non permettono di ritenere riscontrata la chiamata in correità fatta nei suoi confronti.

Claudio Vitalone va, pertanto, assolto dal delitto a lui ascritto per non avere commesso il fatto.

Pur sussistendo elementi probatori che riconducono l’omicidio di Carmine Pecorelli nell’ambito della banda della Magliana, quantomeno del gruppo del Testaccio, e che sono indicativi di rapporti all’epoca dei fatti tra Massimo Carminati e tale gruppo criminale, essi non sono indicativi della sussistenza di un suo collegamento, a quel tempo, con Danilo Abbruciati e la mancanza di idonei e concreti elementi probatori che comprovino l’esistenza di intermediari tra i due, impedisce di ritenere riscontrata la chiamata in correità nei suoi confronti.

Massimo Carminati va, di conseguenza, assolto dal reato a lui ascritto per non aver commesso il fatto.

Le confidenze fatte da Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade a Tommaso Buscetta di un loro ruolo di mandanti nell’omicidio di Carmine Pecorelli sono da considerarsi inattendibile in assenza di elementi che comprovino un collegamento con la banda della Magliana, coinvolta nell’omicidio.

Gaetano Badalamenti va, di conseguenza, assolto dal reato a lui ascritto per non aver commesso il fatto.

La mancanza di elementi probatori che indichino una presenza di Michelangelo La Barbera a Roma all’epoca dei fatti, la mancanza di elementi che lo colleghino alla banda della Magliana all’epoca dell’omicidio, l’assenza di altri elementi probatori a suo carico, comporta che la chiamata in correità fatta nei suoi confronti è priva di riscontri.

Michelangelo La Barbera va, di conseguenza, assolto dal reato a lui ascritto per non aver commesso il fatto.

Restano alla corte alcune perplessità derivanti dalla strana coincidenza che i due tronconi probatori presentano:

Perplessità che non consentono di colmare, neppure con criteri logici, le lacune probatorie sopra indicate.

P.Q.M.

Visto l’art. 530 cpp

ASSOLVE

BADALAMENTI GAETANO, CALO’ GIUSEPPE, ANDREOTTI GIULIO, VITALONE CLAUDIO, LA BARBERA MICHELANGELO e CARMINATI MASSIMO dal reato loro ascritto in rubrica per non aver commesso il fatto.

ORDINA

La trasmissione degli atti relativi alla deposizione di Moretti Fabiola in dibattimento e quelli resi nella fase delle indagini preliminari in ordine al reato di cui all’art. 372 cp.

ASSEGNA

Giorni 90 per la redazione della sentenza.

Perugia 24.9.1999

Il Giudice Est. Il Presidente